A proposito della poesia di Fortini “Agli dèi della mattinata”

di Rita Simonitto

Ancora una riflessione su “Agli dèi della mattinata”. Pubblico questo intervento di Rita Simonitto non come semplice commento alla precedente discussione (qui e qui) che c’è stata su Poliscritture ma dandogli il risalto di una “lettura d’autore” autonoma, capace di essere ad un tempo attenta al testo, alla rete di relazioni con altri testi e alla soggettività dl lettore/ice, che col testo si confronta e produce “suggestioni” utili per interpretarlo. Tra esse trovo particolarmente acuta quella che rimanda al “Faust” di Goethe, opera tra l’altro che Fortini tradusse e pubblicò nel 1980 facendola precedere da una propria approfondita introduzione. Per accompagnare l’articolo di Simonitto ne ho scelto perciò la copertina. [E. A.]

Non posso trattenermi dall’intervenire nella discussione su questa intramontabile poesia di Fortini. Rileggendola dopo tanto tempo (e anche in virtù delle disamine su essa fatte da Ennio, da Bugliani e da Aguzzi) questa composizione lascia tracce, così come gli ‘unghioli’ del Gatto nella poesia di Fortini stesso [qui]. Indizi che aprono la mente a tante riflessioni e considerazioni, esito che dovrebbe appartenere all’animus della poesia, a fianco del vissuto emozionale/partecipativo che prende il lettore di primo acchito.

Innanzitutto l’ho percepita come una poesia ‘testamento’, e contemporaneamente la testimonianza di un processo che contempla uno sviluppo mentale caratterizzato in un primo tempo da idealizzazioni, gli “dèi della mattinata” – che appartengono ai nostri primordi, in cui eravamo bisognosi di credere negli assoluti e quindi, a seguire, a proiettarli nelle aspettative di sorti meravigliose e progressive (o nel ‘sol dell’avvenir’). A questa fase dovrebbe seguire il contatto con il reale con due possibili divaricazioni devianti: il confronto arrabbiato verso dèi dichiarati ora “inesistenti” perché non hanno soddisfatto il sogno – ma a cui si chiede ancora “di proteggere l’idillio” – oppure il lasciarsi scivolare a depressive implorazioni agli “dèi dell’autunno”, ai quali si chiede clemenza, indulgenza ma che però sono “dormienti” (come è ovvio che sia). Perché nessun dio può sanare il dolore frustrante di quando ci si confronta con la realtà, quel passaggio da “Come maestosi quei vostri luminosi cumuli!” alla loro trasformazione o in tempesta (“ai vetri giù acqua”), oppure in possibili cumuli di macerie (viene da ricordare l’Angelo della Storia di Benjamin).

E’ infatti duro tollerare anche lo iato che si interpone fra la speranza che le vittoriose glorie portino a vincere le paure (insite nella fragilità dell’essere umano) assieme al desiderio di immortalità, e il fallimento del sogno prometeico (“meste di frasche le tempie”).

E’ dunque, a mio parere, l’ultimo verso – che sembra così a se stante (“Quante ansiose formiche nell’ombra!”) – che ci può tracciare la via e dare la chiave per cogliere lo svolgimento di questo processo, che ha un vago richiamo faustiano che poi riprenderò. Come dire che è a partire dalla fine che si possono aprire congetture sull’inizio. Quindi è anche un ‘processo’ a ritroso.

Oltre a ciò, mi si è sviluppata tutta una serie di suggestioni. Una di queste ha a che vedere con la continua sottolineatura del ‘conflitto’:

1. gli allori (la gloria) di contro ai pini (i compagni dell’ultimo viaggio).

2. i fumi e le luci, ovvero l’andamento alternante tra chiarezza e fumosità nella ricerca verso la garanzia di una costa, di un approdo sicuro.

3. gli “dèi della mattinata” – legati ad un mondo familiare dove apparentemente la vita scorre tranquilla tra gli oggetti conosciuti (“Un filo di musica rock, le matite, le carte”) – di contro agli dèi “inesistenti”, quelli che hanno tradito le aspettative di proteggere l’idillio della prima. E poi trasformati in “dèi dell’autunno”, a cui si chiede solo clemenza. Soltanto che anche essa viene inevasa allorché, appunto, sono ”meste di frasche le tempie”.

Conflitto, dicevo, e non contraddizione. Il primo è foriero di vita, perché è dinamico a differenza della ‘contraddizione’ che è statica, vale a dire che una opzione tende a scardinare l’altra secondo la logica del “o / o”, tertium non datur.

Per questo tenderei ad utilizzare con cautela la posizione che nel merito ha Bugliani, il quale in un suo passaggio afferma: “Contraddizione che ha il proprio culmine nell’immagine degli “dèi” cui è demandato di proteggere l’idillio, i quali, a dispetto del loro ruolo istituzionale, per così dire, vengono raffigurati in maniera dimessa e definiti “inesistenti” (in quanto il loro è un potere fasullo, inesistente)”.

Certamente, io dico, che il loro potere è fasullo e inesistente, ma ciò non concerne una eventuale e specifica ‘natura’ degli dèi presupposti come ‘esistenti’. Essi sì ‘esistono’, ma come prodotto di una nostra proiezione talmente densa da sembrare reale; così come la natura non “è” matrigna, essa semplicemente è, a prescindere dalle nostre attribuzioni. Il conflitto pertanto sta dentro di noi, tra il nostro desiderio e la realtà.

L’altra suggestione ha a che vedere con il rapporto forma-contenuto, evidenziato molto bene in questa lirica. Così come sottolinea Aguzzi: “Nella poesia di Fortini si riflette questa ricerca di nuove forme metriche, fra riuso del classico, che è già una innovazione, e l’allontanamento del classico”. Infatti, nei contenuti, in questo componimento, Fortini parla sì degli dèi, ma intesi ‘modernamente’ come nostre proiezioni, e dei nostri conseguenti processi di idealizzazione e di confronto con il reale.

Ma vengo all’ultima suggestione che mi è venuta proprio dall’ultimo verso, “Quante ansiose formiche nell’ombra”. Ho immediatamente collegato questo all’operosità delle formiche, operosità che si contrappone, appunto, alla sterilità delle idealizzazioni (gli “dèi inesistenti”) e a tutto ciò che ne consegue. Sia come pervicacia nel seguire l’illusione di poter fronteggiare la caducità (del bello, secondo il Faust di Goethe) e sia come reiterazione della frustrazione nei confronti di quegli dèi che non hanno preservato l’idillio.

Il Faust, dicevo.

Sappiamo come Mefistofele appaia a Faust promettendogli di fargli sperimentare un attimo di piacere così intenso da fargli desiderare che quell’attimo duri per sempre: quando Faust dirà “attimo fermati, sei così bello!”, Mefistofele sarà autorizzato a prendergli l’anima. Faust sottoscrive questo patto scellerato pensando di ricavarne solo degli utili di piacere, di conoscenza, di potere, convinto che la sua brama sia così insaziabile da non fargli desiderare mai di fermare quell’attimo ma di superarlo passando a qualche cosa di successivo. Così, accettando il contratto, procede attraverso investimenti amorosi/sensuali, le sfrenate ambizioni verso il potere, la ricchezza e la gloria, ma rimanendone alla fine sempre insoddisfatto.

Fintantoché, ormai vecchio e ridotto alla cecità da Mefistofele stesso, ma non volendo desistere nella sua ricerca, cambia registro, passando da una impostazione esclusivamente incentrata su di sé ad una impostazione rivolta verso il mondo esterno in un movimento che va, dunque, da sé all’altro. Si apre quindi un nuovo capitolo in cui immagina un futuro dove un popolo laborioso e libero avrebbe realizzato grandi opere per la propria felicità. Faust afferma che, se fosse vissuto tanto da vederlo, avrebbe desiderato che quell’attimo si fermasse.

Davanti all’operosa costruzione di una diga Faust dice “Come mi rallegrano i colpi delle vanghe! E’ la folla che mi serve. Essa riconcilia la terra con se stessa, pone confini alle onde, chiude il mare con rigido limite”.

E poi prosegue:

“ Una palude si estende là, ai piedi della montagna ed appesta tutto quello che è già stato conquistato. Eliminare il putrido pantano costituirebbe l’ultima, la suprema conquista. Aprirò a molti milioni di uomini uno spazio perché vi abitino non già sicuri, ma liberamente operosi. Verdi e feraci i campi! Uomini ed armenti si trasferiranno subito, colà, felici, lungo la robusta diga che una popolazione audace e laboriosa avrà costruita:”

E, infine, il discorso conclusivo: “Mi sono completamente abbandonato a questo pensiero. Questa è l’ultima conclusione della sapienza: merita e la libertà e la vita unicamente colui che le deve conquistare ogni giorno! Così, circondati dai pericoli, trascorreranno, qui, il bambino, l’adulto, il vecchio i loro anni operosi. Un tale brulichìo di vita, vedere! E vivere, su libero suolo, con un popolo libero! A quell’attimo potrei allora dire: ‘Fermati, dunque, tu sei così bello! La traccia dei miei giorni terreni non potrà svanire in eterno’. Nel presentimento di tale alta felicità, godo, sin d’ora, l’attimo supremo”.

Che su quella operosità il sistema capitalistico abbia fondato poi la sua rapina attiene ad un altro registro che in questo particolare contesto di commento alla poesia fortiniana non voglio aprire. Così come non voglio approfondire il pur interessante approccio di Lukàcs il quale, attraverso il Faust, prende visione del passaggio dell’espansione capitalista che tutto vuole soggiogare a sé, un assalto che distrugge una visione idilliaca precapitalistica. E dove all’idea innocente dello scambio (‘eguale’?) si sostituisce quella della rapina. (“Volevo scambio io, non rapina!”), afferma ad un certo punto Faust dopo aver provocato la distruzione col fuoco sia degli anziani sposi Filemone e Bauci che del loro podere. Un sistema dove la volontà soggettiva conta relativamente di contro ad una necessità storica in movimento! E dove la retorica dell’innocenza si frantuma a fronte di quella modalità alienante.

Ciò che voglio sostenere, invece, è il valore importante che la operosità e la creatività hanno in sé come potenziali di trasformazione a prescindere dalle loro eventuali manipolazioni. Il loro ‘essere nell’ombra’ non ne pregiudica la validità!

5 pensieri su “A proposito della poesia di Fortini “Agli dèi della mattinata”

  1. Trovo interessante questo articolo di Simonitto e condivisibili le varie osservazioni. Dopo quanto è stato scritto nelle precedenti discussioni, non trovo praticamente nulla di nuovo che io possa aggiungere. Mi limito a segnalare una mia convinzione in margine, lontana dalla lettura diretta della poesia:
    1) «una visione idilliaca precapitalistica» esiste solo nella letteratura e nella fantasia, non nella realtà che riusciamo a conoscere attraverso la storia. Il «buon selvaggio» roussoviano non è mai esistito e la storia dell’uomo, anche nelle società precapitalistiche, è piena di guerre, massacri, uccisioni, rapine. Lo spirito faustiano è presente anche nelle «società dello scambio». I conflitti per la sopravvivenza, per il controllo del territorio, per l’affermazione di sé, per la gerarchia sociale, per la prevalenza del proprio gruppo familiare, per il potere, sono presenti in ogni tipo di società umana, per quanto si risalga indietro. Cambiano le forme del conflitto, ma questo è presente e produce differenze e morte. Il capitalismo genera le sue forme di conflitto, ma questo non cessa nemmeno nelle forme immaginarie dell’utopia, che si limita, senza nessun realismo, a ipotizzare che le differenze sociali siano accettate volentieri e spontaneamente quando siano fondate su giusti presupposti e non su quelli falsi delle forme sociali criticate. Ma non esistono presupposti giusti per tutti e le utopie, da quelle del mondo antico a quelle del Novecento, in ogni tentativo di realizzazione si sono trasformate in distopie. Credo che il tema del potere, ampiamente trattato dal punto di vista politico, economico e sociologico, debba essere approfondito anche dal punto di vista antropologico (in tutte le sue branche: biologia, psicologia, cultura, filosofia, religione, ecc.).
    2) «il valore importante che la operosità e la creatività hanno in sé come potenziali di trasformazione a prescindere dalle loro eventuali manipolazione» si manifesta, nella specie umana, soprattutto come libertà, come continua innovazione e trasformazione, e solo secondariamente come gregarietà e subordinazione. La contraddizione feroce è che la libertà crea necessariamente conflitti e rapporti di potere instabili, che potrebbero essere superati in un modello sociale tipo formicaio o alveare, dove ogni membro ha un suo specifico compito ed è contento di assolverlo senza cercare di cambiarlo. Ma questi modelli, applicati all’uomo, non funzionano e creano oppressione totalitaria. Bisogna pertanto accettare e governare al meglio la libertà, l’instabilità e il conflitto, mentre ogni spostamento del discorso sul superamento definitivo dei “difetti” sociali porta all’irrealismo dell’utopia.

  2. @ Aguzzi

    Concordo (sia pure ‘dolorosamente’ perché gli “dèi della mattinata”, sirene seducenti, hanno sempre un loro fascino e non sempre è facile farsi legare all’albero maestro della nave che le avvicina per ascoltarle soltanto e non seguirle come fece Ulisse), con il commento di Aguzzi, in particolare nei tre punti sottocitati:

    1) «una visione idilliaca precapitalistica» esiste solo nella letteratura e nella fantasia, non nella realtà che riusciamo a conoscere attraverso la storia”

    2) «il valore importante che la operosità e la creatività hanno in sé come potenziali di trasformazione a prescindere dalle loro eventuali manipolazione» si manifesta, nella specie umana, soprattutto come libertà, come continua innovazione e trasformazione, e solo secondariamente come gregarietà e subordinazione. La contraddizione feroce è che la libertà crea necessariamente conflitti e rapporti di potere instabili”

    3) Bisogna pertanto accettare e governare al meglio la libertà, l’instabilità e il conflitto, mentre ogni spostamento del discorso sul superamento definitivo dei “difetti” sociali porta all’irrealismo dell’utopia.”

    Simonitto

  3. Anch’io trovo interessante questa lettura à rebours di Simonitto. E inedito, che io sappia, il “taglio” faustiano dato all’interpretazione di “Agli dèi”. E Fortini conosceva bene il Faust di Goethe, perché la moglie Ruth l’aveva tradotto (versione ufficiosa).
    Quanto agli “dèi inesistenti” fortiniani, proprio nei giorni scorsi, stimolato dalla ripresa del “discorso” su questa poesia, ho buttato giù due appunti raffrontandola con la produzione poetica ultima di Fortini, quella delle Canzonette. Se Ennio vorrà ospitare i miei appunti sul blog, preferirei rispondere in quel modo

  4. @ Bugliani

    “Se Ennio vorrà ospitare i miei appunti sul blog, preferirei rispondere in quel modo!
    Certamente…

  5. …mi ritrovo con Rita Simonitto, che ringrazio, quando descrive la natura del conflitto come foriera di vita quanto la contraddizione statica. Sicuramente la poesia “Gli dei della mattinata” di Franco Fortini ci riporta al primo caso…
    Come semplice lettrice vorrei esporre un commento di questa poesia, partendo dal verso:”Sono felice della pioggia…”. Mi sono chiesta se, nella narrazione poetica completa, la tempesta sia da considerarsi sempre in corso -con il sibilo del vento e lo scrosciare sonoro della pioggia- o anche il dopo tempesta, con il suo silenzio, i suoni domestici e la quiete. Propendo per questa seconda ipotesi…La tempesta è alle spalle, si è scatenata “Il vento ha scosso allori e pini…” Il poeta l’ha vissuta all’interno, osservata dietro i vetri della finestra ” “Ai vetri giù acqua..”, come le formiche rintanate nelle loro gallerie sotterranee..Il paesaggio esterno-interno si è oscurato, : “tra fumi e luci la costa la vedi a tratti/ poi nulla…”. Ma il poeta è felice nel suo intimo, la tempesta ha scosso anche una realtà interiore rattrappita e statica (superbia e sconforto a volte in rigida contesa?), ora il loro conflitto si è a tratti appianato e appare “foriero di vita”…Quando si rasserena, dopo la tempesta, sempre il paesaggio si fa più terso e trasparente, anche all’interno “la mattinata si affina”, in un ordine armonioso:” Un filo di musica rock, le matite, le carte”…Ma può durare troppo a lungo questo stato di pace, no certo…Il poeta si affretta ironicamente, ma anche bonariamente a chiedere aiuto: ” O dèi inesistenti,/ Proteggete l’idillio, vi prego!” Ma anche bonariamente e un po’ tristemente perchè gli dei della “mattinata” sono le grandi illusioni giovanili, ma anche il bisogno di credere in valori indistruttibili, e nell’essere umano, nonostante…Ancora appare il conflitto, che tale resta infatti gli dei dell’autunno non lasciano scampo a facili illusioni, hanno perso le foglie e quelle sui loro capi sono meste…una visione decadente. Ma forse resta al poeta lo slancio di rivolgere lo sguardo verso il cielo per ammirare la fu dimora degli dei: “Come maestosi quei vostri luminosi cumuli!” ( La tempesta che, dopo aver dimostrato tutta la sua potenza, si perde nel cielo lasciando filtrare raggi di sole?) Ma poi il poeta ritorna tra gli esseri viventi, che siano uomini o formiche, alle attività quotidiane, forse con più slancio, ma anche con la consueta ansia…Con i piedi molto per terra

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