Coronavirus e detenzione penale

di Giorgio Mannacio

1.

Le vicende della vita debbono insegnarci qualcosa. L’attuale esperienza di quella che appare una pandemìa vera e propria ha posto gli Italiani di fronte alla necessità di non uscire di casa e rimanere in essa quasi barricati. Tale esperienza che non conoscevamo affatto ha caratteristiche in qualche modo e in qualche misura simili a quelle di una carcerazione.

Non intendo – da profano – esprimere posizioni scientifiche sulla natura e pericolosità del morbo (che è certamente una realtà oggettivamente verificabile). Non intendo neppure discutere – più o meno profondamente – sulla tempestività delle reazioni delle Autorità sanitarie e sulla intrinseca bontà dei rimedi adottati contro il morbo da tali Autorità. Mi fermo all’oggettiva esistenza della malattia e degli effetti che essa sta producendo.

2.

Se si prescinde – per il momento – dagli effetti patologici, è di immediato rilievo che la prima conseguenza dell’infezione e cioè il meccanismo adottato è “ l’internamento “ nella propria abitazione cioè il divieto di circolazione all’esterno. Ma cosa è propriamente l’esterno? Ragionevolmente pensiamo che sia lo spazio al di fuori delle mura domestiche, ma un’analisi un poco più approfondita ci apre nuovi orizzonti. In primo luogo l’esterno è oggetto di una determinazione della volontà: posso e voglio uscire. In secondo luogo: voglio uscire per incontrare una persona e non un’altra. La caratteristica “esterna“ dello spazio si è attenuata in termini significativi con la tecnologia (ad esempio: i cellulari) che consente il contatto tra soggetti da qualunque luogo e per qualunque. Ma se la comunicazione tecnologicamente avanzata – che pretende di conquistare uno spazio virtuale – coinvolge un soggetto a sua volta segregato in senso naturalisticamente proprio, il problema si ripropone. Non basta uno “spazio virtuale“ allorquando occorre un spazio reale (la necessità di trovarsi realmente in un certo luogo: ad esempio per acquistare un genere di prima necessità).

3.

Con amarissima ironia si potrebbe rilevare come i carcerati non incontrino questo tipo di inconveniente. A costoro viene assicurato il rancio carcerario e la loro assoluta “dipendenza“ dall’istituzione carceraria li “mette al riparo“ – per così dire – da ogni difficoltà logistico-pratica (ammesso e non concesso che tutto funzioni come dovrebbe). Ma cosa “perdono“ i segregati per condanna?

Se si prescinde dalla “ragione“ del loro internamento (le mie osservazioni non vogliono essere un discorso sulla legittimità della pena e sulla sue finalità), si osserva che nella carcerazione è massima la perdita dello spazio nel senso sopra precisato. Si vuole uscire e non si può. Si vuole scegliere con chi parlare e avere rapporti e non si può; il rapporto verbale o epistolare è ridottissimo; ridottissimo e comune lo spazio fisico di vita. Scissa dal rapporto con la libera volontà, ogni situazione viene imposta. I rapporti umani sono determinati dalla convenienza e dall’utilitarismo più oscuro ed abbietto.

4.

La segregazione (per il momento non ne distinguo i vari tipi) ha effetto distorsivo anche sul tempo. Nella normalità della vita quotidiana esso si presenta con tratti discontinui segnati da eventi o vicende. Ci si alza al mattino, si va a letto a notte; si mangia ad una certa ora; si va a cinema o a teatro; si beve un bicchiere con amici…….In alcune società primitive il nesso tra tempo e attività pratiche è talmente stretto che il primo si identifica tout court con l’attività stessa. La durata della masticazione di una foglia di betel e la fumata di foglie di coca è – per i primitivi sudamericani – “ il tempo “.

Quello che conta rilevare è che ciascuno di noi ritiene che l’attività pratica sia frutto della nostra libertà. Il nesso tra tale attività e la nostra volontà sembra inscindibile. Privato di tale fondamento, il tempo diventa continuo e insignificanti i suoi tratti legati alla vicenda o evento voluto. L’effetto non è positivo. Tolto il prima e il dopo – conseguenti alle scelta – il dilemma è questo: posso farla sempre o non farla mai. Subentra l’inerzia, il cullarsi sul “dopo”, assicurato in maniera abbondante (troppo abbondante) dal tempo parcellizzato distrutto dalla segregazione.

La segregazione sanitaria è molto vicina a quella penale quanto al divieto di compiere un atto o una serie di atti. In relazione agli altri aspetti il divieto appare meno stringente e quindi più tollerabile ma sono stati segnalati dagli psicologi atteggiamenti di rifiuto con derive patologiche.

La ragionevolezza della scelta di segregazione sanitaria è messa in discussione dalla componente specialistica che la consiglia (“Sarà vero che essa è l’unica scelta o no“?). Il virus nella sua invisibilità può essere considerato il più subdolo dei nemici (autorizzando scelte radicali quasi maniacali) ovvero una negazione altrettanto assoluta come quella famosa di Don Ferrante de I promessi sposi.

Riconosciuta l’esistenza della pandemìa, se ne indaga la causa. Tolta di mezzo quella dettata fanatismi (religiosi o d’altro tipo) e riportata questa all’origine stessa dei processi vitali, non resta che studiare i mezzi di difesa.

5.

La segregazione penale è invenzione umana sia nei tipi che nelle modalità di attuazione. Chi ne vede un male assoluto ha di fronte un nemico assoluto. In generale se ne riconosce la necessità come strumento di controllo sociale, espressione che ha valore ambiguo. Si afferma che essa è un male necessario ed entro limiti se ne deve accettare la parte positiva, ricordando però che di essa ne fanno uso le diverse dittature storicamente esistite ed esistenti.

Un discorso molto importante e complesso riguarda la capacità di essa di raggiungere gli effetti positivi. In questa sede – che si limita a sottolinearne gli aspetti oggettivamente – sono evidenti in essa due aspetti: a) la segregazione penale è – come dicevo prima – un prodotto umano e ciò rende facile l’identificazione del soggetto imputabile delle limitazioni di libertà ad essa conseguenti; b) la compressione delle libertà individuali è massima nella segregazione penale. Tale affermazione è di un’evidenza incontestabile.

Il rilievo che la trasformazione del tempo da tempo parcellizzato a tempo continuo è propria delle segregazioni non è affatto minore in quelle penali per le quali si conosce la fine della causa della segregazione stessa. Il tempo diventato continuo rende presente ciò che è futuro e trasforma questo in una ossessione e il fine da raggiungere viene perseguito “a qualunque costo”. E’ il meccanismo magistralmente descritto da Shakespeare nel Macbeth. Questi – sentita la profezia delle streghe (Sarai re) – non ha la pazienza di aspettare e si macchia di crimini orrendi da lui ritenuti necessari al fine di rendere attuale la profezia stessa.

Penso che questa sia la chiave o una delle chiavi per spiegare in termini psicologici i delitti dei carcerati nei tragici episodi di suicidio o di evasione simbolica nelle droghe. Ma ad aggravare la segregazione carceraria basta osservare come – all’interno dell’istituzione – il virus o la paura di essere contagiato (che è la stessa cosa) gioca come un secondo motivo di esclusione dalla comunità. L’impulso – a volte razionale e a volte irrazionale – di sottrarsi al virus con la fuga da un certo luogo non si può realizzare – nel caso di detenzione – se e non con il desiderio di evasione che quasi necessariamente si converte in ribellione (vedi le cronache).

6.

Anche la segregazione sanitaria offre occasione – nei soggetti particolare fragili – per fenomeni di nevrosi ed ansia di varia intensità. Questo rilievo è fondamentale per comprendere la portata ben più drammatica di un virus che ha varcato le porte di un carcere.

4 pensieri su “Coronavirus e detenzione penale

  1. Due osservazioni ai margini di questo interessante e anche gradevole articolo di Mannacio.
    1) Il rapporto umano con il tempo e lo spazio e con la libertà hanno una componente soggettiva variabile da individuo a individuo. Può essere consapevolmente e programmaticamente forte se si assume un atteggiamento stoico, o se si vive il carcere con una forte fede e con forti interessi morali e intellettuali. Allora anche il ristretto spazio di un carcere o di un campo di concentramento può essere un mondo intero dove si può manifestare in modo pressoché integro la propria personalità. Ce lo assicurano tanti esempi storici, sia quelli di alte personalità della politica, della filosofia, della letteratura, sia, per contrasto se si vuole, quella di “alte” personalità del crimine, rimasti criminali allo stesso modo anche dopo decenni di carcere e pronti a riprendere la loro attività precedente appena liberati.
    In fondo, le persone di forte carattere, determinate e motivate, riescono a essere internamente (intellettualmente, psicologicamente) libere in ogni situazione. Perché in ogni situazione c’è un qualche spazio di manovra e una qualche alternativa: magari morire anziché cedere. Non è mai del tutto vera la giustificazione di chi dice: «Sono stato costretto a farlo, avevo la pistola puntata alla tempia». Anche in questo caso si tratta di una scelta, sia pure entro uno spazio molto ridotto.

    2) Non tutte le società sino ad oggi esistite conoscono il carcere, ma tutte conoscono la punizione e la pena. La necessità della pena è sorretta fondamentalmente da tre scopi:
    i) Impedire che il colpevole che ha recato danno ad altri o alla società nel suo insieme continui a combinare danni.
    ii) Risarcire, materialmente se possibile, moralmente e psicologicamente sempre, il danneggiato o i danneggiati, o i loro familiari e sodali, o l’intera società.
    iii) Dare corso a un processo di “rieducazione” del colpevole, perché torni ad essere un elemento utile della società. Questo terzo scopo è l’ultimo in ordine cronologico che la dottrina penale ha elaborato, ed è ancora oggi il più debole, il meno sentito dalla maggior parte delle persone, anche perché il più incerto e perché suscettibile di errori che smentiscono, almeno in parte, i due precedenti scopi. Invece il perdono e la riammissione nei ranghi delle “persone per bene” è un istituto antichissimo praticato in determinate forme e a determinate condizioni.
    Le alternative al carcere sono sostanzialmente cinque:
    i) La pena di morte, largamente praticata nel corso della storia delle popolazioni umane e praticata ancora oggi in alcuni Stati, sia pure in modo molto ridotto rispetto al passato.
    ii.1) Il “licenziamento” dalla qualità, e dai diritti, di membro della società, con l’allontanamento dal territorio (esilio o bando o altre forme di allontanamento fisico dal territorio “comune” della popolazione).
    ii.2) Il “licenziamento” e perdita dei diritti, ma senza allontanamento dal territorio, bensì con la riduzione ad un ruolo inferiore, con la perdita dei diritti che oggi diremmo di cittadinanza, e dell’onore e considerazione sociale, e la riduzione a scarto ai margini della società. In questi casi è il «controllo sociale» collettivo che restringe gli spazi di libertà. Ciò può essere fatto solo in società piccole e molto coese, non certo negli Stati moderni, dove la perdita di alcuni diritti, per esempio il diritto elettorale e quello di agire in proprio in determinate attività giuridicamente protette, non possono considerarsi delle punizioni davvero efficaci a raggiungere gli scopi del diritto penale.
    iii) Il risarcimento pecuniario o la riduzione a schiavo del colpevole, che diventa proprietà del danneggiato o dei suoi eredi.
    iv) Il diritto alla vendetta privata del danneggiato o dei suoi eredi o amici o protettori. La vendetta istituzionalizzata rappresenta un rituale sociale che serve a ripristinare gli equilibri rotti dal delitto.
    v) L’allontanamento dal “se stesso” criminale attraverso condizionamenti psichici e chimici. Questa pena è già in piccolissima misura praticata in alcuni Stati come alternativa al carcere per determinati reati, ma il tema è svolto per intero in diversi libri di fantascienza dove i colpevoli di reati vengono “rieducati” e “adattati” con procedimenti terapeutici psichiatrici fino a ottenere da loro comportamenti del tutto in linea con ciò che si considera “normale”. In questo tipo di società il criminale diventa un malato e la pena diventa la cura. Si ottengono così contemporaneamente tutti i tre scopi della punizione sopra elencati. Non si tratta però di vera rieducazione, con trasformazione consapevole e collaborativa della personalità del soggetto e maturazione di una personalità non più criminale, ma di un condizionamento psichiatrico e farmacologico che altera la personalità del soggetto e lo rende schiavo della cura/punizione.
    Questa alternativa al carcere, presente in alcune narrazioni utopiche, ha visto la sua versione distopica nei manicomi sovietici per il trattamento psichiatrico dei dissidenti.
    Non prendo in considerazione, come alternativa al carcere, la condanna ai lavori forzati, perché anche questi sono un carcere e il lavoro forzato una variante della carcerazione.
    ***
    Quest’ultimo argomento mi richiama il Beccaria e si ricollega, alla lontana, con la detenzione penale in tempo di Coronavirus.
    Non è vero, ciò che comunemente si crede, che Beccaria fosse sempre contro la pena di morte. I due elementi forti della sua dottrina sono il rifiuto della tortura come strumento istruttorio e il rifiuto della pena di morte ogni qualvolta la pena di morte sia inutile o dannosa alla società. Il Beccaria ammette la pena di morte in due casi: contro i delitti di lesa maestà (e qui c’è forse un suo opportunismo per non mettersi contro i diritti del potere sovrano del suo tempo) e quando, trovandosi la società in una situazione di pericolo, ad esempio durante una guerra, non può essere garantita la carcerazione dei colpevoli, per cui, per evitare il rischio che tornino in libertà a commettere altri delitti, è in questo caso giustificata la pena di morte. In sostanza, in caso di guerra o di grave crisi sociale in cui non sia possibile impedire ai criminali la ripetizione dei delitti in nessun altro modo, è giustificato il ricorso alla pena di morte.
    Questi giorni di Coronavirus ci testimoniano che il regime carcerario normale può entrare in crisi come tutto il resto della società, e allora subentrano situazioni particolari che richiedono mezzi di controllo e repressione particolari. La crisi odierna è ancora troppo debole per giustificare il ricorso alla pena di morte sommaria (tipo: sparare contro i detenuti in rivolta con lo scopo di ucciderli) e meno ancora per giustificare il ripristino legale della pena di morte. Tuttavia ci sono stati una quindicina di morti, il che dimostra che la morte ha, anche sotto l’aspetto del sistema penale, un rapporto stretto con le situazioni di grave crisi. Non c’è dubbio che se la crisi diventasse una vera e propria catastrofe apocalittica la morte tornerebbe ad essere protagonista non solo sotto l’aspetto sanitario, ma anche sotto quelli del crimine e della repressione del crimine. Già un maggiore rigore repressivo lo si vede in Cina, in Corea e in Iran.

  2. “Tuttavia ci sono stati una quindicina di morti, il che dimostra che la morte ha, anche sotto l’aspetto del sistema penale, un rapporto stretto con le situazioni di grave crisi. ” (Aguzzi)

    Non suoni polemico il mio invito a scendere anche nella cosiddetta “cronaca”:

    SEGNALAZIONE

    Carceri, 14 i detenuti morti. Ma Bonafede si autoassolve
    https://ilmanifesto.it/carceri-14-i-detenuti-morti-ma-bonafede-si-autoassolve/

    Stralcio:

    Sale a 14 il numero di detenuti morti in seguito ai disordini che per tre giorni sono scoppiati in gran parte degli istituti penitenziari italiani dopo la sospensione dei colloqui con i parenti e con i volontari disposta dal Ministro di Giustizia per scongiurare l’epidemia da Coronavirus. Tutti, secondo la versione ufficiale, sono morti per intossicazione da metadone e/o psicofarmaci rubati dagli ambulatori durante i disordini. Gli ultimi due deceduti, ieri, erano reclusi al Dozza di Bologna, mentre uno dei rivoltosi di Rieti versa in gravi condizioni «per aver ingerito benzodiazepine sottratte all’infermeria». Ieri c’è stata anche una nuova protesta nel carcere di Firenze, dove un agente è risultato positivo al test del Coronavirus. Ma di tutto questo non ha parlato il ministro Alfonso Bonafede. Il Guardasigilli, chiamato a riferire nelle Aule semivuote del Senato prima e della Camera poi, si è limitato ieri a un riassunto scarno e superficiale dei fatti ormai noti, e neppure aggiornato.

    La sua è stata un’arringa difensiva dell’operato delle forze dell’ordine e di se stesso, che ha lasciato senza risposte ogni interrogativo, sia riguardante quelle incredibili morti, sia posto dagli agenti e dagli operatori penitenziari preoccupati per la situazione incandescente, sia concernente le possibili soluzioni per evitare il peggio nelle ormai sature celle.

    IL MINISTRO DI GIUSTIZIA, che promette una relazione scritta nelle prossime ore, parla di «40 agenti feriti», «12 detenuti morti per abuso di sostanze sottratte alle infermerie», «16 evasi ancora latitanti a Foggia», un carcere, quello di Modena, praticamente distrutto e «gravi danni strutturali» causati da veri e propri «atti criminali», commessi comunque da «una ristretta parte di detenuti». Minoranza ma sempre relativa, stando ai numeri snocciolati da Bonafede che stima in 6 mila (il 10%) i rivoltosi («molti meno» invece, per esempio, secondo la radicale Rita Bernardini, che conosce le carceri italiane come pochi altri). Ma il ministro avverte: «Lo Stato non indietreggia di un centimetro di fronte all’illegalità» (e il Partito Radicale ricorda che è lo Stato ad essere illegale, nelle carceri, come dimostrano le numerose sentenze europee).

    BONAFEDE NON PARLA certo di regia unica nazionale dietro alle rivolte, ipotesi a cui non crede praticamente nessuno fuori dalla cerchia dei terrapiattisti, e dribbla pure sulle «responsabilità di un sistema strutturalmente fatiscente» che attribuisce ad «un disinteresse per l’esecuzione della pena accumulato nei decenni». Per quanto lo riguarda, ricorda di aver «previsto 2548 agenti in più, di cui 1500 già in servizio». Ma il «sovraffollamento», peggiorato per via della distruzione durante le rivolte di parte delle strutture e di 2 mila posti letto (secondo il Garante dei detenuti), e a causa della necessità di isolare alcuni detenuti a rischio contagio, continua ad essere parola tabù.

    1. Già a commento di un altro articolo di Mannacio abbiamo qui parlato a lungo di necessità di riforma del sistema giudiziario. Il che vuol dire, a monte, riforma del sistema giuridico e, risalendo, del sistema politico e sociale. A valle, riforma del sistema penale e carcerario. Ma è indubbio che nelle situazioni di crisi, in misura proporzionale alla gravità della crisi, non c’è sistema carcerario che regga e non c’è “sistema” in assoluto che non si spezzi e frantumi. Ciò pone un’infinità di problemi, ma stringe poteri e popoli in difesa del sistema, e non contro, perché il contro, se non è frutto di una evoluzione politica e sociale gestita bene, non può che essere peggiore della situazione attuale.
      La rivolta nelle carceri è il sintomo di una malattia, ma non contiene in sé nessuna cura. Comunque, per arrivare a una cura, i sintomi devono essere studiati sul serio e con la volontà di arrivare alla cura e non con quella della semplice e immediata confezione di una toppa qualunque.
      Si dà il caso che a complicare le situazioni un sistema penale svolge più funzioni e non tutte legittime. Da quelle proprie dell’amministrazione della giustizia e dell’esecuzione delle pene, ad altre di natura più direttamente ideologica di controllo sociale anche in senso non penale e non strettamente giudiziario, fino a quelle che configurano abusi di potere e diminuzione di diritti di fatto, al di fuori dalle previsioni di legge.
      Ad esempio, mettere cinque detenuti in una cella per due è abuso di potere e diminuzione di diritti.
      Ma come fare se i carcerati sono troppi e se i costi per la manutenzione delle carceri e per la creazione di nuovi istituti di pena non ci sono o non è politicamente conveniente spenderli sacrificando altre esigenze sociali?
      Ecco che si ritorna a monte, alla gestione politico-sociale dei problemi e a valle, allo studio di pene alternative al carcere che non siano però il semplice, poco popolare e poco giusto sconto di pena indifferenziato, che in pratica smentisce la pretesa giuridica di una pena giusta, sicura ed effettivamente scontata.
      Come fare? La soluzione ideale, e proprio per questo difficile, sarebbe migliorare la coesione civica dei cittadini, aumentare l'”onestà” delle persone e così diminuire i comportamenti criminali e la necessità di carcerazione.
      Parrebbe un problema di educazione, ma non lo è. Perché non è l’educazione che forma la società, ma è la società che forma l’educazione. È pertanto un problema di organizzazione sociale, tale, che induca a comportamenti più virtuosi. È il problema della “politica” rettamente e idealmente intesa, come migliore forma di gestione della polis, e non come battaglia per la conquista del potere.
      Del resto uno “Stato etico”, come ormai sono tutti gli Stati attualmente esistenti, non comporta un numero inferiore di criminali e di detenuti in carcere, perché lo Stato etico, più ancora dello Stato semplice di polizia, ha bisogno di criminali e di carcerati che giustifichino la necessità dei propri indirizzi etici, e trasforma in criminali, a vari livelli (illecito, reato, delitto, delitti particolarmente gravi), tutti i cittadini che non condividono l’etica dello Stato. Si trasforma così in crimine anche la disobbedienza civile.
      Come vi è un’ignoranza e diseducazione prodotta dalla scuola, una serie di malattie prodotte dagli ospedali e dai medici (iatrogenesi), vi è anche una fetta di crimini e criminali prodotti dal sistema giudiziario e penale.
      Le teorie di Ivan Illich hanno ancora qualcosa da insegnare a chi non è fanatico della centralizzazione dei poteri e del fare e garantire tutto a tutti in modo uguale dalle Alpi alle Piramidi.

  3. RIFLESSIONI AGGIUNTIVE
    1.
    Nel mio molto lungo percorso professionale di giudice non mi sono mai imbattuto – per pura combinazione – in problemi relativi alla carcerazione. Per diverse circostanze sono stato sempre chiamato in settori civili ritenuti in situazione di particolare affanno e qui mi sono impegnato. C’è dunque stata la “distanza della teoria “ tra la mia vita professionale e i problemi sui fondamenti filosofici, etici e sociali della pena. Spesso accade che questa circostanza induca ad una certa “ benevolenza “ verso la condizione dei carcerati . Questa benevolenza non è del tutto innocente. E’ facile per chi la pratica assumere la posa di una certa superiorità morale e di una certa maggiore sensibilità nei confronti di chi ha responsabilità dirette nella gestione delle pene detentive e deve misurarsi con le inevitabili durezze che queste comportano.
    2.
    A questo proposito si è osservato che la pena ha due funzioni: quella punitiva in senso stretto (hai fatto un certo male e te lo restituisco) e quella preventiva (la minaccia del male /pena ti consiglia di non fare in futuro il male/reato).
    La prima funzione ha caratteristiche che la avvicinano “ alla vendetta “ del corpo sociale. Negli ordinamenti sociali primitivi ricalca a volte le caratteristiche naturalistiche dell’azione vietata ( il taglio della mano per i ladri ). Sotto questi aspetti vi è una vera e propria sovrapposizione tra omicidio e pena di morte. Via via la vendetta sociale tende sempre di più a discostarsi dall’essere la “ pena del taglione“ e si trasforma nel sacrificio di alcuni “ beni “ del reo imposto a quest’ultimo e diversi dal bene vita. Credo che sia una tendenza da approvare.
    Per quanto riguarda in particolare la pena di morte vi è – oltre ogni altra considerazione – un vincolo costituzionale che esprime alcune scelte fondanti dell’aggregato sociale cui si appartiene come cittadini di un certo stato.
    Quanto alla funzione preventiva è ragionevole pensare che la minaccia di un male induca a non commettere fatti cui la minaccia di pena è correlata . In effetti si riscontra un aumento dei reati in periodi in cui – per diverse ragioni ( guerre e simili ) il misurato controllo sociale è assente o rallentato.
    E’ ragionevole pensare che la unzione preventiva della pena debba accompagnarsi ad una azione di educazione civica che della pena stessa ne sottolineino – assieme al carattere necessario – anche l’azione educativa.
    3.
    L’odierna emergenza sanitaria ci costringe i cittadini ad un isolamento domestico ( certamente necessario ) che ha alcuni caratteri della carcerazione. Siamo in grado – e penso lo si debba fare – di elaborare una “ simulazione “ che ci aiuti a comprendere meglio la condizione carceraria.
    Basterà utilizzare un sistema di “ trasformazioni “ della nostra condizione di “segregati sanitari “ che si confronti con l’altra segregazione.I n linea generale la durezza di quest’ultima non dovrebbe essere aggravata in alcun modo dal fatto – non addebitabile certo ai carcerati – di un’emergenza sanitaria che è comune a tutti e tutti colpisce. E dunque – a tutto concedere alle “ necessità “ delle
    misure carcerarie – si deve avere – e non per benevolenza ma per giustizia – uno sguardo di “ benevolenza “ per certe manifestazioni di “ribellione “ che avvengono all’interno del carcere in occasione di epidemie come quella che stiamo attraversando tutti. Si deve pensare come siano moltiplicate le probabilità che il male colpisca un carcerato rispetto a quelle incontrate da un “ uomo libero “. Basti riflettere come siano ulteriormente ridotte la sue possibilità di ( relativa “ fuga davanti al male incombente; come siano ridotte – per una serie di” ragioni “ che occorrerebbe eliminare le possibilità di cura di soggetti già minati –per ragioni chiare a tutti – le resistenze fisiche, psicologiche e mentali. La riduzione o sospensione dei colloqui dei detenuti è una misura terribile.
    E infine usiamo parole adeguate alle cose. Se uno di noi esce a passeggio nonostante la raccomandazione /divieto si parla di disobbedienza, ma di fronte a quella misura terribile che ho ricordato c’è una protesta imprigionata si parla di “ ribellione “.
    Allora le Autorità hanno il dovere di provvedere riferendo chiaramente i fatti e prendendo le misure necessarie prima di operare in senso esclusivamente punitivo.

    Giorgio Mannacio 15 marzo 2020

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