Cinema Teatro Marzocco

di Angelo Australi

– Lo so, …stai fingendo.

Invece gli confermai che davanti al Cinema Teatro Marzocco c’ero passato almeno quattro volte, prima di andare da lui.

– Lo dici solo per costringermi a uscire.

– Aprono lunedì, mercoledì e venerdì. Dopo cena. E sempre con film proibiti ai minori.

– Nude come dici, nei cartelloni del cinema non ne ho mai viste…

– C’è la striscia nera della censura, a nascondere il triangolo di pelo -. Ridevo a singhiozzi eccitati, ironizzando sulla sua indecisione.

– …Magari a cosce accavallate, che fanno immaginare laggiù in fondo. O in bikini, …questo sì.

– I cartelloni del film in programmazione li espongono il primo pomeriggio del giorno stesso della proiezione. Nell’atrio, dove sta la biglietteria. Solo per non fornire pretesti a chi passa di lì per andare ai giardini. Alzano la saracinesca alle quattro per fare le pulizie dei locali, e così espongono i manifesti in bacheca.

Ero piombato in casa di Marcello proprio quando stava finendo di tradurre alcune frasi di francese, da portare a scuola il giorno dopo. In quella giornata di maggio, piena di sole, saranno state le cinque del pomeriggio e avevo solo una gran voglia di ciondolare insieme agli amici nella speranza d’inventarsi un gioco per rimanere fuori fino a tardi. Per me i compiti di scuola erano da farsi dopo cena. La mia regola era tassativa: fare i compiti solo quando l’ultimo alone di bruzzico fosse scomparso dall’orizzonte della case. E comunque, visto che le giornate si allungavano grazie all’ora legale, mai prima della fine di Carosello. Se poi la sera non ci riuscivo, leggevo frettolosamente qualcosa al mattino e copiavo dai quaderni dei compagni, prima che arrivassero i professori. Non vivevo mai il fatto di non essermi preparato con l’assillo di stare in un tunnel dove in fondo ci fosse la fine del mondo, perché nella peggiore delle ipotesi avrei preso solo un brutto voto.

Sua sorella stava leggendo un libro, ma intanto seguiva la nostra conversazione. A un certo punto aveva smesso di leggere, per portarsi ai piedi del letto affiancato alla scrivania di Marcello che continuava a parlarmi.

Ricordo bene che il suo angolo di studio era collocato dall’altra parte della finestra, in una parete dove formava una specie di elle con il letto. La distribuzione dello spazio nei due lati della cameretta, sulla parete della finestra era identico. I genitori non avevano fatto imparzialità, anche perché tra fratello e sorella ci correva un anno e pochi mesi. La diversità era nei giocattoli di ognuno, e nei poster attaccati sopra il letto, con strisce di scotch. Manola adesso frequentava la prima media e si stava scontrando con molte difficoltà a studiare tutte quelle materie spiegate da più professori; una sensazione che avevo conosciuto molto bene anch’io, quella che lei stava vivendo. Mentre Marcello quell’anno aveva gli esami di terza media. Non frequentavamo la stessa sezione, però anch’io avevo gli esami e, nonostante fosse maggio, ancora rifiutavo di pensarci. Per via dell’ordine alfabetico dei cognomi mi ero ritrovato iscritto fin dalla prima media alla sezione A, Marcello invece alla D. Tutte classi di soli alunni maschi, mentre le sezioni composte dalle femmine andavano dalla E alla L. Eravamo divisi anche nel plesso scolastico: femmine al pian terreno, noi maschi in quello rialzato. Però io e Marcello avevamo in comune il professore di educazione tecnica e quello di latino, che ci apparivano ad entrambi dei fanatici di un metodo di studio assoggettato alle regole dei tempi del fascismo. Due vecchi ormai fuori dal tempo, dai cervelli svitati, che anche oggi non ho ancora compreso perché gli permettevano di continuare l’insegnamento. Nell’anno che frequentavamo la terza s’era sparsa voce che per il prossimo ciclo scolastico delle medie avrebbero iniziato a comporre classi miste. Rispettando però, nell’assegnazione alle sezioni, l’ordine alfabetico dei cognomi di famiglia.

Di fianco alla porta un grande armadio opprimeva lo spazio della stanza, mentre il grosso tappeto marrone messo al centro, comprimeva i due angoli della loro cameretta in un immaginario territorio di confine che nessuno dei due poteva oltrepassare. Addosso alle loro scrivanie sporgevano gli scaffali con i libri di scuola, mentre sopra il letto, messi all’altezza da non sbatterci la testa, c’erano sospesi altri scomparti chiusi dove si trovavano gli abiti del cambio di stagione e la biancheria dei loro letti. L’armadio e questi mobili pensili erano di un colore bianco ghiaccio, sicché a una cert’ora del pomeriggio i riflessi di luce entrata dalla finestra si distribuivano nella stanza in modo uniforme, facendola sembrare più grande e accogliente. In realtà, eccetto il momento dello studio, quando si trovavano insieme nella camera a fare qualcosa di diverso, spesso finivano per infastidirsi, rivendicando entrambi una sorta di legittimità allo spazio conquistato con la confidenza dei loro pensieri di adolescenti. Per entrare subito in una fastidiosa conflittualità bastava il pretesto di un gioco, una qualsiasi fonte di estraniazione che arrivasse a stimolare la loro immaginazione. Quel giorno c’ero io, ma lui mi aveva confessato che molto spesso erano le amiche di Manola che insieme a lei lo seccavano e alla fine, quando si sentiva circondato, usciva sempre a cercare di svagarsi altrove, rimandando lo studio alla sera dopo cena. Questa cosa di studiare dopo cena a Marcello faceva proprio imbestialire. Nei giorni di pioggia lì dentro si sfiorava la tragedia, e quasi sempre lui finiva per lasciare il campo libero a Manola e alle sue amiche, perché era quello a cui la madre vietava un po’ meno le uscite. Comunque aveva ragione, doveva essere un supplizio sentirle parlare dei loro amori platonici, delle promesse di fidanzamento, di una loro classifica sui ragazzi più ‘fichi’ tra quelli che frequentavano.

Manola si era appena accovacciata e subito Marcello le intimò di allontanarsi.

– E’ proibito stare qui?

Lei lo fissò indispettita, facendo una smorfia di disappunto.

– Sì, …per te è proibito.

– Cose personali?

– Devi semplicemente smammare, … alla svelta.

– Però è anche la mia cameretta.

– Cosa faccio io, quando ci sono le stronze delle tue amiche?

– Sei tutto suonato, caro fratellino.

– Va via, …per piacere.

– Mi stai dando un ordine?

– Ora basta, ti do un calcio in culo se non la smetti di parlare. Non ci sono le tue amiche, sicché non sei al centro di niente.

Lei si mise a ridere, cercando di dominare la rabbia. – Puoi alzare la voce, ma non m’intimorisci. Se resto nel mio angolo di stanza non puoi pretendere di comandare.

Poi si alzò a prendere dal suo comodino una rivista di moda, per tornare a sedersi più distante da noi. Anche se in quegli spazi ristretti secondo me parlare di distanza era sempre qualcosa di relativo.

Cominciò ad osservare le pose delle modelle, alle quali poi rifaceva il verso.

– Non è mica una scusa per farmi uscire? – mi chiese nuovamente Marcello.

– Non dire cazzate.

– Spartaco, prima dovrei finire questa maledetta traduzione, visto che domani ho interrogazione.

– Un cartellone così ancora non l’avevo visto, questa volta si sono spinti davvero oltre ogni decenza, se non andiamo subito, è probabile che qualcuno li obblighi a toglierlo.

– Dai, faccio presto…Lasciami finire.

– A vedere quei film ci va solo qualche coppietta.

– Come fai a saperlo?

– Lo dicono tutti – mi spiegai ridendo, – …Dio santo, …sembri arrivato qui da un altro mondo.

– E fanno così?

– Così come?

– Così, … con la proiezione del film?

Marcello mi stava guardando a bocca spalancata.

– Al buio, … certo.

– È strano.

– Cosa ti sembra strano?

– Che facciano all’amore così, in presenza di chi guarda il film.

– Invece sembra normalissimo, almeno a quelle coppiette che ci vanno solo per pomiciare.

– E si tolgono i vestiti?

– In che senso?

– In tutti i sensi. Le coppiette, … nelle scene del film.

– Andiamo! – urlai meravigliato dalla sua incredulità. – È così, … credici. Ho sentito dire che ci sono anche degli uomini che lo frequentano da soli, perché ci godono a guardare gli altri che fanno sesso. E poi qualcuno lo frequenta per amoreggiare tra maschi. Lo sanno tutti, è una vita che se ne parla.

Ed era vero, anche i miei genitori, ricordandosi il tempo della loro giovinezza, non si capacitavano che quel luogo in pochi anni si fosse trasformato in una sorta di bordello.

Il vecchio Cinema Teatro Marzocco si trovava nel punto dove il corso principale incrociava la strada che raggiungeva la stazione degli autobus di linea, ma l’entrata, con la biglietteria, era posta in uno stretto vicolo che a chi lo frequentasse permetteva una certa riservatezza. In fondo al vicolo poi si apriva un giardino che perimetrava sul retro tutta la superficie del cassero fino a costeggiare le vecchie mura fortificate del paese. Il teatro era stato costruito alla metà dell’Ottocento da alcune famiglie della borghesia locale, proprio adattando l’interno della fortificazione medioevale del cassero e lasciando intatto il perimetro murario di difesa. Alla fine degli anni Sessanta, nonostante l’antico splendore di quando si programmava l’opera lirica, di cui si ricordavano appena i più anziani, vi si proiettavano solo film proibiti ai minori. Il gestore riusciva a fare ancora il tutto esaurito per il veglione di San Silvestro e a quello di Carnevale, in queste occasioni però c’era l’orchestra sul palcoscenico e dalla platea venivano rimosse tutte le poltrone, per consentire di ballare fino a tarda notte. Nonostante le molte sale da ballo e la sua cattiva fama, andare per il veglione al Cinema Teatro Marzocco era come partecipare alla processione del Corpus Domini. Una sorta di ricorrenza fissata sul calendario. Pagano questo, religioso l’altro, ma messi entrambi sullo stesso piano da una tradizione che si perdeva nel tempo. I film proibiti ai minori erano un pretesto per allontanare le cosiddette famiglie per bene, che ormai frequentavano gli altri cinematografi del paese. Tre, per la precisione, di cui due in mano allo stesso personaggio che gestiva il Marzocco, il quale preferiva mantenere la programmazione per alcune sere alla settimana rimettendoci lo stipendio dell’unica persona che stava alla cassa, strappava i biglietti e manovrava il proiettore, e nelle spese dell’affitto, dei consumi energetici, di riscaldamento e noleggio dei film, pur di non consentire la concorrenza di un nuovo impresario motivato a rilanciarlo per farci dei guadagni. L’altro era il cinematografo parrocchiale che programmava l’apertura il pomeriggio del sabato e della domenica, ma solo con film per ragazzi. Al proprietario sicché andava bene che il Marzocco fosse bazzicato solo da qualche prostituta, o anche da alcune coppiette di innamorati che la notte non sapevano dove altro andare a scambiarsi dei baci. Chi lo frequentava si accomodava nei palchetti perché garantivano l’intimità di una stanza, mentre la platea era sempre deserta. Quando passavo dai vialetti del giardino durante le ore del giorno notavo un sacco di profilattici pieni di sperma. Erano lì mosci, raggrinziti tra l’acciottolato fatto di piccoli sassi bianchi che a calpestarli impolveravano le scarpe, ma i preservativi colorati di rosa o di celeste nella mia fantasia diventavano tanti fiori sbocciati senza un prato.

Manola chiese dov’è che andavamo.

– Dove ci pare e piace – le disse il fratello.

– Lo dico alla mamma che invece di studiare, per trovare la scusa di uscire fai venire Spartaco.

– Provaci! – Con uno scatto repentino Marcello si alzò dalla sedia. – Vuoi scoprire cosa ti succede, se insisti?

– Cosa mi farai, …dillo!

– Non lo so cosa ti faccio, ma di sicuro te ne ricorderai per un pezzo.

– Maria vergine, …muoio di paura!

Quando entrò una folata di vento si gonfiarono le tendine alla finestra, mentre la porta socchiusa cigolava come un lamento. Lui si rilassò in una risata che sembrava gorgheggiare al ritmo cantilenante della porta, poi minacciò di pestarla bene bene di pugni facendole per anticipo un pizzicotto sulla guancia.

Si mise a ridere anche Manola, cercando di dominare la sorpresa del dolore con quella reazione piena di rabbia.

– Sei uno scemo!

– Capito sì, che non mi devi asfissiare!

– Mi dici dove vai?

– No!

– Allora dico alla mamma che non stai studiando.

Sulla guancia, dove le aveva fatto il pizzicotto, adesso le restava un forte rossore, mentre nella stanza ascoltavo rimbalzare le loro voci che senz’altro anche sua madre avrebbe sentito.

Manola minacciò di chiudere il fratello nel ripostiglio e di buttare via la chiave, mentre lui cercava di intimidirla fissandole addosso il suo sguardo imbronciato.

– Se ci rifai, vedrai come ti sistemo il trucco!

Dalla stanza dove rivestiva i fiaschi, la loro madre urlò che facessero i compiti, invece di prendersi come dei nemici in battaglia.

– Fatemi il piacere di stare zitti. Le vostre voci si sentono da fuori …Sembra quasi che vada a fuoco la casa.

Lei lavorava sotto la finestra non solo per rubare tutta la luce del giorno, ma anche perché l’odore forte della sala bagnata che utilizzava per rivestire i fiaschi altrimenti avrebbe invaso tutto l’appartamento. Era curva a rivestirne uno, seduta su di una sedia impagliata alla quale erano state scorciate le gambe per avere sempre a portata di mano le lunghe foglie della sala che per garantirne la flessibilità necessaria alla rivestitura erano avvolte con dei teli di iuta bagnati. Per non piegarsi troppo, visto che doveva ripetere gli stessi gesti più di mille volte in un giorno, suo marito aveva segato le gambe alla sedia per trovare la giusta distanza del braccio dalla sala e non farla lavorare di schiena. Appena terminato il fiasco guardò fuori dalla finestra, inarcando il dorso per sgranchire un po’ le ossa intorpidite da quella rigida posizione. Un’altra dozzina di rivestiture, dopo si sarebbe alzata a preparare la cena. La cooperativa di fiascai dell’empolese passava ogni quindici giorni e lasciando il nuovo materiale le pagava il ritirato. Una forma di lavoro a cottimo, pagato con prezzi non contingentati e sempre più oscillanti verso il basso, perché ormai nel mercato vinicolo si preferivano sempre più le bottiglie bordolesi ai fiaschi di una volta. Queste cose le ricordo ancora così bene perché la maggior parte delle donne che abitavano in quella strada facevano questo mestiere casalingo per incrementare le entrate degli stipendi del marito. Mia madre era un’eccezione perché faceva la magliettaia, sempre lavorando in casa, e di queste sue amiche che rivestivano i fiaschi ne parlava spesso con mio padre la sera a cena.

Marcello guardò la sorella con un’espressione cattiva.

– Sei una stronza, ti ho detto tutto!

Manola gli affibbiò un calcio che lui non riuscì a schivare. Si piegò leggermente sul ginocchio colpito, non riuscendo a soffocare un grido di dolore. Mentre si affacciava sulla porta per informare sua madre che usciva con me, guardò la sorella stringendo i denti.

– Non venirmi a dire che in mezz’ora hai già fatto quella traduzione dal francese?

Sua madre si era di nuovo seduta bloccando un nuovo fiasco, stretto per il collo all’altezza dei ginocchi.

– Accompagno Spartaco in un posto. Faccio di corsa…

– Io parlerò tutto insieme alla fine. Cristo santo, sei alle medie, se non stai al passo con quello che insegnano i professori, io e tuo padre adesso non ti possiamo essere di nessun aiuto per gli esami.

– Non sono mica tanto indietro, rispetto ai primi della classe.

– Se non sei a giro con qualcuno, stai le giornate a sognare su quei giornaletti così ridicoli.

A dire la verità ho sempre provato un certo disagio ad entrare in quella casa, non solo perché lui divideva la cameretta con Manola, lei lì, sempre presente, ma era l’odore di quella sala bagnata che si diffondeva in tutto l’appartamento, un po’ come quando si cucina del cibo e la fragranza si spande fino a ristagnare nelle altre stanze, fino al punto in cui non riesci più a toglierlo perché s’impregna sui muri, su mobili, tappeti, vestiti, sul soffitto e sui letti; diventa qualcosa di familiare solo per chi vi abita, altrimenti provoca un fastidio ad ogni respiro. Nella cameretta di Marcello e di Manola, che si trovava proprio dirimpetto alla stanza in cui la madre lavorava, senza areazione diventava qualcosa di nauseabondo, addirittura certe volte mi pareva molto simile all’odore uscito dalle fogne nelle giornate in cui c’è un annuncio di pioggia. Vi giuro, è così. Infatti, quando andavo a trovarlo in una giornata piovosa, entrando in quell’appartamento a finestre chiuse proprio non riuscivo a nascondere il disagio. Anche se la loro cameretta era l’unica stanza ariosa perché prendeva luce dal lato dove le abitazioni si trovavano oltre una fila di orti e poi una strada di scorrimento del traffico, quando ci andavo quella sensazione di stare a ridosso di una fogna a cielo aperto non mi lasciava mai. Invece le finestre delle altre stanze dell’appartamento guardavano tutte in un vicolo sterrato e senza sbocco, dove l’umidità risaliva dai muri delle case fin quasi al primo piano. La cucina era stata divisa da una parete di masonite per ricavare uno spazio dove la madre potesse lavorare avendo a portata di mano tutto l’occorrente che teneva accalcato nella terrazza, di fianco a un lavandino. Mi ricordo che la camera dei loro genitori era un ambiente privo di finestra, così come il lungo corridoio riadattato dal vecchio appartamento che una volta aveva tutte le stanze di passo.

* * *

Marcello abitava al terzo piano e il suo ingresso era illuminato dall’abbaino che conduceva alle soffitte, però bastava scendere una sola rampa di scale che appena svoltato il pianerottolo si entrava in un lungo corridoio buio e stretto dove c’erano gli ingressi di almeno tre appartamenti, e qui l’unica luce che spezzava l’oscurità con un po’ di penombra era quella delle immagini votive che ogni famiglia teneva sopra la sua porta d’ingresso. Una lucina fievole, perennemente accesa, come quella dei cimiteri. Immagini sacre racchiuse dentro una cornice di legno, non facilmente riconoscibili per via della polvere e delle ragnatele. La Madonna col bambinello, Sant’Antonio da Padova, San Francesco, il volto di Papa Giovanni ventitreesimo. Gli appartamenti erano sette, tre ad ogni piano, oltre a quello dove abitava la famiglia di Marcello, ricavato chissà quando con il rialzamento di una parte della soffitta. Discesa l’ultima rampa di scale si apriva un corridoio lungo tutta la larghezza del palazzo, ma qui, almeno durante il giorno, era illuminato da una piccola finestra situata sopra l’entratura che si affacciava sulla strada. Non andavo spesso a casa di Marcello per vari motivi, ma di sicuro non mi ero mai adattato alla discesa al buio di quelle scale. A salire si rischiava di meno, perché al limite scivolando sbattevi una musata sui gradini. A scendere invece potevi ruzzolare fino in fondo alla rampa, e già in un paio d’occasioni mi ero ripreso per un pelo, prima di cadere incespicando sui miei stessi piedi.

Scendendo le scale Marcello continuava a chiedermi notizie sui manifesti del cinema teatro Marzocco, ma io gli davo poca soddisfazione perché stavo attento a non scivolare su quelle scale così ripide e buie. Non contento di appoggiarmi con la spalla alla parete, per scendere strusciavo il piede su ogni scalino per tastarne i limiti come un cieco.

– Com’è che non sei mai caduto, da queste scale?

– Scendo giù ad occhi chiusi – confermò lui spavaldamente.

– Grazie al cazzo!

– Fidati, sono venti scalini per tratto.

Lui era davanti a me almeno di una rampa, e rideva.

Provai a contarli quei venti scalini, però mi persi nel numero già dopo il primo pianerottolo, perché c’era troppo buio per stare al passo con lui che sembrava correre. Però quando ero per mettere il piede fuori dal palazzo lo sentii lanciare un grido da accapponare la pelle. E dopo quel grido solo un silenzio inquietante. Il primo pensiero fu quello di uno scherzo di pessimo gusto, ma superata la soglia lo trovai appoggiato al muro, la mano destra sull’orecchio tutto sporco di sangue, e tremava come una foglia. Una scena così improvvisa mi lasciò subito interdetto. Non sapevo come comportarmi, lo guardavo in faccia senza riuscire neanche ad urlare per chiedere soccorso.

– È stata quella fanatica – disse lui tremando.

– Che vuoi dire?

– Sì, mia sorella…

Tutto questo in un attimo, perché senza avere il tempo di pensarci sentii subito più volte la madre gridare dalla finestra il nome della figlia con l’appellativo di disgraziata incosciente. Mentre Manola si era messa a piangere singhiozzando.

– Mi sono scivolate via di mano, mamma! Non l’ho fatto apposta.

– Stai zitta… Disgraziata, …stai zitta.

Quando lei ci raggiunse avevo ancora l’impressione di sentire le sue parole pronunciate alla finestra. Alzando lo sguardo vidi Manola affacciata, piangeva persistendo nel dire che le forbici le erano scivolate di mano, ma avevo appena sentito le grida di sua madre rimbalzare giù per le scale come se stesse lanciando una maledizione alla figlia, che il momento dopo mi ero perso nel panico di vedere tutto quel sangue, smarrito nel pensiero che presto il mio amico sarebbe morto. Questione di minuti. Peggio ancora, pensavo: questione di secondi. Non di ore, o di giorni, o di anni, ma soli di secondi.

Lei tolse con decisione la mano di Marcello dall’orecchio e quando vidi tutto quel sangue per poco non svenni lì, sul posto. Allora mi voltai per un momento di spalle, ma ero troppo impaurito, il cuore mi galoppava e non riuscivo a comandare niente al tremito che si stava diffondendo su tutto il corpo. Mi accorsi che lei si era messa ad osservare per terra alla ricerca di qualcosa, che alla fine raccolse un paio di piccole forbici da unghie e con un gesto ossessivo le ficcò nella tasca della veste da lavoro. Poi gli fece una carezza sulla testa.

– Non agitarti troppo.

– È stata Manola, …mamma.

– Si tratta solo di una sbucciatura dietro l’orecchio. Niente di profondo. Ti fa male?

– È stata lei, mamma.

– Non pensarci, si tratta di una disgrazia. Dimmi se ti fa male?

– Ora non più.

– Calmati per favore, non è un taglio, le forbici erano piccole e ti hanno appena sfiorato. Per fortuna non è necessario correre all’ospedale a metterci dei punti di sutura. Saliamo di corsa in casa, che sterilizzo il taglio e ci metto un cerotto.

La situazione era tale da attivare l’attenzione dei primi passanti, che in pochi minuti si moltiplicarono come una pestilenza. Le donne uscivano dai fondi dove anche loro rivestivano i fiaschi, per avvicinarsi a Marcello sporco di sangue e a sua madre, mentre la sorella urlava affacciata alla finestra richiamando sempre di più l’attenzione della gente del posto.

All’improvviso vidi Manola uscire dall’entratura e, superato il capannello di persone che intanto si era creato intorno a Marcello, lanciarsi in una corsa invasata in direzione della campagna. Feci appena in tempo a vederla, perché poi scomparve dietro un tabernacolo, dove si perdeva la strada sterrata che costeggiava il torrente. Anche sua madre le urlò qualcosa, cercando di rassicurarla che la ferita di Marcello non era grave. Nel tentativo di fermarla aveva fatto tre o quattro passi di slancio urlandole di tornare indietro, che suo fratello non si era fatto niente, ma poi, come agendo d’istinto, si era di nuovo avvicinata a Marcello perché troppe persone ormai lì intorno lo stavano guardando e subissando di domande.

Prima di mettersi a correre Manola si era voltata verso il fratello che sanguinava copiosamente da dietro l’orecchio, lì, in mezzo alla gente accorsa, senza versare una lacrima, sebbene ormai gli macchiasse tutta la maglietta sulla spalla, lui ogni tanto si toccava la fronte e la guancia con la mano sporca di sangue. Nonostante tutto, sembrava star bene. Era silenzioso, però non piangeva, non urlava. E tranne sua madre, non guardava in faccia nessuno. Mi sentivo escluso da quella situazione che si stava creando, com’era giusto che fosse, e pian piano, nell’indifferenza generale, mi spostavo per seguire l’evolversi della scena da dietro il capannello di persone che si era creato. Feci alcuni passi indietro, cercando di distanziarmi il più possibile da loro due, e mentre ascoltavo quello che si dicevano nel commentare il fatto, cominciai a pensare che non avesse alcuna importanza se quel paio di forbici a Manola fosse distrattamente scivolato di mano quando si era affacciata alla finestra, come aveva disperatamente spiegato alla madre, oppure fatte cadere per ripicca verso il fratello, davvero con l’intento di fargli del male o addirittura rischiare di ucciderlo. Importante era che trascorreva il tempo e intanto lui non moriva. Questo per me aveva valore. Prima che si allontanasse correndo, avevo scorto negli occhi di Manola una strana luce fatta di un miscuglio di paura e di rabbia. Uno sguardo adulto per i suoi anni, penso oggi a ricordarmi l’accaduto, come se si stesse già allenando a soffrire della propria condizione di donna, in quel mondo che stava cambiando alla velocità della luce.

Così mi allontanai dal luogo dell’incidente per tornare a casa non pensando più a niente. Mi guardavo attorno e non pensavo più a niente. Dalla striscia di orti che costeggiavano la strada dove in quel momento non passava neppure un’auto, venivano a molestarmi una miriade di moscerini. Mentre camminavo riuscivo a scorgerli in controluce come una fitta nuvola fatta di puntini psichedelici che si muoveva ordinatamente intorno a me. Era come se si trattasse di un loro modo di respirare e di trasmettersi la direzione da seguire compatti. Il buffo era che, nonostante si spostassero con quel metodo coordinato, poi alcuni mi finivano nel naso, aspirati con l’aria dei miei respiri, altri mi svolazzavano intorno agli occhi e agli orecchi, altri mi entravano in bocca e finivo per mangiarli.

Angelo Australi

Figline Valdarno, aprile 2020 – scritto in tempi di Coronavirus

11 pensieri su “Cinema Teatro Marzocco

  1. Ciò che colpisce della scrittura di Angelo Australi è la possibilità di vari e diversamente profondi strati di lettura, che si scoprono piano sotto la prima veste, lieve, di intrattenimento. Intrattenimento in senso etimologico: cioè, che “trattiene dentro”, che “cattura”, che “tira verso di sé” con piacevolezza, ironia, spasso. C’è lo strato memoriale: nel ricordo, ogni cosa, pur sfumandosi, si definisce nella risistemazione della riflessione, della comprensione e dell’analisi. Quello politico-civile: l’Italia nel passaggio scombussolato da paese rurale a industriale, con i suoi guadagni e le sue perdite: i padri sono in fabbrica, mentre le madri a casa a rivestire i vecchi fiaschi ormai sempre più emarginati dalle pimpanti bottiglie bordolesi. Quello sociale: la famiglia come perimetro di affetto e pure di conflitto e compensazione generazionale: non si sa, giustamente, se Manola abbia lasciato cadere le forbici di proposito o per sbaglio sulla testa del fratello; Manola, che scappa scintillando di paura e rabbia, presagendo la difficoltà dell’essere donna in un paese antico e, allo stesso tempo, freneticamente rinnovato. Quello psicologico: Spartaco, in quanto mascheramento dell’autore, ne rivela, celandoli, i pensieri, le pulsioni, le illusioni, le tante aspirazioni. Quello simbolico: il racconto è pieno di simboli: il cinema per adulti, le locandine proibite, la casa claustrofobica, l’amico, la madre, la sorella, le forbici, il sangue, la caduta, la fuga, gli stessi nomi (Spartaco, Marcello, Manola): penso che Freud ci potrebbe scrivere sopra un trattato. Infine, sotto ogni strato, il corpo letterario del racconto, tra realismo e poesia, su cui si intrecciano le isotopie del linguaggio colloquiale e della metafora colta. E sotto l’ultimo strato? Il mistero della scrittura.

      1. Ciao Filippo…
        … sì, io seduto su una sedia e te seduto su una pietra che si chiama Petra, mentre ci troviamo nel paese di Paesia…

    1. Caro Daniele, accenni a tanti spunti di riflessione che trovi stratificati in questo racconto. In un linguaggio povero , banale, semplificato all’osso, può starci la poesia? Nella scrittura epica è così, perché la direzione presa è fare sintesi. E questa è una domanda che mi sono sempre posto. Se vuoi i ricordi scaturiscono da questo bisogno, che poi provo a trasformare immaginando una storia da raccontare. Mi piacerebbe, ma non ci riesco, a scrivere delle poesie, e allora cerco quel momento di sincera sintesi tra vita e letteratura nel racconto.

  2. …trovo questa scrittura di Angelo Australi magistrale, da testo classico…Inizialmente apre uno squarcio su una realtà che molti tra noi – della medesima, o quasi, generazione- hanno vissuto; si risveglia in noi il ricordo, come una sorpresa, di tempi remoti…Pacata, descrittiva, racconta , da “intrattenimento”, come ben dice Daniele Barni ,la realtà di vita, povera ma dignitosissima, in un quartiere della piccola provincia, ai margini della campagna…I personaggi, tre ragazzi tra cui il narratore, immersi nel loro spazio ristretto, quasi monacale, ci raccontano i loro rapporti complessi, le consuetudini, le pulsioni adolescenziali in una famiglia che per i figli sogna il cambio di passo, compiendo pesanti sacrifici…La ragazzina, Manola, in quanto femmina, è la piu’ sacrificata dei tre adoloscenti e sente con rabbia la sua esclusione, limitazione di moviento, cosi’ , dopo un litigio, avviene l’esplosione: un fuoco d’artificio che poteva tramutarsi in tragedia…Non c’è una parola in piu’… si’, si puo’ solo fermarsi a contemplare

    1. Quello che hai scritto Annamaria lo trovo davvero stimolante, infatti i ricordi per me sono solo un pretesto per inventarci una storia, anche se non sono fatti personali come in questo caso, ma eventi accaduti intorno a me. Quando scrivo mi sento attratto dal bisogno di sintesi per raccontare una certa epicità della vita che amore cercare con la scrittura.

  3. Caro Angelo,
    ancora una volta ti trovo immerso nella memoria con la tua prosa scorrevole, profonda nelle pieghe del ricordo e pronta a raccontarci luoghi, persone, momenti di vita vissuta e forse poco assaporata. Bella la ricostruzione del nostro passato che non è remoto ma che appare come lontano per le tante altre realtà che negli ultimi anni si sono venute a creare dintorno scolorendone bellezza e genuinità. Non è nostalgia ma consapevolezza che senza il rammentare le nostre radici passiamo come ombre sulla terra di nessuno. Grazie per questi tuoi lampi di storia minima che arricchiscono di umanità il nostro presente.
    Con immutato affetto.
    Lucia

  4. Caro Angelo,

    ho letto il tuo racconto e, scacciati via i fastidiosi moscerini finali, come fossero invadenti virus soffocanti, mi sono lasciata coinvolgere dall’aria birichina e acerba degli adolescenti della storia.
    Come sempre avviene, leggendoti, le piccole avventure da te descritte, assumono i contorni accattivanti e coinvolgenti di un evento straordinario.
    Il perimetro della cameretta di Marcello, le scale buie e faticose, i cartelloni dei film proibiti e il sangue sparso diventano elementi ricchi di patos, sorrisi e memoria di un tempo che è bello e interessante riportare alla luce della scrittura, per condividerlo.
    Salutami Spartaco!!!

  5. Caro Angelo,
    paradossalmente rimane persino complicato dire qualcosa sul racconto in sé, la “costante Spartaco” già fin dalle prime battute ci conduce ad altri racconti, ad altre scene, ad altre memorie, a quello che, nel tempo, si è costituito come un mito. Sembra che la geografia, la storia, gli avvenimenti, siano un contesto inesauribile, dove tutto è nato, ma che metaforicamente è parte, nei modi e nelle forme più diverse, di un patrimonio nostro. Ognuno, almeno in questo caso, è Spartaco o Marcello, oppure Manola. Come sempre nelle tue narrazioni si arriva ad assaporare quel gusto particolare, schietto e deciso, di chi poi la storia l’ha fatta davvero; la storia, le storie delle piccole cose, di quelle necessarie, fondamentali per la storia stessa. In questo racconto, come nei tuoi romanzi e gli altri racconti è sempre lui, Spartaco oppure uno della sua cerchia di amici, che ci accompagna; hanno sempre avuto qualcosa da raccontarci, fosse anche minima, apparentemente marginale, ma la mettono a nudo, ce la pongono davanti, ed è in quel momento che ci accorgiamo che forse c’eravamo pure noi, oppure ci sarebbe piaciuto esserci.

  6. Caro Alessandro, in qualche modo mi stai dicendo che sono un narratore, e questo mi fa immensamente piacere.
    Ne abbiamo parlato insieme tante volte, del come amo lavorare quando dall’immagine di un ricordo, di una frase sentita dire di sfuggita, nasce questo bisogno di legarsi a una storia.
    Lo sai, alcune idee a volte le tengo in testa anni prima di trasformarle in racconto, fiducioso che a un certo punto usciranno di nuovo allo scoperto, con l’intenzione di raggiungere un sincero equilibrio tra finzione creativa e realtà.

  7. Ciao Angelo,
    si ripete la medesima sensazione avuta nel leggere i tuoi ultimi scritti: dalla narrazione scaturiscono immagini molto nitide, emergono ambienti e situazioni che penetrano nella mente del lettore con una densità che le radica nella memoria. Come al solito il tema memorialistico è teso ad analizzare e scandagliare il processo di maturazione interiore del protagonista, la figura a te cara di Spartaco. L’apparente minimalismo descrittivo è il veicolo, il contesto realistico, la dimensione naturale in cui si aprono, senza alcuna forzatura, gli squarci esperienziali che incidono l’interiorità dei personaggi, ed in primis quella della voce narrante. Lo spazio in cui si dispiega l’avvicinamento alla sessualità, fatto di immagini (i manifesti e le scene dei film; i locali del cinema) e di residui colorati, gonfi di sperma; gli odori penetranti della provincia laboriosa, durante il boom economico, in bilico tra manualità e serialità industriale; la società “corale” della piccola cittadina, ormai pronta a scivolare nell’individualismo economicistico dello stipendio e del profitto: in questo contesto sociale, l’esperienza del sangue e la paura della morte scendono nel tempo vitale di Spartaco con la banalità crudele di un lancio di forbici volontario/involontario, un piccolo e normale dissidio familiare che si fa carne e sangue, rabbia non controllata, divenendo conseguenza reale, visibile sul corpo dell’amico, terrore per la sua possibile perdita. Spartaco si distanzia progressivamente dalla scena, disponendosi ad elaborare l’esperienza, ad avviarsi verso le strade del tempo, quelle strade che, adesso, da adulto, ripercorre con la memoria, nella scrittura, per restituire a se stesso il senso del vissuto, interpretandone i segni rimasti più marcati. Alla fine, gli insetti brulicanti, le nuvole che essi formano, avvolgendo Spartaco fino a entrargli in bocca, paiono alludere a quei movimenti frenetici, all’invasione di quella realtà che da quel momento in poi, avviandosi verso il mondo non più infantile, sempre più penetrerà dentro di lui, abolendo progressivamente ogni distanza, facendosi vita adulta.
    Un saluto, Leonello Rabatti

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