scusate se parlo solo di me stesso

Nilo Australi, ritratto di Angelo Australi

di Angelo Australi

Con oggi fa un mese che esco di casa solo per la spesa alimentare, comprare giornale e sigarette. L’ho fissato bene in testa, l’avvio di questo strano periodo che evitiamo il contatto umano per un obbligo di legge. La spesa alimentare la faccio al supermercato ogni due settimane, è snervante mettersi in fila e affrontare gli ingressi contingentati con la mascherina che nel respirare appanna continuamente gli occhiali da vista.

Le espressioni del volto celate dietro quella protezione di stoffa fanno sembrare un po’ tutti più anonimi, tanto che a volte mi è capitato di non distinguere non solo i conoscenti, ma proprio gli amici di vecchia data, con i quali ho condiviso tante speranze e delusioni del vivere in provincia. A stare più di un’ora nel piazzale del centro commerciale, dove per accedere è stato definito un percorso labirintico tra le auto parcheggiate, sale l’esasperazione anche alla persona più calma e pacata che esista sulla faccia della terra. Si marcia tutti nella stessa direzione, con un senso di paura e di angosciosa precarietà che fluttua sospesa nell’aria insieme al virus. Per la verità c’è fila anche ai negozi del centro, così all’edicola ci vado solo a giorni alterni, perché in fondo nei quotidiani non si parla d’altro che di coronavirus. Anche gli inserti culturali sono gonfiati delle stesse identiche notizie ascoltate il giorno prima nelle passerelle televisive da politici e personaggi di ogni genere, che auspicano condivisione nelle scelte da farsi e hanno una gran confusione in testa sul come programmare l’uscita da questa catastrofe. Tutti li a raccontarsi – in collegamento Skype da casa – quanto sia importante stare al chiuso perché il contagio non si diffonda, a spiegarci come sia possibile trovare positiva questa nuova dimensione nei rapporti interpersonali agendo in uno spazio circoscritto come la propria abitazione. La scenografia del collegamento fa parte del loro privato, spesso hanno alle spalle una libreria colma di libri che in quelle riprese dal basso si moltiplica in altezza fino a renderla qualcosa d’inverosimile, di artificioso, di finto, che sale e sale, …e sale, scaffale dopo scaffale, verso un soffitto che non sembra mai stringersi a comporre un angolo con il mobile. Nella piazza principale del paese invece si sviluppano tre file distinte, anzi quattro: fuori dalla farmacia, dal fornaio, al tabacchi e all’edicola. Anzi, in realtà si tratta di cinque file, perché le farmacie sono due, posizionate in punti diversi della piazza. Nell’attesa qualcuno tenta di conversare, pur mantenendo le distanze per paura d’infettarsi, ma i più sono silenziosi e – se si conoscono – si salutano con un gesto della mano. File che si sviluppano senza un criterio, in una sequenza di linee che segna nella piazza delle figure geometriche immaginarie. Qui però è meno nevrotico che stare in coda davanti al supermercato, perché non ci sono auto e gli spazi sembrano svilupparsi sulle facciate dei palazzi dove ogni tanto penzola una bandiera tricolore e uno striscione con la scritta “ANDRA’ TUTTO BENE” sormontata dall’arcobaleno dipinto da un bambino. In centro il resto delle strade è deserto, o quasi deserto. Mia moglie fa ogni giorno la fila dal fornaio per il pane e poi passa a scambiare due parole con la madre di novantaquattro anni che vive sola. Per non rischiare di contagiarla lascia la spesa sulla porta di casa e ci parla quando si affaccia alla finestra del primo piano. Una breve conversazione, tanto per riempire di un senso la sua giornata che poi si reggerà su alcune telefonate. Per i suoi anni mia suocera gode di una discreta salute, è solo un po’ sorda, così per farsi sentire dalla strada Irene alza il tono della voce fino al punto che altri residenti si affacciano, si salutano, si raccontano le ultime novità su qualche loro conoscente rimasto contagiato dal virus, o addirittura deceduto. L’edicola e il fornaio si trovano in punti opposti l’uno all’altro. Mentre l’edicola è sotto le logge e la fila si sviluppa per la larghezza della piazza, il forno si trova dietro l’angolo di un palazzo e la coda di persone in attesa, prima di sparire dietro il muro dove ci sono le bacheche dei cinema e del teatro spogliate dei manifesti, si prolunga a zig zag. Usciamo di casa insieme, ma nel rientro facciamo strade diverse. Invece per le sigarette faccio scorta ogni tre giorni, non al tabacchi della piazza, ma in uno più distante dal punto dove abito, così ho il pretesto di una passeggiata leggermente più lunga, dove cammino per un tratto anche in aperta campagna. Oddio, campagna: …costeggio per qualche centinaio di metri l’argine di un torrente che viene dalla collina, stando bene attento a non pestare le merde di cane. Questo intendo, per campagna. È un trucco illusorio, niente rispetto ai sei, sette chilometri che prima macinavo quotidianamente sugli argini del fiume. Li facevo ogni giorno, compreso il sabato e la domenica. Dai 42 ai 49 chilometri ogni sette giorni, che moltiplicato almeno per 40 settimane, in un anno fa la bellezza di 1.680 o 1.960 chilometri; senza contare quelli che faccio quando ci spostiamo per un viaggio e durante le vacanze. Ci sono dei fanatici che camminano anche sotto la poggia, ma io a quel punto preferisco stare in casa, mica è necessario soffrire e procurarsi per forza una bella bronchite. Prima di questo sfacelo del coronavirus, in tre anni che sono in pensione, a camminare mi stavo ritonificando il fisico, il respiro non era più affannoso, ma adesso, quando tutto sarà finito dovrò ricominciare daccapo. Andare sugli argini è stata la prima regola che mi sono imposto quando è arrivata la pensione, perché mi faceva paura il pensiero di passare le giornate nell’ozio allora ho deciso di programmare questo giochetto della camminata. All’incirca un’ora e mezzo di passeggiata, fatta a passo sostenuto, stile maratoneta. Non da gareggiare con gli atleti, ma per un organismo al massimo dello sforzo, direi che il fisico così può raggiungere il punto limite di sopportazione e smaltisco il colesterolo in eccesso, come consigliato dal mio medico.

Che assurda situazione di attesa persuasiva, oserei dire. Spesso mi misuro la temperatura per il timore che possa salire sopra i trentasette gradi. Essendo un fumatore, la tosse non è un sintomo attendibile, perché nell’anno già mi fa compagnia per dei lunghi periodi. E anche un certo accenno di congiuntivite. E anche il fiato corto, fa parte del mio arredo fisico. È naturale, ogni tanto ci penso, anche se non sono tra quelli che stanno l’intera giornata davanti al televisore per informarsi su questa misteriosa malattia capace di aggredire le vie respiratorie in modo devastante. È naturale perché ho compiuto sessantacinque anni, e perché sono un fumatore. Statisticamente rientro nelle cosiddette categorie a rischio. Ho già offeso abbastanza i miei polmoni, come dice il dottore. Se penso che a quattordici anni traspiravo qualche sigaretta, non è possibile nemmeno fare il conto di quanto catrame abbia assimilato il mio organismo. Almeno questa è la sensazione generale.

Detto in tutta sincerità, almeno fino a quando non è scoppiata questa pandemia, non mi trovavo male ad accettare l’esistenza con una certa dose di fatalismo. Non solo sul fatto della salute, anche sul come programmare le ferie per esempio, non sempre io e mia moglie riusciamo a progettare dalla a alla zeta tutto quello che occorre fare, è capitato spesso di decidere un viaggio all’ultimo momento, senza prima aver stabilito niente. Un po’ come se volessimo partire all’avventura, ammesso che di avventura si possa parlare quando ci spostiamo per andare in una località di mare o in montagna, o a visitare una citta dove non siamo mai stati prima. Solo per andare all’estero riusciamo a programmare tutto quanto, forse perché non conoscendo le lingue ci sentiamo più sicuri partendo con tutte le tappe inserite nei giusti tasselli. In realtà spesso siamo conquistati dall’idea di lasciarci guidare dal caso, di considerare la fatalità della partenza inprovvisa con un certo ottimismo del provare ad arrangiarsi al momento che si è raggiunta la meta del nostro viaggio. Questa voglia innata di lasciare per un po’ il paese ormai è un fatto per noi fisiologico, che ci accompagna nella vita da quando ci siamo conosciuti. Chissà se passato il picco della pandemia sarà sempre possibile vivere un po’ così, alla giornata. Prendere per buono quello che viene nella vita, come ho imparato a pensare da un sacco di persone che non ci sono più: mai guardare a chi sta meglio, ma sempre a chi se la passa peggio di noi. L’altro giorno, uscendo dall’edicola, un uomo di circa ottant’anni che conosceva molto bene anche mio padre, mi ha detto: «Non sarà mica che questo virus l’ha messo in circolazione qualche volpone per risanare il bilancio dello stato riducendo il numero dei pensionati?». Io mi sono messo a ridere. Anche altre persone lì in attesa, si sono divertite a commentare quell’affermazione, mantenendo le distanze nel parlarsi. Quel vecchio si chiama Benito, e ha due fratelli che si chiamano Romano e Impero. Buffo, non è vero? Il padre era un fascistone della prim’ora, ma loro nel dopoguerra hanno preso tutt’altra direzione, e più divertente è il fatto che ancora oggi tutti e tre continuano ad affermare con orgoglio di credere nel comunismo. Sembra che siano storie d’altri tempi, ma non è così.

Palude Diaccia Botrona di Castiglion della Pescaia

Se penso che addirittura il viaggio di nozze con Irene non è stato programmato nei minimi dettagli, mi viene da pensare a qualcosa di assurdamente ingenuo. Avevamo deciso di girare l’Umbria in più tappe. Con l’autostop, perché ancora non avevamo un’auto. A cominciare da Assisi poi avremmo visitato Spoleto, Gubbio, Foligno, Montefalco, Orvieto, Perugia, ma tutto questo senza prenotare gli alberghi dove dormire, confidando nella nostra felicità di sposini che tutto avrebbe funzionato meravigliosamente. Alla fine, in barba all’ottimismo iniziale, la nostra prima notte di matrimonio l’abbiamo trascorsa alla stazione ferroviaria di Perugia, proprio perché nella settimana del 25 aprile del 1977 in Umbria era arrivata una marea di gente. Assisi, la prima tappa del nostro viaggio, addirittura scoppiava di persone. Ma anche Spoleto, anche Foligno, e a Gubbio, non avendo trovato una sistemazione per la notte, sconsolati per il fatto che facendo l’autostop nessuno ci dava un passaggio, prendemmo un taxi sperando di trovare un posto dove dormire almeno a Perugia. Una città è piena di offerte, pensavamo. Neanche a parlarne, domenica 24 aprile allo stadio Renato Curi giocava la nazionale italiana di calcio e quel fine settimana non c’era verso di trovare neanche da dormire per uno spillo in più. Ci siamo sposati sabato 23 aprile 1977, mentre la partita si giocava nel pomeriggio della domenica, e poi c’era lunedì 25, grande festa della Liberazione. Sicché la nostra prima notte di nozze l’abbiamo trascorsa nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Perugia, in compagnia di qualche assonnato barbone, disteso per terra, con il suo guardaroba raccolto in dei borsoni, e alcune prostitute che facevano marchette nei dintorni, infastidite ogni tanto da un ubriaco che entrava nella sala d’attesa per stuzzicarsi l’appetito sessuale acceso dalla sbornia. Il mattino dopo, preso l’autobus, ci siamo fermati in un albergo di Spello, con l’intenzione di raggiungere Assisi, finito il ponte del 25 aprile.

Alla nascita dei nostri figli siamo stati costretti a interrempere l’abitudine di partire per le nostre ferie ogni volta all’arrembaggio. Con loro piccoli non era prudente confidare solo nella sorte, così in ogni periodo vacanziero, breve o lungo che fosse, ci siamo adattati con piacere alla nuova situazione. Appena i figli sono entrati nell’età di potersi organizzare la propria vita, per i nostri viaggi siamo tornati alla vecchia logica del pensarci sempre all’ultimno momento. Ne parlavamo proprio alcune sere fa, visto che alla Tv non c’era niente di interessante, e di questi nostri viaggi improvvisati ne affioravano a grappoli. In special modo ci siamo soffermati a parlare di un viaggio fatto a Vetulonia nel 2005. Visto che in quell’anno la festa del 2 giugno cascava di giovedì, ci siamo presi un paio di giorni di ferie per fare una vacanza da mercoledì a domenica. Vetulonia in realtà fu un ripiego, perché cercando l’albergo dove dormire all’ultimo momento, la risposta più probabile è sentirsi dire: no, ci dispiace, tutto esaurito. L’idea era di fermarci a Castiglion della Pescaia, ma nonostante i tentativi infruttuosi fatti telefonando nei due giorni che precedevano la vacanza, siamo partiti ugualmente facendo conto di fermarci a Marina di Grosseto con l’intenzione di cercare una sistemazione appena arrivati sul posto. Niente da fare, qui ogni albergo aveva esposto un cartello grosso come una casa a indicare il tutto esaurito. Il tono dell’avviso era più o meno questo:

TUTTO ESAURITO!!!

SIETE PREGATI DI NON DISTURBARE

– GRAZIE –

Alberghi. Pensioni. Bred&breakfast o agenzie che affittano appartamenti, tutti chiedevano nella stessa lingua di non rompere i coglioni.

All’inizio, nonostante l’annuncio scritto a caratteri cubitali, entravamo pieni di fiducia chiedendo informazioni alla reception sulla disponibilità di una camera, ma al quinto o sesto tentativo ci abbiamo rinunciato perché altrimenti avrebbe vinto uno sconforto tale da rovinare la vacanza. Qualcuno della reception ci ha risposto anche sgarbatamente, quando siamo entrati per delle informazioni, perché secondo loro, visto la festa della Repubblica cadeva di giovedì, era scontato che una massa di persone si fosse organizzata per trascorrere dei giorni al mare. Le nostre insistenze per cercare una sistemazione erano del tutto fuori luogo, e l’ingenuità a volte si paga con la vita.

Erano giorni molto caldi e ci bastava respirare l’aria di mare, forse con un primo bagno di stagione, ma senza fare gli schizzinosi su quale località scegliere. Quindi, falliti i tentativi su Marina di Grosseto, abbiamo pensato di spostarci verso Castiglion della Pescaia, anche se era davvero improbabile trovare una sistemazione per quattro notti, visto l’esito deludente delle telefonate fatte nei giorni precedenti alla partenza. La ricerca in pensioni e alberghi è stata infruttuosa e vana fino allo scoccare delle campane di mezzogiorno, quando abbiamo trovato da dormire per la notte in un piccolo albergo del centro, proprio di fianco all’agenzia del turismo. Un albergo a due stelle, non tanto confortevole, che in definitiva ospitava ogni anno i soliti clienti. Gente che aveva la barca, a cui piaceva pescare, coppie di anziani che amavano passeggiare nella confusione del centro, proprietari di un negozio che apriva solo per la stagione estiva. Abbiamo lasciato la valigia e poi ci siamo preoccupati di comprare qualcosa da mangiare per pranzo. Il titolare ci aveva promesso la camera solo per la quella notte, visto che il giorno dopo sarebbe arrivato un professore universitario che aveva già prenotato i fine settimana di giugno e di luglio per uscire a pesca con la barca. Ancora non si era fatto sentire per la conferma, ma il titolare dell’albergo ci avrebbe detto qualcosa la sera, oppure il mattino dopo, quando ci saremmo presentati per la colazione. Solitamente il professore confermava il suo arrivo con la telefonata un paio di giorni prima, se invece aveva un contrattempo non si faceva sentire. Se non telefonava, allora potevamo restare a dormire fino alla domenica. Ormai rilassato, mi sono detto: se va bene questa volta è un miracolo. Mentre mia moglie in preda all’ottimismo aggiustava un po’ di abiti nell’armadio e tirava fuori i costumi da bagno, sono uscito con la scusa di fumare, prendere un caffè e comprare dei panini che poi avremmo mangiato sulla parte più alta e ventilata del borgo medioevale. Ci saremmo seduti su di una panchina collocata in un punto strategico, da dove si poteva ammirare un tratto di costa e la spaziosità del mare, con la vista su Punta Ala e il profilo dell’Elba che si confondeva con il promontorio di Piombino. A star lì durante il giorno ti trovi in una pace così rilassante che puoi leggere un libro, se proprio ne senti il bisogno. Al bar, dietro di me è entrato un signore che ha chiesto alla ragazza di preparargli un bel frizzantino fresco. Nel voltarmi ho subito intuito che era un alcolizzato. Aveva lo stomaco gonfio, gli occhi rossi e assenti, i pantaloni sotto la pancia sorretti da bretelle. Bevuto il bianco d’un fiato, ha chiesto subito la riavuta. Sudava continuamente, parlando alla ragazza del bar di non so quale necessaria premura di impallinare il Sindaco perché – nonostante lo avesse promesso in campagna elettore due anni prima – ancora non era intervenuto nel rifacimento del marciapiedi in un tratto di lungomare. La ragazza rideva, continuando a servire la clientela, e lui imprecava alzando la voce sempre di un tono, perché per accedere allo stabilimento balneare del figlio si rischiava d’inciampare sulle radici dei pini che increspavano il marciapiedi e la strada.

Prima di metterci a mangiare in un punto ombreggiato nella parte più alta del paese, da dove si vede il mare e si respira il refrigerio del vento e gli odori del salmastro, ho convinto Irene di accompagnarmi al cimitero perché volevo fermarmi per un saluto sulla tomba di Italo Calvino. Non era la prima visita che gli facevo, a Castiglion della Pescaia ci venivamo ogni anno almeno per qualche giorno dal 1978, e dopo la sua morte, avvenuta nel 1985, ho sempre trovato un momento per andare a trovarlo. Arrivarci a piedi dalla spiaggia non è proprio una passeggiata, prima di raggiungere il cimitero si deve attraversare il borgo antico camminando su per una salita che toglie il respiro, è così ripida che hai bisogno di fermarti a rifiatare almeno un paio di volte. I primi anni di matrimonio a Castiglion della Pescaia ci venivamo in vacanza da soli, con la tenda, facendo campeggio libero dentro la pineta, mentre con i nostri figli affittavamo l’appartamento una settimana o per quindici giorni, dipendeva tutto dalle nostre disponibilità economiche. Rispetto alle precedenti visite, quell’anno la sua tomba mi sembrava molto trascurata, c’era soprattutto da potare la siepe di rosmarino e di timo che ormai nascondeva la lastra di marmo bianco. Chissà perché avevo il ricordo che ci fosse un alberello di corbezzolo. Forse lo avevo visto spuntare da una delle tante tombe del cimitero e lo ricollegavo istintivamente a quella di Calvino, oppure perché è una pianta che mi è rimasta impressa nella mente da quando il nonno e mio padre mi portavano nel bosco in autunno e si faceva scorpacciate di quei frutti rossi, dal sapore così acerbo, selvatico. Non so proprio spiegarlo, questo collegamento, visto che nei paraggi della sua tomba non c’è traccia di quel frutto. In silenzio ci siamo voltati per qualche secondo verso l’orizzonte del mare, l’immagine così vasta si apriva oltre il muretto di contenimento che fa angolo con una piccola cappella di famiglia. Nella foschia marina, sullo sfondo, si avvertiva appena appena la presenza dell’isola del Giglio. Qui siamo sul lato opposto del monte dove sorge Castiglion della Pescaia e la costa che si trova a ovest non è visibile. Però nel punto del cimitero in cui è sepolto Calvino, seguendo la striscia di costa battuta dalle onde si vede fino all’Argentario, poi il mare e l’Isola del Giglio. E si può apprezzare, nell’insieme, la vista su tutta la fascia della pineta che si propende lungo la spiaggia della Maremma grossetana. Nelle giornate estive in cui il cielo è di una limpidezza estrema, con lo sguardo si raggiungono le isole di Montecristo e di Pianosa e dietro, molto più lontano, qualche volta è visibile anche la Corsica. Guardando più a ridosso del centro urbano, verso est si apre la zona paludosa della riserva naturale di Diaccia Botrona, tutto quello che rimane di un antico lago palustre, il lago Prile, che fino al Settecento occupava quasi per intero la pianura, arrivando a lambire la città di Grosseto. In un punto della zona palustre emerge un’antica costruzione, la Casa Rossa, costruita da Leonardo Ximenes, durante i lavori di bonifica commisionati dai Lorena. Questo Ximenes era un ingegnere e matematico dell’ordine dei gesuiti. La casa quindi prende il nome dal suo ideatore: Casa Ximenes, quel ‘rossa’, che è riferito al colore dell’intonaco ce l’ho infilato io di proposito, mentre ne parlavo con i miei figli, la prima volta che li abbiamo portati a visitare la zona paludosa. Nella palude nidificano numerose specie di uccelli, e in quell’occasione fummo particolarmente fortunati perché osservammo anche il Cavaliere d’Italia e un falco pescatore che faceva i suoi giri nel cielo e si posava, di tanto in tanto, su qualche albero spelacchiato per avvistare le sue prede. Sì, c’erano tanti aironi cinerini, fenicotteri, garzette, gru, ma vedemmo anche delle oche selvatiche, un tarabuso, alcuni aironi rossi, dei fischioni e delle alzavole. Fummo davvero fortunati. Intendiamoci, queste specie di volatili le conosco grazie al più piccolo dei miei figli che, soprattutto nel periodo delle scuole elementari, era così appassionato da voler fare l’ornitologo. Una volta che visitammo la Specola, il museo fiorentino di storia naturale, alla sezione degli uccelli imbalsamati la guida che ci accompagnava era rimasta talmente stupita delle sue conoscenze che a un certo punto gli chiese di spiegare le caratteristiche di alcune strane razze di volatili a tutta la comitiva. Vi lascio immaginare la gran soddisfazione di Irene e mia, quando lui parlava a quella decina di sconosciuti senza alcun timore reverenziale, mentre ridevano gli occhi ci nutrivamo di ogni sua parola. Questa passione nel crescere in lui si è affievolita, però non l’ha persa del tutto.

Mentre si ammirava il paesaggio dal cimitero c’erano in cielo tante rondini che volavano in cerchio sui tetti delle case e sulla fortificazione che circonda il borgo antico. Secondo me, quando siamo morti, non ci sono posti belli per essere conservati, ma qui dove riposa Italo Calvino si resta in silenzio e la preghiera è osservare il paesaggio con attenzione. Una preghiara che facciamo a noi stessi, più che ai defunti. Credo sia proprio questo il loro desiderio: che ci perdiamo nella quiete del luogo, in quella dimensione contemplativa in cui si ha la certezza che l’uomo vale quanto una formica; un luogo dove ci è chiaro che la razza umana sbaglia a prendersi troppo sul serio.

Nel pomeriggio ci siamo presi un po’ di sole sulla spiaggia, e fatto il bagno. Poi a cena abbiamo mangiato una pizza in un locale che conoscevamo molto bene. Alla fine, per non sclerare con la solita passeggiata nel centro, siamo tornati a visitare la parte alta del paese, salendo sul torrione dove molti anni prima io e Irene restammo svegli tutta la notte ad aspettare l’incanto dell’alba. Nel mese di agosto il sole nasce da dietro i monti di Roselle, e con il primo bagliore che bucava la massa scura della notte, lentamente è apparso un cerchio rosso come il fuoco vivo. Rientrati in albergo il proprietario ci ha detto che la mattina avremmo dovuto lasciare la camera perché il professore aveva confermato il suo arrivo verso l’ora di pranzo.

Nilo Australi, Spiaggia con macchia mediterranea (acquerello)

«Che facciamo adesso?» mi ha chiesto Irene, appena arrivati in camera.

«Non lo so. Pensiamoci domani mattina», le ho risposto un po’ deluso per il miracolo che non c’era stato.

«Dovremo cercare da dormire più all’interno, anche se per raggiungere il mare ci sarà da spostarsi con l’auto.

«Irene, ne parliamo domani.

«Facciamo sempre gli stessi errori, mai una volta che ci serva di lezione.

«È un modo di vivere, non si cambia se non sei convinto.

«Però ci caschiamo sempre,… come dei cretini.

«Ti ricordi no, quando abbiamo aspettato l’alba sul torrione del Castello?

Lei ha sorriso, mentre io continuavo a ricordare.

«Anche quella volta ci spostammo in autobus e con l’autostop. Alla sera montammo la tenda nella pineta comunale con divieto di campeggio per toglierla al mattino, perché altrimenti la polizia municipale ci avrebbe sequestrato la tenda e fatto una multa. L’ultimo giorno, stanchi morti, decidemmo di aspettare l’alba su al castello.

«Quando cominciò a illuminarsi la nebbia sopra la pineta, sembrava che le piante respirassero per noi. Un’alba stupenda.

«Lo so, anch’io ne ho un ricordo bellissimo. Eppure dopo dieci giorni eravamo più stanchi di quando siamo partiti per le ferie.

«Sì,…è proprio vero.

Alle due di notte sono stato svegliato da un gran fracasso che veniva dalla piazza sottostante adibita a parcheggio. E’ scattato l’allarme di una macchina, e alcune persone si sono messe a parlare animatamente proprio sotto il nostro albergo. Sono anche passati dei ragazzi e delle ragazze che si sfottevano a vicenda, pieni di allegria. Quando il tutto si è calmato, mi sono alzato per fumare una sigaretta affacciato alla finestra del bagno, così ho intravisto lo stesso personaggio incontrato la mattina al bar, mentre prendevo il caffè e lui beveva un paio di bicchieri di vino bianco frizzante. Barcollava insicuro sulle gambe, ogni tanto appoggiandosi alle auto del parcheggio per mantenere una traiettoria di percorso. A un certo punto si è fermato borbottando una strana e pasticciata cantilena che sembrava un’imprecazione lanciata contro la notte, ha alzato la testa verso il cielo, guardando in direzione della luce di un lampione e poi pisciato beatamente, tra le auto in sosta. Mentre stavo fumando il mio sguardo si spostava dall’immagine del paese chiuso dentro la cerchia muraria del suo passato a quella più vaga delle colline circostanti, così ricche di una vegetazione che a quell’ora si confondeva con il nero della notte, e alla fine mi sono chiesto se ci poteva essere un nesso tra quelle antiche pietre, la folta macchia mediterranea fatta di alberi e di arbusti, e l’ubriaco che pisciava indisturbato tra le auto del parcheggio. Il pensiero che era dietro a quegli sguardi nasceva da un gesto automatico, da una sintesi di più immagini accumulate senza dargli un valore, insignificanti, banali quanto si vuole, ma pur sempre reali in quel preciso contesto.

Scusate se ho finito a parlare solo di me stesso, ma certe volte mi capita d’isolarmi dietro un muro di pensieri dei quali non riesco a spiegarmi l’origine, però in fondo la memoria vive di alcuni fatti che non sono condivisibili se non immaginati nuovamente in situazioni reali diverse, ma non è detto che quest’associazione mentale abbia un fondamento, molto spesso è solo un modo un po’ più elegante di mentire a se stessi.

Il mattino dopo, portata la valigia in macchina, ci siamo fermati all’ufficio informazioni dove abbiamo preso un opuscolo con tutti gli alberghi del comune per trovare un posto per le notti successive. Ci siamo messi a telefonare in spiaggia, per cercare una nuova sistemazione mentre si prendeva il sole. L’unica camera disponibile l’ha trovata Irene dopo vari tentativi, si trattava di una pensione di Vetulonia, situata nell’entroterra, a oltre dieci chilomentri da Castiglion della Pescaia. Lei prima ha confermato il nostro arrivo per le 13 e 30, poi mi ha spiegato dov’è che aveva trovato una sistemazione per le tre notti successive. Non ho detto niente, perché tutto sommato la spiaggia già a quell’ora era così affollata che alternare mare e campagna poteva starci bene.

Angelo Australi, 20 – 25 aprile 2020


5 pensieri su “scusate se parlo solo di me stesso

  1. …Angelo Australi: “Solo?” già mi sembra moltissimo saper scrivere, quindi per me leggere, in maniera cosi’ spontanea di se’, regalandoci la narrazione di avventure di coppia, dal viaggio di nozze in poi, e di un figlio, bambino ornitologo…Ma poi si aprono bellissime descrizioni di paesaggi, da osservare in silenzio come davanti alla tomba di I. Calvino, di luoghi che non ho mai visitato e, accompagnata dal racconto, mi è sembrato di esserci…Ricordi per lo piu’ di viaggi in tempo di quarantena, con le tante restrizioni, e questo risveglia nostalgie e forse anche timori sul futuro che (non) verrà…L’immagine dell’ubriaco che piscia “beatamente” nella notte, tra le macchine in sosta, nella cornice naturale dei colli, come ad abbandonarsi totalmente, neonato indifeso nel grembo della madre, trasmette un senso di armonia, un “nesso”…

  2. Cara Annamaria,
    vedo che leggendo hai sentito che quel “finire a parlare solo di se stesso” è anche un modo di parlare degli altri. Non so se si possa chiamare racconto o pagina di diario, è venuto fuori così dall’idea che mi sono fatto in questi giorni di quarantena del come tornare ad accettare una certa fatalità della vita, o, come dice il mio amico Giuseppe Baldassarre, della mancanza di una dimensione “del vagabondare senza meta”.
    Grazie per la lettura

  3. Mi vengono in mente, a bruciapelo, due considerazioni, dopo aver letto il bel racconto di Angelo Australi: la prima rimanda a quell’arte del “novellare” che in Toscana è nella genetica di ognuno, tramandata dai nonni e dai nonni dei nonni, e che, ogni sera, magari intorno al focolare, rendeva magica la stanza, con i suoi gesti, i suoi riti, il suo mistero. In fondo, forse, lo stesso Boccaccio ha riempito il suo libro da quella fontana ancestrale. La seconda, invece, riguarda il racconto-enciclopedia, di cui questo mi sembra un esempio: parlare di sé è solo il pretesto per dire del mondo, con la precisione dell’ornitologo, ma anche con la vaghezza leopardiana del poeta.

    1. Caro Daniele,
      mi convince l’idea del racconto-enciclopedia, in fondo a scriverlo non pensavo alla pagina di un diario.

  4. Caro Angelo,
    parlare di sé è condividere. E questo è bello perché oltre a mettere a nudo l’anima, vivacizza la coralità. Un modo di affrontare il quotidiano insieme agli altri: il migliore. Proprio l’opposto di quel che sta accadendo ora, dove le distanze imposte ci creano l’ansia di sentirsi soli, anche in famiglia.
    Attraverso il racconto di una fetta della tua vita ci inviti a entrare in quella di ciascuno di noi. Grazie.
    Lucia

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