Aprile 2020

di Rita Simonitto

Fragrante il rosmarino insegue l’aria
ancora timida come il celeste colore
dei suoi fiori tuttora infreddoliti.
 
Giù dalle colline il traffico è lento
torbidi pensieri senza passato incenerito
nella veloce catena delle bare
e il futuro annichilito perché anche le domande
diventano stracci persi nel vento del dolore.
Primavera, addio, addio.
 
Campane che suonano agonie, bambini
che non ridono più e in su guardano
pensosi a chi forse li ha traditi.
 
Pervicacemente soltanto la natura non ferma
il suo rinascimento, non sfoglia abbecedari
non consulta vaticini. Con inconsapevole
grazia spennella declivi che stridono di uccelli,
giardini ormai incolti perché la mano d’uomo
si è declinata nel nulla.
  

5 pensieri su “Aprile 2020

  1. …la tragedia che ci colpisce tutti si puo’dire che sia entrata nel suo clou proprio con l’arrivo della primavera, una stonatura devastante che la poesia di Rita rende molto bene. La primavara contiene sempre una promessa di vita rinnovata, di amore pieno, di futuro…e invece il tradimento è feroce e inspiegabile soprattutto per i bambini: “Campane che suonano agonie, bambini/ che non ridono piu’ e in su guardano/ pensosi a chi forse li ha traditi”. Tristissimo il loro sguardo rivolto al cielo, disorientato, ammutolito…La “..veloce catena delle bare..” non risparmia nessuno nella sua crudezza…Eppure la primavera rilascia le sue fresche pennellate, ma a rimanere impresso nella mente è il colore cinerino e freddo del rosmarino, un velo mesto su tutte le cose, da brivido

  2. “Pervicacemente soltanto la natura non ferma
    il suo rinascimento, non sfoglia abbecedari
    non consulta vaticini”.
    Molto belli questi versi. Centrali sia per bellezza che per concetto.
    L’ostinazione della natura a ripetere il ciclo stagionale, indifferente alle “umane sorti”, tacita definitivamente l’arroganza del genere umano che s’illudeva di poter dominare ogni cosa grazie alla tecnica.
    Questa società che ha creduto di poter continuare a fare i conti senza l’oste, oggi s’è trovata dinanzi un oste inatteso, il coronavirus.
    E in questi
    “bambini
    che non ridono più e in su guardano
    pensosi a chi forse li ha traditi”
    è contenuta tutta la débacle della “nostra” società. Le colpe sono state tante. Ma non credo che saranno un monito per farci cambiare strada. Perché è un fatto: ogni volta che l’uomo si è trovato di fronte a un bivio, ha sempre preso la direzione sbagliata.

  3. E’ l’avverbio “pervicacemente” che forse appesantisce un po’. Giuseppe Pontiggia diceva che occorreva bandire gli avverbi e gli aggettivi dai testi in prosa. A maggior ragione, penso io, in una poesia. Ma la mia non è una stroncatura, solo un consiglio di scrittura per rendere ancora più bello il risultato.

  4. Grazie a tutti per i commenti, sempre preziosi.
    Volevo soffermarmi sulla sottolineatura di M. Riva su cui concordo, avendo recepito a suo tempo le indicazioni di G.Pontiggia e in effetti, se dovessimo pensare solo alla ‘leggerezza’ della poesia, quel termine appesantisce. Nello stesso modo in cui dovrebbe appesantire il termine ‘rinascimento’ al posto di ‘rinascita’ (anche se sarebbe venuta a mancare la cadenza metrica e l’enjambement sonoro con “pervicacemente”).
    Ma non ci stanno lì a caso: era un modo per sottolineare come si insinua il nostro linguaggio di ‘ragione’ all’interno di un altro linguaggio, “o-sceno” in quanto ‘fuori scena’; e come ciò sia per noi inaccettabile. Si tratta quindi di nostre proiezioni: la natura non è né buona né cattiva, né ci soccorre con la sua bellezza e nemmeno ci è matrigna quando segue le ‘sue’ regole che non sono le nostre. Essa semplicemente E’. Con buona pace sia dell’ “homo sapiens” che dell’ “homo faber”, come giustamente ha rilevato R. Bugliani nel suo commento. Quindi siamo noi che ‘pervicacemente’ proseguiamo nei nostri errori e non la natura dalla cui osservazione possiamo fare tesoro solo come mezzo iconico per rappresentare i nostri turbamenti, sia che essi vengano dal nostro interno che dalle nostre relazioni con gli altri.
    Attraverso quell’avverbio ‘fuori posto’, volevo sottolineare il ‘fuori posto’ delle nostre attribuzioni.

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