La mia orchestra

di Rita Simonitto

Sinceramente avrei preferito utilizzare gli strumenti della mia modesta orchestra (poesia e narrativa) per celebrare il Corones, o più precisamente il Plan de Corones in Alto Adige, una delle meraviglie alpine dichiarata patrimonio mondiale dall’Unesco e che contempla montagne meravigliose e straordinarie valli. Invece li utilizzerò per rappresentare il Corona, i miei vissuti e le mie valutazioni su questo virus e i suoi impatti senza alcuna pretesa di fare proclami nè di ‘prendere posizione’ cercando di individuare qual è la parte cosiddetta ‘giusta’ e rigettando quella cosiddetta ‘sbagliata’. Infatti, ho sempre pensato che, soprattutto per quanto concerne la poesia, non ci dovesse essere alcun imperativo a ‘insegnare’. La poesia è un ‘mezzo espressivo’ che ci permette di accostarci ad una realtà, sempre parziale (quindi mai alla Realtà, al ‘come stanno veramente le cose’), e permette a chi la utilizza di rendere al meglio quello che intende significare e, di contro, permette al fruitore di confrontarsi con i propri punti di vista. E’ quindi una organizzazione strumentale del tutto particolare perché, come un’orchestra, raccoglie in sé il gioco e la versatilità di altri strumenti quali la parola, l’immagine, il ritmo, la musicalità, ognuno di essi con la propria specificità ma uniti per dare una rappresentazione d’insieme, e quindi un senso, a ciò che viene sperimentato e osservato. Inoltre, ritengo che poesia e narrativa si contaminino in qualche modo cedendo l’una all’altra immagini iconiche e rappresentazioni verbali. Per queste ragioni ho pensato, a scrittura ultimata di questi miei pezzi, di metterli assieme: un piccolo racconto, contenuto tra due composizioni in versi. [R.S.]

  1)
 Quasi senza rumore
 
  
 Quasi senza rumore con le asce
 hanno abbattuto i vecchi
 alberi e invano adesso
 giovani fringuelli reclamano
 fronde per i loro nidi.
 
 
 Neri capelli fanciulle alle finestre allisciano
 e nei vetri del nulla specchiano carezze
 futuribili e baci ormai preclusi  
 da un nemico invisibile eppur presente
 nella cruda ironia della società globale.
 
 
 Senza passato e orbo di futuro solo
 il quieto scorrere del tempo regala gessetti
 ai prigionieri per segnare le tacche
 di esistenze spoglie di memoria persa
 in scorribande dall’ignavia superba.
 
  15.04.20  

2) Io, ‘mammeta’ e il virus

Avevo sempre desiderato di abitare in un minilocale, dove tutto sembra disponibile e a portata di mano, funzionale al punto giusto, pulizie che si sbrigano in velocità (gli architetti oggi fanno miracoli con i mobili ad incasso, appendiabiti che scompaiono dentro pareti come certi scaffali nelle farmacie, un grande pannello Tv che da un lato proietta immagini e, nel retro, ospita una micro libreria con scrivania e computer) e anche separa la zona notte dalla zona giorno.

Un sogno! Anche il gatto ne sembrava entusiasta, forse perché, data l’età, i suoi istinti di scorribande si erano allentati non poco e gli era sufficiente il terrazzino mignon, dotato di erba gatta per lui e qualche vaso di erbe aromatiche per me, nonché un alberello di ulivo un po’ stitico, fors’anche perché il Miagolo si divertiva a farsi le unghie sul suo tronco, e che svettava un po’ fuori da quella piattaforma come simbolo e anelito di confini più ampi e di libertà.

Ecco. Tutto qui. Se veniva qualche persona amica, c’era anche la possibilità di utilizzare le sedie pieghevoli appese alle pareti per risparmiare spazio.

Certo, lo utilizzavo per quello che mi serviva: la mia vita si svolgeva per lo più fuori da lì e lì era la mia tana; Miagolo che fedele mi aspettava all’uscio al mio rientro sbavandomi felice da testa ai piedi quasi a voler togliere ogni residuo di estraneità di un mondo altro che si frapponesse fra noi due.

Ma adesso davvero qualche cosa di esterno si è insinuato subdolamente a cambiare le carte in tavola. Si è aperto un gioco di cui non conosco le regole e pur guardandomi in giro, per mia natura sono osservatrice, nella speranza di raccogliere qualche indizio, se non di soluzione ma di ipotesi per procedere verso soluzioni, niente di niente.

Nel frattempo la coabitazione forzata col gatto è diventata un po’ più problematica: quel regno che lui si era costruito nel suo magico (anche se obbligato) isolamento adesso viene messo in forse e io divento una competitor abusiva del suo territorio.

E’ straordinario, se non fosse inquietante, come ha incluso nel suo linguaggio una specie di ‘ringhio’ aggressivo (ma dove e da chi l’avrà appreso, se la sua vita sociale si è sempre limitata a quei 30/35 mq.?) quando, al pomeriggio vorrei riappropriarmi del mio letto per schiacciare un pisolino. Non vuole sentire ragioni. E allora, come faceva mia zia Lalla, che Dio l’abbia in gloria, prendo una sedia e mi addormento con la testa appoggiata sul tavolo!

E poi c’è mia madre che vive sì da sola, ma in un attico supergalattico, con la collaboratrice domestica che accorre ad ogni suo sospiro (“Signora, eccomi, mi dica…”, manca solo che la chiami “Sua Eccellenza”!), e che mi tormenta perché non la vado a trovare. Ho smesso di spiegarle il perché e il percome, e cioè che lei abita in un’altra Regione e, pur avendo una ragguardevole età, se la porta abbastanza bene con gli acciacchi che vengono forniti in dotazione a chiunque oltrepassi una determinata soglia anagrafica. Ma non c’è verso. Ovviamente non possono esistere altre regole al di fuori di quelle costituite da lei: questo scoglio di “Lesa Maestà” è stato il filo conduttore che ha sempre tessuto le nostre discussioni fintantoché non ho deciso di tagliare quel filo, provocando in lei una reazione isterica inconsulta e così pesante da esigere un ricovero ospedaliero, ma che non l’ha certo portata a più miti consigli. A volte, scherzando con gli amici, dico che mia madre sarebbe perfetta alla UE, a determinare la lunghezza dei cetrioli, la curvatura delle banane, il calibro delle ciliegie. E guai a chi sgarra!

Quindi è inutile che le dica che ci sono anche delle altre regole che (per quanto opinabili, almeno per me, però questo non glielo dico) vanno rispettate. La sua fantasia di ‘complotto’ ordito contro il cittadino stimola le SUE ribellioni, attiva quelle parti combattive che certamente le sono state utili per fronteggiare anche eventi dolorosi. E’ un suo bisogno ‘personale’ che però lei trasforma in un suo ‘diritto’.

E così accusa me di non buttarmi nella mischia per difendere il diritto sacrosanto di una madre che vuole avere la figlia, la sua unica figlia, accanto a sé.

Se non fosse che ancora la stagione è inclemente con i bruschi passaggi di temperatura caldo/freddo, me lo farebbe vedere lei come si fa a scendere in piazza trascinandosi dietro quei pecoroni che dai loro terrazzini minuscoli come scatole da scarpe cantano canzoni! Così mi dice.

Io so per certo che mia madre non si avvolgerebbe mai in nessuna bandiera per cercare, novella eroina, di trascinarsi dietro le cosiddette masse abbrutite dal potere! No.

Ma lei si bea di queste fantasie invece di utilizzare i suoi privilegi per capire, allargare il suo orizzonte includendovi altre prospettive. Eppure è una donna colta, intelligente. Mio padre, passando a miglior vita, le ha lasciato un discreto lascito di cui può disporre a suo piacimento, così come ‘a piacimento’ lei vorrebbe disporre anche di me a cui, del patrimonio paterno, non sono rimaste che poche briciole. Quell’infaticabile lavoratore di mio padre riteneva infatti che la sua adorata moglie fosse fragile e che pertanto dovesse essere protetta dai disagi, mentre io, degna figlia sua, me la sarei sempre cavata! Grazie al piffero!

Non voglio fare qui polemiche: ma come ha utilizzato, mia madre, tutta quella disponibilità? Quanto si è spesa per cercare di entrare in contatto con i problemi?

Ma non come fanno le Dame di Carità di Post-Bellica Memoria, per incrementare l’assistenza anziché il diritto alla conoscenza, che poi può diventare consapevolezza per tentare di emanciparsi dalla povertà? Invece li utilizza né più né meno di come fa Miagolo, che ha imparato addirittura a ‘ringhiare’ per difendere i suoi privilegi!

Lei può permettersi di fare incursioni nel territorio degli altri (del mio, in questo caso!) ma non le balena per la mente l’idea che ci sono anche delle regole da rispettare quando entri in un territorio non tuo!

Il lampo che mi attraversa la mente, legato alla eventualità di dover convivere con lei, sia pure nel superattico, mi fa rabbrividire dall’orrore! Mi interrogo su come sarà la vita intima di quegli altri che sono invece reclusi in pochi metri quadri e con analoghi, se non peggiori, problemi, magari di natura economica! E il mio brivido si fa così forte che corro subito a misurarmi la febbre. No, no, non sono contagiata dal Coronavirus: tutto sotto controllo. Si fa per dire.

Sul maxi schermo della TV (la sola cosa maxi di questo mini appartamento) scorrono le immagini degli spot di intellettuali che filosofeggiano e dicono quant’è bello stare a casa, e a questi spot seguono i canti e le danze dai balconi dei poveri reclusi.

A me non piace stare a casa, ma non tanto perché l’ambiente è piccolo (personalmente ho una buona adattabilità e oltretutto è stata una mia scelta di ritagliarmi questo ‘buco’) ma perché mi manca il mio lavoro che non può essere svolto da casa (sarebbe come fornire ad un cane pastore la possibilità di usufruire lo smart working per seguire al computer il suo gregge!) e il contatto con le persone. Che non è fatto soltanto di baci e ‘sbracciolate’ (spesso diventate un modello culturale per fugare le nostre angosce di solitudine) ma di sguardi, di comportamenti, di vibrazioni che trasmettono più di quanto si abbia contezza.

Ciò che mi spaventa maggiormente è questo tentativo di ‘abolire’ la paura per decreto, cacciarla fuori casa: “andrà tutto bene”! Ma siccome i fatti dimostrano che non sta andando affatto tutto bene, perché questo sistema proiettivo di buttare le paure fuori dalla porta – e poi ritornano dalla finestra -, ci espone di nuovo ad una paura potenziata dall’inefficacia della proiezione. Nè si può ricorrere alla abusata espressione di “fare sacrifici per il bene di tutti”. La solidarietà non può essere imposta, deve essere sentita, deve venire da dentro e il primo cardine su cui essa si avvita è la capacità e il piacere dell’avere cura, con tutti i suoi innumerevoli distinguo. Ad esempio, mio padre, a modo suo, si è preso cura di mia madre ma mantenendola in una condizione infantile. Non il ‘dovere’ dunque, così rigido e inflessibile, bensì il piacere, più versatile. Ma quest’ultimo si apprende attraverso l’esempio, nel veder fare. Lo vediamo a scuola con quegli insegnanti che non si limitano ad insegnare la loro materia ma trasmettono la loro passione per quella materia, il piacere che essi ne provano.

Ma lo osservo anche in Miagolo. Quando capita che per cause di forza maggiore non lo bado per un po’, lui si chiude in se stesso, non si fa la toilette e quando mi avvicino cerca di sfuggirmi. Solo dopo molta pazienza da parte mia lo riporto a fidarsi di me e riprendiamo assieme i suoi giochi spensierati.

Per tutto ciò, mi spaventa ancor più la non tanto remota eventualità che, accanto a questo virus che compromette la nostra salute, in concorso con l’altro virus, quello che comprometterà la nostra economia, si accompagni un terzo virus, quello che attaccherà la nostra capacità di pensiero. Senza quella capacità, davvero sarà una ecatombe!

18.04.2020

3) Bruciata ogni speranza
 
 
 Sfiorata da un sole che non prelude a primavere
 desertificati  passi muovono verso un autunno
 senza uve più e né pannocchie dal cuore d’oro
 e il melograno non sgrana chicchi solo occhi stupiti
 nel silenzio la terra arsa al cielo urla la sua  tìsis.
 
 
 Ma Zeus a tressette gioca con la troika
 che gli garantisce sempre sacrifizi
 né si indigna per la hybris che come
 caleidoscopio moltiplica falsi sacerdoti
 che sotto la tunica celano il pugnale.
 
 
 Soppiantata la volontà irrisa da una fede
 che contrabbanda la fiducia, uomini
 sempre più pallidi vagano contendendo ai cani
 ossi ormai spolpati, e anche l’aquila ha lasciato
 Prometeo ormai sfinito di consunzione.

 18.04.2020 

3 pensieri su “La mia orchestra

  1. Gentile Simonitto, anch’io cerco indizi per il futuro e trovo in questo passaggio un ottimo indizio:
    «Ciò che mi spaventa maggiormente è questo tentativo di ‘abolire’ la paura per decreto, cacciarla fuori casa: “andrà tutto bene”! Ma siccome i fatti dimostrano che non sta andando affatto tutto bene, perché questo sistema proiettivo di buttare le paure fuori dalla porta – e poi ritornano dalla finestra -, ci espone di nuovo ad una paura potenziata dall’inefficacia della proiezione. Nè si può ricorrere alla abusata espressione di “fare sacrifici per il bene di tutti”. La solidarietà non può essere imposta, deve essere sentita, deve venire da dentro e il primo cardine su cui essa si avvita è la capacità e il piacere dell’avere cura, con tutti i suoi innumerevoli distinguo. Ad esempio, mio padre, a modo suo, si è preso cura di mia madre ma mantenendola in una condizione infantile. Non il ‘dovere’ dunque, così rigido e inflessibile, bensì il piacere, più versatile. Ma quest’ultimo si apprende attraverso l’esempio, nel veder fare. Lo vediamo a scuola con quegli insegnanti che non si limitano ad insegnare la loro materia ma trasmettono la loro passione per quella materia, il piacere che essi ne provano.»
    Cura di me, cura dei prossimi, cura di tutti, cura del mondo. Non per dovere, ma per piacere…Forse è qui il nucleo di un pensiero che vada oltre la denuncia, sia pur giusta dei mali della Troika e di mille altri oppressori. Farei di questo nucleo di pensiero la lampada, la chiave di volta per uscire dalla nostra prigionia. Non era Freud a sostenere che curare, educare e amministrare erano tre compiti impossibili?…Ebbene sì, dobbiamo continuare questa sfida. Rendere possibile l’impossibile. Allora forse i “giovani fringuelli” capiranno che i “vecchi” abbattuti nelle case di riposo erano alberi e sui loro rami potevano trovare fronde per i loro nidi. Prendersi cura del mondo, non rottamarlo come si “rottamano” gli anziani. Questa società incolta e incivile ha un solo dio: la produzione e il profitto. E si prenderebbe cura della cura solo se ci fosse guadagno, profitto…E, invece, no. La cura è passione, piacere della cura. Forse anche le fanciulle che pettinano i loro capelli neri non lo farebbero sui “vetri del nulla” se rendessero la cura dei loro capelli visionaria delle prossime carezze e dei baci solo momentaneamente preclusi…Credere nell’impossibile, è possibile.

  2. …penso che nei piccoli spazi ci sia piu’ possibilità di affrontare e “vincere” le battaglie: i pochi oggetti distraggono meno, si va all’essenziale, ma questo solo se la mente, e corollari, non cessano di funzionare…A lungo termine pero’, se il piccolo spazio si determina come stato di prigionia allora si potrebbe affacciare il terzo virus: “quello che attaccherà la nostra capacità di pensiero” e sono guai…Ma c’è ancora una speranza nel dopo e Rita Simonitto -la penso esattamente come Donato- indica la fiaccola che ci puo’ aiutare nell’oscurità a riprendere il giusto cammino: “la capacità e il piacere dell’avere cura”, prerequisito alla solidarietà…Nel piccolo contesto familiare di Rita non è tanto l’apparato tecnologico a contare, bensi’ la presenza di Miagolo, l’animale amico convivente, e il verde sul terrazzino come garanzie di equilibrio del microcosmo nel macrocosmo…è un ponte lungo a creare una rete vastissima, non solo virtuale

  3. Grazie ad Annamaria e a Donato che, mettendo in campo sensibilità diverse ma complementari, hanno colto aspetti significativi del mio lavoro.
    Per Annamaria la ricerca dell’equilibrio del microcosmo con il macrocosmo e per Donato la valorizzazione del concetto di piacere (abbinato alla cura ma anche alla Bellezza – lo metto in maiuscolo). Una sottolineatura, quella di Donato, che mi permette di aggiungere che, mentre il ‘dovere’ (anche se poi introiettato) ci proviene dall’esterno, il piacere è esclusivamente ‘nostro’: certamente trasmissibile, ma ‘nostro’.

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