Siamo tutti in pericolo

di Lorenzo Merlo

Questo articolo di Lorenzo Merlo fa da specchio fedele alle paure e alle incertezze del tempo sospeso e gravido di incubi in cui siamo capitati. Ha echi pasoliniani: la critica al “sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori”, una nostalgia per le epoche in cui gli uomini non erano “analfabeti in tutte le materie della creazione che si studiano con le mani”, la scelta di “stare con i deboli”. Non cade nella facile visione complottista oggi diffusissima (anche se, qua e là, pare la sfiori). Ci vedo anche un tentativo di distanziarsi criticamente da una realtà indecifrabile e angosciante narrando al passato eventi appena accaduti o che ancora stanno accadendo. Il nucleo emotivo e intellettuale dell’articolo sta nella fila caparbia e lucida dei ‘perché’ e dei ‘vogliamo’ polemici che Merlo accumula. E che chiedono, però, almeno un abbozzo di risposte. [E. A.]

Era lontana la Cina. Arrivavano notizie di qualcosa d’importante. Per fare fronte all’emergenza fermarono la routine della vita nota. Attraverso la tv, prima che spaventoso ed esiziale pareva irreale. Strade vuote, morti, ospedali traboccanti, tutto immobilizzato. L’allarme era mondiale ma tutti stavano a guardare.

Era lontana la Cina.

Finché non si fece sotto e fu vicina come non avremmo mai detto. Ed eccola qui. Era in casa.

In poco il focolaio sviluppò il suo potere. E quanto è vero che loro mangiano tutto, vivono promiscui e con un livello di igiene che aborriamo, è altrettanto vero che per ogni malessere è il terreno che dice la verità. Evidentemente qui da noi c’era molta mota malata dentro i corpi di tante anime alienate. E, a ben guardare, anche dentro il Primo mondo, definitivamente eretto su una fittizia impalcatura, Torre di Babele adeguata ai tempi nostri.

Forse quel suo benessere raggiunto e vantato, sebbene costituito da cromature e apparenza, da tecnologia e separazione dal cosmo, ne era responsabile?

Ai valori del Nord del mondo, succedanei della verità, nessuno del suo popolo avrebbe mai abdicato. Né, avrebbe mai preso in considerazione le proposte di frugalità che da sempre sono disponibili agli uomini. Secondo i loro esperti, sole autorità del vero, e i loro umani armenti al seguito, quelle proposte alternative non hanno valore. Non sono che pauperistiche e ciarlatane, assurde e da denigrare tout court.

Comprensibile. Quei competenti non hanno i mezzi per intendere la misura di quelle proposte, ma hanno la saccenza per impiegare i riff scientisti e così ritenersi al riparo da qualunque critica. Mai, in cambio di una tacca di frugalità recederebbero di un punto dal loro scranno di verità scientificamente provata.

Il loro benessere, secondo le rime di fascinosi poeti satanici, rima con progresso. Ma il loro ambito è solo un incantesimo. Come limatura di ferro, si allineano al magnete che non vedono, seguono il guinzaglio che non sentono.

Dalla motonave individualista, dentro la bolla di suggestioni riempita con miraggi di ricchezza, le tradizioni analogiche, che hanno guidato la misura d’uomo fino a ieri, inutili pesi morti, sono state buttate a mare.

Le stelle, il sorgere e tramontare del sole, il sestante e la bussola che avevano guidato le generazioni passate sulle piste del mondo per arrivare a baita erano divenute cianfrusaglie inutili da dimenticare in soffitta. Nessuno sapeva più utilizzare gli astri, le ombre, gli angoli e i gradi per comandare la vita.

Ci si affidava ad esperti, eventualmente anche virtuali. Noi, di nostro, ormai analfabeti in tutte le materie della creazione che si studiano con le mani e la sensibilità sottile dell’armonia, che potevamo farci?

Così i vecchi non facevano testo se non nel bilancio delle case di cura, i bambini crescevano secondo un’educazione delegata, i giovani erano formati a divenire ubbidienti soldatini di comandanti a loro volta allineati servitori di registi nella penombra.

Il virus si era preso il centro del mondo. Che si poteva fare?

Giusto. Che fare?

Se lo chiesero in tempi diversi un po’ tutti e ad ogni livello. Come è giusto nei grandi numeri la percentuale maggiore si adeguò senza obiettare alle indicazioni che gli arrivavano dall’alto, benché anche in cabina di pilotaggio non avessero del tutto le idee chiare.

Come biasimarli? Si era davanti a una novità, come al tempo delle Brigate Rosse. Nessuno sapeva inizialmente quale interpretazione del fenomeno preferire. Di certo, tutte le linee di risposta a quel che fare? avevano la loro ragione d’essere.

L’allarme crebbe e insieme a lui si moltiplicarono morti, ricoverati, perplessità, guariti, proibizioni.

Passavano i giorni ma non la nebbia che li copriva, squarciata soltanto dai fari forti dei telegiornali e dei talk show ormai via skype.

Si dovettero chiudere le attività, le scuole, le persone.

Insieme all’ordine sempre più perentorio, ripetuto, sanzionato di stare reclusi nelle proprie abitazioni, cresceva il senso di incompletezza delle informazioni. Quindi le domande dei perché e le ipotesi delle ragioni.

Perché la mortalità a causa del virus protagonista di tutti i teatri della vita e del globo, veniva solo di rado precisata? Perché era sempre preferita quella abnorme causata da malattie preesistenti o di persone per qualche motivo già immunitariamente deboli?

Perché un farmaco giapponese, apparentemente risolutore per buona misura se assunto in corrispondenza dei primi sintomi, non era impiegato in Europa? Perché la versione europea dello stesso principio attivo non era considerata parimenti risolutiva come quello giapponese per i giapponesi? Perché non ne hanno parlato finché non è entrato in circolazione il video del farmacista italiano? Perché autorità e media hanno preferito dedicarsi a ipotesi temporali sulla realizzazione del vaccino specifico? Perché si approfondisce solo ora di un farmaco pertinente al problema?

Perché quel farmaco del sol levante non era commercializzato in Europa? C’erano di mezzo divisioni territoriali tra lobby farmaceutiche? Questioni economiche? Le multinazionali farmaceutiche, e non solo, tutelavano i propri interessi? E in quel caso, a costo di vivere sui morti?

Perché il nostro Ministero della salute non parlava di quel farmaco? Non era informato sulla sua efficacia o si atteneva a veti estranei alla salute?

Dopo la diffusione del video dal Giappone, gli esperti si affrettavano a fare presente che ora verrà studiato. Se a breve, quel farmaco, di così secondaria importanza, scalasse improvvisamente la classifica dell’efficienza, non sarebbe una buona notizia salvo che per gli ammalati. Sarebbe infatti un ulteriore motivo per sospettare ci sia qualcosa da capire.

Perché il farmacista italiano in Giappone non è stato denunciato per diffusione di falsa speranza? Perché rispondono che non funziona, che è tutto da verificare ma non lo denunciano? Perché i giornalacci governativi lasciano la notizia in fondo alle pagine?

Perché il ritardo iniziale del governo ad intervenire con drastiche misure di contenimento? A quali pressioni ubbidiva il nostro vertice nonostante il suo dovere di garantire la salute del suo popolo?

Perché l’emergenza dichiarata da settimane che indicava di indossare le maschere, non ha fornito le protezioni per tempo?

Perché nonostante la virulenza del coronavirus proprio gli operatori medici, la polizia sono in gran numero i meno protetti?

Perché se la partita Atalanta-Valencia è considerata epidemiologicamente esplosiva non si ha notizia di come si siano applicati controlli utili a comprendere a quale punto un infetto diviene infettivo? Ma quanti dovevano essere i portatori asintomatici per realizzare tanto contagio?

Perché ancora oggi – con le approssimazioni del caso – non viene dichiarato che chiunque può essere infettivo a qualunque stadio della sua stessa infezione ancora asintomatica? Non è l’opposto di quanto finora abbiamo sentito? Ovvero che siamo infettivi dai primi sintomi (tosse, febbre media, ecc) in là?

Perché milioni di tamponi di produzione italiana sono volati in Usa con un volo militare americano?

Perché al personale in prima linea non viene praticato il tampone d’ufficio? Ripetutamente?

Perché non è chiaro se i tamponi sono disponibili o meno?

Perché 30.000 soldati americani per un’esercitazione Nato, sono entrati in suolo europeo senza alcun impegno a rispettare le seppur differenti modalità nazionali del nostro continente?

Perché lo studio realizzato e pubblicato proprio dalla Nato, che analizza quali soggetti potrebbero essere interessati ad un’azione pandemica, non è discusso negli schermi di chi ha in mano la comunicazione nel nostro paese? Considerando che proprio gli Usa rispondono positivamente a tutti i filtri di quello studio?

Perché l’Europa unita chiamata più che mai ad una reazione d’Unione, non ha saputo esprimere alcuna direzione comune alla gestione dell’emergenza?

Perché la Grecia è stata, in passato, lasciata naufragare quando ora si lascia libertà – il costo lo sapremo a suo tempo – pressoché totale al portafoglio del debito dei singoli stati?

Ma se ragioni sanitarie hanno permesso le scelte radicali che stiamo vivendo, come mai pari scelte non possono essere imposte per ragioni di salute tout court, che non hanno a che fare col virus ma con noi stessi?

Perché un cambio di paradigma non può essere imposto per frenare o eludere le ragioni che ci hanno condotto ad essere un’umanità debole?

Eppure, quelli come Pasolini e Cristo, e chissà quanti altri prima e dopo di loro, hanno saputo indicare dove, come e perché la Torre di Babele dell’arroganza, dell’avidità e della modernità mostrava strutturali punti deboli. Nel nostro caso, uno, dedicandosi alla morale come esiziale impiccio dell’intelligenza e all’ego come origine del disastro culturale. L’altro, al dominio dell’ego come peccato originale dal quale germinano tutti i problemi umani.

Forse erano fari che solo apparentemente parevano avere le doti per rompere il sistema infausto dell’egoismo.

Perché sennò dietro di loro non c’era quasi nessuno?

Forse non erano fratture della bolla illusoria, ma espressioni di quella stessa monade. Un espediente funzionale a se stesso al fine di migliorare la propria tenuta, la propria stabilità.

Perché altrimenti, anche ora che al cospetto dei loro sepolcrali epitaffi, si inginocchiano le loro stesse vittime?

Forse non erano cancri del bene, bensì pustole di un sistema corrotto ma tenace.

È questo che genera quegli esempi per studiarne le reazioni popolari e culturali, per studiarne le caratteristiche e rinforzarsi.

Dunque loro ne facevano parte, non erano per nulla estranei alla realtà che criticavano, anzi, ne era elemento strutturale.

Ma se il sistema è tanto scaltro che vogliamo fare? Che vogliamo credere?

Forse non occorrono campioni e talenti isolati, servono, invece, modesti uomini della strada che cessino di delegare al prossimo il proprio futuro. Forse certi riferimenti cristici, pasoliniani e non solo, hanno un potenziale di rilascio affidato al tempo e alle circostanze. Se non vogliamo perdere le possibilità evolutive che il virus ci ha offerto, possiamo rivolgere, questa volta a noi stessi, molte domande. Saranno di risposta assai più immediata di quelle che siamo abituati a rivolgere ai potenti.

Vogliamo ritornare all’esiziale status quo precedente all’incoronazione dell’Europa e del mondo?

Vogliamo ancora riportare l’attenzione, l’energia, la passione su quanto è futile?

Vogliamo continuare ad alimentare il regime di inquinamento atmosferico?

Vogliamo ritornare ad eleggere la cultura del consumismo?

Vogliamo ancora insistere sulla via dell’opulenza?

Vogliamo ostinarci a credere nella logica del produttivismo?

Vogliamo restare ancora prostrati alla tecnologia?

Vogliamo seguitare a considerare innocui i campi elettromagnetici?

Vogliamo ancora respirare tanfosa aria tossica?

Vogliamo ancora cacciare denaro e perdere vita?

Vogliamo perseguire una via che ci allontana dalla natura?

Vogliamo ancora recuperare un ritmo di vita che si esaurisca sulla esiziale ruota del criceto a tre posti: lavora, guadagna, crepa?

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Siamo tutti in pericolo. [Dall’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini. Rilasciata a Furio Colombo, all’epoca vice direttore de La Stampa, il 1° novembre 1975, poche ore prima di venire assassinato.]

«L’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso.

[…]

Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra.

[…]

Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

[…]

Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è “stare con i deboli”. Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere.

[…]

Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta.

[…]

Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non so quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.

[…]

Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo».

A qualcuno Pasolini non piace. Per questi, la sua parola sarebbe compromessa dal suo fare privato.

«Quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui.

Forse una consapevolezza della brevità e della fragilità della vita spingerà uomini e donne a stabilire un nuovo ordine di priorità. Insistere molto di più nel distinguere il grano dalla pula. Comprendere che il tempo, non il denaro, è la loro risorsa più preziosa.

Ci sarà chi, per la prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza.

Ci sarà forse chi, osservando gli effetti distorti della società del benessere, si sentirà nauseato e fulminato dalla banale, ingenua consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera. Che è terribile che in un mondo opulento e sazio non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità. E forse anche i mass media, presenti in modo quasi totale nelle nostre vite e nella nostra epoca, si chiederanno con onestà quale ruolo abbiano giocato nella loro vita».

David Grossman, scrittore israeliano.


Nota


Lorenzo Merlo giornalista, scrittore, fotografo, guida alpina. Si occupa di ambiente, cultura, comunicazione, sicurezza, dimensione del sé, didattica, geopolitica. Ha pubblicato Sul fondo del barile – Crisi sociale e recupero del sé, Primiceri 2018; Essere Terra – Viaggio verso l’Afghanistan, Prospero 2019; Afghanistan, fede, cuore, ragione, Victory Project Book, 2011. Scrive su diversi blog.

1 pensiero su “Siamo tutti in pericolo

  1. Nel cappello all’articolo di Merlo ho accennato all’esigenza di abbozzare delle risposte alla sua lista dei ‘perché’ e dei ‘vogliamo’. Direi che in questo articoli di Visalli ( ma anche nell’intervista a Fagan che ho segnalato giorni fa: https://www.poliscritture.it/2020/04/20/sottosopraunintervista-a-pierluigi-fagan/) sono presenti analisi del contesto storico in cui ci troviamo che possono precisare molte delle domande di Merlo e abbozzare delle possibili risposte. Certo, da discutere e approfondire.

    SEGNALAZIONE

    Paura, governo, sovranità e coronavirus.
    di Alessandro Visalli

    https://tempofertile.blogspot.com/2020/04/paura-governo-sovranita-e-coronavirus.html?fbclid=IwAR1oZ9S1acLOo08aNCce6CwPf-LYdG-g8ZzfhNwCAGbQRidmx78zI2urDps

    Stralcio:

    Del resto, è da tempo che falliamo. Il problema non è il virus, ma la normalità che ha interrotto.
    L’attacco alla vita[10] è stato già compiuto dalle strutture che, messe in piedi ed utilizzate da ben specifiche forze[11], hanno reso endemica nella nostra società la disoccupazione, l’angoscia, la deprivazione, la miseria e la fame. Ed hanno messo sotto costante attacco, e ridotto in condizioni di “anoressia” le strutture dello Stato, il welfare e il sistema sanitario in primis, che avrebbero dovuto essere il primo bastione di difesa.
    Un bastione bucherellato che ha retto a fatica in alcune regioni ed è crollato di schianto in Lombardia.
    Dove ha retto si è trattato di frammenti ancora abbastanza incredibilmente operativi del ‘trentennio glorioso’ erede dell’età moderna[12]. La stessa ragione d’essere dello Stato è quindi chiamata in causa. Esso esiste e pretende di avere il monopolio della forza in quanto e per quanto protegge dalle minacce che turbano l’esistenza delle persone. Viceversa, la scomparsa della centralità dello Stato, o la narrazione di tale scomparsa[13] fa venire meno questa promessa.
    È il venire meno di questa promessa che oggi vediamo davanti ai nostri occhi nelle parole di quell’infermiere costretto alla scelta tragica su chi salvare tra sette[14].

    Ma il venir meno di questa promessa, oggi dovrebbe essere chiaro, è una minaccia esistenziale per l’intero ordine sociale e per la vita organizzata. Una minaccia per qualunque ordine sociale, sia esso capitalista o no, occidentale o orientale, del nord e del sud[15], democratico o comunista, secolare o teocratico. Vale in particolare da noi, in Europa, dove la riduzione del pubblico nella vita delle persone è passata sistematicamente per una loro maggiore esposizione alla durezza della vita e quindi anche al rischio, alla paura, alla generazione di fragilità individuale. La sinistra ha contribuito fortemente a questo processo, peraltro, valorizzando il lato libertario dell’indebolimento delle macchine protettive novecentesche, reinterpretate come dispositivi di autorità, regimentazione, normazione e, in ultima istanza, paternalismo e patriarcato.
    Ciò ha determinato la fragilità, fisica, strutturale e politica, nella quale le nostre società globalizzate sono state trovare dalla sfida del coronavirus.

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