La pop-narrativa fessbucchiana di Lanfranco Caminiti

Foto presa dalla pagina FB di Lanfranco Caminiti

di Samizdat

Di Lanfranco Caminiti ho già pubblicato su Poliscritture un bel racconto (qui) sugli effetti dell’epidemia da coronavirus al Sud. Oggi voglio segnalare tre pezzi brevi che ho letto giorni fa sulla sua pagina Facebook. E che etichetterei (positivamente, eh!) come esempio pionieristico di pop-narrativa fessbucchiana. Per l’arguzia, la capacità di sfottere e sfottersi e di alleggerire gli argomenti complicati o drammatici senza mai lasciarsi sfuggire il loro nucleo serissimo e spesso tragico. Tra l’altro gli amici e le amiche che commentano sulla sua pagina sono davvero un “coro”, altrettanto capace di tenere botta alle sue acrobazie narrative e fare con lui “teatro” didattico-politico a beneficio di tutti. Mi azzardo a dire che sono riusciti a costruire su Facebook – luogo di alienazione e dannazione delle buone idee – non un salottino spocchiosetto di cicisbei e madamine saccenti, ma lo spazio elementare del narrare di cui parlò Benjamin a proposito di Leskov: L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi. (Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Einaudi, Torino, 2011). Questa capacità di commentare episodi degni di nota e di condividerli con i propri simili, sviluppando una coscienza collettiva, è antichissima. Ho letto che i primi “narratori” della storia possono essere considerati gli uomini primitivi, i quali – ritrovatisi attorno al fuoco alla sera – scambiavano i propri racconti di vita fra loro, nella speranza di rendere più semplice il futuro agli altri membri del clan, mettendoli a conoscenza di possibili pericoli e nuove scoperte. Mi pare che quel rito si ripeta oggi su questa pagina di Facebook in forma originale e vivace. Auguri a Lanfranco e al suo “coro”. [E. A.]

1.

vi devo raccontare com’è che sono diventato maoista, perché negli anni questa cosa mi è sempre stata rimproverata (dagli operaisti, va da sé), più o meno velatamente. e ci ho un peso qua, sul cuore. ai diciott’anni ero proprio un ragazzaccio: giocavo a poker e a bazzica passando interi pomeriggi nelle sale da biliardo, perdevo e poi rubavo nelle case per pagare i debiti. andavo a puttane. fu in quel periodo che conobbi – non ricordo come – un giovane ingegnere che veniva da milano e stava con la linea nera, la linea rossa (boh) degli emmelle. era rigido come un manico di scopa, ma non mancava di una sua intelligenza. se facevi la tara all’ideologia, era anche piacevole chiacchierarci. questa cosa delle puttane, però, me la rimproverava sempre. non so come, si ritrovò solo, senza la compagna. e una sera, con gran giri di parole, mi chiese di accompagnarmi – però, vai prima te, mi disse. avevo le chiavi di uno scannatoio, che facevamo a mezzi con altri ragazzacci. e così, passammo dove si batteva, ne caricai una e via. era carina, assai, piccola ma molto ben fatta. e un’aria simpatica, per nulla volgare. insomma, qualche convenevole in cucina, e poi in camera da letto. ci misi una decina di minuti, e quando tornai in cucina, lui era lì che compulsava un libretto rosso di mao. mi guardò – bisogna che gliene parli, anche lei fa parte del popolo. non ebbi cuore di trattenerlo. e si infilò in camera da letto. ci mise un’ora. che io mi stavo preoccupando. quando poi ci salutammo, quella sera, mi disse che gliel’aveva lasciato, il libretto. e le aveva spiegato questo e quello. passò qualche giorno e lui tornò alla carica – ma andiamo a trovare quelle donne del popolo? e come no? così, passai dal banco di sicilia, vicino al porto, feci qualche giro finché la ritrovai e fermai l’auto. la caricammo. appena salì sul sedile di dietro, agitando il libretto rosso, disse: «il potere nasce dalla canna del fucile», e giù a ridere. ecco, così sono diventato maoista. che miracoli così, gli operaisti se li potevano sognare

2

perciò, la scienza ci ha deluso – volevamo subito una cura, e niente: solo grafici e algoritmi, dubbi e incertezze e qualche parola di buon senso come i consigli della nonna. la chiesa, forse pure dio ci ha abbandonato – le immagini della piazza vuota di san pietro sono testimonianza dell’assenza. la filosofia – oggesù: zizek, agamben – sembra un festival pop

la politica – la politica chi?
siamo rimasti soli – e ce la stiamo cavando bene. magari se prendiamo consapevolezza di questo trasformeremo la ragionevole paura in desiderio di trasformazione. in potenza.
yes, we can. buon 25 aprile

3


a rebibbia facevo il barbiere. nessuno voleva fare il barbiere – chi lo spesino, chi l’addetto ai pacchi delle famiglie. mi feci avanti io – eccomi. ebbi una rapida e sommaria formazione professionale – chiamarono il barbiere di un braccio, non ricordo quale. e quello mi insegnò in un’oretta: metti il pettine così, solleva i capelli, taglia così. beh lui non era figaro, e neanche io lo sarei stato, ma qualcosa si poteva fare. cocciuto e precisino come sono, pensai e ripensai. pratica non ne potevo fare, perché le forbici (mooolto arrotondate) arrivavano con le guardie e solo il giorno dedicato al taglio. e in cella non avevo buon materiale: paolo, capelli quattro, e guai a toccarglieli, e lucio pensava solo ai suoi baffi, e dei capelli gli fregava un czzo. mi esercitavo mentalmente. fu la volta di mettere in pratica gli insegnamenti e l’addestramento mentale. nessuno si fidava ma avevano tali cespugli in testa che qualunque cosa ne sarebbe venuta sarebbe stata meglio. all’inizio andavo pianissimo – flic flic flic. millimetri ne tagliavo, millimetri. poi cominciai a prender confidenza, zac zac. ho avuto anche le mie soddisfazioni. quando iniziò il processo 7 aprile, la testa di toni fu tra le mie mani. za za za za’. prima pagina de “la repubblica” (a cui fregava un czzo di parlare delle cose, ma voleva “colore”): «eccolo il cattivo maestro, una giacca di buona fattura, un bel paio di occhiali. colpisce soprattutto il capello ben curato». un trionfo: ero in cronaca rosa. con toni. la cella di barbiere registrò un’impennata di clienti. tutto questo per raccontarvi non le mie memorie di un barbiere (i più colti, ricorderanno germanetto) – ma per spendere parole, ne ho titoli, per la nobile categoria professionale cui mi onoro di appartenere: i barbieri. aprono tutti ma i barbieri e i parrucchieri no. un’indegna discriminazione, dal sapore squisitamente politico: i barbieri, si sa, sono l’avanguardia rivoluzionaria del popolo. eccalla’

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