La disgrazia dell’espressionismo

Intervista di Ezio Partesana a Tiziano Marasco sopra il romanzo di Vladislav Vančura Campi di grano e campi di battaglia

Pubblico questa bella intervista che rafforza l’attenzione verso un autore importante e dimenticato sul cui nome, grazie ad Antonio Sagredo, anche Poliscritture ha cominciato (qui) a togliere la polvere. [E. A.]



Buongiorno Marasco. Vogliamo cominciare all’incontrario? Come morì Vančura?

In realtà cominciamo esattamente dall’inizio, perché è il motivo per cui decisi di scegliere questo scrittore per la mia traduzione/tesi di laurea. Vančura fu fucilato dai nazisti il primo giugno 1942. Fu una delle (molte) azioni di rappresaglia naziste contro l’attentato a Reinhard Heidrich, governatore del Protettorato di Boemia e Moravia. Una di queste fu quella di giustiziare diversi intellettuali cechi tra cui appunto Vančura, comunista e membro della resistenza. Vančura aveva anche rifiutato di collaborare con il regime nazista in due occasioni, nella seconda delle quali aveva rifiutato un invito a Berlino da parte del ministro della Propaganda Joseph Goebbels.

È possibile individuare il periodo di scrittura del romanzo? Dove fosse Vančura e di cosa altro si occupasse in quel momento?

Il romanzo è del 1925 (vale a dire che Vančura aveva 34 anni). Al tempo era già a Praga e faceva parte di un gruppo avanguardistico un po’ eterogeneo chiamato Devětsil. Per dovere di cronaca, di questo gruppo ha fatto parte anche Jaroslav Seifert, che poi sarà l’unico ceco a vincere un Nobel per la letteratura. Al tempo comunque, Vančura di professione era un medico che aveva pubblicato alcuni racconti e un altro romanzo e una grande passione per la letteratura barocco-rinascimentale – si dice abbia fatto colpo su sua moglie prestandole “Gargantua e Pantagruele”, per dirne una.

Lei dice di aver deciso di occuparsi di quel testo proprio perché Vančura fu fucilato dai nazisti. Fu una scelta solo etica o in qualche modo la lingua, la traduzione, hanno a che fare con la storia e la politica? Penso, per esempio, al testo di Victor Klempere Lingua Tertii Imperi…

In realtà lo scelsi anche perché mi ero innamorato dell’unico suo libro al tempo tradotto in italiano, ovvero Markéta Lazarová (Il cavalier bandito e la sposa del cielo, Adelphi), che avevo letto qualche anno prima. Mi piaceva molto il suo stile arcaico ma durante la traduzione mi resi conto che Vančura era un grande trasformista e praticamente ogni libro andrebbe considerato come un’opera a sé. Confrontando “Campi di grano e campi di battaglia” a “Il cavalier bandito e la sposa del cielo” ci si rende conto che si tratta di opere assai diverse anche in italiano.

La lingua poi è effettivamente connessa alla politica, ma questo non ha a che fare con me o con la mia scelta: come detto Vančura era comunista e la letteratura comunista ha sempre cercato forme alternative che andassero oltre la scrittura borghese. Ma mentre i vari Majakovskij guardavano avanti e cercavano di creare uno stile nuovo, Vančura andò indietro e riprese quello in uso prima dell’avvento della società industriale.

Dunque, per rendere l’idea, nell’anno nel quale Vančura pubblica “Campi di grano e campi di battaglia” Franz Kafka era appena morto. Si sa qualcosa delle letture formative, diciamo così di Vančura in quel periodo?

Mi duole ammetterlo ma non se ne sa molto al di là di quel che ho detto. Ha sicuramente letto la Bibbia, Gargantua e Don Chisciotte. È da aggiungere che Vančura consultava spesso almanacchi contenenti proverbi che poi infilava nei suoi romanzi. Ma per quanto riguarda le sue preferenze tra gli scrittori a lui contemporanei non ho trovato molto.

Mi pare assai interessante la sua distinzione tra “stilnovisti” e “barocchi”, oltre che calzante. Lo so che “barocchi” è parola mia, ma vuole esplicitare meglio il concetto?

In effetti “barocco” è un termine giusto. “Campi di grano e campi di battaglia” ha i toni cupi del racconto di una piaga biblica, ma anche il periodo superstrutturato della prosa barocca (la maggior parte delle frasi supera le cinque righe). Già che i campi di battaglia sono quelli della prima guerra mondiale mi sembra doveroso specificare che Vančura non fu mai inviato al fronte – fu giudicato non idoneo.

Passiamo al romanzo. È diviso in due parti, grosso modo di uguale durata e con grosso modo gli stessi personaggi, giusto?

C’è modo e modo di dividere il romanzo in due parti. È vero che i primi sei capitoli si svolgono in tempo di pace e gli ultimi sei in tempo di guerra.

Ma è anche vero che sei capitoli puntano l’attenzione sulle vicende dei contadini di un paesino ceco di nome Ouhrov e gli altri sei su quelle della famiglia nobile che li governa.

In quali altri modi ritiene si possa dividere il romanzo?

Penso siano gli unici in realtà. Il romanzo ha un carattere molto erratico quindi è piuttosto difficile dargli una strutturazione precisa.

Di questi tempi viene molto apprezzata la letteratura dove i personaggi evolvono da uno stato a un altro diverso; da questo punto di vista non accade molto qui, a parte l’omicidio, un po’ misterioso. Oppure mi sbaglio?

A volte nei romanzi di Vančura questo accade, ma se c’è un lavoro in cui i personaggi devono essere piatti (e lo sono fin dal nome), è proprio questo. I personaggi di “Campi” rappresentano ciascuno un difetto umano e il loro nome lo testimonia. Abbiamo Hora (Monte) che rappresenta l’immobilismo dei contadini che passano tutta la vita in un solo villaggio. Ber (lett. Prendi) è un arraffone.

I difetti o gli stereotipi sono presenti anche nella famiglia dei nobili, i Danowitz (gioco di parole che può significare “a cui è stato dato di più” ma anche “più tasse”). Il padre è un avaro che non si fida dei figli. I figli rappresentano poi la chiara divisione del destino per i nobili medievali. Uno diventa ufficiale dell’esercito austroungarico, l’altro entra in seminario.

Infine František Řeka (Fiume), forse vero protagonista del libro, è un contadino con problemi mentali. Magari un po’ ritardato alla Forrest Gump o magari affetto dalla sindrome di down, non lo so. Fatto sta che Řeka non riesce a concentrarsi su quello che fa per più di un dato tempo e questo rende l’omicidio misterioso: tutto l’episodio è visto dal punto di vista di uno che cambia idea ogni cinque minuti e non si rende ben conto di quello che fa o di quello che succede.

Passiamo alla traduzione vera e propria. Prima di tutto vorrei chiederle: Come “suona” la lingua di Vančura in ceco? È ritmica? Usa qualche misura metrica preferita?

Anche qui, varia da romanzo a romanzo, ma in linea di massima si nota sempre una certa tendenza al lirismo. Parlando di guerra e avendo una visione molto critica del mondo “di prima”, questo romanzo è contrassegnato da un gran numero di assonanze, molto spesso al fine di creare suoni contrastanti o poco piacevoli. Difatti mentre traducevo mi era stato detto di provare a leggerlo ad alta voce. L’ho fatto e a fine della prima pagina ancora un po’ ansimavo. Può provare a dirmi com’è leggere ad alta voce la mia traduzione, se vuole.

Il lessico del romanzo appare, nella sua traduzione, preferire di gran lunga un vocabolario alto, neutro e un poco usato. Non c’è spazio, per intenderci, per effetti realistici nei dialoghi o all’uso del dialetto nei soliloqui. È un effetto di sue scelte di traduzione o era proprio l’intenzione di Vančura?

Una professoressa mi disse che Vančura probabilmente rifletteva cinque minuti prima di scrivere ogni singola parola. Aggiungo un po’ di statistica: stiamo parlando di un autore che, dal 1924 al 1939, ha pubblicato almeno un lavoro ogni anno. Di questi almeno la metà non arriva alle 200 pagine e solo due superano le 300 (in ceco, in italiano per questioni linguistiche il testo è sempre più lungo).

Mettiamo tutto assieme.

Effetti realistici non ce ne sono molti, sarebbero stati da romanzo borghese ottocentesco. Sul dialogo poi tutti i critici letterari cechi sono concordi sul fatto che Vančura non si sia mai preoccupato molto di questo aspetto. Pensi che nelle prime edizioni degli anni venti, i dialoghi di Pole orná a válečná non erano nemmeno contrassegnati dalle virgolette.

Questo non vuol dire che la lingua non sia importante, anzi, in Vančura spesso ha la stessa importanza del racconto. E per riconnettermi a quello che diceva la mia prof, le parole di questo libro hanno l’incarico di creare una onnipresente sensazione spiacevole nel lettore. I toni hanno un lirismo tragico, da libro dell’Apocalisse di Giovanni. Le atmosfere sono sempre tetre, ma anche un po’ sfocate. Molte scene si svolgono di notte o in osteria tra i fumi dell’alcool.

Oltre a questo vi è poi la dissonanza nelle singole frasi. Questa sensazione spiacevole è infatti accentuata spesso da bruschi cali di registro. In diverse frasi infatti Vančura inserisce parole o espressioni volgari che contrastano con lo stile aulico di tutto il romanzo. A qualcuno può venire in mente Kundera, che, per dire, in “L’insostenibile leggerezza dell’essere” usa il suo caratteristico stile distaccato di saggista per dire che “il figlio di Stalin è morto per della merda”. Ecco, l’accostamento è assai calzante. Anche Milan Kundera ha scritto la sua tesi su Vladislav Vančura ed evidentemente ha preso qualcosa del suo stile.

Vorrei riprendere la sua osservazione sui personaggi “piatti”. L’espressionismo letterario ha più volte fallito il bersaglio, come se dovesse affrontare una difficoltà in più rispetto alla pittura o alla musica. Mentre Schönberg o Kandiskij hanno trovato una forma solida e riconosciuta, la copia del Woyzeck in mio possesso, per esempio, porta ben cinque versioni e non sono sicuro che un bravo studente di liceo saprebbe indicare in Georg Büchner l’autore. Nel suo lavoro di traduttore ha trovato difficoltà particolari nel rendere la trama o il carattere dei personaggi?

In realtà no, perché, da un lato, i personaggi sono presentati nel loro carattere di stereotipo fin già dalla prima riga in cui compaiono. Idem per la storia, che è raccontata in maniera volutamente confusionaria. Non voglio dire che tanto meno si capisce quel che accade e tanto meglio ho tradotto, ma in effetti il primo problema della narrazione spesso è capire che cosa accade più che porsi il problema di come renderlo. Questo perché, come detto prima, la lingua non è al servizio della trama, ma ha una sua importanza propria. In molti romanzi di Vančura, oltre che il “cosa dice” conta il “come lo dice”

Cominciamo a entrare nel testo. Lei dice che il romanzo manca di “effetti realistici”, eppure qualche frase ha la forza descrittiva di una fotografia: Infine entrarono nella camera. La luce del dì feriale empiva il luogo e la prostituta somigliava a se stessa. Era una donna povera (p. 56).

Non è che manca, è che viene utilizzato al minimo. La narrazione deve essere caotica per ricreare il caos della guerra, quindi le descrizioni che danno riferimenti al lettore devono esser ridotte al minimo. Sempre che non ci sia da focalizzare l’estremo stato di miseria delle esistenze dei personaggi, lì invece le descrizioni sono brevi e lapidarie. In questo caso l’osservazione della fotografia è giusta. Anche perché Vančura, prima della scrittura, aveva tentato la via della pittura (poi abbandonata perché respinto dall’accademia). E così abbiamo queste brevi ma incisive descrizioni condotte con occhio impressionistico. Anzi, dato che l’autore era chirurgo, ci sono anche un paio di episodi di gran splatter.

Il capitolo quarto ha qualche assonanza con il linguaggio biblico. Ma forse anche con il futurismo: Furono notti e di nuovo furono giorni; ma anche: Le tempie del mietitore, piene di sudore nei fulmini di un’estate nuovamente persa; e ancora: La macchina avvolta nel fumo fino alle fauci ed immota nell’eterno crepuscolo delle sue tratte sferragliava il suo brontolio, come a levarsi in volo.

Oltre il quarto, citerei sicuramente il dodicesimo (ma lì forse è più apocalisse). Questa era una costante di alcuni scrittori del Devětsil – anche le prime poesie del sopracitato Seifert hanno un che di biblico. Questo va ricondotto al fatto che questi scrittori erano comunisti e riprendendo questo linguaggio puntavano a creare una sorta di vangelo della nuova genesi – quella della società socialista. E questo nell’ultimo capitolo è evidentissimo.

Inoltre si trovano anche lirismi quasi mistici. Una citazione per tutte: Si vedeva la bestia nera, dietro cui brillavano le stelle. Non aveva mannaie e poteva andare, poiché il dormiente più non osservava (p. 70).

In questo romanzo è sempre connesso allo stile dell’apocalisse ma, come detto, il lirismo è presente in svariate opere di questo autore. Non ho molto da aggiungere su questo.

Dunque come va letto questo romanzo: adagio o di corsa, a voce alta, sussurrando, saltando le pagine e poi tornando indietro? Lei che l’ha tradotto, come ha proceduto? E cosa consiglierebbe a un lettore?

Ad alta voce non so, non credo di averci messo abbastanza suoni brutti. Sicuramente leggerlo con molta calma (anche perché è brevissimo) e senza saltare le righe. Il primo capitolo che tradussi fu il sesto. Ai corsi di traduzione ciascuno portava un testo tradotto e siccome mi era già stato proposto Pole orná a válečná come tesi, mi fu proposto anche di portarne al corso un capitolo. Non ricordo come io e la prof ci accordammo su quello. Non ricordo come tradussi gli altri, ma mi pare di essere andato in senso lineare. Un consiglio da dare? Tenere pronta wikipedia durante la lettura, perché tutti i nomi e i campi di battaglia citate nel libro sono quasi tutti sul fronte russo. Fronte del quale, nelle scuole Italiane, non si dice quasi nulla, anche se è stato quello con più vittime. Sicché già il romanzo è caotico di suo, dover saltare da Tannenberg a Qingdao passando per il tentativo tedesco di usare gli Zeppelin come bombardieri rischia di far perdere la bussola in modo definitivo.

Una frase che vorrei lei commentasse: La madrelingua degli operai è il lavoro (p. 187).

Beh, da qualche parte il marxismo doveva venire pur fuori in maniera chiara. Secondo Marx l’uomo esprime la sua essenza lavorando. Comunque sia questa frase non può essere commentata se scissa dal paragrafo che la precede, che parla di come la vecchia lingua dei padroni, con la guerra, perde di significato.

In chiusura al capitolo nono, c’è un periodo che mi piacerebbe fosse una sorta di dichiarazione di intenti di Vančura, una sua poetica insomma, lei sarebbe d’accordo? La riporto come da sua traduzione: Eppure! In un attimo dopo il crepuscolo, torno una stufa per la quale si era trovato qualcosa da bruciare, s’iniziarono discorsi di rivolta. Iniziava un’apocalisse che oggi già si dimentica. Si fece poesia, una leggenda dal bel finale e soprattutto cominciò il progresso che chiama le cose col giusto nome e che con giustizia giudica.

Un po’ lo è. La “rivolta”, la “leggenda dal bel finale”, è ovviamente la Rivoluzione russa. In realtà diverse volte Vančura fa allusioni al comunismo ma spesso, soprattutto dal punto di vista di oggi, è difficile coglierlo. Nel capitolo sesto c’è, ad esempio, la frase “fino ad ora è vano il rosso dei vessilli”. Il rosso vano è quello delle bandiere degli eserciti, in contrapposizione alla proverbiale bandiera rossa. All’epilogo “giunge il dì lavorativo, la stella e il nuovo computo degli anni”, ovvero la stella rossa e il computo dal 1917. L’autore lancia questi segnali via via nel corso di tutto il libro, per arrivare poi all’annuncio del nuovo mondo che chiude le ultime pagine del romanzo.

Lei ha già accennato al carattere semplice, piatto, caricaturale dei personaggi di Campi di grano e campi di battaglia. Vorrei, se possibile, spiegasse meglio in quale modo questa scelta espressionista sia funzionale al progetto letterario e politico di Vančura.

La piattezza dei personaggi è specchio della piattezza dei destini della società pre-comunista. Nasci nobile e avrai una bella vita, nasci povero e per tutta la vita avrai “sei giorni infecondi e un unico sabato” (cap. 1). Con l’arrivo della guerra però i personaggi sono in balia di eventi che alla fine ne capovolgono i destini. Così il nobile ufficiale che sogna grandi imprese muore malamente di dissenteria (una “fine di merda” che mette in mostra anche una certa ironia dell’autore). Così uno zappaterra viene sepolto come milite ignoto con tutti gli onori del caso. Tutto in questo romanzo è presentato come senza senso, perfino questi “ribaltoni dei destini” che però annunciano l’arrivo della società comunista in cui le cose funzioneranno al contrario.

Avevo notato una certa abitudine, diciamo così, di Vančura a usare, in modo del tutto personale alcuni motivi ebraici… Si sa qualcosa dei suoi rapporti con l’ebraismo contemporaneo?

Non ne so molto in realtà ma è fuori discussione che avesse dei contatti perché al tempo di ebrei in Europa ce n’era molti di più. Per il resto, da buon comunista, Vančura era ateo.

Avrei ancora un paio di domande. La prima è più che altro una curiosità sul suo lavoro. Qual è la stata la difficoltà maggiore che ha dovuto affrontare nella traduzione? E per la resa in italiano aveva in mente un qualche “modello”?

Il fatto di non conoscere le parole a causa del linguaggio volutamente arcaico – un problema che va scemando man mano che si prosegue nella traduzione perché poi comunque le parole si ripetono. Ma se non fosse stato per una mia amica ceca (che alla già considerevole sfortuna di fare l’Erasmus a Udine dovette pure aggiungerci quella di aiutarmi con questo lavoro), non so come sarebbe andata a finire. Però ammetto che tradurre questo libro mi ha permesso di capire molto meglio il funzionamento morfologico della lingua, il che aiuta molto anche nella vita reale. Sarebbe lungo e noioso da spiegare, ma diciamo che le lingue, come le persone, hanno dei comportamenti propri e traducendo questo libro ho capito meglio il modo di comportarsi del ceco.

Al di là delle varie Bibbie e Apocalissi, per la resa in italiano il modello principale è stato “La cognizione del dolore” di Gadda. Poi in quel periodo cercavo di leggere romanzi che avessero qualche secolo sul groppone (tipo Gargantua) o usassero uno stile fintamente antiquato (l’Ulisse di Joyce).

Vorrei sbagliare ma immagino che la traduzione di “Campi di grano e campi di battaglia” non le abbia portato né fama né gran compenso. Chi è, secondo lei, un traduttore, e quali sono i suoi personali programmi o desideri per il futuro?

Un traduttore è uno strano macchinario che trasforma il caffè in parole. Detto questo, io ho la fortuna di farlo di professione quindi penso che il traduttore debba essere una persona che sappia entrare in simbiosi col testo che ha davanti. Per quanto distacco si provi a mettere nel lavoro che si fa, la ogni traduzione suscita dei sentimenti. Quella di un’opera letteraria, per dire, porta un carico emozionale diverso da quella di un manuale d’uso di una motosega. A cominciare dal fatto che un errore di traduzione nell’opera letteraria può avere delle ripercussioni astratte, ma un errore nelle istruzioni può accorciare le dita di molti.

Poi traducendo ogni opera letteraria sorgono problemi e interrogativi di vario tipo (alcuni dei quali non trovano risposta se, come in questo caso, l’autore è morto e non ha lasciato eredi). Ho tradotto per Poldi anche un altro romanzo, “Helsinki, dove il punk si è fermato” (Konec punku v Helsinkách, 2010), di Jaroslav Rudiš. Basta il titolo per capire che l’opera è completamente diversa e così anche il lavoro di traduzione e le domande che mi sono fatto nel tradurre. Almeno queste hanno tutte avuto una risposta perché Rudiš è vivo, sui 40 e parla pure parecchio.

Detto questo, dalla traduzione di Campi, che era una tesi di laurea, non mi aspettavo né gloria né compenso. È stato comunque piacevole il fatto che la Poldi sia riuscita a provvedere al secondo, che non avevo neppure chiesto!

Non c’è molto da girarci intorno, finché non comparirà uno Stieg Larsson ceco non ci sarà nemmeno un grande interesse dell’editoria italiana per questa letteratura (cosa che di solito fa correre il soldo). Insomma, siamo tutti qui per passione.

Ci sarebbero ancora due romanzi che non mi dispiacerebbe tradurre. Uno, La lingua di sabbia (Písečná kosa, 1970) di Vladimír Körner è un po’ Vančuriano e si svolge durante le guerre dei cavalieri teutonici sulle coste baltiche. L’altro è Uomini in fuorigioco (Muži v offsidu, 1931) di Karel Poláček e non credo servano spiegazioni sull’argomento dell’opera.

Bisogna solo capire se mi imbarcherò mai in queste due imprese.

Chiudiamo con uno scherzo non troppo serio: A chi raccomanderebbe di leggere e il romanzo e perché?

Anzitutto direi di cominciare con un altro romanzo di Vančura tradotto in italiano, “Il cavalier bandito e la sposa del cielo”. Poi Campi di grano e campi di battaglia è un romanzo molto difficile da leggere quindi la risposta è semplice. A tutti quelli che hanno letto già qualcosa di Vančura oppure sono sopravvissuti indenni a La cognizione del dolore o all’Ulisse.

Abbiamo finito. Grazie per il tempo e la pazienza.


* Tiziano Marasco è nato a Udine nel 1985. Laureato in Traduzione e mediazione culturale, è il traduttore del romanzo di Vladislav Vančura Campi di grano e campi di battaglia, Poldi Libri, Granze, 2016.

* Ezio Partesana (Milano 1963), laureato in filosofia con una tesi su Th. W. Adorno, è stato per alcuni anni ricercatore, insegnante e redattore. Attualmente si occupa, quasi esclusivamente, di scrittura, traduzione e teatro. Tra le pubblicazioni ricordiamo: Contraddizione e potere, Manifestolibri; Critica del non vero, La Nuova Italia, Appunti sopra Kafka e Adorno, Mimesis; La compagna di Beckett, Unicopli; Il gioco delle parti, Sensibili alle foglie.

1 pensiero su “La disgrazia dell’espressionismo

  1. Ho letto “La fine dei vecchi tempi” pubblicato di recente da Einaudi. E questo lo trovo un bel libro, ricco di metafore e di similitudini.

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