La recita o la vita

di Lorenzo Merlo

“Gli era chiaro come uscire dalla storia” afferma la voce parlante di questo racconto. Oh, fosse possibile dirlo non solo a singoli più o meno eccezionali che, “osservando se stessi”, sperimentano “ciò che alcuni chiamano risveglio”! Ho letto con divertito scetticismo (anche per i riferimenti ad autori – Watzlawick, Jung, Castaneda – che mi sono rimasti abbastanza estranei) questo racconto di Lorenzo Merlo, ma lo propongo all’attenzione di altri lettori più sensibili a quelle che a me paiono soltanto vie di fuga spirituali impraticabili dai milioni di viventi costretti in condizioni di precarietà o schiacciati dalle emergenze (questa del coronavirus è solo una delle tante) o dalla povertà. A loro – lo dico amaramente – toccano purtroppo ben altri risvegli. [E. A.]

Può capitare, osservando se stessi, di avvertire ciò che alcuni chiamano risveglio. La magia che si compie comporta di vedere il reale diverso da come era prima, pur essendo lui, sempre identico. È una magia a più livelli, prospettive o combinazioni. Essa include infatti anche la chiara comprensione che la realtà esce – e non, entra – dai nostri occhi. Include che non ci si senta più monadi separate dall´universo; che l´infinito che siamo è sempre mortificato da quello che crediamo; che l´energia compone il cosmo, tra cui noi stessi. 

La recita

«La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni».

Paul Watzlawick

Guardava i siti dei giornali del giorno. Leggeva qualche titolo e si soffermava sulle immagini dei personaggi come avesse aperto una scatola di ricordi. Non c’era nessuna novità e così era stato nei giorni passati. Il tempo aveva cessato di correre avanti, tutto era già noto. 

Nelle fotografie, i volti dei protagonisti del momento non corrispondevano a persone specifiche, non erano e non avevano niente di differente da tutti gli altri che li avevano preceduti. La differenza, era chiaro, era solo formale. Un involucro di carta di riso dentro il quale c’era qualcuno identico al precedente e a tutti gli altri. E anche identico a noi. Non solo il tempo era morto lasciando il posto ad una sua eternità, le cose del mondo non erano più separate. Si sentiva un respiro solo ed era cosmico.

L’eterno ritorno gli si era svelato. Una chiarezza sorprendente lo trapassò. Le leggi relazionali tra tutte le parti gli apparivano come evidenza. Il perché della storia gli si spiegava davanti. E così pure le ragioni dell’impossibilità di una liberazione dal ciclo della storia erano tutt’altro che incomprensibili. 

Vedeva che ruotavano da sempre intorno al perno imperituro dell’egoismo. Vedeva che la celebrazione dell’Io, che l’uomo da secoli perpetuava soddisfatto, ignaro di dove lo avrebbe portato, mostrava ora il lato nascosto e spietato.

Capì che quel nichilismo, che gli era sempre parso una morte insostenibile di vitalità, corrispondeva a un’interpretazione superficiale. Anch’essa un abbaglio dal quale, in quel momento, si stava ravvedendo. Il segreto si era svelato e appariva nella sua banalità come la pelle vuota di un corpo scuoiato.

L’equiparazione di tutti i valori della vita e della storia non spaventava più. Non era più un mostro che si nutriva delle nostre passioni, dei nostri entusiasmi. Non era più una nebbia posata sull’orizzonte nel quale avevamo creduto, nel quale ci eravamo riconosciuti. Il suo carattere, piuttosto, era un altro. Incredibilmente, opposto. Quella consapevolezza dell’inutile immanente a tutto, quella mortificazione privata da ogni appello di liberazione, nulla aveva a che vedere con la peggiore sorte che un uomo potesse percorrere.

Non credere a nulla di quanto la storia ci ha mostrato è la nuce del passo mai compiuto dagli uomini. La loro centratura sulla dimensione egoica della vita, glielo aveva sempre impedito. Leggere il nichilismo in quel modo, faceva finalmente luce su quanto gli era rimasto da sempre nascosto. Su quanto si era sempre nascosto nell’inconscio universale che ognuno ha nel sé.

Tutti gli interessi meschini e tutte le prospettive parziali che l’ego rincorre; tutte le energie che mette in campo per i suoi irrinunciabili progetti; tutto ciò in cui si riconosceva, in cui inseguiva il suo futuro, era ora chiaro, non erano che piccole espressioni di nuclei di vita incapaci di vedere l’intero al quale appartenevano.

Ora gli era chiaro che l’accesso alla dimensione della natura, l’interruzione della separazione da essa, corrispondeva all’emancipazione di ciò che aveva creduto di essere. Corrispondeva alla comprensione della dimensione energetica degli opposti e la loro necessità di conflitto. Gli era chiaro come uscire dalla storia. Ne comprese in un istante tutta la logica. Comprese che tutti i sentimenti sono identici in tutti noi e così le emozioni; che la loro variazione è solo nel tempo e nel luogo, nell’occasione opportuna; che sciamano tra noi. Comprese che in sostanza si riducono a due soltanto. Uno di attrazione e uno di repulsione. E che era quello il punto in cui si genera la scintilla del conflitto e del dolore.

Comprese che ne eravamo completamente dominati: essi dettavano la legge e noi le ubbidivamo. Comprese che a causa di quel dominio la storia non poteva che avere un solo sbocco, una sola identità: il conflitto. Le eccezioni erano apparenze: la pace è una brace accesa pronta a riprendere vigore soggiogata dalla giusta circostanza. Capì che credere che una buona etica sia il necessario per risolvere i problemi della storia era pensiero infantile rispetto al problema da trattare. Tutta la sua dedizione a perseguire la rettitudine, aveva da sempre comportato di oscurarne le contraddizioni. Comprese che, come si dedicava alle sue passioni, si dedicava anche a moralizzare il prossimo come avesse in sé l’ordine del mondo etico, che non poteva ottusamente sottrarsi dalla sua edificazione. Comprese che si considerava estraneo a quanto osservava.

Riconobbe quanto inopportuna fosse la sua dedizione a cercare nella regolamentazione la sede della giustizia, così come nella punizione quella della redenzione e nel caso – o in dio – quella delle malattie e di tutte le sventure. 

Comprese che era lui stesso a fare il mondo che credeva di vedere; che la realtà non era che in lui solo. Comprese il male che tanta inconsapevolezza implica; che tanto egoismo necessita. Comprese di avere sbagliato tutto. Ma non ne risentì, come accadeva prima per qualcosa che pareva andato perduto. Il crollo si era compiuto ed era totale, ma per nulla mortale, anzi.

«Il moderno non sa nulla dell’individuo. […] La coscienza di sé come individuo è generalmente andata smarrita. Egli si sente come un atomo nell’infinita, articolata catena dello Stato. Il moderno allontana da sé la responsabilità per la creazione della felicità individuale e ne rende responsabile lo Stato, cioè le relazioni con i suoi simili sono giuridicamente regolate. Le differenze individuali implicano una differenza nelle aspettative. Poiché solo da qui sorgono inadeguatezze per l’unità e l’omogeneità legali dello Stato. Il moderno cerca di livellare le individualità con un’istruzione il più possibile uniforme, cioè annientarle».

Carl Gustav Jung

La vita

«Colui che vede tutti gli esseri in sé e se stesso in tutti gli esseri non prova più odio».

Isha Upanishad

La sua nuova condizione elaborava il mondo e se stesso in una modalità del tutto nuova. Percepiva l’energia, i nodi che le nostre pretese le creavano impedendole di scorrere, impedendoci di riunire gli opposti, sempre obbligandoci a identificarci con una delle parti, di liberarci dall’arrogante maschera di un teatrante che sul palco della storia si chiama Io.

Si accorse che aveva spesso vissuto con paura. Si accorse che quell’incertezza, cuore di ogni timore, gli depredava la vita, sempre, troppo coi freni serrati da un pastone di convinzioni e convenzioni, una ricetta il cui vero nome, ora lo comprendeva, era superstizioni. 

Si sentì leggero, ampio come non pensava la materia potesse concedere.

Una quiete era scesa e la nebbia era svanita. Si rese conto di cosa fosse la vita senza più anteporre se stesso alla sua interpretazione delle cose. Si accorse che ciò che lo perturbava ora gli scivolava via. Si accorse di poter amare senza pensare anche di possedere. 

E si accorse anche che, da quel nichilismo – tanto incompreso da chi non ha conosciuto la disperazione – non era che la consapevolezza della futilità degli affanni. Non era perciò che il prodromo al passo necessario per accedere all’equilibrio, alla forza, al coraggio, alla bellezza, alla vera vita. 

«Fin da quando nasciamo, gli altri ci dicono che il mondo è in un determinato modo, e naturalmente noi non abbiamo altra scelta che accettare che il mondo sia così come gli altri hanno detto che é».

Carlo Castaneda

27 pensieri su “La recita o la vita

  1. L’interessante commento introduttivo di Ennio ha il carattere realista ma si appoggia ad un punto che non riguarda l’articolo.
    Questo, è solo la presentazione di una prospettiva evolutivo-culturale.
    Qualora si verificassero – e a questo scopo è necessario l’impegno di ognuno che si sarà precedentemente prodigato per procurarsi la visione opportuna al progetto – le condizione per farla avanzare e poi compierla, anche i più sfortunati ne risentiranno a loro favore.
    Per l’azione che essi da soli realizzeranno e per quella dei membri della comunità che si relazioneranno a questi in modo differente da quanto accade ora.
    Non solo, anche l’economia non sarebbe più predatoria, e penso sia pleonastico precisarne i vantaggi umanistici.
    Che non sia come dirlo, va da sé.
    Ma se non operiamo per la rivoluzione individuale, quella necessaria per riconoscere che nessuna politica può risolvere i problemi che essa stessa ha creato, che sono in essa impliciti, certamente non potremo arrivare a disporre della creatività necessaria per creare alternative radicali allo status quo.

  2. Provo a entrare nel merito del racconto indirettamente, commentando le parti in corsivo.
    1) «risveglio. La magia che si compie comporta di vedere il reale diverso da come era prima, pur essendo lui, sempre identico».
    Il concetto di “risveglio” richiama diverse esperienze che si possono riassumere in due gruppi molto diversi fra loro:
    a) quello della “illuminazione” gnostica, esoterica, mistico-religiosa, che vale solo soggettivamente, come tutte le esperienze e credenze religiose o pseudoreligiose. La storia, nel corso dei secoli, ci mostra molti casi di “illuminati”, non tutti positivi (anche Hitler era un “illuminato”, uno che si era “risvegliato” e aveva visto la realtà diversa da come era prima). Con ciò siamo nell’ambito dell’antichissimo mondo esoterico, magico-religioso, nel quale la divinità (qualunque cosa si intenda) e/o la “Verità” si rivelano a individui particolari, predestinati, li risvegliano, gli assegnano un destino come missione.
    b) Quello del “risveglio” come presa di coscienza critica. Studiando e meditando, percorrendo il mondo con le gambe e col pensiero, a volte capita che in poco tempo, quasi d’improvviso, si prenda coscienza di cose che non si vedevano prima e si cambia la propria prospettiva culturale (ideologica, etica ecc.). Questo è un cambiamento laico che la storia testimonia spesso; ma anche in questo caso il “risveglio” non è sempre in meglio. Può capitare, come è capitato a tanti nel 1916-1922, di diventare fascisti da comunisti e socialisti che erano, e non per banale opportunismo – si badi bene – ma proprio (come loro lo raccontano) per una specie di rapido risveglio. E può capitare il contrario, come avvenuto negli anni 1943-1945 quando giovani fascisti entusiasti hanno visto crollare il loro mondo e si sono riconosciuti in poco tempo negli ideali contrari, quelli dell’antifascismo. Anche in questo caso mi riferisco a esperienze autentiche e non al banale opportunismo.
    Il risveglio che ho esemplificato in termini politici può avvenire anche a livello di relazione con gli altri, di adesione a un nuovo stile di vita (ecologico, vegetariano, vegano ecc.) e di propria collocazione nel mondo e nella società.

    2) «La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni» (Paul Watzlawick).
    Bisogna essere ingenui e poco critici per credere che la realtà che si vede sia l’unica realtà. E poco intelligenti per fermarsi in questa illusione. Chiunque svolga un’attività di ricerca non fa altro che cercare una realtà che non si vede, che non si vede ancora, ma che si vedrà come risultato della ricerca. Si tratti di un piccolo “fatto” o dell’universo intero, la nostra percezione della realtà cambia continuamente. La staticità è il pericolo, ma solo perché è impossibile e quindi, insistendo a credere in ciò che non è più, si passa dalla realtà al pregiudizio ancorato al passato della realtà.
    Lo psicologo e filosofo costruttivista Paul Watzlawick non fa una grande affermazione, nel senso che ribadisce una cosa abbastanza ovvia. A meno che non si voglia interpretare la frase in senso, di nuovo, esoterico, con riferimento a due diversi tipi di nuova realtà:
    a) La realtà che noi possiamo costruire con la nostra volontà, non in senso laico e pratico (scientifico, tecnico, sociale ecc.), ma in senso mistico-magico-religioso. Quando ero un bambinello di scuola elementare ho elaborato il mio primo sistema filosofico (metafisico religioso morale), che non ricordo da dove traesse lo spunto. Pensai che Dio come persona trascendente non esistesse, ma che esistesse come realtà frammentata in noi, nel nostro spirito, nella nostra anima. Quindi il compito dell’umanità era quello di ritrovare la propria unione e identità spirituale e ricreare il Dio che si era disperso. L’uomo doveva tornare ad essere Dio, non come singolo, ma come unità spirituale. Ecco come una banale creazione del pensiero può farci vedere realtà molto diverse da quella che a qualcuno può sembrare l’unica realtà.
    b) La realtà nascosta che solo gli illuminati possono vedere. Tutto quel mondo esoterico (che rimane tale anche quando lo si divulga in migliaia di libri e libretti pseudo religiosi) che per la mentalità magico-religiosa è il vero mondo e che sta aldilà e alla base del mondo che conosciamo e che è oggetto della ricerca scientifica.

    3) «Il moderno non sa nulla dell’individuo. […] La coscienza di sé come individuo è generalmente andata smarrita. Egli si sente come un atomo nell’infinita, articolata catena dello Stato. Il moderno allontana da sé la responsabilità per la creazione della felicità individuale e ne rende responsabile lo Stato, cioè le relazioni con i suoi simili sono giuridicamente regolate. Le differenze individuali implicano una differenza nelle aspettative. Poiché solo da qui sorgono inadeguatezze per l’unità e l’omogeneità legali dello Stato. Il moderno cerca di livellare le individualità con un’istruzione il più possibile uniforme, cioè annientarle». (Carl Gustav Jung).
    Il grande psicoanalista ha perfettamente ragione. Sono almeno due secoli e mezzo che il mondo “moderno” e “contemporaneo” e “postmoderno” tenta di annullare le singolarità individuali e la realtà del fatto che l’umanità è formata da individui ognuno diverso dall’altro. Dovrei anzi dire che sono oltre due millenni che lo si sta facendo. Dagli eroi omerici al cittadino democratico dell’Atene di Pericle vi è già un abisso. Poi tre grandi chiese, con tutto ciò che di collaterale hanno sviluppato, si sono date da fare per livellare gli individui: il Cristianesimo, l’Islamismo, il Marxismo. Ma credo che la soluzione di molti problemi, fra cui anche la liberazione dall’alienazione, si possa trovare solo nella prospettiva di una rivalutazione delle differenze e delle libertà dei singoli individui. Il «noi» contro l’«io» non funziona. Né l’«io» hobbesiano contro tutti gli altri «io». Bisogna passare a una nuova realtà: quella del «noi» come frutto della cooperazione volontaria dei tanti «io». La ricerca di un mondo migliore e più felice, prima che un programma politico e sociale, deve essere un programma individuale, vissuto nell’intimo della propria coscienza.

    4) «Colui che vede tutti gli esseri in sé e se stesso in tutti gli esseri non prova più odio». (Isha Upanishad).
    Questo antichissimo precetto attraversa la storia dell’umanità e oltre che nella cultura tradizionale indù lo ritroviamo nel cristianesimo, in tante forme di sciamanesimo e in genere in tutte le forme di misticismo. Ma è sempre rimasto una credenza religiosa di minoranza all’interno delle loro stesse culture. Una credenza non violenta all’interno di culture violente in cui si ammetteva il credo non violento solo come qualcosa di riservato a particolari categorie di persone: i sacerdoti, i monaci, e tutti quelli che dell’ispirazione religiosa ne fanno una vocazione e pratica quotidiana di vita. Purtroppo, questa nobile credenza non ha mai cambiato il mondo e solo in qualche caso e in particolari circostanze, quando è diventata anche una dottrina politica e una strategia e tattica di lotta sociale e politica (Gandhi, ad esempio), ha dato dei risultati concreti.
    Non che il praticare questo precetto non dia comunque risultati concreti anche a livello individuale, cioè il risultato della coerenza morale e di una migliore sintonia con ciò che ci circonda. Padre Lacordaire, grande predicatore cattolico liberale francese della prima metà dell’Ottocento, a chi si lamentava dei mali della Francia diceva: «Migliora te stesso e migliorerai la Francia». Riprendeva così un precetto morale antichissimo: migliora te stesso se vuoi migliorare il mondo / la tua famiglia / la tua città ecc.
    Il “moralismo sociale collettivo” non funziona se non è basato sull’adesione volontaria e coerente della morale individuale; né la morale individuale è sufficiente di per sé a migliorare abbastanza la società. Occorre che la morale individuale diventi un programma sociale, formulato in modo tale da prevedere e usare mezzi sempre coerenti con i fini.

    5) «Fin da quando nasciamo, gli altri ci dicono che il mondo è in un determinato modo, e naturalmente noi non abbiamo altra scelta che accettare che il mondo sia così come gli altri hanno detto che è». (Carlo Castaneda).
    Il celebre scrittore peruviano naturalizzato statunitense si è mosso tra finzione ed esperienze reali di incontri con il mondo degli sciamani e della “medicina” dei cosiddetti primitivi. Il suo «cammino del cuore», la sua «spietatezza verso se stessi», rientrano nell’ottica del risveglio da illuminati. In questo caso, illuminati dall’incontro con realtà che il mondo moderno ha messo da parte, ha negato, ha vilipeso. Ma si tratta sempre di esperienze e idee reali ma non ripetibili da tutti, basate sulla credenza personale e sulla personale iniziazione da parte di un maestro. Torniamo al punto 1) precedente. In realtà noi abbiamo la scelta di non credere che il mondo sia come ci hanno detto, ed è tanto vero che la nostra credenza sul mondo cambia continuamente, sia pure gradualmente. Ma Castaneda non si riferisce al cambiamento di tipo laico, frutto dello spirito critico e analitico e dei suoi strumenti tecnici e scientifici, ma a un cambiamento riferito a un mondo dello spirito e dell’essere radicalmente diverso dal mondo quotidiano in cui viviamo. Il vedere il mondo diverso da come ci dicono che sia significa, per Castaneda, aprirsi all’universo del magico e del religioso.

    6) Non si esclude che gli “illuminati” possano essere la vera élite guida di un futuro mondo migliore. Ma gli “illuminati” sono sempre esistiti e quando sono passati dal misticismo individuale all’operatività sociale e politica le buone intenzioni si sono spuntate: dalle sette antiche (fra le quali quella dei Pitagorici, quelle degli Esseni ecc.) a quelle più moderne, con la Massoneria in primo luogo, non si è mai usciti da una pratica pseudoreligiosa o pseudopolitica (con diffusi fenomeni di degenerazione nella difesa occulta o aperta di particolari interessi).

    7) In conclusione, l’esperienza del “risveglio”, dell’illuminazione, dell’apertura alle realtà nascoste ecc. non garantisce la salvezza e nemmeno un comportamento esente da quei mali che sono l’errore intellettuale e l’errore morale, da cui poi derivano i mali sociali, politici ecc. E nemmeno dà garanzie contro i mali psichici e fisici di cui è intessuta tanta infelicità umana. Io, personalmente, mi fido di più di quei riformatori sociali che agiscono con spirito illuministico, ma senza il fanatismo di certi illuministi. Insomma, meglio gli illuministi inglesi che i francesi e, fra i francesi, meglio Voltaire di Rousseau e meglio Condorcet di Robespierre.

  3. Luciano, nessun materialista ha in officina gli strumenti opportuni a trattare le dimensioni che gli sono ignote.
    Il risveglio allude alla presa di consapevolezza della struttura dell’io e alla conseguente emancipazione dalle sue duali ed egoiche modalità di conduzione della vita.
    Il meglio e il peggio, cessano di essere in quanto cessa la dimensione duale.
    Il processo evolutivo contempla anche la via per l’equilibrio, ovvero per l’indipendenza dalla precedente identificazione con emozioni e sentimenti.
    Implica la conduzione di una vita creativa in quanto non vincolata ad alcuna ideologia, piccola o grande. Una vita condotta a propria misura pienamente idonea ad assumersi le responsabilità di tutto.
    Watzlawik allude alla modalità ordinaria, affermativa, insita nel linguaggio egoico.
    Le Upanishad sono l’opposto – se possibile – di un precetto.
    Non c’è alcunchè di esoterico né di elitario se non per chi non i mezzi per riconoscere la banalità dei segreti.

  4. E’ dalle varie riforme scolastica che sono state fatte lo scopo politico era quello di avere una massa ignorante per fare quello volevano ed hanno ottenuto. L’Italia o meglio gli Italiani per riprendersi hanno bisogno di tempo basti incominciare a premiare i meritevoli e non affidare al vertice persone inadatte ed incapaci

  5. Quella che il racconto ripropone è una “rivoluzione individuale”, una “conversione” si potrebbe dire, che si fonda su una sfiducia e un rifiuto della “politica”. Il “noi” (tendenzialmente sempre politico) sarebbe incapace di risolvere i problemi che avrebbe creato e dovrebbe cedere il passo a un “io”non più “egoico” ma “risvegliato”.
    Le obiezioni puntuali di Luciano [Aguzzi] le condivido quasi completamente. Eppure, malgrado tutto, sembrano convergere nella stessa logica individualistica di Lorenzo quando scrive:

    
“Bisogna passare a una nuova realtà: quella del «noi» come frutto della cooperazione volontaria dei tanti «io». La ricerca di un mondo migliore e più felice, prima che un programma politico e sociale, deve essere un programma individuale, vissuto nell’intimo della propria coscienza”.

    A me non va bene né la cancellazione del noi (politico) né la visione dei tanti “io” che PRIMA si “risvegliano” (nella visione del racconto di Merlo) o vivono “nell’intimo della propria coscienza” un loro “programma individuale” che si farebbe poi “politico e sociale” (nella visione di Aguzzi).


    
Il racconto di Merlo mi ha riportato ad un clima culturale del passato, quello del trapasso dal “primato della politica” al cosiddetto “riflusso” o “ritorno al privato” o alla propria “interiorità” o del “recupero del Religioso”. Eravamo alla fine degli anni ’70. E lo registrò bene Fortini in due brevi scritti: “Gli ultimi gnostici” e “I fratelli Amorevoli” in “Insistenze” (1985) che inviterei a rileggere. Certo nel frattempo quel fenomeno si è sviluppato e ha assunto forme e linguaggi diversi da allora, anche grazie all’espansione tecnologica dei “mondi virtuali”, ma il segno fondamentale, e cioè il rifiuto o la rimozione dei conflitti storici, mi pare inalterato o rafforzato.



    Sulla critica alla rigida contrapposizione tra “io” e “noi”, di solito letta in una logica individualistica, avevo trovato interessanti le tesi di Simondon. Le conobbi nella presentazione che ne fece su un numero di “DeriveApprodi” Paolo Virno ma tanti anni fa. Anche queste sarebbero da rileggere. Il loro merito mi parve consistere nella fluidificazione del rapporto io/noi, che invece nei discorsi che facciamo o compare come contrasto quasi assoluto o come svalutazione sia dell’io (limitato, troppo egoico, ecc.) sia del noi (tirannico, superegoico, totalitario).

  6. Non si fonda sul “rifiuto della politica”, bensì sulla consapevolezza che la delega della responsabilità impedisce di uscire dalla ruota del criceto della storia. Sulla quale, tutti ci adoperiamo per il bene e seguitiamo a produrre il male. Solo un cambio di livello permette di ipotizzare o sostenere altre – nuove? – modalità di realizzazione degli intenti di bellezza e realizzazione ai quali tutti aneliamo. Quanto cambio avviene attraverso l’assunzione di responsabilità di tutto. Ciò comporta e implica l’impegno permanente, ma non proselitico, dell’individuo.
    A questo non interessa sapere che non vedrà i risultati sociali del suo impegno, gli interessa avviarsi, essere sulla via. In questa sussiste il raggiungimento dello scopo, che è tutto fuorché egoico.
    Ugualmente facevano i vecchi montanari quando, davanti al pendio boscoso e scosceso della montagna, vedevano la loro ricchezza, il bene della comunità alla quale appartenevano. Così, pur sapendo che non lo avrebbero visto compiuto, si avviavano a lavorare per fare terrazzamenti che ancora oggi ci sembrano opere immani. Così entro la comunitò, tutti facevano. E tutti, dopo generazioni, poi ne godevano il frutto.

    Anche il richiamo a quanto accaduto anni fa, all’epoca delle contestazioni operaie e giovanili ha poco impiego in merito all’articolo. Allora c’è stata la “scoperta” di certi argomenti esogeni alla nostra cultura che ben si sono coniugati con lo spirito libertario del tempo. Ma allora, come accade nuovamente in questi commenti tutto si esauriva entro l’ambito ideologico e intellettuale. Per accedere a quanto propone l’articolo, la chiave è estetica, sensoriale, sentimentale. ùle consapevolezze necessarie non scaturiscono da argomenti razionalmente esposti. Con questi al massimo accade la compresnsione, appunto intellettuale, di ciò che viene espresso. L’incarnazione non ha nulla ache vedere con la comprensione.

    Nessuna erudizione permette di accedere al dominio del sentire. Dove io e noi non hanno ragione di essere distinti. Dove l’altro è un noi in altro tempo, forma e luogo.

  7. …non sono mai riuscita del tutto a vedere la distinzione netta tra io e noi, in quanto non mi sembrano due concetti, realtà, di “razza pura”, ma profondamente meticciati tra loro già dal loro insorgere nella coscienza nel grembo materno…E lo dimostra la simpatica fantasia del bambino Luciano quando pensava possibile realizzare il puzzle completo della divinità assemblandone ogni pezzo di immagine” individuale”…Proseguo con pensieri sull’argomento, certo slegati:
    .cercare in se stessi un equilibrio tra i due poli, attrazione repulsione, in conflitto, riconoscendone la presenza in ciascuno di noi puo’ risultare importante per acquisire un certo livello di serenità (risveglio?), ma spesso stride con lo squilibrio delle forze messe in gioco dalle parti stesse in conflitto…Perchè oltre alle ragioni accampate, egoistiche o atruistiche che siano, c’è la forza non parimenti distribuita, se penso alle armi distruttive ( non solo l’arsenale bellico) a difesa di chi vuole sopraffare e non equilibrare…
    . anch’io certo mi limito ai “terrazzamenti”, si fa per dire, e non so dove vado a parare, nulla mi appartiene, mi va se trovo un gruppo, o piu’ di uno, dove in parte riconoscermi e operare..
    . ho un’amica che sostiene che la singola vita dovrebbe essere affrontata come per la realizzazione di un’opera d’arte…non mi ha mai convinto, mi sembra una prospettiva troppo estetica ed esteriore…Se l’io si mescola con il noi chi lo sa dove si arriva, ma raramente a un’opera d’arte…

  8. @ Lorenzo

    Per il momento non ci intendiamo. L’accento unilaterale che tu poni sull’individuo (“Ciò comporta e implica l’impegno permanente, ma non proselitico, dell’individuo”) e, per la precisione, su un individuo astrattamente disinteressato (“non interessa sapere che non vedrà i risultati sociali del suo impegno, gli interessa avviarsi, essere sulla via”), che agirebbe (o dovrebbe agire) esclusivamente in una chiave “estetica, sensoriale, sentimentale, è di fatto “rifiuto della politica”. Perché rimuove o proprio non considera le condizioni reali in cui in questa società di massa è possibile essere “individui”.
    O, visto che alla politica chi comunque vive in società non sfugge, se ne immagina una comunitaria (l’esempio dei vecchi montanari), che a me pare idealizzata, impraticabile o marginale nel “tutto” capitalistico ferocemente globalizzato d’oggi.
    Il mio richiamo più che a “quanto accaduto anni fa, all’epoca delle contestazioni operaie e giovanili” agli inizi del clima culturale, che oggi si è pienamente imposto e che affiora, secondo me, anche nel tuo racconto-articolo, mi pare pienamente giustificato. E ne ho spiegato anche il motivo (la rimozione dei conflitti sociali etc.).

    1. La dedizione individuale alla quale alludo è tutt’altro che estranea alla politica. Semmai è una modalità politica che non si adegua alla vigente.
      È la sola modalità utile per compiere una politica libera dalla mota immobilizzante della burocrazia e della democrazia.
      Le dinamiche politiche, così come il resto del mondo, non sono la realtà. Solo il frutto di scelte. Con altre scelte, altri frutti.
      Non potendo magnetizzare le menti di tutti (attuale progetto del deep world) l’alternativa è partire da sé. E comunque per un processo evolutivo compiuto la sola via è attraverso il sé.
      Il montanaro e la comunità non sono idealizzazioni, sono evocazioni utili a chi condivide l’idea del bene comune come sola realizzazione del bene di sé, come un’unità. Alludono all’opposto dell’individualismo.
      Quindi non è che sia praticabile o meno. Se ne hai la visione ti condurrà in quella direzione. Considerarla impraticabile è renderla impraticabile. Siamo noi a fare la realtà.

  9. “Siamo noi a fare la realtà”?
    Non siamo dei. Siamo uomini che agiscono in circostanze date e mutevoli. Possiamo cambiare la “realtà” non farla.

    1. «La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni». Paul Watzlawick

      Prendi il tempo.
      Se ti martelli il dito tende all’infinito. Nella soddisfazione scompare.

      Prendi il dolore.
      Se gli dai un tempo tende a ridursi, diversamente è sempre massimo.

      Prendi le relazioni.
      Per interesse corrompiamo la nostra rettitudine, ma non ci permettiamo di toccarla quando parliamo di noi.

      Prendi le difficoltà.
      Chi considera difficile scalare tenderà a credere di non essere idoneo. Chi ne sente attrazione si relaziona alla bellezza della visione che ne deriva e la difficoltà qualunque sia, scompare.
      Così, imparare a camminare – forse la cosa più difficile della vita – accade, senza istruttori, né consigli degli esperti.

      1. Solo una battuta su questo punto:

        “Chi considera difficile scalare tenderà a credere di non essere idoneo. Chi ne sente attrazione si relaziona alla bellezza della visione che ne deriva e la difficoltà qualunque sia, scompare.” (Paul Watzlawick)

        Ecco un bell’esempio di soggettivismo esasperato e che generalizza senza verificare la “realtà” sfiorando il ridicolo.
        Prendiamo un handicappato o un vecchio. Per quanto possano sentire l’attrazione per la montagna e desiderassero godere di quelle sue bellezze, potranno mai superare “la difficoltà qualunque sia”?

        1. Due cose.
          Non c’è altro che il soggetto a elaborare il mondo.
          Qualunque sua affermazione è da se stesso costretta, inclusa la presunzione di oggettività.
          Le difficoltà tendono a non essere viste da chi ha posto l’attenzione su altro da esse.

  10. Due cose.
    In condizioni reali date (quelle del “mondo”) da capire di continuo perché il mondo non è immobile e dato una volta per sempre.
    Elaborare il mondo (e anche la propria soggettività) non equivale a “creare” il mondo (=presunzione di soggettività).

    1. Più l’ambito è circoscritto e accreditata, più la narrazione del mondo è condivisa.
      Viceversa l’equivoco è ordinario.

      Innumerevoli descrizioni dello” stesso” mondo corrispondono a innumerevoli mondi.

      Senza di noi il mondo scompare.

  11. «La realtà esce – e non entra – dai nostri occhi». La realtà è lì, fuori di noi e in noi. Anche noi siamo realtà o parte di realtà. I nostri occhi vedono ciò che la nostra percezione visiva ci consente di vedere e, dal momento che usciamo dal grembo materno, di “nominare”. Imparare a vedere e nominare è un processo sociale, realizzato grazie a un Noi che si chiama mammà e papà, famiglia, gruppo, o tribù. “Individuarsi” è un processo e l’”individuo” è un prodotto, dall’identità temporanea e instabile, la cui “formazione” viene favorita, caldeggiata, sollecitata nelle “società degli individui”, cioè in quelle società che lo ritengono un compito fondamentale. L’individualismo come l’egoismo sono da un lato illusioni ottiche, dall’altro patologie di queste società. Illusioni ottiche: perché è sufficiente una crisi endogena o esogena (indotta da un evento come l’attuale Coronavirus) e la società (o il Noi) si riprende il suo primato. Il processo dell’”individuarsi” ha tra le sue manifestazioni fondamentali la polarità dipendenza-indipendenza dal gruppo sociale. Nelle “società, degli individui” paradossalmente la dipendenza degli individui dalla società è maggiore che in altre società storiche.
    Le “società degli individui”, promuovendo la “religione degli individui”, caldeggia tutte le prese di coscienza, i risvegli, le “rivoluzioni individuali” che i singoli preferiscono praticare nella loro coscienza o nel tempo libero, se non sono pensionati come me. Purché tutti questi risvegli o rivoluzioni individuali non abbiano come effetto, ad esempio, che una mattina e poi la successiva e poi la successiva ancora gli individui non si presentino puntualmente sul loro luogo di lavoro (o non accendono il computer da casa per farlo, visto che siamo in tempi di smart working); se ciò dovesse accadere, immediatamente parte l’allarme dalle sirene padronali, imprenditoriali, commerciali, finanziarie, statali, del sistema massmediale e della comunicazione sociale…Perché, d’accordo, la “religione degli individui” e d’accordo che un singolo individuo ha un’unica vita (ed una soltanto), ma ha capito o no che “deve” lavorare? Deve, sia che ami (attrazione) sia che odi (repulsione), il lavoro. Il lavoro fornito alle condizioni e nelle modalità previste dalla “società degli individui” (nel tempo storico che questa sta vivendo).
    Conclusione: si possono praticare tutte le “rivoluzioni individuali” che si desiderano. Ci si può rassegnare con questa o quella religione, con la “filosofia della chiacchiera” (per usare la felice formula di Aguzzi) più o meno elevata, purché non si metta in discussione i rapporti sociali di produzione. Perché in questa società la “religione degli individui” prevede che ve ne siano alcuni particolarmente “meritevoli”, eccezionali e dotati: i “profittatori”, quelli che il profitto viene prima di tutto e si impegnano alacremente nella quotidiana realizzazione di una formula matematica: D-M-ΔD. Dove D sta per Denaro, M per merce e Δ per l’incremento (profitto) che lo scambio deve produrre. Assicurarsi che questa relazione sociale non venga mai interrotta è il compito di tutte le Autorità (legislative, esecutive, repressive, giudiziarie, culturali, religiose, educative, ecc.) dell’attuale società globalizzata. Con qualche contraddizione e qualche conflitto, ovviamente.
    Leggere o rileggere Das Kapital del vecchietto di Treviri aiuterebbe molto a capire individui, società, ecc. ecc.

  12. Concordo con gli interventi di L. Aguzzi e D. Salzarulo, ognuno dei quali apporta ‘dilatazioni’ di prospettiva nel nostro movimento di accesso al cosiddetto ‘reale’, che non è né più né meno ciò che corrisponde ad ‘altro da sé’ e con il quale, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti a meno che non vogliamo richiuderci in uno sterile solipsismo. Sterile, perché non comporta alcuna nuova acquisizione ma che comunque è utile ad una squisitamente personale economia psichica che non tollera – anche se poi a gran voce lo può affermare – la presenza di conflitti e di possibili trasformazioni (o “risvegli”, vale a dire l’assunzione di nuove prospettive) che vengono temute come perdite di parte di sé.
    Anche l’essere umano, nei suoi vari processi trasformativi, si è venuto a costituire come un composto magmatico (in apparenza, ma in realtà definito da due modelli di funzionamento diversi) di soma e psiche, il cui articolarsi ha permesso (in uno sviluppo ‘sufficientemente sano”) di passare dal somato-psichico (ovvero la investitura degli stati emotivi sulla corporeità) al psico-somatico, dove il corpo stesso può presentare una realtà osservabile, soggetta alla sensorialità, e traducibile secondo leggi più flessibili e articolate come quelle che regolano il pensiero.

    Accosterei, dunque, perché molto significative e integrabili, queste due osservazioni di L. Aguzzi e D. Salzarulo.
    1) «La realtà esce – e non entra – dai nostri occhi». La realtà è lì, fuori di noi e in noi. Anche noi siamo realtà o parte di realtà. I nostri occhi vedono ciò che la nostra percezione visiva ci consente di vedere e, dal momento che usciamo dal grembo materno, di “nominare”. Imparare a vedere e nominare è un processo sociale, realizzato grazie a un Noi che si chiama mammà e papà, famiglia, gruppo, o tribù. “Individuarsi” è un processo e l’”individuo” è un prodotto, dall’identità temporanea e instabile, la cui “formazione” viene favorita, caldeggiata, sollecitata nelle “società degli individui”, cioè in quelle società che lo ritengono un compito fondamentale”. (D. Salzarulo)
    2) “Pensai che Dio come persona trascendente non esistesse, ma che esistesse come realtà frammentata in noi, nel nostro spirito, nella nostra anima. Quindi il compito dell’umanità era quello di ritrovare la propria unione e identità spirituale e ricreare il Dio che si era disperso. L’uomo doveva tornare ad essere Dio, non come singolo, ma come unità spirituale”. (L. Aguzzi)

    La intuizione, sia pure infantile ma assolutamente pertinente, di Luciano relativa ad un Dio in noi (e poi esternalizzato), va a confermare quel fenomeno di proiezione attraverso il quale noi entriamo in contatto con il mondo: “I nostri occhi vedono ciò che la nostra percezione visiva ci consente di vedere e, dal momento che usciamo dal grembo materno, di “nominare”.(Salzarulo). Infatti i nostri organi di senso sono esterocettivi.
    E, re- introiettando gli esiti di quanto abbiamo proiettato, ci facciamo una certa idea, sempre suscettibile di cambiamento, sia di noi che di quanto ci circonda.
    Processo non facile in quanto inizialmente la fantasia ‘panica’ di aver introiettato il mondo (mamma e bebè costituiscono un tutt’uno) – e che serve a sostenere la fantasia correlata che il mondo è sottoposto ai propri desideri -, dovrebbe pian piano cedere il passo alla consapevolezza che esiste anche qualcosa che è altro da sé, con le sue differenze e le sue autonomie, conferendo con ciò uno scacco mortale all’onnipotenza iniziale. Però solo attraverso questo processo ci avviciniamo asintoticamente alla nostra identità. Asintoticamente, perché essa è sempre suscettibile di trasformazioni e integrazioni. E’ il raggiungimento di questa ‘individualità’ (comunque sempre in fieri) che ci permette di accostarci alle altre individualità non in modo confusivo, ma rispettando le differenze, coadiuvandole (e coadiuvandoci) in un disegno comune di crescita ma evitando gli scogli del virus pandemico dell’uguaglianza tout court.
    Il Dio primitivo di Aguzzi, giustamente, non rappresenta ab initio una ‘personificazione’ sia essa “trascendente” o “immanente” , bensì esprime proprio quel coacervo emotivo interiore frammentato e costituito da parti ignote potenti e inquietanti e parti parzialmente conosciute. Così che poi l’essere umano, fin dai primordi, ha cercato di portare fuori da sé cercando di dargli una ‘forma’ percepibile attraverso gli strumenti iconici e narrativi e di mettere insieme le varie frammentazioni.

    Quanto a questo passo di Salzarulo:
    “Perché, d’accordo, la “religione degli individui” e d’accordo che un singolo individuo ha un’unica vita (ed una soltanto), ma ha capito o no che “deve” lavorare? Deve, sia che ami (attrazione) sia che odi (repulsione), il lavoro. Il lavoro fornito alle condizioni e nelle modalità previste dalla “società degli individui” (nel tempo storico che questa sta vivendo).”:
    io credo che ogni condizione lavorativa (sia essa gradita o rifiutata) possa essere fonte di esperienza di sé nel proprio rapporto con il mondo (che non è un altro Assoluto ma è “il tempo storico”). Rappresenta quindi una espressione di socialità declinabile in moltissimi modi e dalla quale si potrebbe apprendere secondo quel processo di proiezione-introiezione-proiezione descritto da Salzarulo, ammesso che la persona non sia invece avviluppata rigidamente nelle sue posizioni, molte volte ideologiche.

    Per queste ragioni, anche se non vissute dai soggetti in modo consapevole, la attuale privazione del contatto sociale nell’ambito lavorativo, non comporterà effetti soltanto sul piano economico, sia pure esso decisamente importante, ma li osserveremo anche sotto il profilo psichico, quando si vedrà un po’ più chiaro dopo l’attraversamento di questa emergenza.

  13. 9 Maggio 2020 alle 18:03

    Mi pare di vedere un positivismo di fondo. Non è però un positivismo dichiarato né voluto. Esso soggiace inconsapevole, come zoccolo duro della cultura da tutti noi appresa. Emanciparsi dall’accezione positivista e materialista della realtà permette di accedere a dimensioni del reale altrimenti inopportunamente identificate e ridotte.

    Rita, il risveglio adottato nell’articolo è relativo al Mito della caverna di Platone o al cosiddetto Velo di Maya. Non riguarda l’accesso a nuove prospettive. Queste hanno valore in ambito duale. Riguarda invece il sé, ovvero una condizione di ricomposizione degli opposti. E tanto altro.

    Nota di E.A.
    Ho collocato nella posizione corretta questo commento

  14. @ Lorenzo Merlo

    * Lorenzo Merlo 8.5

    “l’alternativa è partire da sé. E comunque per un processo evolutivo compiuto la sola via è attraverso il sé.”

    * Lorenzo Merlo 9.5

    “Rita, il risveglio adottato nell’articolo è relativo al Mito della caverna di Platone o al cosiddetto Velo di Maya. Non riguarda l’accesso a nuove prospettive. Queste hanno valore in ambito duale. Riguarda invece il sé, ovvero una condizione di ricomposizione degli opposti. E tanto altro”.

    Se ho ben capito dai passaggi succitati, L. Merlo intende dare centralità al soggetto, ai suoi movimenti interiori, o le sue “illuminazioni” e/o “trasformazioni”. Ovvero dare preminenza al sé, là dove dovrebbe avvenire la “ricomposizione degli opposti” (quali ?) ma, nello stesso tempo, tenere fuori portata la relazione con il mondo esterno e la sua importanza per accedere e/o confermare le immagine interne.
    Senza dubbio il soggetto è centrale al fine di produrre trasformazioni di pensiero che poi potranno tradursi in pratica. Ma non può farlo fintantoché la stessa percezione del sé non arriva attraverso la validazione da parte dell’esterno. Il bambino può avere una percezione interna del sé distorta a causa della immaturità del suo sistema di pensiero caratterizzato da modalità arcaiche, l’utilizzo di ‘fantasmata’ – che non hanno ancora raggiunto il livello più complesso di ‘fantasie’, ma si tratta di oggetti concreti investiti fantasmaticamente di certe caratteristiche che attengono per lo più al corpo e alla sessualità. La finalità di questa metodica comunque si muove verso una ricerca di identificazione, ma se le due entità (io e l’altro) sono troppo compattate questo processo non può avvenire.
    Per cui l’identità, la configurazione stessa dell’Io, avviene per distanza e per differenza.
    Quindi se il sé non ha avuta l’esperienza del non-sé, non può accedere a svelamento alcuno in quanto sottoporrà ogni elemento che viene dall’esterno non al processo di integrazione/differenziazione ma a quello di inglobamento creando una situazione ipertrofica.

    Chiuderei utilizzando questa espressione di I. Kant: “I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”. Nel senso che l’intuizione deve unirsi al suo oggetto (esterno a lei) formulandosi poi, per renderla intellegibile, attraverso concetti i quali, a differenza di quanto accade all’intuizione, utilizzano le categorie di tempo e spazio. C’è dunque bisogno di una continua tessitura tra il mondo interno e quello esterno. Non metto in dubbio che certe ‘illuminazioni’ sono importantissime e possono portare a mutamenti profondi nella persona. Ma anche i “mistici” hanno sentito la necessità di uscire da sé per rendere la loro esperienza condivisibile.
    Se pensiamo ad esempio allo sviluppo della Storia, molte intuizioni (o illuminazioni) erano già presenti da quel mo’, ma furono condannate a ripiegarsi su loro stesse perché troppo avulse rispetto alla realtà del momento.
    Quindi, per concludere, sono le relazioni (storiche, sociali, economiche, affettive) che ci definiscono anche se noi, poi, ci mettiamo del nostro.

    1. Nessuna esclusione delle relazione, tutt’altro.
      Semmai rinuncia all’atteggiamento proselitico.
      Se non ci intendiamo sugli opposti difficile dialogare.
      Comunque, tutti gli opposti, nessuno escluso.
      Non serve validazione dall’esterno per essere certi di avere compiuto un passo evolutivo.
      È sufficiente sapere come si reagiva prima e confrontarlo con come si reagisce ora a qualche evento mortificante o esaltante della vita.
      L’io corrisponde ad un’identità che include le infrastrutture culturali.
      Il sé è una sorta di nudità, di libertà dal conosciuto.
      Di relazione con la propria natura e potenzialità, forza e bellezza.
      In cui la dimostrazione non ha alcun valore in quanto a sua volta limitata alla conoscenza logico-cognitiva.
      In merito ai mistici e alla loro voce nonché al tentativo di citare quanto sto cercando di precisare: tutta la conoscenza è già in noi, ne accediamo una volta liberati dalle strutture culturali, tra le quali compare il sapere limitato alla sua dimensione cognitiva.
      Proprio perché la realtà è nella relazione, chi si muove attraverso il sé non ha alcuna cosa da difendere, dunque alcuna possibilità di proporsi proseliticamente.
      Al sé è noto che occupare una posizione nel mondo duale è la premessa di ogni conflitto.
      Kant e tutta la conoscenza razional-cognitiva appoggiano su una concezione della realtà data.
      Appoggiano sul principio di oggettività che non ha spazio d’essere nel mondo del sé.

  15. Ho fatto un giro in Internet in siti indicatimi da Google e ho trovato diversi articoli in vari blog di Lorenzo Merlo, 61 anni, giornalista e altro, autore di diversi libri fra cui uno su un suo viaggio in Afghanistan ecc. ecc. Se non si tratta di un caso di omonimia (Google tira fuori diversi Lorenzo Merlo: un avvocato, un architetto e altri), se il Lorenzo Merlo giornalista di 61 anni che ha viaggiato in Afghanistan e altrove è lo stesso che ha scritto articoli analoghi a questo di Poliscritture, direi, per concludere il mio pensiero, che si tratta di una persona fortemente influenzata da esperienze, religioni e dottrine orientali e che partecipa ora alla nascita di una nuova religione, che si sta strutturando teologicamente con gli articoli che via via escono su vari blog e con qualche libro (e anche video riassuntivi fatti di slogan in YouTube). Esperienza e pensiero di tipo religioso, che poco cura i criteri della logica profana, fra cui il principio di non contraddizione, più attenta alla ripetizione del nucleo dogmatico che le è proprio. Non so se si organizzerà come movimento o come religione, il che, fin che resterà una piccola associazione di persona non farà differenza. Ma il carattere è questo proprio e tipico delle religioni, che si riassume in tre punti:
    1) Si aspira a muoversi e sentirsi entro un legame con il tutto. Il tutto ha una struttura reale altra da ciò che si vede e crede e solo per mezzo dell’esperienza mistica e dell’appartenenza al popolo dei fedeli si può arrivare a capire e vivere la verità.
    2) Il “risveglio” permette il passaggio dalla «verità analitica che la scienza moderna ha elevato a definitiva» alla «logica dell’Uno», con un salto di paradigma che, per essere compiuto, non può «prescindere dal riconoscere che la vita è una e le forme diverse sono solo espressioni terminali di una sola natura. Nessun privilegio antropocentrico può più reggere. Niente dell’attuale sistema avrà ancora le doti per sopravvivere quando i limiti del maledetto buon senso saranno chiari a tutti. L’eterno ritorno, l’ultimo uomo, la volontà di potenza non sono più scellerate espressioni di un pazzo, ma visioni e perciò realtà per chi invece di montare sull’autobus della modernità preferisce guidare se stesso secondo quello che sente piuttosto che da quello che gli è stato detto» (Lorenzo Merlo nel blog https://www.ariannaeditrice.it/articoli/untori-di-buon-senso).
    3) Si tratta di un blocco culturale e di esperienze che si può accettare solo per fede, mossa, questa, da proprie motivazioni psicologiche. Non vi è la possibilità di arrivarci attraverso galileiane «sensate esperienze» o attraverso ragionamenti argomentativi i cui vari passaggi siano tenuti legati da un rapporto logico e conseguenziale. Infatti sia le «sensate esperienze» sia la logica fanno parte di quella «verità analitica» che deve essere superata per arrivare alla «logica dell’Uno».
    Ciò non toglie che si possano utilizzare gli strumenti della ragione, ma, come per ogni teologia, solo a partire dai principi di fondo già dati. Questi non sono invece razionalizzabili ma vanno solo intuiti, vissuti, compresi, accettati per fede e per esperienza mistica.
    ****
    Alla teologia (qui il termino “teologia” è usato in senso lato, non necessariamente riferito a una religione che si fondi su un Dio persona. Anche l’ateismo, quando diventa dottrina metafisica, ha la sua teologia, o ateologia che dir si voglia) sua propria si aggregano diversi elementi culturali che hanno risvolti sociali, psicologici, ecologici ecc., come è proprio di tutti i movimenti religiosi e/o pseudoreligiosi degli ultimi 50/60 anni (e anche di molti del passato più lontano).
    Chi non ricorda, per esempio, il Movimento Umanista, fondato nel 1969 da Mario Rodríguez Cobos in Argentina e che poi, per qualche anno, si è esteso al mondo intero, Italia compresa, e persino presente con una propria lista elettorale. Sembrava allargarsi rapidamente, ma dopo qualche anno ha ripreso a restringersi e oggi sopravvive come piccola e marginale organizzazione presente solo in pochi Paesi.
    Era una via di mezzo fra un partito e una religione, mente Risveglio pare più nettamente religione e non partito. Ma diversi elementi mi paiono analoghi.
    E qualche analogia la trovo anche con il pensiero di Julius Evola, in particolare quello del libro «La dottrina del risveglio» (1943), che è un saggio sull’ascetismo buddhista, sulla vera (secondo Evola) dottrina del buddhismo delle origini, prima che degenerasse trasformandosi in una religione popolare e mondana, cioè Evola ricerca gli insegnamenti metafisici iniziatici e i caratteri che avevano determinato il buddhismo partendo dalla volontà dell’incondizionato affermato in forma radicale, come ciò che sta sopra e oltre la vita e la morte, la volontà individuale, la morale, la società.
    ***
    Sono problemi e argomenti ricchi di fascino, ma è tutto liquido, affidato alla fede, alle illuminazioni, ai risvegli, e poco alla ragione logica. Liquido e non esente da grossolani errori. Evola, ad esempio, vide nel nazismo una superiorità rispetto al fascismo perché sapeva risvegliare lo spirito antico ariano e germanico, dove lui vedeva quella forza sorgiva mistica, di un misticismo che plasma la tradizione e costruisce una realtà radicalmente diversa da quella materialistica della scienza. Anzi, critica Hitler perché lo ritiene timido e non abbastanza radicale. Lo critica da una posizione diversa e più estrema nella sua difesa della tradizione e della gerarchia “naturale” che da essa emergerebbe.
    ***
    Ovviamente, questi nuovi movimenti religiosi e/o pseudoreligiosi possono essere anche di sinistra, o almeno avere punti in comune con la sinistra (come l’ecologismo pseudoreligioso di Greta Thunberg), ma se poi si avvicinano al governo o combinano guai o “attenuano” la loro radicalità fino a confondersi con i partiti tradizionali.
    E ciò che avviene ai movimenti avviene anche alle singole persone che, da “risvegliati”, si dedicassero alla politica. La storia ci fornisce molti esempi di queste trasformazioni all’incontrario: dalle illuminazioni ascetiche alla muffa della burocrazia e all’incapacità di gestire la Polis.

    1. Egregio Luciano che fatica arrivare in fondo ad una sequela di equivoci, misconoscienze e affermazioni inappropriate.

      Come su detto, il materialista o logico-razionalista non ha gli strumenti per indagare ciò che è fuori dal suo campo.

      E quando lo fa accadono questi rigurgiti a braccio.
      Per quanto ne so, è tipico di coloro che dalla torre d’avorio del loro moralismo razionalista e positivista giudicare negativamente e indignarsi per il mancato aiuto al compagno di cordata sull’Everest. Non ha idea di cosa sia muoversi in quota. Ma la cosa non lo preoccupa in quanto ciò che dispone è “certamente” sufficiente – dice – anche per intervenire in ambiti mai frequentati. “Come potrebbe non valere là ciò che la logica, la morale, la scienza, ha dimostrato di valere qui”.

      Quando tutto ciò è compiuto dalla persona comune, la figura del ciarlatano è la prima invocata, ma il bello viene quando la medesima critica – diciamo così – giunge da livelli progressivi di erudizione.
      Si arriva allora a iperbole del tutto fuori luogo quali – spesso – quella della religione, del misticismo e compagnia.

      Nessuna fede permette di riconoscere quanto viene citato a mio nome nel link riportato. Se ci fosse l’opposto, e c’è, è la ricerca, l’osservazione libera da ideologie scientiste, permette la ricreazione di quanto affermato in quell’articolo.

      Certo non per logica consequenziale. Quella serve a chi vive nel limitato mondo dogmatico della scienza, della logica. A chi vive in un mondo che crede il solo ad esistere.

      «La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni».
      Paul Watzlawick

      La sola teologia in essere in questo dibattito – chiamiamolo così – è quella scientista. La scienza si è fatta le regole da sola, è autoreferenziale. La sua voce non corrisponde a verità se non nel suo ambito, così come giocare di mano in area da rigore solo nel calcio.

      E proprio eleggere la ragione-logico-analitca quale modello superiore di conoscenza il dramma in cui siamo. E proprio attraverso quella presunzione di superiorità che il meccanicismo ha trovato campo libero nel soggiogare le menti magiche delle persone.

  16. 
@ Lorenzo Merlo

    Poliscritture è “laboratorio di ricerca critica” e sono benvenuti anche quanti provengono da impostazioni culturali diverse o in contrasto con quelle dei collaboratori o commentatori o lettori più assidui che vi partecipano. Quindi, come ti ho confermato anche in mail private, nessun problema a pubblicare qui i tuoi scritti. Resta però aperto quello dell’efficacia del confronto. Specie quando le posizioni sono nettamente divaricate o in contrasto. Secondo me, per non ridursi ad un ping pong infinito e alla lunga vano, bisogna impegnarsi nel chiarire gli “equivoci, misconoscienze e affermazioni inappropriate”, che tu intravvedi nelle affermazioni o obiezioni di Luciano Aguzzi o di Donato Salzarulo o nelle mie. Se, invece, ti arrocchi nella posizione di chi ritiene che “il materialista o logico-razionalista non ha gli strumenti per indagare ciò che è fuori dal suo campo” ( e quindi è costitutivamente incapace di raggiungerti, di mostrarti almeno alcuni punti deboli o mal formulati delle tue posizioni), il confronto diventa impossibile, il dialogo è tra sordi. Che io o Luciano o Donato viviamo nel “limitato mondo dogmatico della scienza, della logica” è un’affermazione che va documentata e argomentata. Se no, il dogmatico, mi spiace, sei tu. Lo stesso vale per l’altra tua affermazione: “La scienza si è fatta le regole da sola, è autoreferenziale”. Altrimenti, con tutta la disponibilità da parte mia e penso degli altri, non si vede che senso ha proporre qui i tuoi articoli. Per concludere, non ritenendomi né dogmatico né scientista e non ritenendoti un solipsista ipersoggettivista, il mio invito è, se possibile, a gettare reciprocamente degli sguardi curiosi e attenti oltre i confini entro i quali siamo (al plurale: io, noi, tu!) ristretti. O, detto altrimenti, ad essere un po’ “contrabbandieri”.

    @ Luciano [Aguzzi]

    Tranne l’analogia con il pensiero di Evola, sulla quale ho al momento pochi elementi per confermarla, essendo Lorenzo Merlo un collaboratore-ospite recente di Poliscritture col quale ho cercato di dialogare rispettosamente ma criticamente fin dal suo primo articolo qui pubblicato, trovo il ritratto culturale che ne dai (“una persona fortemente influenzata da esperienze, religioni e dottrine orientali e che partecipa ora alla nascita di una nuova religione”) abbastanza verosimile. Se proposta come ipotesi. E non a caso le sue posizioni mi avevano richiamato gli scritti (pur bisognosi di aggiornamenti) di Fortini sui “nuovi gnostici” o “I Fratelli Amorevoli”.
    A me pare poi che, nel confuso momento di crisi che viviamo e che l’epidemia di coronavirus accentuerà (Vedi, ad esempio, quali manovre – e soltanto sulla questione ecologica – sono in atto attorno a noi:https://ilmanifesto.it/ambiente-le-domande-scomode-di-michael-moore/), un tipo di ricerca come quella di Lorenzo avrà più seguito almeno in certe aree di pubblico “cetomediste” che le nostre di ascendenza illuministica o marxista o libertaria. Non so fino a che punto sarà possibile un confronto non sterile, ma sono convinto che vada tentato.

    1. Siamo tutti di ascendenza illuminista e per quanto mi riguarda anche marxista e libertaria. Ma non tutti ne hanno riconosciuto il valore relativo, ovvero alcuni ritengono quell’ascendenza la sola attendibile, da cuila cultura che abbiamo a disposizione e i relativi scientisti.
      Se oggi negli slogan pubblicitari, negli articoli dei giornali, nel parlare delle persone “tutte”, è ordinario sentire e leggere formule quali “scientificamente provato”, “clinicamente testato”, “la scienza l’ha dimostrato” è a causa di quell’ascendenza. Chi le pronuncia e le scrive ritiene – sebbene spesso inconsapevolmente – di aver affermato un argomento definitivo, esaustivo.
      Del resto non ha senso chiedere al pesce qualcosa sull’acqua.

      Ma questa vorrebbe essere solo una premessa.
      La questione prioritaria riguarda la comunicazione e l’esperienza.

      Ognuno dell’ascendenza citata non concepisce e non si avvede che l’esperienza NON è trasmissibile. Concepisce invece che attraverso la comunicazione razionalmente argomentata possa avvenire uno scambio costitutivo per un aggiornamento dell’io.
      Ciò è vero in una sola circostanza, quando gli interlocutori risiedono nello stesso punto prospettico, godono di reciproco credito, dialogano entro un ambito riconosciuto, adottano un linguaggio la cui semantica è identica per entrambi. In queste circostanze se il volume di sapere è molto simile può avvenire uno scambio e quindi un incremento del proprio bagaglio cognitivo.

      Tuttavia, sempre per quell’ascendenza chiunque pronunci qualcosa che ritiene bel formulata si sorprende di non essere stato capito.

      La comunicazione anche tra individui lontani, e fuori da quanto sopra circoscritto avviene per emozione non per “ratione”.
      Fatto salvo il caso su descritto, la comunicazione è un “fatto” estetico, il contrario di quanto si sente ordinariamente sostenere più o meno consapevolmente, più o meno dietro al pensiero unico della cultura razional-scientista.

      Si diceva del credito, che riguarda molto l’aspetto psicologico dell’interlocuzione. Quando sussiste, l’ascolto – tutto il valore dello scambio – tende ad alzarsi, viceversa restano parole al vento.
      È una banalità per chi l’ha osservata, ma un tabù per buona perte di noi. “La torre d’avorio del razionalismo non ha niente che la sovrasti”, sembrano dire.

      Ennio, mi dici dogmatico. Devo dissentire.
      1. Non sono proselitico e quindi esprimo serenamente senza crucciarmi d’essere inteso.
      2. Credo in quanto appena su descritto.
      3. Sono semmai provocatorio. Se davanti a certe affermazioni, tipo quella dell’autoreferenzialità della scienza, la risposta è che sono dogmatico, raccolgo conforto in merito nuovamente a quanto su detto. Se le provocazioni – o presunte da me tali – non generano una richiesta di ampliamento ma un giudizio morale, di esclusione (non mi riferisco a te, sto generalizzando), interpreto di essere al cospetto di qualcuno che non accredita l’altro. Nessun mio argomento potrà direttamente produrre comunicazione.

  17. “Siamo tutti di ascendenza illuminista e per quanto mi riguarda anche marxista e libertaria” (Merlo). Ma non si vede più così bene, forse. E poi non è che illuministi, marxisti o libertari non polemizzassero tra loro. E nella nostra discussione non mi pare che ci siano “illuministi di ferro” o Diamat. O, se qualcuno davvero ci fosse (ne dubito di questi tempi), ce ne sono altri che almeno nella “Dialettica dell’Illuminismo” ci sono inciampati e non l’hanno scansata come fosse una cacca per strada.

    Sulla comunicazione. Davvero “l’esperienza NON è trasmissibile”? In assoluto? Non lo penso. Ci sono ostacoli a volte insuperabili e a volte superabili. E molto dipende anche da chi giudica e dalle sue attese. Per analogia accosterei questo problema alla questione della traduzione della poesia da una lingua a un’altra. I “puristi” o gli “assolutisti” ne negano la possibilità in ogni caso. Altri fanno delle buone o mediocri “traduzioni di servizio” e non si può dire che non aiutino ad accostarsi ad autori, di cui altrimenti sapremmo al massimo il nome. Gli incontentabili storceranno il naso, gli altri no. E poi, se davvero l’esperienza altrui non potesse avere alcun effetto su di noi, che facciamo?
    “Il non essere stato capito” è un rischio delle comunicazioni reali, condizionate da molteplici fattori (esterni e interni) ai comunicanti e dai medium di cui si dispone in determinate circostanze. Ed è esperienza che facciamo tutti. Questo rischio, quando si hanno ancora energie, bisogni, desideri, va corso. E, infatti, in tanti lo corriamo. Ma perché presentarlo come un destino inevitabile? Certo, “quando gli interlocutori risiedono nello stesso punto prospettico, godono di reciproco credito, dialogano entro un ambito riconosciuto, adottano un linguaggio la cui semantica è identica per entrambi”. Ma chi non fosse in questa schiera di fortunati o privilegiati, che dovrebbe fare? Azzittirsi? Ritirarsi in eremitaggio? A me interessano i problemi dei molti, anche se so che sono più complicati e in certi casi persino insolubili. Una comunicazione circoscritta agli specialisti, alle élite ha i suoi vantaggi, ma quasi sempre per chi ha accesso a salotti, a cenacoli, a corti di personaggi “autorevoli”. E gli altri?

    E non vedo, pur con i limiti e le ambivalenze e le oscurità che le sono proprie e che sono state prese di petto dalla psicanalisi e da Horkheimer e Adorno ( per dire solo di autori che ho un po’ letto), perché dovremmo rinunziare alla “ratione” e perché dovremmo scommettere ESCLUSIVAMENTE sull’ “emozione” o sull’ “estetico”. Cosa e chi garantisce che le operazioni “emotive” o “estetiche” siano davvero più comunicative (in senso positivo, costruttivo) e non ci avviluppino in altri equivoci?

    P.s. @ Lorenzo
    La mia accusa di “dogmatismo” era ipotetica. Ho scritto, infatti: ” Se, invece, ti arrocchi nella posizione di chi ritiene che “il materialista o logico-razionalista non ha gli strumenti per indagare ciò che è fuori dal suo campo” ( e quindi è costitutivamente incapace di raggiungerti, di mostrarti almeno alcuni punti deboli o mal formulati delle tue posizioni), il confronto diventa impossibile, il dialogo è tra sordi. Che io o Luciano o Donato viviamo nel “limitato mondo dogmatico della scienza, della logica” è un’affermazione che va documentata e argomentata. Se no, il dogmatico, mi spiace, sei tu”.

    Inoltre, io riconosco facilmente che tu non sei “proselitico”, ma non credo che tu possa accontentarti di “parlare al vento”. Credo che ciascuno debba avere la sana ambizione di trovare interlocutori, tanto meglio se alla pari o da cui si possa imparare, e non gregari o facili all’applauso generico. Hai però la tendenza a non entrare in merito alle singole affermazioni di quanti stanno qui interloquendo con te e a ricondurle troppo in fretta allo stereotipo della “autoreferenzialità della scienza”.

    P.s. 2
    Mi sono accorto che nel nominare i partecipanti a questa discussione non ho fatto i nomi di Annamaria Locatelli e Rita Simonitto. Me ne scuso.

    1. Di ascendenza illuminista in quando la nostra cultura lo è. Me ne sono emancipato. Da criterio assoluto è diventato relativo.

      L’esperienza non è trasmissibile in assoluto. A volte appare lo sia ma si tratta di un ambito in cui ciò che è affermato da una parte corrisponde proprio all’elemento mancante all’altra. Ma anche in quel caso non è l’esperienza che è transitata: tutto il necessario per raccogliere lo spunto era già in noi.

      Come il decalogo degli sciatori: è inutile a tutti coloro che di per sé non saprebbero ricrearlo. Per chi ne è in grado diventa un promemoria. Niente più. Non produce l’esperienza in colui che non ce l’ha.

      L’esempio che proponi non ha a che vedere con la trasmissibilità dell’esperienza. Riguarda la trasmissione di informazioni.

      Non è destino inevitabile non essere capiti è destino necessario quando universi diversi credono di poter comunicare per merito della dialettica logico-razionale. Quando svolge un buon servizio in campo amministrativo ma uno pessimo in campo relazionale.

      Non si tratta di schiera di fortunati. Quella circostanza produce comunicazione tra qualunque tipo di interlocutore quando è rispettata. Non esistono élite che la realizzano e plebe che non la realizza. Quindi chiunque può dire tutto.

      Molti problemi sono complicati o insolubili se fondiamo la nostra interpretazione della facilità/difficoltà su base logico-razionale. Diversamente si può comprendere la “filologia” del miracolo.

      Dunque non comprendo il tuo citare i salotti. Come detto, salotti o sottoscala non fa differenza.

      Non si tratta di scommettere nulla, né di eleggere l’estetico. Si tratta di emanciparsi dal logico-razionale. Dal suo predominio sulla nostra intelligenza e creatività. Solo così il corpo torna ad essere la vibrissa che è; solo così si cessa di ridere dei rabdomanti, di sciamani e stregoni; solo così si scavalcano gli steccati dello scientismo, che chiudevano campi nei quali si credeva di correre liberi.

      Quando ci si emancipa dall’io, si può avere accesso al sé. In quell’ambito non c’è equivoco in quanto non c’è nulla da difendere così come la farebbe l’io.

      La dimensione estetica contempla l’ascolto. Attraverso questo si può per esempio riconoscere la condizione intima di una persona. Chi è centrato sulla propria affermazione in quanto ben compiuta o simile, chiude all’ascolto e non riconosce i canali più utili per relazionarsi all’interlocutore.

      Se ora ti riferisci a me, non si tratta di raggiungere me. Non sono niente e non è falsa modestia. Descrivevo una dinamica alla quale tutti sottostiamo.

      Certamente le “mie” affermazioni non comunicano se non a chi è già nel mio ambito, mi da credito e impiega la mia medesima semantica. Tutto questo scambio ne è una specie di dimostrazione, che include anche la non trasmissibilità dell’esperienza. Dunque il dialogo senza certi presupposti è da sordi. Ma la sorpresa di ciò avviene soltanto in colui che riteneva che su base logico-razionale e con buone espressioni la comunicazione si sarebbe compiuta.

      Per quanto posso ho provato più o meno ad argomentare – pur sapendo dell’infinito che si vorrebbe comprimere in poche battute – senza evidentemente riuscirci. Come accennavo si tratta di messaggi nella bottiglia qualcuno forse la troverà. Niente più.

      Non cerco facili applausi e cerco interlocutori. Tuttavia non mi incaponisco – non ho nulla da difendere – se accade sterilità.
      Dunque mi accontento eccome di parlare al vento dovrebbero farlo tutti, ci sarebbero meno guerre.

      Sull’autoreferenzialità della scienza si può trovare ampia letteratura. Per chi ha la sana ambizione di imparare potrebbe essere utile.

  18. SEGNALAZIONE/ UN COMMENTO SU LPLC2
    FEDERICO LA SALA
    13 MAGGIO 2020 ALLE 19:24

    “Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere” (M. Serres, Distacco, 1986)

    IN MEMORIA DI MICHEL SERRES *.

    UNA CONFESSIONE (DA “IL MANCINO ZOPPO”) :

    “Una confessione. La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice – che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, « saggia donna » -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo.
    La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la madre, accolgo il bambino.
    Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme” (Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente [Le Gaucher boiteux. Puissance de la pensée], Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pp. 48-49).

    * http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1934.

    Federico La Sala

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