Presepe dei pupi proletari

di Ennio Abate

SAMIZ/LO SCRIBA OPERAISTA

I

Lo Scriba si ritrovò fra le mani un libro degli anni settanta. Roba superata. Parlava di argomenti epici e penosi ad un tempo: di lotte operaie. Nei giorni precedenti aveva letto alcuni saggi raffinati (di Zanzotto, Barthes, ecc.). Come brillavano quei giri di frase. Con quale acutezza si polemizzava contro un’intera tradizione, nota all’autore a menadito. Quale clima di raccoglimento spirituale, effimero, ma piacevolissimo, anche se si evocava la Morte. E lui, leggendo, aveva partecipato – sia pur in solitudine e ignoto – al Grande Discorso Letterario.

Proverò a leggere degli operai di una volta – ora che non se ne accorge più nessuno – con la stessa attenzione (la passione non posso garantirla!) usata verso i Letterati. Che idea, però, parlare di uno sciopero svoltosi nell’estate del 1909? E cosa c’è di importante in uno sciopero? Ne sono accaduti tanti fin dall’antichità. E cosa avevano cambiato? Io partecipo in qualche modo delle Cose Eterne o dell’Effimero che si fissa, scomparendo, nella Forma eterna. Uno Sciopero appartiene ad un’altra catena. La Lingua non lo respinge ma lo delimita in un settore distante dalle Cose dell’Anima, di cui s’è nutrita la Letteratura nei secoli. Sono gli Storici a parlarne. (In verità alcuni Storici, che si erano fatti avanti in momenti particolari e che avevano avuto a che fare da giovani con quelle manifestazioni romantiche e tribali denominate “lotte operaie”).

Eppure lo sciopero l’avevano fatto (in 3500) immigrati provenienti da sedici paesi diversi. Si dissero “wobblies”(barcollanti? traballanti? precari? Il dizionario Garzanti non ha ancora accolto il termine..). Era uno sciopero di stranieri.( Extracomunitari oggi…)

S’erano impauriti i miei Predecessori? (Come per il tumulto dei Ciompi?). Erano stati disturbati i loro studi? Qualcuno della Corporazione degli Scribi di uei tempi lontani s’era mescolato a loro? Aveva brigato, alzato la voce, utilizzato i disordini e le inquietudini dei giovani per avanzare nella carriera? E le donne s’erano invaghite di qualcuno di quei sudati e vociferanti leaders? Qualcuno dei Nostri (non intendo i poliziotti) aveva perso la vita?

Perché fin quando le rivoluzioni, anche violente, restano – come dicono Loro – “all’interno del movimento operaio”, nei nostri sottoscala o nelle sacrestie, la Storia resiste (si ripete): Noi possiamo ripeterci (vincendo) perché Loro si ripetono nelle sconfitte.

II

Poi penso alla nostra inesperienza, all’incapacità di sfruttare bene la situazione in quel momento vantaggiosa per noi. Perché eravamo dei disperati. C’eravamo mossi perché non sopportavamo più la situazione. Non avevamo nessun piano. Avevamo scritto il volantino e chiesto l’assemblea solo per avere dei piccoli miglioramenti. Non ci aspettavamo il puttanaio che venne fuori e le menzogne e le sfuriate teatrali nel cortile del Quartiere Stella della S. e dei suoi alleati. E poi nei tre anni successivi avevamo dovuto ogni poco tirar fuori le unghie per strappare cose da niente, magari un contributo del Comune alle spese. E sbrogliare con pazienza beghe fra genitori e maestre.

E i compagni di Milano che allora non capivano! Come, mettersi a fare una lotta su cose del genere? Una volta ad una nostra manifestazione arrivò da Milano anche L, che era nel direttivo di AO. E per dirci che facevamo una lotta proprio economicista. E lo era, perdio, ma che potevamo farci?

Ripensate dopo tanto tempo queste cose fanno male. Viene da chiedersi: Ma con chi ti eri messo! Oppure, lasciando da parte le polemiche, vien da pensare a come era difficile mettere assieme, pur in quegli anni effervescenti, quattro operai e due studenti. Allora c’ero dentro fino al collo in quella situazione. Come gli altri immigrati. Perciò mi ero mosso con loro senza pensarci su due volte. Non c’era bisogno di calarsi dentro, di rapportarsi al proletariato. Mi era venuta la febbre, tanto c’ero dentro al proletariato! E i compagni venivano a casa mia; e nel letto, con la voce rauca, dicevo la mia su come continuare dopo le ultime mosse della S. o dell’assessore.

Poi, quasi subito, le lotte non erano esplose più in quel modo entusiasmante. Specie nelle fabbrichette. Gli operai erano diffidenti verso noi studenti. Ti facevano pesare la distanza. Eravamo degli estranei oltre che degli studenti. Ti dicevano che eri privilegiato. Per i libri che leggevi. Per l’uso della parola più fluida della loro. E a volte s’incaponivano a combatterti per questo, solo per questo. “Siete sempre degli studenti…”. E C., anche anni dopo, non s’era smosso dalla sua opinione. Il rapporto con noi studenti era stato per lui solo strumentale. E me lo disse: vi abbiamo utilizzato per bussare forte alla porta del padrone, per farci annunciare, ma poi abbiamo trattato noi con lui e ci siamo accordati noi, lui e il sindacato.

Molti di quelli che oggi fanno i compagni frequentavano prima solo l’oratorio. E anche D. era appena arrivato e ci seguiva tenendosi a distanza. Me lo ricordo che si sedeva a chiacchierare con noi sul marciapiede davanti al vecchio Comune dopo uno dei tanti incontri con qualche assessore. Ci ascoltava, s’informava. Ma poi scompariva e non si vedeva per settimane. Anche G. nella vicenda non ci stava a testa sott’acqua come noi genitori che nella Sala Custodia avevamo i nostri figli. Veniva dall’Edilnord, il quartiere appena costruito da un imprenditore che si chiamava Berlusconi. Aveva altri tipi di amicizie e contatti con impiegati e professionisti. Nei suoi occhi sornioni vedevo quanto noi eravamo davvero in un cul di sacco. Ed era proprio così. Eravamo come gatti irritati, che gettati in un sacco, si scuotono e si graffiano anche fra loro. Ma volevamo, volevamo uscire da lì.

Di tutte queste vicende, dei discorsi che si fecero nelle riunioni, delle assemblee che frequentammo a Milano non resta quasi traccia. Il nerofumo della nostra minuscola lotta di classe si depositava sotto la pentola dell’organizzzazione Avanguardia Operaia. Forse dentro la pentola bollivano anche buone cose. Non che tutti i compagni fossero delle pietre. Lo stesso V., così freddo e distante, me lo ricordo che parlava con calore ad un suo collega d’ufficio ben vestito del volantino di denuncia sulla condizione degli operai della Panigalli. Visto in che condizioni si lavora! V., voce esile ma determinata. Poi perduto di vista, entrato nella cerchia dei sempre meno raggiungibili, dei compagni ti guardo ma ti saluto appena, perché non ti riconosco più, non ti incontro più per cose da fare assieme, scusami, suppongo che tu faccia cose interessanti, equivalenti a tante altre che fanno tanti altri.

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