Di foibe, di bene e male, di organizzazione del “noi” e dell’”io”

Albrecht Dürer – Caino uccide Abele, 1511, Xilografia

Uno scambio tra Ennio Abate e Rita Simonitto

Cercare di fare chiarezza oggigiorno è una impresa ardua non solo per la sovra abbondanza di notizie (che dannosamente hanno scalzato il concetto di informazione) unitamente alla tempesta di fake news che ci sovrasta di continuo, ma anche perché in un sistema così disgregato come l’attuale è difficile proporre di pensare (che implica disporre di tempo e fiducia) al posto dell’agire (che implica velocità di soluzioni e paura di non farcela). Riteniamo però che il pensiero sia una dotazione dalla quale non possiamo deflettere pena l’attivarsi di un processo regressivo (in parte iniziato e di cui si vedono già gli effetti devastanti) che ci infantilizza e ci rende manipolabili [R. S.]

1.

Cara Rita,

[…] mi piacerebbe anche  sapere che deduzioni sul piano politico si potrebbero trarre dalle tue obiezionii ad Ogdenii. Perché la questione dell’assolutizzare il “Bene” me la ritrovo anche  negli scambi quotidiani: ieri sera, a cena con alcuni amici, è venuto fuori il discorso imposto dai mass media, in occasione della “Giornata del ricordo”, sulle foibe, la violenza, la non violenza, etc. E la pretesa di “non fare come loro” (i nemici) o di sfuggire con un astratto “non ci sto” all’aut aut manzoniano del “far torto o patirlo” mi è parsa una potente rimozione delle tragedie storiche.  Ho ricordato il Fortini che invitava a:

 Cercare i nostri eguali osare riconoscerli  
 lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
 con loro volere il bene fare con loro il male
 e il bene la realtà servire negare mutare. 
 
 (F. Fortini, Forse il tempo del sangue…, 1958)

 ma ho avuto la sensazione di salire (da solo) nella stratosfera.


P.s.

 Aggiungo un commento che ho lasciato su FB sempre in una discussione di questi giorni sulle foibe:

Ennio Abate “Una memoria storica “condivisa” sarà possibile solo quando avremo riconosciuto queste colpe, smettendo di considerarci solo “brava gente” o, peggio ancora, vittime di presunte pulizie etniche. ” (Agnoletto)

E’, con tutto il rispetto, una pia illusione che si possa arrivare ad una “memoria condivisa” con un po’ di autocritica (anche sincera) o con un “lavaggio” della propria coscienza. Prima di tutto l’autocritica la fanno (quando la fanno!) al massimo i discendenti dei fascisti o dei nazisti o dei comunisti (staliniani) o degli sterminatori (cattolicissimi) degli indios o dei pellirosse o dei bombardatori con l’atomica di Hiroshima e Nagasaki. Mai (o quasi mai) gli autori diretti dei genocidi, delle stragi, degli stermini. E poi come si fa ad ottenere da queste “operazioni di coscienza” una vera “memoria condivisa”, se le cause che hanno prodotto (e producono!) stragi non sono rimosse? Non si scappa dall’aut aut che la storia impone agli uomini (anche di buon a volontà): “far torto o patirlo” diceva Manzoni, che se ne intendeva.

2.

Caro Ennio,

certamente le tue domande circa gli Assoluti (il Bene e il Male) hanno scomodato fin dai primordi fior di pensatori. Stabilire ciò che è Bene e ciò che è Male (li scrivo con le maiuscole) è stato necessario onde fissare delle coordinate per permettere all’essere umano di orientarsi nelle sue scelte, e ogni religione si è data da fare per istituire quei perimetri che davano soddisfazione sì all’uomo singolo, ma anche e soprattutto al potere religioso di quel particolare momento. Potere religioso che era anche, non dimentichiamolo, potere politico.

Ma le religioni, e gli dèi che ne fanno parte, non sono altro che espressione dei nostri bisogni e delle nostre paure che noi proiettiamo all’esterno. Un esterno ‘onnipotente’ ed ‘onnisciente’ onde poterci muovere dentro un certo ordine garantito, ordine che però varia a seconda delle circostanze storiche nonché delle determinazioni economiche che non vanno sottovalutate. Uno dei Dieci Comandamenti recitava “non uccidere”, ma la Chiesa, nei confronti degli eretici e di quanti potevano mettere in dubbio il suo potere, non si fece alcun problema nel non rispettarlo. La istituzione del concetto di “nemico-che-ti-può-distruggere” (concetto che esula da quello di “altro”, di “diverso” che sono concetti portatori di sviluppo) legittima il ricorso alla sua eliminazione anche fisica. Succede così che ogni singolo, partecipante ad un gruppo, può essere reclutato in questo modo per la salvaguardia di una entità superiore la quale – se vincerà nella lotta contro il Male rappresentato dal nemico (o supposto tale) -, lo beneficerà di privilegi a qualunque titolo essi vengano poi elargiti. Il problema che comunque rimane è come il singolo individuo si rapporterà poi in queste situazioni: potrebbe diluire il grave peso della sua violazione etica rifugiandosi nelle braccia ideologiche di un Potere che propaganda l’interesse comune, approfittando del bisogno di ognuno di noi di appartenere agli omoios, ai simili, anziché affrontare l’essere “diverso”; oppure fare i conti, dolorosissimi, con la propria coscienza, il “diverso”, appunto. E quest’ultima posizione è la più difficile, anche perché è solitaria e non può essere imposta/partecipata con altri. Come per il “coraggio di Don Abbondio”, o uno ha la coscienza (o, per lo meno, la disposizione ad averla) o non ce l’ha, e quindi è facile preda alle mistificazioni.

Io ho avuto modo di conoscere un intellettuale e studioso milanese (M.S.) che fu capo partigiano responsabile di una brigata, e si trovò nella condizione di dover scegliere se fucilare o no due sospette spie. Le eliminò nella preoccupazione che, se non lo avesse fatto, avrebbero potuto nuocere ai suoi compagni e al movimento stesso della Resistenza. Ma ne fu profondamente segnato per tutti i restanti suoi giorni (e ne visse parecchi) non solo perché dopo emerse che i due non erano spie, ma per l’aver compiuto l’atto stesso. Non si trincerò dietro legittimazioni di parte, perché sentiva di aver violato un limite etico e di questo si riteneva responsabile. Ti ho portato questo episodio di realtà per rispondere alle tue interrogazioni rispetto al tema delle foibe, un momento di grande vergogna soprattutto quando si permette l’esplodere della ferocia, della resa dei conti, fenomeni abbastanza tipici in presenza di momenti di guerre (giuste o meno che siano, questi episodi ne sono sempre un tragico corollario), di fame, di deprivazione culturale.

In conclusione, da un lato, la responsabilità è sempre individuale. Dall’altro va capito il problema che sempre si pone e che è legato al rapporto individuo/gruppo: dove il gruppo non tollera l’individualità che con le sue scelte personali può mettere in discussione il gruppo stesso. Ogni gruppo “deve” avocare a sé l’essere depositario del Bene (con la maiuscola) comune e si contorna di tutta una serie di apparati (cultural/ideologici e anche repressivi) per difendere la sua posizione. Pertanto chiunque attenti al gruppo diventa un pericoloso nemico. Quel “chiunque” può farlo soltanto a condizione di diventare un Leader e portare il gruppo in un’altra configurazione storica, oppure un Profeta che cerca di distogliere buona parte del gruppo dal suo assetto originario.

Pertanto la tua ‘annosa’ domanda (perché te la sento sempre proporre e cioè “Fare torto o subirlo”) può riguardare soltanto ed esclusivamente una scelta personale, non camuffandola da paladino di alcunché.

Ed è una scelta difficile per due motivi. Il primo è di natura interna. Checchè T. Ogden la faccia facile, millantando che si può vivere meglio quando “possiamo entrare in contatto con la gamma profonda dei nostri sentimenti, del pensiero e delle sensazioni corporee e che siamo capaci di giocare, di immaginare e di usare simboli verbali e non verbali”, purtroppo le cose non stanno proprio così.

Perché, e qui interviene il secondo motivo che questo psicoanalista non contempla appieno (forse perché vive e lavora all’interno di un ‘gruppo’ che gli è sintonico), noi viviamo a contatto con gli altri, abbiamo bisogno di relazionarci con gli altri e di avere degli scambi affettivi, conoscitivi, ecc. Ma se gli altri non vogliono entrare in relazione con noi, noi non possiamo farci niente. Certo, possiamo consolarci pensando a quante vicissitudini abbiamo superato, a ciò che abbiamo conquistato nella consapevolezza di noi ma, a meno che non ci lanciamo in modalità narcisistiche megalomaniche, continueremo ad essere ininfluenti, dei signor Nessuno. E, purtroppo, in questa società frammentata, dispersa in mille rivoli – che però non hanno alcun collante -, anche un individuo “sufficientemente sano” (parafrasando il concetto di “madre sufficientemente buona” dello psicoanalista D. Winnicottiii) fa molta difficoltà a mantenere salvaguardato il suo pensiero.

Quanto al problema della ricerca della ‘memoria condivisa’, così come è impostata oggi, è un pio desiderio che, però, nonostante tutto dobbiamo cercare comunque di perseguire non andando a valle bensì a monte. Quindi sono perfettamente d’accordo con quanto scrivi tu: “Prima di tutto l’autocritica la fanno (quando la fanno!) al massimo i discendenti dei fascisti o dei nazisti o dei comunisti (staliniani) o degli sterminatori (cattolicissimi) degli indios o dei pellirosse o dei bombardatori con l’atomica di Hiroshima e Nagasaki. Mai (o quasi mai) gli autori diretti dei genocidi, delle stragi, degli stermini.”

E chiediamoci il perché. Quando qualcuno è al potere non può fare autocritica pena la perdita di credibilità (è cadere in un tranello quando si pensa di ottemperare alle richieste di “onestà, onestà”, e quindi denunciare i propri limiti). Tutt’al più, come sovente accade, ci si deve, appunto, trincerare dietro necessità di ordine superiore, il bene comune, ecc. In questo modo nessuno è colpevole né, tantomeno, responsabile. E, purtroppo, se non si raggiunge un certo livello di responsabilità, queste “operazioni di coscienza” o di “memoria condivisa” servono soltanto a gettare fumo negli occhi. Certo, vanno fatte comunque, ma con la consapevolezza amara che non cambierà mai nulla e la ripetizione del vulnus continuerà.

Non so se tu, a suo tempo, hai visto il film di Scola “C’eravamo tanto amati”: finita la Resistenza, il partigiano Nicola Palumbo dice ai suoi compagni, delusi dalla piega che stanno prendendo gli eventi politici ed economici (non riescono a trovare un posto nella società): “Credevamo di cambiare il mondo e il mondo ha cambiato a noi”.
Il mio non è pessimismo, mi rendo conto soltanto di quanto sia difficile scalzare questo sistema, soprattutto quando viene a mancare una coscienza individuale che si possa coagulare in una coscienza collettiva. Oggi l’individuo è tacciato come ‘nemico’ come se andasse a discapito del ‘noi’, nel mentre potrebbe rappresentare una risorsa se il suo sentire è sufficientemente sano.

A chiusura, ti trascrivo questo sonetto di Shakespeare, che è abbastanza significativo – e anche premonitore – a fronte dei tempi che viviamo, ma che non si sottrae alla speranza.

 Sonetto n. 66

 Stanco di tutto questo, invoco la morte
 …quando vedo il merito nascere mendicante
 e la povera nullità tutta agghindata
 e la più pura fede miseramente abiurata
 e il dorato onore vergognosamente male attribuito
 e la virtù verginale brutalmente prostituita
 e la giusta perfezione ingiustamente screditata
 e la forza invalidata dal potere zoppicante
 e l’arte imbavagliata dall’autorità
 e la follia con aria dotta mettere freno all’estro
 e il bene prigioniero servire male il capitano.
 Stanco di tutto questo vorrei andare lontano
 Se non che, morendo, lascerei solo il mio amore. 

Nell’ultimo verso, il poeta non fa solo riferimento alla donna amata bensì alla capacità di amare, che significa tessere legami significativi, che arricchiscono e trasformano anche al di fuori della sfera affettiva

Note

i Le obiezioni ad Ogden di Rita Simonitto, a cui si riferisce Abate, sono le seguenti: “Cercherei dunque di evitare di ammantare di pennellate ‘positive’ (come se si trattasse di raggiungere una magnifica meta) il “diventare umani o il diventare vivi “ intesi secondo l’ottica di Ogden. Perché, che ci piaccia o no, anche il perverso è ‘umano’ (a modo suo) o ‘vivo’ (a modo suo). Altrimenti rischiamo di porci dall’alto di un pulpito da dove definiamo ciò che è bene e ciò che è male trattandoli come Assoluti e quindi non contestualizzandoli. Con il rischio di sconfinare in territori altri: quello della giustizia (che riguarda possibili reati ed è in quell’ambito che vanno trattati); quello religioso impregnato da visioni di ‘peccato’ (di cui si può rendere conto solo al Dio); quello della riprovazione morale collettiva (che dovrebbe riguardare invece la coscienza individuale mentre invece il gruppo cerca di sovrapporsi all’individuo onde proteggere la sopravvivenza del gruppo stesso). “Certamente che, a fronte di quanto afferma Ogden”: “La limitazione della capacità dell’individuo… può manifestarsi: nel restringimento della gamma e profondità dei sentimenti, del pensiero e delle sensazioni corporee, nella restrizione della vita onirica e fantastica, nel senso di irrealtà delle relazioni con se stessi e con gli altri, oppure nella compromissione della capacità di giocare, di immaginare e di usare simboli verbali e non verbali…”, sarebbe preferibile “la prospettiva di esistere più pienamente… anche affrontando una forma di dolore psichico difficile da sopportare” (T. Ogden, “Reverie e interpretazione”). Ma se anche Gesù, nell’orto del Getsemani , gridò “Padre, allontana da me questo calice!” siamo in buona compagnia quando mostriamo una ‘umana e vitale’ resistenza al cambiamento!”

ii Thomas H. Ogden, una delle figure più in vista del campo psicoanalitico contemporaneo, è condirettore del Center for the Advanced Studies of the Psychoses, membro della facoltà del San Francisco Psychoanalytic Institute e supervisore e analista al Psychoanalytic Institute of Northern California.

iii Winnicott ⟨u̯ìnikot⟩, Donald Woods. – Pediatra e psicanalista britannico (Plymouth 1896 – Londra 1971). Giunse alla psicoanalisi partendo da una vasta esperienza pediatrica. Tra i suoi contributi fondamentali vi è quello relativo all’esperienza della comparsa nello sviluppo del bambino (dai sei ai dodici mesi) dell'”oggetto transizionale”, al quale il soggetto attribuisce un particolare valore, poiché rappresenta per lui qualcosa che sta tra sé e un’altra persona importante, per lo più la madre (da http://www.treccani.it/enciclopedia/donald-woods-winnicott/ ) . Sui libri di Winnicott una scheda orientativa si trova a questo link:http://www.raffaellocortina.it/news–donald-winnicott-162.html

3 pensieri su “Di foibe, di bene e male, di organizzazione del “noi” e dell’”io”

  1. Cara Rita, la tua risposta a Ennio Abate è complessa:

    1. proiezione: un esterno (la madre?) onnipotente e onnisciente
    1.1 occorre un ordine (storicamente determinato)
    1.2 in esso si distingue il nemico dall’avversario

    2. entra l’individuo che, come singolo, è gravato di colpa (chissà perchè?)
    2.1 la colpa è alleggerita dal Potere
    2.2 ma il singolo è, appunto, uno solo, quindi la colpa la scioglierà non solo tra gli omoioi ma anche nella assunzione di sé come altro.

    Buona cosa, cui il femminismo teorico della differenza ha risposto da tempo insistendo sulla differenza tra sé e sé come articolata in primis nella discendenza dalla madre: come lei o differente da lei.
    (Il femminismo della differenza si occupa, eccome, della psicoanalisi proprio nella origine differenziale di venire al mondo.)

    Dopodiché ti rivolgi alla storia delle foibe e alla coscienza individuale (“Pertanto la tua ‘annosa’ domanda perché te la sento sempre proporre e cioè ‘Fare torto o subirlo’ *può riguardare soltanto ed esclusivamente una scelta personale, non camuffandola da paladino di alcunché*”), che agisce in accordo o in distacco dal gruppo di riferimento: soprattutto di maschi!, di politica maschile, voglio dire.

    Qui si apre una vera -possibile- discussione. Ogden NON la fa facile quando scrive che “possiamo entrare in contatto con la gamma profonda dei nostri sentimenti, del pensiero e delle sensazioni corporee e che siamo capaci di giocare, di immaginare e di usare simboli verbali e non verbali”.
    E che purtroppo le cose non stiano proprio così è solo l’amara ma diffusa costatazione che la relazionalità è intralciata e bloccata, e che se ne vive al di fuori ciechi e forsennati. (Lo sapeva già Shakspeare: “Stanco di tutto questo vorrei andare lontano/Se non che, morendo, lascerei solo il mio amore.”)
    Quindi si prosegue nel cieco labirinto della scissione tra privato e pubblico, tra i due ambiti si distribuiscono sessi ed età umane. Un tema gloriosamente smascherato dalle femministe, come Carole Pateman e ribattuto da Nancy Frazer, ma assediato nuovamente dal neutro che dilaga. L’Altro è un pensiero troppo grande da ragionare, senza gerarchizzare.

  2. Cara Cristiana,

    tu scrivi “Cara Rita, la tua risposta a Ennio Abate è complessa:
    effettivamente tutto ciò che concerne lo sviluppo umano si incrocia con la complessità, ragion per cui si configura la nostra tendenza a ricorrere alle semplificazioni (per poi riportarci al complesso e poi di nuovo, in un rapporto dialettico, al semplice), oppure a modelli che ci richiamano alla famosa reductio ad unum, dove fenomeni diversi si riconducono ad un solo principio esplicativo, creando così degli Assoluti, calderoni entro i quali collassano le complessità.
    Allora abbiamo il Bene, il Male, l’Uomo, la Donna, la Libertà, la Tirannia e via discorrendo. In situazioni di questo genere non abbiamo soggetti individuati nella loro singolarità bensì fedeli, adepti o anche sudditi che tendono a rinnegare la loro individualità mescolandosi agli altri intesi come omoioi. Il contatto con la realtà, di per sé mutevole con il mutare del tempo e dei rapporti socio-economici, viene allora guidato esclusivamente da modalità ‘denotative’ (il rapporto tra parola e cosa è rigido) senza affiancarlo a modalità ‘connotative’, ovvero il senso che ogni soggetto dà di quella realtà nel qui ed ora della esperienza.
    Nel tuo punto 2. scrivi “entra l’individuo che, come singolo, è gravato di colpa (chissà perchè?). Il senso di colpa è un sentire primordiale che l’individuo sperimenta quando si trova a doversi confrontare con la propria incapacità a capire e gestire una situazione ignota che sgomenta. Le sue origine arcaiche ci riportano alla perdita dell’onnipotenza, al peccato e alla espiazione. A seguire, la ricerca del colpevole che può orientarsi verso il sé oppure verso l’altro, nella ricerca del capro espiatorio. Il sentimento di colpa è comunque necessario in quanto ci mette in contatto – anche se con queste modalità primitive -, con una realtà al di fuori di noi con la quale siamo connessi in un rapporto di causa-effetto. La sua (del senso di colpa) trasformazione successiva contemplerà l’ingresso del senso di responsabilità, ovvero posso rispondere responsabilmente solo dei miei atti senza trincerarmi dietro le ideologie delle ‘motivazioni superiori’. Il problema grosso che si pone riguarda quelle persone che non provano senso di colpa onde evitare il disagio che comunque il provarlo comporta, da un lato, e, dall’altro, per non intaccare il loro narcisismo per cui si autoassolvono per ogni cosa. Questo rende ovviamente molto difficile quel passaggio al senso di responsabilità di cui parlavo sopra.
    Quindi non capisco la tua notazione a proposito della coscienza individuale “che agisce in accordo o in distacco dal gruppo di riferimento: soprattutto di maschi!, di politica maschile, voglio dire. Anche se fosse di femmine, di politica femminile (il gruppo di riferimento) il discorso non cambierebbe di una virgola.

    Concludi dicendo “Quindi si prosegue nel cieco labirinto della scissione tra privato e pubblico, tra i due ambiti si distribuiscono sessi ed età umane.”
    Anche a proposito della modalità difensiva della scissione introdurrei una differenza che passa tra una scissione rigida (o privato o pubblico, ad esempio), oppure una scissione funzionale che permette di contemplare separatamente ogni singola entità per poi procedere ad un contatto nei tempi e nei modi più proficui per l’un campo e per l’altro.

  3. Cara Rita, discuto un po’ a proposito di Soggetto, Senso di colpa e Responsabilità.
    * I “soggetti individuati nella loro individualità” di cui scrivi hanno una connotazione neutra. Il pensiero della differenza, pensiero materialista, individua nella nascita da madre la differenza originaria di “essere come” o “essere altro”. Il Soggetto come categoria teorica è quindi originariamente due: non perchè, a posteriori, sia classificato in opposizione (Bene e Male come l’Uomo e la Donna: ma qui, se l’opposizione Donna/Uomo si assimila a quella tra Bene e Male, si colora di Valore e poi, simmetricamente, di critica dei valori ipostatizzati…), ma il due, cioè l’alterità, è all’origine dell’esistere stesso in quanto si viene al mondo dalla madre. (Il padre, come si sa, non è “materialisticamente” certo!)
    * “Il senso di colpa come sentire primordiale”: antropologicamente, credo tu intenda, come trasformazione della perdita di onnipotenza. Quale il legame tra questa perdita e peccato ed espiazione, se non perchè già si è costituita una società gerarchizzata? Le società gerarchizzate di cui abbiamo conoscenza sono in primis gerarchia sessuale, da cui a cascata le altre forme di dominio.
    * Poi scrivi: “La sua (del senso di colpa) trasformazione successiva contemplerà l’ingresso del senso di responsabilità”. Qui entrano la Donna e l’Uomo come portatori di Femminilità e Maschilità, due caratteri complementari ed esaustivi dei compiti divisi per le realizzazioni sociali. Forse ora comprendi cosa intendevo dire con la coscienza individuale che agisce in accordo o in distacco dal gruppo di riferimento. Soprattutto di maschi, notavo, perchè nel caso specifico delle foibe “l’autocritica la fanno (quando la fanno!) al massimo i discendenti … Mai (o quasi mai) gli autori diretti dei genocidi, delle stragi, degli stermini”. Si è trattato di protagonismo attivo o passivo di maschi, che sono quelli che fanno la politica e la guerra. Quasi fino ad oggi, per la divisione dei compiti che finora hanno appartenuto alla Femminilità e alla Maschilità.
    E che oggi si confondono, guadagnando il Neutro un sempre maggiore spazio teorico, categoriale (la teoria gender pluralizzante), antropologico.

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