Centro di disintossicazione

di Franco Tagliafierro

“Mi ha colpito la situazione paradossale al centro di questo racconto che hai scritto nel 2000: la folla anonima e gregaria, che sente una “medesima coazione alla morte” e, ubbidiente e caparbia, si dà da fare per morire non per vivere. E’ l’idea forte del racconto. Mi ha fatto pensare ai dannati danteschi in attesa del naviglio di Caronte che trasformano la “tema” in “disio”. Ma, forzando, ho pensato anche a una allegoria dell’Italia invecchiata d’oggi. Dal punto di vista narrativo l’idea è ben svolta con variazioni, colpi di scena e trovate un po’ cabarettistiche (nel finale). Il tutto sotto la regia di un narratore intellettualmente anche un po’ sadico che dà sfogo al suo umorismo nero. Non manca la rivolta dell’individuo (la signora della Smith & Wesson), che non vuole rispettare il gioco sociale”. (Da una mail di E. A. all’autore)

Erano venticinque le persone accalcate dinanzi alla porta di servizio alle otto di mattina. In prevalenza uomini, età media trent’anni, facce meste, qualche bisbiglio.

– Che aspettate per entrare, che vi chiamino da dentro? – domandò uno spilungone in camice bianco uscito dal laboratorio, fermandosi a una certa distanza da loro.

Delusione: ecco il motivo per cui indugiavano. Avevano immaginato che sarebbero entrati tutti insieme, spalla a spalla, petti e schiene quasi a contatto, così ciascuno avrebbe avuto meno emozioni, meno paura. Invece avevano trovato aperta solo la porta stretta.

– Che aspettate, che vengano fuori loro? – li canzonò lo spilungone sforzando adeguatamente la voce.

Contriti più del necessario, gli occhi a terra come chi attraversa la folla dei crucifige scortato dagli sbirri, varcarono la soglia della camera mortuaria uno dopo l’altro, trattenendo il respiro, sùbito abbacinati dal riflesso delle luci fosforiche sulla maiolica bianca.

Per vedere i due morti dovettero oltrepassare il vestibolo e i sei tramezzi che dividono la camera mortuaria in altrettante celle. Perché i becchini li avevano relegati là in fondo, visto che gli altri tavoli erano sgombri? Una spiegazione plausibile, chi la cercava la trovò. Perché si trattava di suicidi.

La donna, tailleur verdemare, giaceva sul tavolo attaccato al muro; l’uomo, giacca blu e jeans, su quello vicino al tramezzo. Un foulard nascondeva l’ematoma sulla gola, un berrettino la fronte sfondata.

I venticinque visitatori erano tutti ospiti del Porfirio.

Il Porfirio è uno dei sei padiglioni del Centro di Disintossicazione. Sei edifici di sei piani, intonaco bianco e finestre scure, disposti a corona, in simmetria. A livello del suolo sono collegati tra loro da manicotti di vetroresina, in modo da disegnare un esagono sulla radura a nord del parco. I manicotti, alti fino al primo piano, partono dai fianchi di ciascun edificio, virano di centoventi gradi nel punto in cui la geometria impone lo spigolo, e proseguono fino al fianco dell’edificio successivo. Logicamente c’è simmetria anche nel giardino interno. I viali che separano le sei grandi aiole triangolari convergono in uno spiazzo, dove è situata una vasca esagonale da cui si innalza un getto d’acqua. Che però non raggiunge i sei metri di altezza previsti.

I venticinque sostavano dinanzi ai cadaveri uno alla volta. Chi per qualche secondo, chi più a lungo, chi muto, chi proferì un ciao, chi un arrivederci. Rigidi nei movimenti. Quasi anchilosati. Sguardi spicciativi. Come per non vedere. O indugianti, curiosi anche dei dettagli. Lacrime niente. Nemmeno le donne. Nemmeno gli amici più intimi.

Via via che uscivano dalla camera mortuaria si recavano difilato al salone delle feste.

Quei due si erano uccisi lo stesso giorno, alla stessa ora. Sincronismo fortuito? Non da scartare, come ipotesi. Ma era automatica la persuasione che si fossero messi d’accordo. Dall’analisi dei motivi (presumibili) di quell’accordo (presunto) era scaturito il progetto di spopolamento del Porfirio che i venticinque, assieme agli altri compagni di padiglione, dovevano attuare in giornata.

Il salone delle feste si trova in una costruzione di un solo piano a base pentagonale che sorge nel mezzo del parco. I primi ospiti del Centro, per economizzare sulla fantasia, la battezzarono “il Pentagono”. È intonacata di bianco come i padiglioni. I vetri delle finestre però sono trasparenti. Oltre al salone ci sono due sale di lettura, la biblioteca e l’aula degli audiovisivi. Sulla terrazza è installato, dentro apposito chiosco a cupola, un telescopio ottocentesco. Ottimo, ancora oggi, per ravvisare i crateri della Luna, i satelliti di Giove, gli anelli di Saturno ecc. Lo donò al Centro un osservatorio ormai attrezzato per la radioastronomia. Avrebbe dovuto suscitare negli ospiti curiosità, interessi, recuperi di vecchi hobby. Il neolaureato offertosi come istruttore rimase sulla terrazza sei notti, una per padiglione. Non si presentò nessuno. La porticina del chiosco fu chiusa con un lucchetto. Talvolta, a chi sale sulla terrazza per sottrarsi al caldo del salone o alla noia della festa, se la notte è suggestivamente dotata di luna e stelle, càpita di pensare che il telescopio possa fornirgliene una visione ancora più romantica e così prova a svellere il lucchetto con le mani, magari puntando un piede contro lo stipite, ma naturalmente non ci riesce. Nessuno ha la pazienza di andare a prendere la chiave in portineria.

Nel salone delle feste si erano già radunati quegli ospiti del Porfirio che, o non avevano mai conosciuto i due suicidi, o temevano di svenire appena messo piede in una camera mortuaria. Fatto l’appello, il coordinatore delle attività ricreative domandò se qualcuno avesse mutato coscienza e ora intendesse esimersi dall’attuazione del progetto. Ovverosia del progetto – puntualizzò con la consueta enfasi, stavolta più affettuosa che severa – che tutti indistintamente gli ospiti del Porfirio avevano approvato e sottoscritto. Fu corale la risposta: nessuno aveva mutato coscienza. Bene! Ma lui, come l’educatore a cui la docilità dei suoi pargoli non basta se non è pure entusiastica, ripeté la domanda. Fu corale e stentorea la risposta: nessuno intendeva esimersi dall’attuazione del progetto. Bene, benissimo! Non restava che dividersi in gruppi. Ecco i fogli numerati. Prego, firmare su quello corrispondente al turno più congeniale. Il foglio n. 1 e il foglio n. 11, l’ultimo, risultarono i più ricchi di autografi. Comprensibile che fossero parecchi quelli che preferivano evitare l’ansia dell’attesa. E che non fossero meno numerosi coloro che, per prepararsi, volevano poter disporre di tutto il tempo consentito. Solo per prepararsi? O magari anche per divertirsi, fino al decimo atto, a osservare i comportamenti altrui? Chi lo sa… Il progetto riguardava solo gli ospiti del Porfirio. Quelli degli altri padiglioni non ne sapevano nulla. Né alcuno degli infermieri aveva avuto sentore che al Pentagono si stesse celebrando qualcosa di diverso da una festa di compleanno.

I cinque aiutanti del coordinatore presero dallo scantinato le brande e le piazzarono a scacchiera nel salone. Sùbito vi si sdraiarono i componenti del primo gruppo – foglio n. 1 – accomodandosi i cuscini in modo da restare col busto semieretto. Così ognuno avrebbe potuto guardare in faccia le persone che gli si fossero sedute accanto. Le sedie furono prelevate dalle sale di lettura con un andirivieni che sprigionò allegria. Sedevano ai lati del giacente i suoi amici. In genere era il più umorista della cerchia colui che scioglieva lingue e timidezze fingendosi addolorato, per esempio, che dei quadretti così edificanti, col morituro in posa testamentaria fra morituri in posa da dame di compagnia, andassero perduti per il mondo esterno solo perché non avevano invitato le televisioni. Chi aveva due o più amici fra i giacenti faceva la spola tra una branda e l’altra. Chi non ne aveva affatto se ne stava educatamente seduto o in piedi vicino alle finestre.

Ai giacenti fu servita una tazza di liquido scuro con due bustine di zucchero e un cucchiaino. Una donna riempiva le tazze attingendo col mestolo da un pentolone collocato nell’angolo bar. La chiamavano la madrina delle feste, perché per ognuna preparava la bevanda adatta, secondo le intenzioni degli organizzatori. Questa volta le sostanze mescolate al tè non dovevano provocare né eccitazione sessuale né ebbrezza, ma solamente un trapasso dolce preceduto da una brevissima fase di torpore. E dovevano dare la possibilità di parlare lucidamente finché non si fosse deglutito l’ultimo sorso. Per protrarre la conversazione, e quindi la vita, bastava prolungare gli intervalli fra un sorso e l’altro.

Il più sbrigativo nel bere la pozione balbettò qualche parola di addio e chiuse gli occhi. Dopo neanche un minuto il suo respiro si arrestò.

Una donna di mezza età del secondo gruppo confessa di avere cambiato idea. Il coordinatore delle attività ricreative stenta a crederci. Eppure è così. La donna dice di aver osservato giacenti e assistenti, di essersi immedesimata negli uni e negli altri. Ebbene? Quel cerimoniale le ha dato il voltastomaco. Addirittura! Dal suo punto di vista, intrattenersi in chiacchiere non è che narcisismo e ipocrisia… Che c’è sotto le chiacchiere? Che c’è sotto l’ostentazione di serenità, di compostezza, del come se niente fosse? Un’agonia bella e buona. Senza spasimi, senza rantoli, d’accordo. Ma pur sempre agonia. Recitare l’autocontrollo, lo stoicismo, mentre a tutti gli effetti si sta agonizzando, è soltanto una tortura per chi, come lei, non sa che farsene dell’eleganza del cerimoniale quando sono in gioco le cose nude e crude. Le pochissime persone che ritiene amiche le ha già salutate. Non c’è pericolo che nell’ultima mezzora di vita le escano dall’ego o dal super-ego frasi memorabili. Perdipiù le sembra una scemenza imitare antichi modelli di morte dignitosa costruiti su misura per i libri di scuola. E siccome quella degli ultimi istanti di vita è l’unica vera assoluta incommensurabile solitudine che gli uomini possano soffrire – o godere – lei a quell’esperienza non ci rinuncia. Per farla breve, vuole morire a modo suo, cioè in quattro e quattr’otto e senza teatralità.

C’era da aspettarselo che quella lì avrebbe fatto l’anticonformista anche in questa occasione. Tale il commento di un’ex compagna di stanza. L’aiutante esperto in diritto, che ha captato la malignità, sente il dovere di castigarla. Conformismo e anticonformismo sono atteggiamenti che si assumono per vivere, dice, non per morire. Cenni di assenso. Inoltre, poiché il progetto si è tradotto in una manifestazione di volontà, vale a dire in una promessa scritta e liberamente sottoscritta, ossia in una specie di negozio giuridico unilaterale, la si deve evincere, la risoluzione del caso, dallo spirito e dalla lettera del testo. Giustissimo! Ma che significa? Significa che il testo sottoscritto non esclude che uno possa rincantucciarsi lungi dalla moltitudine e bersi la pozione tutta d’un fiato.

La donna di mezza età rivolge uno sguardo di gratitudine all’aiutante, ma poi scuote il capo ed estrae dalla borsetta una pistola Smith & Wesson calibro 45… Stupore. Tutti ipnotizzati dall’arma come se fosse un marchingegno capace di rendere invisibile la gente. Appena le espressioni si normalizzano, in alcuni la voglia di usare la pistola, come si è affacciata così è sparita; altri se la giostrano nella testa pur sentendosi lungo le cosce la pelle d’oca. Tre di coloro che hanno fatto parte della cerchia del primo morto, il più sbrigativo nel vuotare la tazza, chiedono di poter usufruire dell’arma appena possibile. Anche l’esperto in diritto si prenota. Un altro aiutante si associa. Il coordinatore sbotta. Eh no! Siamo già alle spaccature? Vergogna! Ci siamo resi conto che non eravamo sufficientemente corazzati per vivere, più nessuno voleva sopravvivere aggrappato alle utopie, si è razionalizzato l’essere e il non essere, abbiamo solidarizzato perché il fine era lo stesso per tutti, si è progettato e ci si è organizzati tecnicamente, si è rinunciato alla eventuale ispirazione del momento, ci si è impegnati per la vita e per la morte a rispettare il patto, tutti, dal primo all’ultimo, e che succede? Succede che qualcuno lascia libero sfogo alle pulsioni della sensibilità, di quella sensibilità che fu la causa delle nostre intossicazioni. E come se non bastasse, due aiutanti, due membri del direttivo, invece di contribuire alla regolare attuazione del progetto, si comportano come i bambini che si incapricciano del giocattolo altrui. Vergogna più vergogna! Non è ammissibile che proprio loro riattivino quelle frenesie di individualismo che ciascuno ha ripudiato prima di entrare nel Centro. Con loro non voglio più avere nulla che fare, non voglio il loro aiuto, li considero decaduti da membri del direttivo. Lo sfogo viene accolto con borbottii di consenso, gli aiutanti ridacchiano.

La donna di mezza età, mostrando in giro la pistola, indica gli alveoli del tamburo… Delusione. Tutti vuoti meno uno. Un solo proiettile, come nella roulette russa. Se non è per anticonformismo, perché vuole morire di pistola? Da quanto tempo la possiede? È stata mai sul punto di? Quesiti leggibili senz’altro sui volti corrucciati, un po’ meno su quelli allocchiti. La donna risponde col tono della persona stanca di ripetere cose già dette. Forse dette solo a sé stessa. Aveva deciso, quasi programmato, di premere il grilletto nella propria casa, sul proprio letto, con l’assistenza di Schubert, La morte e la fanciulla. Ma il destino, il suo personalissimo destino, l’aveva spinta lontano da casa, sempre più lontano, balordamente. Masochisticamente. Poi l’aveva illusa che la pistola non le sarebbe servita mai più. Questa la carognata peggiore. Lei si era difesa dai successivi pestaggi del destino facendo a meno di essere sé stessa, inventandosi una personalità remissiva che le consentisse di trovare ragionevoli e sopportabili anche i pestaggi, o di dimenticarli dall’oggi al domani – per voi, suppongo, non sarà stato molto diverso – finché era giunta al padiglione Panezio e quindi al Porfirio. Ormai è la stanza 132 del Porfirio, la sua casa. Perciò vuole morire là. Dove c’è il suo letto. Dove poche ore prima ha pianto per l’ultima volta. Dove c’è l’amatissimo Schubert…

Il coordinatore la scongiura di non rientrare al Porfirio. Lo sparo sarebbe udito dalle donne delle pulizie che darebbero l’allarme. Medici e dirigenti verrebbero di corsa al Pentagono per controllare, per indagare. Blocco delle operazioni, lavande gastriche, antidoti. E gli ancora vivi, per il voltafaccia di uno solo, si ritroverebbero di nuovo intossicati dal bisogno di morire. E a dover ricominciare tutto da capo. E questa sarebbe la peggiore condanna, peggio che aspettare il colpo di grazia a mente lucida. La donna allora rinuncia alla propria stanza, al proprio letto, a Schubert, ma non al proiettile. Uno le suggerisce di spararsi nel parco, il verde è rilassante; un altro nell’aula audiovisivi, con l’assistenza di una videocassetta qualunque.

Il coordinatore domanda se i presenti gli riconoscano ancora una funzione oppure no. Gliela riconoscono. Ebbene, lui ammetterà l’uso della pistola a due condizioni. Prima: che questa deroga alla procedura sia approvata da tutti. Seconda: che, in caso di approvazione, tutti si impegnino a non chiedere altre deroghe. Obiezioni? Nessuna. Aspettiamo che tutti i compagni del primo turno finiscano di bere. Ecco, hanno finito, hanno cessato di respirare. Coloro che si sono intrattenuti con i giacenti si avvicinano, il coordinatore li informa della novità. Seguono brontolii, mugugni, dubbiosità, così non va, si comincia e non si sa dove si finisce, inventarsi lo scarto dalla regola è facile, il problema è come seguitare a credere che sia giusta la regola, critiche, resistenze, dispareri. Alfine si votano le due condizioni. Nessun contrario, nessun astenuto. La donna si dirige verso la biblioteca con passo spedito.

Nel salone si tace. Occhi calamitati dalla porta che la donna ha richiuso. Tesissimi i timpani. Per almeno tre minuti. Dalla biblioteca non giunge il minimo rumore. Si riprende a parlare, ma sottovoce, con quel disagio che ogni aspettativa delusa porta con sé. Il coordinatore fa segno alla madrina delle feste di riempire le tazze del secondo gruppo. Vengono piazzate altre brande, si spingono fino alla parete senza finestre quelle con i morti, dopo averne tolto i cuscini. Prendono posto accanto ai nuovi giacenti i loro amici. Però le conversazioni stentano ad avviarsi, e anche quando si è superato il ritegno iniziale procedono a spizzichi, forzate dalla necessità di emettere suoni, non di significare. Nessuno vuole distrarsi del tutto dal piacere di immaginare che cosa stia facendo la donna aldilà della porta. Forse starà cercando quel film in cui si è riconosciuta più che in qualsiasi altro, forse starà facendo scorrere il nastro fino a quella scena che anche nel ricordo le strappava il cuore, forse starà sussurrando alla pistola parolette infantili… Le tazze sono pronte sul carrello. Un aiutante lo spinge, un altro le distribuisce. Una giacente sta chiedendo altre cinque bustine di zucchero per risarcirsi in extremis di tre decenni di dieta ipoglicemica, allorché… lo sparo. Tutti si girano verso la porta della biblioteca. Il silenzio è totale, assecondato dalla staticità dei corpi. Chi stava portando la tazza alla bocca resta con la tazza a mezz’aria. Come una scultura realistica. Solo uno si muove, il coordinatore. Con circospezione, quasi temesse di disturbare, entra nella biblioteca. Quando riappare nel salone non c’è sguardo che non lo interroghi, il silenzio ora è paragonabile solo a quelli sovrumani o metafisici. Lui risponde col gesto che significa fine di tutto.

Nessuno dei giacenti del secondo turno biasimò la donna della Smith & Wesson. Nessuno la lodò. Dalle conversazioni fu escluso ogni accenno al cambio di procedura. Volevano mantenersi atarassici. D’altronde, cosa si può dire della smania di cambiare che ti formicola sotto la pelle alla fine del percorso, quando hai chiuso con tutto, quando la sola paura che hai – in quanto umanamente obbligatoria e insopprimibile – è quella dell’ignoto? Si può dire che è una smania rispettabilissima, legittimissima, certo. Ma qualora venga soddisfatta, nulla vieta che il nuovo strumento di morte prescelto risulti anch’esso deludente, non calibrato sulle proprie debolezze. E così se ne cercherebbe un altro, e un altro, e un altro ancora, magari dolendosi che nelle vicinanze non ci sia un vulcano in cui diruparsi o di non poter disporre dell’aspide di Cleopatra… Paradossalmente si finirebbe per assomigliare a Bertoldo, che potendo scegliere l’albero al quale essere impiccato, non trovava mai quello di suo gusto.

Fra i giacenti c’era chi preferiva raccontare di sé e chi discutere di problemi vagamente filosofici. Affabulazione e dialettica. Spie infallibili del carattere, ancora più veritiere quando ci si affida all’una o all’altra per l’ultima volta. Racconti e discussioni, però, avevano un denominatore comune: lo humour. Lo humour continuo, sistematico, vissuto in maniera non diversa dall’ubbidienza a una convenzione antropologica. Ci si sentiva in dovere di ridere o di sorridere. Come se non si potesse fare a meno di raschiar via dai fatti una parte della loro dura realtà. Come se non si potesse fare a meno di svuotare i problemi di una parte del loro serio significato. Per fare spazio a che cosa, poi? Alla citazione – anch’essa ironica, ma più mesta – di eventi della vita propria o altrui che sarebbe stato bello se si fossero verificati o fossero stati capiti. E questo non era altro, in sostanza, che un modo per rendere decorosi gli sfoghi, e soprattutto per camuffare i rimpianti… Tutti camuffatori, sicché? No, qualcuno c’era, che si sottraeva all’affabulazione, alla dialettica, allo humour. Perfino a quel rimpianto inconscio che è implicito in ogni narrazione, qualunque ne sia la forma espressiva. E come si sottraeva? Tacendo?… Sì, ovviamente. Ma dopo aver indotto gli amici a parlare di lui. Per gustarsi il proprio necrologio.

Placida dunque, fra il vario stile delle voci, la zona delle brande. Agitatissimi, invece, coloro che non avevano amici fra i giacenti. Ad alcuni ora sembrava assurdo che la Smith & Wesson dovesse restare un’eccezione. Basta con le lungaggini del veleno! Basta con le chiacchiere posticce! Posticce e a perdere, visto che nessuno ha avuto tanta fiducia nei posteri da portarsi appresso un magnetofono. Basta con il sudore freddo delle attese interminabili nell’anticamera della tortura!… Ma altri, non meno combattivi, si ergevano a difesa della pozione a effetto mirato e dell’intrattenimento pre-trapasso. Perché cambiare, se tutto procedeva regolarmente, addirittura esemplarmente? E rispettiamoli, suvvia, gli impegni! Si eviti almeno oggi, giacché non ci sarà un domani per fare ammenda, di lasciarsi prendere dalla cialtronaggine!

Ormai era lite. Per non molestare con le grida i giacenti sulle brande e chi gli faceva compagnia, i fautori della morte fulminea si esiliarono in una sala di lettura. Dove, proclamatisi minoranza autonoma, per qualche minuto meditarono sulla propria scorrettezza. Dovuta non a cialtronaggine, dichiarò un ex pubblicitario, ma solo a una rivalsa degli umori fino allora repressi sulla razionalità fino allora dominante. Cioè rivalsa del principio del piacere sul senso del dovere. Ben detto! Applausi. Poi si scatenò la ridda delle proposte sul come morire diversamente. Proposte perlopiù strampalate, o selvagge come quelle che possono erompere soltanto da una fantasia imbavagliata fin dalla fanciullezza. Eppure giustificatissime. Non era quella la loro ultima occasione per sbizzarrirsi? Sì. Ebbene, ciascuno ne approfittò per esprimere, attraverso l’indicazione di inattuabili tecniche di morte, la propria concezione del mondo, o la propria utopia, o semplicemente un’idea che aveva sognato di tradurre in film.

Si riconobbe alfine che, per morire in gruppo, il solo mezzo idoneo era l’esplosivo.

Raccolto il denaro, due giovanotti con un passato di compravendite malandrine uscirono in cerca. Meta la catapecchia del cinese a est del parco, sulla strada che collega il Centro alla città. Il cinese vendeva a prezzi da ricettatore le merci tassate, a prezzi esosi le proibite. Sotto la catapecchia c’era una grotta come quella dei Quaranta ladroni. Ascoltata a capo chino la richiesta, il cinese si cacciava in un bugigattolo, serrava la porta col catenaccio – non c’era cliente a cui non venisse l’uzzolo di seguirlo nella grotta – e scendeva fra i suoi tesori.

I due giovanotti ritornarono trionfanti. Uno portava una cassettina di legno piena di tritolo con corredo di miccia e capsula detonante; l’altro una bomba ananas molto più grossa di quelle che si lanciano a mano. Mai vista una simile, disse l’esperto in ordigni, un ex terrorista. Comunque, ai sette che decisero di avvalersene, due donne e cinque uomini, ciò che interessava era la potenza, e quella bomba garantiva strage. Ben diciannove scelsero il tritolo. Troppi per quella esigua quantità. L’esplosione ne avrebbe lasciato in vita più di uno. Che fare? Non l’esperto in ordigni, ma una donna, un’ex indossatrice, trovò la soluzione. Questa: minare un edificio e farselo crollare addosso. Elementare. Si pensò al Porfirio. Il padiglione era vuoto di ospiti, giacché si trovavano tutti quanti lì. A quell’ora era vuoto anche di medici e infermieri. Unica presenza di vita le donne delle pulizie, due per piano fino a mezzogiorno. Sarebbe stato il non plus ultra dei crolli. Perché li avrebbe schiacciati tutti e diciannove e avrebbe scioccato l’opinione pubblica. Specie quella stragrande maggioranza che ammette, come causa di suicidio, solo il vissuto individuale e mai la degenerazione del vivere sociale.

Far crollare il Porfirio, però, era impossibile. Non a causa delle addette alle pulizie. Per quelle bastava azionare l’allarme incendio: sarebbero scese in un attimo. Non era possibile a causa della sproporzione fra il mezzo e il fine. Tale il responso dell’esperto, ma lo avevano già capito anche i profani, che per buttare giù il Porfirio di cassette ne occorrevano almeno una ventina. Il cinese, dissero i giovanotti, non aveva altri esplosivi, i rifornimenti gli sarebbero arrivati fra tre giorni. Rinviare? Neanche per sogno. Sarebbe stata un’offesa ai già morti non concludere le operazioni in giornata. Ai già morti, a quelli che stavano bevendo la pozione e a quelli che l’avrebbero bevuta. Inoltre, rinviare sarebbe stato come prepararsi a tradire sé stessi, perché nessuno avrebbe più sentito, di lì a tre giorni, la medesima coazione alla morte che sentiva adesso. E allora? Procedere comunque, all’aperto, nonostante le probabilità che qualcuno restasse in vita? I sopravvissuti allo scoppio sarebbero stati costretti a tornare nel salone come dei falliti. Troppo mortificante. E allora? Rischiare? Non rischiare? Nelle teste ristagnava il dilemma, dalle bocche uscivano monologhi di sconforto. Quand’ecco che sobbalzarono teste e bocche per un grido di marinaio sulla coffa. Infermieri in vista? No. Avvistamento, o meglio, individuazione di una struttura muraria adeguata alle piccole quantità. Davvero esisteva? Sì. Raggiungibile? Altroché. Dunque evviva. La scopritrice, una ex estetista, si divertì a tenere sulla corda l’uditorio per un bel po’ prima di svelare quale fosse la struttura. Come non averci pensato sùbito, si rammaricarono i due cervelloni del gruppo, ex campioncini di scacchi. Era il mulino la struttura adeguata. Un mulino che faceva archeologica mostra di sé all’estremità meridionale del parco, sulla sponda di quel magro scorrere di acque che prima della canalizzazione era stato un fiume. Abbandonato chissà da quale epoca, non aveva più la facciata, ma era pur sempre una costruzione a due piani. Spessi muri di pietra, travi semimarcite, e una torre che ancora si elevava di sei o sette metri da un angolo del tetto, dopo aver resistito per secoli ai banditi e agli affamati della zona.

La cassettina viene collocata alla base del muro maestro centrale. I diciannove del tritolo si congedano con baci e abbracci dai sette della bomba. Chi a passo meditativo, chi più sciolto, entrano nel mulino. Solo uno si gira per stamparsi nella rètina il mondo che lascia. Si raggruppano dove il rischio teoricamente è zero. Il rischio di restare vivi sotto la schiaccia. Sopra di loro, infatti, c’è la massima densità di pietre: c’è la torre. Sul prato, a ragionevole distanza, i sette della bomba assumono pose da spettatori.

Fra i morituri si sorteggia. Con calma, con meticolosità. Il sorteggiato va, accende la miccia, la mano non gli trema, e si riunisce agli altri in tutta fretta. La miccia sfrigola. Brucerà in pochi secondi, aveva detto il cinese. Invece è a combustione lenta e di lunghezza calcolata per durare sessanta secondi. I morituri fremono per il ritardo a sorpresa, hanno paura che aumenti di un’eternità a ogni battito del cuore e li costringa a dibattersi fra altre paure, quelle che in un lampo disintegrano la volontà. Ma rimangono muti. I sette spettatori, occhi sgranati e bocche socchiuse, sono in preda a una tensione fanciullesca. Sicuro, crolli di edifici ne hanno visti. Ma dove? Su uno schermo. Il fatto di poter udire un boato e non la sua registrazione in scala ridotta; di poter vedere nientemeno che lo sbriciolarsi di una torre, li rende dimentichi anche di sé, non solo dei diciannove entrati nel mulino. L’attesa esigerebbe silenzio. Ma il ruscello scorre nel tratto più accidentato dell’antico alveo e il rumore è di quelli che rallegrano i picnic. Gli uccelli, cessato lo spavento per l’invasione del territorio, hanno ripreso l’attività e naturalmente comunicano tra loro. L’esplosione li azzittisce.

Tutto qui? si domandano gli spettatori. Solo questo scoppietto da bottiglia molotov? Che cosa era, un petardo? L’esperto in ordigni ipotizza una truffa. Poche le cartucce buone. Quelle non esplose hanno lo stesso aspetto, lo stesso peso, ma sono costituite di materia innocua. Forse argilla. Basta guardare gli effetti. La torre presenta una crepa irrisoria. Le travi semimarcite sono a malapena dissestate. Si è prodotto però un polverone dal quale escono tossendo e imprecando, ma indenni, gli ex morituri.

Comprensibile la rabbia, ancora più giustificato il dolore di ritrovarsi vivi dopo aver consumato tutte le risorse della razionalità per mantenere il dominio di sé in quel minuto di attesa. Alcuni vorrebbero precipitarsi dal cinese per dirgliene quattro e farsi restituire i soldi. No, meglio attendere l’esito dell’ananas. In caso di cilecca si chiederebbe la restituzione dell’intera somma. I sette che hanno scelto di farsi dilaniare dai quadrelli di ghisa cercano il luogo adatto per la bomba. Guardano di qua e di là, suolo morbido e cespugli. Non resta che farla esplodere nel mulino. Pazienza. Avrebbero preferito morire in piena luce. Ma uno scopre che sotto i suoi piedi, sotto l’erba, c’è la pietra. È la piazzola dove i carri scaricavano granaglie o caricavano farine. A strappare i ciuffi d’erba e a togliere lo strato di terra provvedono tutti e sette insieme. La piazzola è piccola, perciò si intralciano, si urtano ripetutamente, come in una comica.

L’esperto in ordigni informa che il raggio di proiezione delle schegge è di circa sessanta metri e si allontana. Gli altri diciotto delusi del tritolo lo seguono fermandosi chi a settanta metri, chi più in là, nella fascia di terreno cespuglioso che si estende tra il ruscello e il bosco. Questa volta dalle facce traspare inquietudine. Tutti si figurano corpi squarciati, pezzi sparsi sull’erba, budella e sangue, parecchio sangue. I sette, con movimenti che da lontano sembrano ieratici, si chiudono in circolo sulle pietre diserbate. Il compito di staccare il dispositivo di sicurezza spetta al più anziano. Lui esegue. Un istante dopo, il designato per l’ultimo adempimento, il più giovane, solleva la bomba al di sopra delle teste. Gli uccelli gorgheggiano, il ruscello gorgoglia. Ma morituri e spettatori non percepiscono né rumori né suoni. Ciascuno è calato nel silenzio della propria attesa. Il designato lascia cadere la bomba. Non esplode.

Si seguita a tacere. Negli spettatori meno apprensivi il ricordo di vecchie scene di suspense provoca distrazione. Càpita anche di accorgersi del fascino austero del mulino, càpita di considerare che basta un rudere per velare di malinconia un paesaggio. Il designato riafferra la bomba, la risolleva – i suoi compagni di cerchio si tengono per mano, ora forse un po’ trepidanti – chiude gli occhi, lascia… Ancora nulla. L’esperto in ordigni sussurra al vicino che una bomba ananas, o scoppia entro quattro secondi dall’urto, o non scoppia più. Poiché il designato ignora il funzionamento delle ananas, non dispera. Va a prendere una grossa pietra e digrignando i denti, come se volesse schiacciare il cranio del più odiato nemico, la precipita sulla bomba. Che neppure questa volta esplode. E lui non dispera neppure adesso. Capovolge l’oggetto del suo odio. Lo colpisce di nuovo con la pietra. Nulla. Riprova. Nulla. Gli spettatori si riavvicinano. Lui dice che al cinese bisogna rompergli la faccia. E gli occhi gli si riempiono di lacrime.

Nel frattempo, al Pentagono, era accaduto l’imprevedibile. Gli iscritti del primo turno, che avevano bevuto la pozione conversando con gli amici, che si erano irrigiditi dopo l’ultimo sorso, che avevano esalato l’ultimo respiro, che erano stati allineati, ciascuno sulla propria branda, lungo la parete senza finestre… ebbene, non erano morti. Come? In che senso? Nel senso che si erano riavuti da quel blocco totale delle funzioni psichiche e fisiche che altro non avrebbe dovuto essere se non morte. La morte clinicamente e legalmente ratificabile che tutti loro avevano voluto. E che invece si era rivelata morte apparente, sonno profondo.

Si svegliavano l’uno dopo l’altro secondo l’ordine dei decessi. Dei loro virtuali decessi. Primo colui che era stato il più sbrigativo nel vuotare la tazza. A mano a mano che riacquistava consapevolezza, che ricordava ciò che aveva fatto quella mattina – camera mortuaria, salone, firma sul foglio n. 1, conversazione e bevuta – a mano a mano che si sbalordiva di trovarsi sulla branda sentendo che fra poco sarebbe riuscito ad alzarsi, a urlare di essere stato ingannato… il suo intelletto si ingorgava in uno sbigottimento più atroce di tutte le sofferenze passate. Che vita rimane da vivere a un uomo carpito con la più sadica delle beffe alla morte autoinflitta? Già immaginava che sarebbe stato torturato da ogni pensiero, da ogni respiro, e dalla ricerca di un cataclisma che lo inghiottisse. Di un cataclisma, sì. Perché già si rendeva conto che non avrebbe avuto più il coraggio di fare da sé.

Si svegliavano l’uno dopo l’altro, riprendevano coscienza del luogo, ricordavano, si sbigottivano, si alzavano dalle brande, si muovevano qua e là come zombi, si domandavano perché tutto ciò, venivano assaliti da fitte di angoscia, scoppiavano in pianti convulsi, si sedevano per terra, gridavano una volta o due che non volevano ricominciare a vivere, e rimanevano immobili con le teste pendenti, come marionette accantonate. Poi silenzio, un silenzio di landa ghiacciata. Che durò tante singole eternità. E quando alcuni smisero le posture da incantesimo, i loro movimenti sembravano proiettati al rallentatore su una molteplicità di schermi. Chi provava a dire qualcosa aveva l’impressione che le parole si congelassero nell’aria prima che i suoi vicini potessero udirle. E non terminava la frase. Disperazione apocalittica, quella dei risvegliati. Aldilà di tutte le comprensioni e immedesimazioni possibili. Di altra specie, e più tollerabile pur con i suoi picchi di vertigine, quella di chi fino allora aveva vissuto l’attesa del proprio turno. Identica tuttavia la fissità nel vuoto… Cominciavano ad alzarsi dalle brande i morti del secondo turno.

Tornando dal mulino, mogi come tifosi di una superba squadra di calcio stracciata in casa dall’ultima in classifica, i delusi del tritolo e della bomba si aspettavano gli sfottò dei ligi al progetto. Invece, non vedendo giacenti, gli si allargò il cuore. Durante la loro assenza, dunque, il dogma della pozione era stato convertito in altre tecniche. Se ne compiacquero. Sùbito dopo, però, identificando fra i vivi quelli che avevano visto morire, allibirono. E si infuriarono. Ma allora, l’irrigidimento delle membra e la cessazione del respiro erano state solo apparenze? Niente altro che fachiresche apparenze? E la pozione cosa era? Il sonnifero di Giulietta? Loro sì, si erano mantenuti fedeli al progetto. E sarebbero morti davvero, come la donna della Smith & Wesson, se il cinese non li avesse truffati. Ma chi era quel mostro che aveva architettato la beffa?

Il coordinatore stava seduto in disparte, faccia al muro. Gli rivolsero domande, non rispondeva. Lo tempestarono di improperi, non reagiva, pareva inebetito. Uno dei delusi lo accusò di essere un infiltrato della lega anti-suicidio. Come poteva essergli venuta in mente, sennò, la beffa della morte finta? Allora il coordinatore disse basta, salì sulla sedia, e con toni da quaresimalista scaricò la colpa sui risvegliati. Precisamente. Non su colei che aveva preparato l’intruglio. Urlò che erano degli ipocriti, dei vigliacchi, degli imbroglioni. Che avevano sì bevuto la pozione, ma dopo essersi mitridatizzati, ciascuno all’insaputa degli altri, con antidoti chimici e farmacologici a effetto ritardato. Uno schifo mai visto, gridò, e si risedette affranto.

Ipocriti? Vigliacchi? Imbroglioni? Come si permetteva, il coordinatore, di buttare in menzogna le ragioni che avevano spinto ciascuno di loro a sottoscrivere il progetto? Come osava imputare di imbroglio gente che la mitridatizzazione nemmeno sapeva cosa fosse? Se prima era inebetito, ora senz’altro delirava. Sì, delira, ma non per questo è meno colpevole, si urlava. Sì, delira, ma non deve passarla liscia. Nessuno, però, indicava la pena. Quando finalmente lo strepito contro il reprobo si diluì nella superiorità del disprezzo o della commiserazione, un ex assicuratore disse che, a parte tutto, finché si è animali sociali si ha l’obbligo di festeggiare coloro che ritornano, che si rifanno vivi nonostante la decisione di non farsi vedere mai più. Li si deve festeggiare sia per consolarli dello smacco di essere dei reduci non attesi, sia per manifestarla anche a loro, senza vergognarsene, la gioia di non trovarsi nei loro panni. Perché la nostra cultura vieta che si faccia festa per una partenza o una dipartita? Semplice: perché si festeggi il ritorno a casa o il ritorno in vita. Non è così? Dunque ciàc, azione!

Da ripostiglio e frigorifero sgorgarono vini, bevande analcoliche, patatine, arachidi, popcorn, salatini, pistacchi e biscotti. Niente superalcolici, nel Centro erano proibiti. Le bocche sgranocchiavano rievocando lo sgomento nell’aderire al progetto, la tensione spasmodica delle ultime quarantotto ore: tutto sprecato. A un tratto, colui che nelle feste fungeva da disc jockey, un ex bancario, pigiò il tasto degli amplificatori. Alcuni cominciarono a ballare da soli, si formò qualche coppia. Gli afflitti per essere tornati in vita bevevano come chi vuole ubriacarsi in fretta. Due di loro, a cui il repentino passaggio dalla volontà di morte alle danze sembrava una pagliacciata, sparirono dietro la porta della biblioteca. Si pensò che volessero tenere la propria disperazione al riparo dai decibel. Invece trascinarono nel salone la donna della Smith & Wesson, l’unico morto che il progetto di spopolamento del Porfirio fosse stato in grado di produrre.

Che cosa speravano di ottenere, i due? Che la macabra presenza facesse cessare la festa? Evidentemente la vita aveva ancora molto da insegnargli. Il cadavere rimase al centro della indifferenza generale. Finché gli aiutanti lo adagiarono su una branda coprendolo con due poster staccati dal muro. Altri afflitti, a cui il vino aveva infuso aggressività, decisero di processare chi aveva preparato il beverone. La madrina delle feste? No, niente più madrina: fattucchiera bisognava chiamarla. E le fattucchiere, da che mondo è mondo, vanno punite. La donna se lo aspettava, il processo. Anche di peggio. Tanto che aveva rimuginato propositi di fuga. Ma perché svignarsela, se era innocente? La colpa, lo disse e lo ripeté in tono risentito, da parte lesa, era del farmacista e dell’erborista che le avevano venduto gli ingredienti. Truffatori anche loro, né più né meno del cinese. Lei si era limitata a far bollire polveri ed erbe. Per avvalorare la propria difesa, rammentò agli afflitti venuti per punirla che lei era stata la prima a sottoscrivere il progetto, lo sognava da un decennio. Ah sì? E allora perché, dopo tanto sognare e primeggiare, si era firmata per ultima nel foglio n. 11? Glielo aveva chiesto il coordinatore, ecco perché. Avrebbe servito lei la pozione, visto che fra gli iscritti dell’ultimo turno, gli unici a morire senza amici accanto, non c’era un’anima pia disposta a farlo. Se fosse stata egoista come tutti, al coordinatore avrebbe risposto di no e ora nessuno oserebbe trattarla da fattucchiera, e nessuno avrebbe motivo di conservare fra i rancori inestirpabili il sospetto, se non addirittura la certezza, che fosse lei l’autrice della beffa. Ma ciò che la addolorava più di tutto, anche più del fallimento del progetto, era la constatazione che nemmeno la gente pronta a darsi consapevolmente la morte era capace di distinguere tra mistificazione e verità. Gli afflitti le chiesero perdono per averla accusata ingiustamente e lei, per dimostrare che li aveva perdonati, gli citò i versi di un samurai: “Quando tutte le cose nella vita sono false / esiste una sola cosa vera, la morte”.

Durante la babele dei risvegli questa donna era entrata quatta quatta in biblioteca, aveva preso la Smith & Wesson e quatta quatta era tornata al suo posto. Un mese dopo, il cinese le avrebbe procurato i proiettili.

La festa prosegue. Il numero dei ballanti supera quello dei seduti. Se varia di ballo in ballo non è a causa dei ritmi, coinvolgenti quale più quale meno. Varia perché il riattivato istinto di conservazione oscilla senza pietà. Dipende dai ritmi, però, se in pista talvolta aumentano i singoli, talaltra le coppie. Termina l’ennesimo rock. Coppie e singoli si aspettano il ballo dell’alternanza, che in genere è un altro rock, ma più duro, più intronante. Invece dall’alto degli amplificatori plana una musica anomala. Che succede? Lo stupore non risparmia neanche un volto. Una mestizia si sgrana in sorriso. Una sola, le altre in brontolio. È una musica fascinatrice, persino rapinosa… ma che c’entra? Perché si vuole interrompere il ballo proprio adesso che è a buon punto il recupero dei corpi? E chi mai può avere interesse a rattrappire di nuovo le coscienze? A tamponarne lo sfogo? Si fa interprete della contrarietà diffusa un’ex studentessa di informatica che marcia, anzi piomba incattivita sulla console. Il disc jockey allarga le braccia non come chi si giustifica, ma come chi nelle vicende umane non ha mai riscontrato altro che fatalità. Gesto che sconcerta la ragazza: le si imbambola la grinta del reclamo. Lui spiega che ha ceduto al brillio di pianto negli occhi di una ex ballerina di fila. La quale era convinta che soltanto qui, ora o mai più, avrebbe potuto realizzare il sogno che le aveva assillato la vita. Chi, nel giorno dei fallimenti, poteva arrogarsi il diritto di non esaudirla? Non certo lui, che quando era impiegato di banca sognava di fare il disc jockey.

È il Bolero di Ravel la musica anomala, la musica recepita come un’intrusa. Ma la ballerina già sta danzando al centro del salone, bersaglio degli occhi di tutti. Occhi scettici, critici, ironici, o distrattamente incuriositi, che tuttavia arretrano fino a circoscrivere un vuoto da arena intorno a lei. Una ballerina di fila che danza come solista nel Bolero di Ravel. Chissà quante volte si sarà esercitata per proprio conto sperando di essere scelta per quel ruolo. Ora se lo è assegnato da sé. La musica è incalzante, pervasiva, snervante, bracca i cervelli, se ne impossessa. La ballerina si libra nell’aria e ripiove su sé stessa, piroetta e si raccoglie, si schiude a spirale e di nuovo si libra, come se ogni volta fosse delusa delle proprie figure. Siccome non aveva con sé le scarpine di raso – si era preparata per morire, non per l’eventualità di vivere un sogno – danza con le scarpe da ginnastica che usa abitualmente. Fanno le veci del tutù una maglietta bianca con maniche corte e un gonnellino plissettato, rosso attorno alla vita e il resto blu. Che è la sua mise consueta, ma visibile solo oggi perché la indossava sempre sotto un cappotto lungo fino ai piedi.

La suggestività del Bolero, si sa, è dovuta a un’onda di suoni che si avvolge incessantemente su sé stessa. Il tema ripetuto fino allo stordimento, la variazione geometrica dei timbri e l’inesorabilità del ritmo creano un linguaggio che elude qualsiasi significato specifico, un linguaggio che non esprime dramma: lo sottintende. Eppure nel salone delle feste non c’è spettatore, ormai, che non percepisca in quei suoni l’espressione circostanziata, inequivocabile, del proprio malessere e dei propri pensieri ossessivi. E sembra, ora all’uno ora all’altro, che le movenze della ballerina traducano sia il malessere che i pensieri in sublimi necessità. Lei si proietta verso l’alto come se dovesse sfuggire a una presa. Da ogni suo contatto col suolo erompe la sembianza di un fiore che sboccia. Si avvita nell’aria, moltiplica le proprie membra, se ne riavviluppa come per nascondersi, si rimpicciolisce, ed ecco che ridiventa stelo, corolla… e ancora si avvita, ancora si irradia, ancora si chiude, ancora fiorisce… finché l’iterazione del tema urta contro l’ineludibilità del limite, e Ravel dice ça suffit. Il sortilegio del Bolero precipita nella dissoluzione catartica. Si estingue ogni suono. Molti neppure si sono accorti che quel corpo non danza più.

Un urlato, turbinoso, visceralissimo applauso fa cadere in deliquio la ballerina. Prorompe in lacrime e sussulti chi si è immedesimato in lei. Nel salone si genera un rimescolio così frenetico che potrebbe durare chissà quanto. Invece, nel giro di due minuti, si placa. Chi torna a sedersi, chi rimane impalato, chi parla da solo. Nessuno chiede la ripresa dei rock. Ne approfitta un ex agente di borsa per proporre imitazioni di personaggi politici e della tivù. Ha sempre sognato un pubblico non di soli amici e non sparuto. Oggi il corso degli eventi gliene offre uno così vasto e vario che, su dieci attori di varietà, almeno otto sarebbero invidiosi. Però lui non imita gli imitatori tradizionali. Cioè? Lui non imita per far ridere. E perché imita, allora? Non è il solito scimmiottatore. E allora chi è? Lui è un attore che ripete con la loro stessa voce i discorsi che alcuni personaggi politici e della tivù hanno pronunciato. Li ripete seriamente, perché loro erano seri mentre parlavano, serissimi, trattandosi di lavoro o tattica politica. E riproduce esattamente gesti e mimica facciale. Perché quella mimica, e solo quella, perché quei gesti, e solo quelli, erano funzionali alle intenzioni dei suddetti e ai loro messaggi. Insomma, l’iperrealismo nel cabaret.

Prestano attenzione all’imitatore filologo tutti gli ex stregati dalla ballerina. Quattro minuti dopo si sono ridotti alla metà. Ai meno inquieti il riascolto di voci e frasari del mondo esterno provoca irrequietezza. Ai più inquieti, sbadigli a catena. Otto minuti dopo, gli spettatori sono metà della metà. Lui, aplomb da volpe del palcoscenico, non dà segno di accorgersene. Il che è encomiabilissimo in un dilettante. Alcuni, apprezzando, gli dedicano ancora un minuto della propria sopravvivenza. Altri, ugualmente apprezzando, si dileguano. Lui procederà imperterrito finché non avrà caracollato sul suo cavallo di battaglia. Che è l’imitazione del direttore del Centro. Saranno solo in quattro ad applaudirlo, i suoi amici. Quelli che avrebbe avuto intorno alla branda se questa storia non avesse riserbato sorprese.

È dipesa soltanto dal suo inconsueto stile di imitatore la defezione del pubblico? Veramente no. A privarlo degli spettatori è stato soprattutto un giocoliere, ex mangiafuoco, ex funambolo, ex mimo, ex eccetera. È bastato che facesse mulinare parecchie bottiglie di birra contemporaneamente senza che mai toccassero il suolo, e poi un buon numero di piattini, e poi i piattini con sopra le tazzine da caffè vuote, e poi i piattini insieme con le tazzine colme di caffè… È bastato che in quel pubblico di soli adulti riemergesse la curiosità che si prova da ragazzi per gli esercizi di destrezza, e che ciascuno ritrovasse la sua antica disponibilità alla meraviglia.

Forza ragazzi! Sotto a chi tocca! C’è ancora qualcuno che voglia elargire uno spettacolino alla comunità?… Nessuno si espose. E il disc jockey rilanciò il suo concetto di festa: ritmi concitati a tutto volume. Tre afflitti si presero la briga di far capire all’ex bancario che pure i balli lenti e i suoni non assordanti possono fungere da ansiolitico. Ah, è così? Wonderful! Eccovi un ballo moscio. Ma, udite le prime note languorose, tutti i singoli abbandonarono la pista. Per ballare da solo uno slow occorre un sovrappiù di fantasia, e lì ognuno ne possedeva a malapena il ricordo. Un meditabondo che non trovava un crocchio cui aggregarsi si avvicinò al disc jockey, gli diede uno spintone e tolse la corrente alla console. Impazzito? No, visto che sùbito dopo prese sottobraccio lo spintonato per condurlo verso l’area delle brande. Dove uomini e donne di età variabile fra i trentacinque e i cinquanta cantavano una canzonetta in voga vent’anni prima. Terminata questa, ne attaccarono una seconda. Che interruppero dopo la prima strofa per passare al ritornello di una terza, e così via. Di ognuna un assaggio. Erano canzonette popolarissime. A tutti facevano tornare alla mente le stesse realtà, le stesse atmosfere, forse anche le stesse illusioni, insieme con i fotogrammi più idillici, o più strappacuore, delle rispettive adolescenze o giovinezze.

Il divertimento cessò allorché un ex manager volle imporre una canzone a suo tempo snobbata dalle masse. Un esteta, il signore? Macché. Pretendeva che si cantasse quella canzone solo perché era stata la colonna sonora del suo perduto amore. Per il quale ancora si struggeva. Forse era finito nel Centro proprio a causa di quell’amore. Ma anche altri erano titolari di catastrofi amorose con colonne sonore eccentriche e poco orecchiabili. Per cui il coro si divise in due, in tre, in quattro, in cinque. I gruppi, sebbene si fossero dislocati alla massima distanza possibile l’uno dall’altro, poiché il salone non era una piazza d’armi si disturbavano a vicenda. Si cantava a squarciagola per udire meno le voci altrui. Finché – miracolo – quattro gruppi tacquero all’unisono. Pochi secondi di ascolto, squittio di gradimento, quindi si uniformarono ai cinguettii del quinto. Cioè di quei giocherelloni che stavano riesumando le canzoncine delle trasmissioni televisive per l’infanzia. Voci di tenore basso baritono si cimentavano nel falsetto come se fosse stato uno dei giochi più amati di quella età. Soprani mezzosoprani e contralti pargoleggiavano con materna nostalgia. Accorsero a infoltire il coro la ballerina del Bolero, il coordinatore, l’aiutante esperto in diritto, l’ex terrorista, l’imitatore, l’ex indossatrice e alcuni afflitti che dopo gli spettacoli avevano ripreso a monologare col bicchiere in mano. Finita una canzoncina, il rievocatore di turno ne intonava un’altra, e tutti assieme seguitavano. Mai si era riscontrata, fra gli ospiti del Porfirio, tanta armonia.

Ma il disc jockey era in agguato. Appena si accorse che il repertorio dei pargoli televisivi era esaurito, perché si ripescavano canzoncine già piluccate, diffuse come soavissimo sottofondo il più cullante degli slow. Dopo quattro dischi in soave progressione di sonorità vinse la sfida. Il coro si sfoltì. Tornò in pista la coppia con il ballo nel sangue, la seguirono le due coppie bravine che ambivano a emularla, poi le coppie prive di ambizioni e, quando riesplose il rock, anche i singoli. Riprendeva quota la bramosia di agitarsi, stordirsi, credersi in festa.

Uno degli ex giacenti del primo turno che appena risvegliato ha pianto, ma poi il ballo lo ha ringalluzzito, avverte pesantezza di gambe. Si siede. Il fastidio persiste. Si trascina fino a una branda e vi si distende. Gli pare di sentire un po’ di sollievo. Niente di grave, pensa, basterà mezzora di relax. Poco dopo un brivido gli sale dalle gambe alla gola. Strano. Prega un amico di procurargli una coperta. Nell’armadio del pronto soccorso non ci sono coperte. Ma, un momento, l’aula degli audiovisivi ha le tende. Due tende scure di tessuto spesso. L’amico ne smonta una e la porta all’infreddolito. Anche un altro ex giacente del primo gruppo avverte pesantezza di gambe. Si pente di aver bevuto troppo. Va a sdraiarsi su una branda vicina a quella già occupata. Al compagno fa un cenno che significa: tutta colpa dell’ultimo bicchiere. Quando anche lui rabbrividisce, il rimedio è già pronto. La tenda può coprirli entrambi.

Stessa sorte per gli altri del primo gruppo. Pesantezza di gambe e brividi. In meno di dieci minuti sono tutti sdraiati. Si smonta l’altra tenda. Ognuna può coprire quattro corpi. I bisognosi di calore sono di più. Si sopperisce con le giacche e i maglioni di quelli che ballano. E con i cuscini. La ballerina del Bolero propone di telefonare al Porfirio. Che mandino sùbito un medico. Ma gli infreddoliti dicono di lasciar perdere, che non è il caso, che stanno già meglio. Molto meglio, anzi. Perché cominciano ad avvertire un senso di benessere per tutto il corpo e tanta calma. Una calma con visioni che danno felicità ai pensieri e gradualmente li sostituiscono. Visioni simili le hanno sperimentate in altri tempi, quando si drogavano, quando si passava dalla sostanza dell’assuefazione a una più efficace. Dato che il fenomeno riguarda tutti i componenti del primo gruppo, nessuno escluso, il loro improvviso benessere non può essere altro che l’effetto tardivo della pozione. Quindi, fra mezzora o poco più, toccherà a quelli del secondo gruppo riscontrare pesantezza di gambe, brividi di freddo e un piacevole rilassamento della psiche. Mentre, se venisse il medico, addio visioni beate. E, per gli altri, addio festa.

A poco a poco gli infreddoliti vengono lasciati senza compagnia. Sono loro stessi a non volerla. Udire voci è un disturbo quando si è in balia delle visioni. Gli altri continuano a ballare. Dopo mezzora, ecco che il più sbrigativo bevitore del secondo turno sente piombo nelle gambe. Come previsto. Dovrà soffrire un po’ di freddo, ma in seguito, con la mente in viaggio, si riscalderà. È contento di aver bevuto quell’intruglio che prima ti fa morire, poi ti risuscita, e infine ti procura l’estasi. Geniale il farmacista, geniale l’erborista, geniale anche la fattucchiera… no, pardon, la madrina delle feste. Prima di sdraiarsi si trascina fino alla branda di un suo amico per farsi dare, nel caso non ne abbia più bisogno, il giaccone che lo copre. Vede occhi semichiusi e bocca aperta. Lo chiama, lo scuote dolcemente: nulla. Gli mette una mano sulla fronte, gli tasta il polso, gli poggia l’orecchio sul petto, dà l’allarme. Alle grida accorrono in tanti. Guardano, controllano: è morto. Vengono palpati auscultati scrollati anche gli altri giacenti. Morti. Questa volta non c’è possibilità di dubbio. Definitivamente morti. Si spengono gli amplificatori.

Tutti i componenti del primo gruppo sono morti. Ora tutti i vivi sono intorno alle brande. Si interrogano l’un l’altro con gli sguardi. Si rispondono l’un l’altro con le fisionomie smarrite.

Uno del secondo turno che ha auscultato ogni cuore, chiama accanto a sé i compagni di pozione. Stanno avvertendo i primi sintomi? Sì. Perciò adesso dovranno sdraiarsi anche loro. Anche loro dovranno patire il freddo, godere pochi attimi di quiete visionaria, e morire… Cosa ne pensano? Nessuno risponde. Occhi bassi. Lui dice che gli ronza in testa una proposta. Nessuno lo incoraggia. Lui traduce il ronzio in parole. Poche essenziali inequivocabili parole… Nessuno reagisce. Palpebre sospese, corpi di statua, come se si stesse consacrando un minuto di silenzio ai morti. Forse i ricordi prevalgono sui pensieri. Forse il contrario. Dalla bocca dell’ex studentessa di informatica, l’unica che non abbia mai saltato un ballo, esce un sospiro. Che pare un sì. Il suo vicino, l’ex manager del perduto amore, dopo qualche istante sussurra un sì. Altri sussurri. La maggioranza dei componenti del secondo gruppo è d’accordo. Viene persino raggiunta l’unanimità. Ma già l’autore della proposta si è precipitato – come può precipitarsi uno che abbia le gambe intorpidite – verso la nicchia del telefono…

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