Su dialetto/lingua

https://www.raiplayradio.it/audio/2019/09/quotLa-parola-che-vienequot—-Incontro-con-Giorgio-Agamben–63345dbc-9e1c-4a10-93aa-9a5cc1d38596.html?fbclid=IwAR1Il_wMGWfVq-AvpdOYYlS0tcWFI7PA6krmU5G6vUZsKpsoEfIxvnO7w6g

di Ennio Abate

Mi sono imbattuto per caso in questa intervista del 2019 di Cimatti ad Agamben su un tema – quello del rapporto tra dialetto e lingua (italiana) – che ha complesse implicazioni psichiche ma anche storiche e politiche. Il discorso di Agamben

richiama dapprima fatti abbastanza noti: il bilinguismo, la compresenza di due tradizioni della poesia italiana: quella in lingua nazionale e quella in vari dialetti, la distinzione che fece padre Dante tra lingua materna, naturale e senza regole, e lingua grammaticale o normativa che avrebbe dovuto fissare gli atti linguistici in modi inalterabili. Poi riporta le posizioni di Zanzotto (dialetto come “momento sorgivo”, “lingua che monta come il latte”, “latte di Eva”, ” balbuzie” o “inciampo”; inconscio strutturato come dialetto e quindi sciolto da vincoli grammaticali o formali), di Pascoli (la lingua della poesia è sempre lingua morta) e di Pasolini (dialetti repressi, “genocidio” per l’imporsi della lingua nazionale). Agamben sostiene in una maniera, che mi pare equilibrata, l’importanza di una dialettica tra dialetto e lingua e riconosce che di morte dei dialetti non si può, a rigore, parlare (almeno fin quando non scompariranno quelli che l’usano), poiché si vanno contaminando. Infine indica la possibilità del “momento poetico” nello spazio esistente tra dialetto e lingua, tra balbuzie e forma definita. E’ là, nell'”andirivieni tra dialetto e lingua” a cui il bilinguismo ci costringe, che, se troviamo la forza di “sostare”, di “dimorare nella scissione”, può sorgere l'”impensato”, “qualcosa di luminoso”, la “poesia”(anche se scrivessimo in prosa). Le successive considerazioni che Agamben fa sulla voce e sul momento orale della lingua spingono decisamente in senso heiddegeriano l’intervista, ma non la rendono meno interessante. Non posso però dimenticare le parole di Fortini che, a suo tempo, sottolineò gli equivoci di certe fughe dei “neodialettali” di fronte alla “lingua ormai barbara della quotidianità e a quella della cultura involgarita”; e vide “un qualche parallelismo fra il revival neodialettale e l’universo ideologico liquidatorio-pentitistico dell’ultimo decennio [si era negli anni Ottanta del Novecento], con la sua doppia dimensione, positiva, di resistenza al mondo del consumo alienato, e negativa, di intima igiene e puri sentimenti all’ombra dei massacri”.

9 pensieri su “Su dialetto/lingua

  1. DA POLISCRITTURE FB

    Tito Truglia

    Grazie per aver segnalato l’intervista. Ma a me non è piaciuta. I due chiacchierano amabilmente con citazioni e motivazioni. Ma qualcosa non regge. Anzi. Se la contano sopra, sotto e intorno. Partire da Dante non è detto che sia la cosa migliore sui dialetti. Continuare con la distinzione dialetto sorgivo e lingua grammatica penso sia un altro errore. E anche la conclusione sulla questione della voce mi sembra zoppicante. Agamben a volte cerca nuovi termini per dire cose non nuove. Eh bon… mi sembra solo una chiacchierata appena e-dotta su un apparato di referenze autoriali accumulate forse con troppo entusiasmo…la chiacchiera culturale… e non poteva mancare la solita immancabile meraviglia della pagina bianca, qui nella versione di spazio intertestuale… Però stimola l’orecchio… Tu poi complichi tutto con Fortini… Ahhh!! Saluti.

    Ennio Abate

    Credo sia un errore sottovalutare e rimanere sul generico. “Qualcosa on regge”? Cosa? “Se la contano sopra, sotto e intorno”? Ma a cosa ti riferisci? E perché “partire da Dante non è detto che sia la cosa migliore sui dialetti”, se serve ad accostare il dialetto alla lingua materna e a distinguerla da quella grammaticalizzata, formalizzata, che non mi pare una distinzione da nulla. Etc. Poi i sono punti su cui io pure ho delle riserve e l’ho detto. E ho ricordato critiche di Fortini che non sono affatto complicate. Su questa questione, ai tempi del Laboratorio Moltinpoesia, discutemmo molto. Ma forse è acqua passata e non interessa più…

    Tito Truglia

    Ennio il tono generale è enfatico e “poetichese”, il punto di partenza (Dante) è sbagliato. Dante ha dato lustro al suo volgare non hai dialetti. D’altra parte è del Trecento, infarcito di Medioevo-aristotelico e gerarchie di autorità. Il suo volgare doveva essere lustro, cardinale, regale, e curiale. Inoltre la differenza tra un dialetto naturale o materno ma grammaticale e invece una lingua grammatica e quindi lingua è una distinzione da superare. Agamben probabilmente la mantiene perché gli è utile nella sua tesi enfatica della sorgività del dialetto. Ma si può sostenere la stessa cosa senza dover per forza presupporre l’origine delle origini, l’archetipo indistinto del tutto. Fortini nella sua critica ai dialetti in parte colpiva nel segno perché in effetti possono rappresentare una fuga, ma non è detto che siano sempre una fuga…

    Ennio Abate
    Non sono d’accordo. Il riferimento a Dante è preciso e circoscritto alla distinzione tra lingua materna o naturale e lingua artificiale, grammaticale. Che sia da superare è altra faccenda. Né c’entrano il Trecento, l’aristotelismo, il principio d’autorità. Qui per me scantoni. Né Agamben, pur heideggeriano e patito della “sorgività”, estremizza o – in questa intervista – si appella all'”origine delle origini” o all'”archetipo indistintio del tutto”. Parla, infatti, di spola da fare tra i due poli del dialetto e della lingua e dice esplicitamente che non si può preferire l’uno o l’altro. Quindi non capisco il tuo accanimento.
    Quanto a Fortini mi pare ovvio che non pensasse che i dialetti “siano sempre una fuga”. Ce l’aveva coi “neodialettali” degli anni ’80. E il suo discorso da rimeditare era ben pensato. Lo trovi in NUOVI SAGGI ITALIANI II, Il filologo e l’allodola, pagg. 334.

  2. Ennio non ho detto che il riferimento è impreciso. Ho detto che non è adeguato a sostenere una tesi corretta oggi sui dialetti proprio perché Dante esprime un punto di vista legato a un modo di pensare del Trecento. È cioè secondo me un punto di partenza sbagliato. E altrettanto trovo errata la dicotomia lingua e dialetto. Il dialetto non è a-grammaticale. La forza del dialetto non è nella sua presunta sorgività. Agamben è rispettabilissimo e autorevole ma si può discutere…

    1. @ Tito
      Quale sarebbe la “tesi corretta” sui dialetti?
      Perché ritieni sbagliato lo spunto (per me é tale) di Dante su lingua materna e lingua grammaticale? Solo perché Dante parla nel Trecento? Sarebbe davvero obiezione irricevibile, visto che continuamente ci appoggiamo su autori di secoli passati…
      Non mi pare che Agamben nell’intervista parli di ‘dicotomia’. A me pare corretto parlare di ‘distinzione’ o di ‘tensione’ tra dialetto e lingua e approfondire le sue ragioni storico-politiche senza assimilazioni “forzose”. (Dirò di più replicando a Luciano Aguzzi).
      Agamben per me è sempre (come tutti) DA DISCUTERE. Non mi vanno le liquidazioni viscerali e rozze. E ho già detto che sulla “sorgività” non sono d’accordo, come non sono d’accordo sulla “torsione mistica” o “heideggeriana” che dà al problema della ‘voce’.

  3. Nell’intervista, che ho ascoltato per intero (e, a proposito dell’argomento, ascoltare non è uguale a leggere; leggere è un ascoltare più formalizzato, più capace di cogliere i contenuti del testo, di avanzare e tornare indietro, di verificare, di confrontare; ascoltare è più soggettivo e ciò che si perde non si recupera, se non riascoltando molte volte [ma allora si tratta di oralità registrata, quindi, a suo modo, “scritta” e diversa dall’oralità non registrata]), che ho ascoltato per intero, dicevo, anche a mio parere, come afferma Truglia, «qualcosa non regge». E per rispondere alla giusta richiesta di Abate aggiungo che non regge il saltare continuamente da un piano all’altro del discorso: dalla lingua intesa in senso fisico a quella intesa in senso linguistico, letterario, sociologico, politico, mescolando in una conversazione che non segue nessun filo i vari livelli, con un autocompiacimento a confondere anziché a chiarire. Così si mescolano buone osservazioni ad autentiche sciocchezze e alla pubblicità per una collana di libri che Agamben dirige.
    Non mancano i barocchismi cognitivi privi di senso, come l’insistere, con immagine esteticamente compiaciuta, sullo spazio bianco fra la colonna del testo dialettale e quella della traduzione in italiano. Può andar bene come metafora e suggestione letteraria, ma non ci dice nulla sul rapporto fra lingua e dialetto. Sembra però voler suggerire qualcosa di profondo e misterioso, di mistico, direi. E con ciò siamo fuori dal razionale e analitico esame del problema.
    Che Zanzotto, nel riflettere sulla propria poetica, usi metafore come “momento sorgivo”, “lingua che monta come il latte”, “latte di Eva” ecc. mi va bene, ma ciò ci interessa per capire Zanzotto non certo per capire i fenomeni linguistici.
    Innanzitutto non vi è nulla di sorgivo in assoluto. La capacità dell’uomo di parlare si è formata attraverso centinaia di migliaia di anni di evoluzione e quando un bambino nasce ha già in sé le strutture del linguaggio.
    Del resto anche gli animali “parlano”, nel senso che comunicano. Anche per gli animali ci sono suoni e gesti che hanno un significato, che hanno una loro grammatica, e altri che non hanno significato.
    C’è dunque una predisposizione biologica che permette al neonato di ascoltare e di emettere suoni. Ma solo col tempo e il rapporto con gli altri egli apprende la “grammatica” (la grammatica biopsichica e linguistica, non quella dei manuali scolastici) e impara a distinguere i suoni significativi e il loro significato (in senso linguistico) e quelli non significativi. I bambini «selvaggi» dei tanti casi studiati non è vero che non parlano, è vero invece che “parlano” in quelle forme limitate che hanno potuto apprendere crescendo a contatto con soli animali. Parlano un “linguaggio animale”.
    La lingua materna è già grammaticalmente strutturata. Non esiste una lingua senza grammatica. Esiste invece una grammatica “naturale”, per così dire, che è diversa dalla grammatica delle scuole, ma di una diversità che può essere minima o massima, e ciò dipende da altri fattori, per lo più di carattere sociale.
    Dal punto di vista biologico e fisico (acustica) non vi è differenza fra lingua e dialetto. Sono entrambi linguaggi, sistemi di comunicazione, formati dagli stessi elementi.
    In entrambi, le particolarità personali (ogni persona ha una “voce” propria che si differenzia come le impronte digitali, quindi, in un certo senso, ogni persona parla una propria lingua) vengono ricondotte a classi di significato. Ci sono milioni di modi di pronunciare la “a” o la “e”, ma col tempo il bambino impara a capire quando si tratta di differenze personali di voce e quando invece si tratta di differenze di significato. Cioè impara a riconoscere la “a” pur nelle diversità dei tracciati dell’acustica vocale e a distinguerla dalla “e” ecc. e allo stesso modo impara a distinguere le parole.
    La lingua madre è già il prodotto di una evoluzione culturale e di sorgivo ha solo il fatto che è legata al primo apprendimento (e quindi ai legami psichici profondi che si formano nella prima infanzia), a differenza delle lingue apprese di seguito, magari a scuola e con metodi repressivi.
    Il dialetto ha questo di bello e di forte: questo parlarci con la voce dell’infanzia, del popolo, della grammatica naturale, della società familiare e vicinale prima della sua istituzionalizzazione in scuola, municipio, Stato, leva militare, processi, tribunali, lavoro, burocrazia ecc. ecc. Ma oggi è un “bello” più mitico che reale.

    Ma qui è necessario notare alcuni fenomeni importanti:

    1) Se la lingua madre è un dialetto diverso dalla lingua nazionale o da una lingua minoritaria riconosciuta, può non avere una grammatica in senso scolastico, ma può anche averla. I dialetti più ricchi di letteratura (napoletano, veneto, milanese ecc.) hanno dizionari e grammatiche da oltre 150 anni. I dialetti più poveri non li hanno ma, ora, con la cosiddetta rinascita dei dialetti, si stanno scrivendo dizionari e grammatiche anche dei dialetti quasi del tutto privi di una tradizione letteraria.
    Il bisogno di avere un dizionario e una grammatica nasce da alcuni fenomeni: a) I dialetti si diversificano da persona a persona, da quartiere a quartiere, da città a città, mentre la comunicazione letteraria tende a unificare gli strumenti che usa, quindi a scegliere alcune forme piuttosto che altre e a considerare “errate” le forme che scarta. b) I dialetti sono sempre meno usati, cioè sono sempre meno “lingua madre” e si ha bisogno di strumenti per recuperarli e per conservarli. c) I dizionari e le grammatiche disegnano i confini del dialetto e permettono quella distinzione, ora naturale ora artificiale, fra un dialetto e un altro. Ad esempio: dove finisce la zona geografica in cui si parla il dialetto milanese e inizia quella dove si parla il dialetto pavese? Non vi è un confine naturale preciso, ma il confine è di tipo culturale, letterario, e si precisa con la compilazione di dizionari e di grammatiche. E chi sta dentro una delle due zone avrà la tendenza, se usa il dialetto scritto, a uniformarsi al milanese o al pavese, lasciando perdere le proprie particolarità personali o usandole in una forma volutamente letteraria.

    2) Ma il dialetto, spesso, oggi, non è più la lingua madre. La lingua madre è oggi quasi sempre un italiano familiare diverso dalla tradizione dialettale. I ragazzi di oggi non parlano il dialetto ma, a volte, lo recuperano come seconda o terza lingua. Quindi i significati «sorgivi», in questi casi, sono recuperi culturali (e psichici, in un certo modo) legati al passato. Il dialetto allora rientra nel campo vasto del recupero delle tradizioni, della nostalgia per l’infanzia, nostra o dei padri o dei nonni, considerata un tempo storico e psicologico più genuino e più ricco di umanità.
    Faccio un esempio con il mio dialetto di Fano. Dialetto privo di letteratura scritta fino al 1875. Fra il 1875 e il 1950 ci sono pochissimi autori che usano il dialetto per scrivere poesie, ma poi, man mano che il dialetto non si parla più si moltiplicano i poeti dialettali e oggi ce ne sono diverse decine che pubblicano poesie dialettali, che recuperano proverbi, modi di dire, frasi fatte dialettali, che scrivono e recitano commedie in dialetto, che fanno film in dialetto. E che, com’è ovvio, scrivono in un dialetto contaminato dall’italiano perché per molti di loro la lingua madre è l’italiano e il dialetto è stato appreso dopo. Nel corso di questa rinascita dialettale sono stati scritti anche il primo dizionario e la prima grammatica del dialetto fanese, anni Novanta del secolo scorso e c’è tutto un discorrere in corso su quali siano le forme “più corrette” di scrivere parole che si pronunciano in modo diverso passando da quartiere a quartiere (tanto per semplificare, la variante maggiore è il passaggio dalla “a” alla “e” in tre forme: càsa, chèsa, câsa [dove “â” indica una via di mezzo fra “à” e “è”]). Prima o poi si arriverà a una canonica e grammaticale unificazione delle varianti morfologiche.
    Ma ciò avviene anche per i dialetti con più ricca letteratura che si ibridano con fonti letterarie diverse. Si confronti, per il milanese, il dialetto di Carlo Porta con quello di Franco Loi e si tenga presente che per Loi il dialetto milanese non è lingua madre, perché Loi è nato a Genova da padre sardo e madre emiliana e si è trasferito a Milano a sette anni, nel 1937, imparando il milanese per strada giocando con ragazzi milanesi.
    O si pensi al poeta Franco Scataglini, citato da Agamben nell’intervista. Scataglini è di Ancona, ma non scrive in dialetto anconetano bensì in una lingua da lui inventata e formata da parole e sintassi dialettali con inserimenti di italiano e di forme del tutto inventate dall’autore. Si tratta, di fatto, di un “dialetto” artificiale, costruzione culturale dotta in cui la poesia è anche invenzione linguistica, o per imitazione o per innovazione. In sostanza la scrittura dialettale, oggi, ha perso quasi completamente i caratteri di una scrittura popolare e ne ha assunti altri propri di una scrittura dotta che è usata con scopi particolari, spesso per una reale o presunta maggiore aderenza alla spontaneità attribuita, un po’ in modo mitico, al linguaggio popolare e quindi al dialetto. Dico un po’ in modo mitico, perché i dialetti sono lingue povere come lessico e sintassi e molto basati su frasi fatte, su modi di dire, cioè su ripetizioni di costrutti di comunicazione che sono diventati impersonali e che si perdono nel tempo lungo delle tradizioni.

    3) I dialetti sono sempre esistiti e ogni lingua ha i suoi dialetti. La cosiddetta scomparsa dei dialetti può significare solo la scomparsa dei dialetti tradizionali, sostituiti da un livello dialettizzato della lingua nazionale e ufficiale. Ogni lingua si presta a diversi usi collocati a diversi livelli. L’italiano familiare è diverso dall’italiano letterario e questo dall’italiano burocratico ecc. ecc. Vi sono diversi livelli orizzontali e verticali, che a loro volta usano diversi “registri” sia orali sia scritti. Ciò non significa che si possa parlare di bilinguismo, se per bilinguismo intendiamo due lingue diverse, come, ad esempio, italiano e inglese. Chi parla un italiano basso, comune, con molti errori rispetto all’italiano letterario, non parla un’altra lingua, ma solo una variante della stessa lingua. E quasi sempre la stessa persona che parla quell’italiano basso e errato (ma con errori che non sono errori in quell’ambito “basso”), cambiando situazione cambia modo di parlare e dimostra di sapere usare bene anche l’italiano letterario o quello scientifico o quello giuridico ecc.
    C’è però anche un italiano “basso” di chi non conosce bene l’italiano letterario e però nemmeno il dialetto. Allora questo italiano “basso” diventa a suo modo un dialetto e assume caratteristiche sue proprie come sistema di comunicazione linguistica e lo si sente nell’ambito familiare, al mercato, nei dialoghi in strada ecc. E oggi lo si vede spesso anche in forma scritta nei post online e meglio ancora nei commenti balbettanti e a volte incomprensibili. Balbettanti e incomprensibili perché passando dall’oralità alla scrittura questo linguaggio perde pezzi significativi legati alla gestualità, alla mimica, alle pause, senza acquistare i “pezzi” che gli mancano in termini di correttezza ortografica, morfologica e lessicale, per non dire della punteggiatura a vanvera.

    4) Il bilinguismo fra dialetto e lingua è diverso da quello fra due lingue e questi sono molto diversi dal presunto bilinguismo interlingua (fra due livelli della stessa lingua).
    4.1. Nel caso di due lingue, siamo alla presenza di due modi diversi di pensare e nominare (analizzare) la realtà. Passando dall’italiano al francese o all’inglese o peggio ancora al cinese o al giapponese, si cambia prospettiva in modo via via più significativo quanto più sono lontane fra di loro le due lingue.
    4.2. Nel caso del dialetto e della sua lingua di riferimento la diversità di pensare e nominare la realtà è più limitata e precisamente più circoscritta a particolari ambiti in cui i due linguaggi si sovrappongono. Ad esempio la realtà del gioco e del lavoro (rispetto ai lavori della tradizione), ma non alla scienza o alla filosofia, nei cui campi il dialetto non ha voce propria o ne ha poca. Sono i settori di vita quotidiana più tradizionali quelli più legati al dialetto e dove il dialetto fa concorrenza alla lingua in quanto a capacità espressive, a spontaneità e anche a precisione. In qualche caso, ad esempio in certi lavori agricoli o artigianali, dove il dialetto usa termini diversi per attrezzi e operazioni diverse, anche di poco diverse, l’italiano usa una gamma più ridotta di termini. In qualche caso magari si scopre che anche l’italiano aveva una gamma più vasta di termini che però oggi non si usano più perché diventati obsoleti, mentre il dialetto li conserva. Con il cambiare delle condizioni di vita e di lavoro il dialetto si italianizza, nel senso che si aggiorna prendendo in prestito termini italiani ai quali dà una forma dialettale, ma che però non appartengono al dialetto della tradizione. In questo modo tutti i dialetti rischiano di diventare solo varianti morfologiche delle lingue di riferimento, perdendo ciò che avevano di caratteristico, cioè la capacità di creare termini e forme linguistiche nuove non derivanti dalla lingua, ma anzi passate poi alla lingua. Se i dialetti cessano di essere lingua madre dei popoli, è chiaro che perdono anche la loro capacità creativa e la loro autonomia linguistica per diventare una semplice storpiatura morfologica della lingua nazionale.
    Pertanto, chi scrive poesie (o prose) in dialetto, o resta dentro la tradizione, o è costretto a crearsi una propria lingua dotta che imita, ma che non è o non è del tutto, un dialetto. Questo è proprio il caso di quasi tutti i migliori poeti dialettali dell’ultima generazione, perché, a differenza di quelli delle generazioni precedenti, non hanno più disponibile un dialetto come lingua madre capace di esprimere tutto ciò che riguarda la realtà di oggi. In Scataglini, in Franco Loi e in tanti altri, e a maggior ragione nei più giovani e nei giovanissimi, si incontrano parole “dialettali” che mai sono state usate nel dialetto parlato, che sono vere e proprie invenzioni del poeta.
    4.3. Si verifichi quanto ho detto nelle traduzioni. Da una lingua a un’altra si può tradurre tutto, con meno o più fedeltà. Un libro di storia, o di letteratura, o di scienze scritto in giapponese troverà nell’inglese o nell’italiano le forme più adatte (e adattate, va da sé) per esprimere gli stessi significati del testo originale. Meno facile è tradurre, specialmente in poesia, ciò che il testo originale contiene oltre ai significati di base, cioè tutti gli elementi connotativi (stile, toni emotivi, sfumature sentimentali e altro).
    Tra un dialetto e una lingua rimane abbastanza facile la trascrizione dal dialetto alla lingua mentre diventa difficile o impossibile quella dalla lingua al dialetto, proprio perché la povertà dei dialetti non riesce a coprire tutte le variabili semantiche presenti nel testo originale. Tradurre Manzoni in dialetto milanese è difficile, ma tradurre un libro di specializzazione scientifica è impossibile. Trascrivere Carlo Porta in italiano moderno è invece facile, anche se, come in qualsiasi tipo di traduzione, il nuovo testo perde qualcosa rispetto all’originale (ma può anche guadagnare qualcos’altro).
    La “traduzione” fra il presunto bilinguismo interlingua non può che essere una trascrizione dal livello basso a un livello alto più corretto letterariamente, mentre il contrario, cioè la trascrizione da un livello alto a uno basso, non può che tradire il testo originale e trasformarlo in un registro comico o satirico o, nei casi più seri, in una semplificazione divulgativa.
    4.4. Quando nell’intervista si accenna a una lingua che sta dentro l’italiano, quindi a un “bilinguismo” fra la lingua personale e la lingua grammaticale, si usa il termine “bilinguismo” in senso improprio o in senso metaforico. Infatti, tutti noi abbiamo una lingua interiore che precede la voce e la scrittura, una lingua del sentimento e del pensiero che dobbiamo, quando vogliamo farlo, costringere nella lingua parlata o in quella scritta. Ma non si tratta di bilinguismo bensì di diverse fasi del processo della comunicazione. A voler essere pignoli e a voler confondere i problemi dovremmo allora parlare di tre, quattro, dieci lingue dentro l’italiano (o il francese ecc.), perché le fasi del processo di comunicazione si possono suddividere in modo molto analitico, a partire dall’immagine o dall’idea di partenza al testo scritto compiuto. Ma che c’entra questo col bilinguismo dialetto / lingua nazionale?

    5. Se dal punto di vista biologico e acustico non c’è differenza fra dialetto e lingua, non ce n’è, in senso stretto, nemmeno dal punto di vista linguistico, perché la linguistica studia e descrive le differenze ma non le determina. La linguistica storica e la linguistica normativa registrano le differenze, ma non le creano. Chi crea differenza è l’uso sociale delle lingue, ed è l’uso sociale che può “innalzare” un dialetto a lingua o “abbassare” una lingua a dialetto o “far morire” una lingua o “crearne” una nuova. La storia ci offre esempi di tutte queste tipologie di fenomeni linguistici.
    Uso sociale significa molte cose. Non ne basta una sola per determinare il fenomeno nel suo complesso. Significa uso letterario, uso come lingua dei tribunali, della politica, dell’amministrazione, uso come lingua normativa della scuola, insegnata e imposta. Da questo punto di vista l’italiano (un dialetto fiorentino “educato” dalla forza letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio e dai loro imitatori nel corso dei secoli) del Trecento convive per secoli con altre lingue: il latino, il siciliano, il napoletano, il veneziano, il milanese e così via. Poi l’uso dell’italiano-fiorentino si allarga e via via sostituisce il latino (che tuttavia resiste come lingua viva di notai, di ecclesiastici, di lezioni universitarie di diritto e di altre discipline almeno fino alla metà dell’Ottocento) negli usi cancellereschi, sostituisce altre lingue negli usi di corte, politici e diplomatici (ma tuttavia la lingua veneziana resiste finché è viva la Repubblica come Stato indipendente) e più tardi sostituisce i dialetti anche nell’uso familiare (all’interno delle famiglie colte e di posizione sociale elevata, il che avviene gradualmente fra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento) e nell’uso scolastico elementare (fino a tutto il Settecento il dialetto è tollerato come lingua comune e a scuola si insegna il latino e in latino, parlato e scritto, fuorché nelle scuole popolari e di mestiere; a partire dalla prima metà dell’Ottocento nelle elementari si insegna in italiano e i dialetti sono sempre meno tollerati. Un pedagogista d’avanguardia e illuminato come il cremonese Ferrante Aporti consiglia di punire gli alunni che nelle ore scolastiche parlano fra di loro in dialetto).
    È questo lungo processo storico di sostituzione delle lingue locali con l’italiano-fiorentino in tutti gli usi sociali che ha determinato il fatto che alcune lingue sono diventate dialetti mentre il fiorentino (rieducato) è diventato la lingua nazionale. Questo processo può dirsi concluso nella seconda metà del Novecento e solo le ultime due generazioni (le persone che oggi hanno meno di cinquant’anni) registrano un notevole numero di individui che non hanno più il dialetto come lingua madre.
    Un dialetto diventa lingua, altre lingue diventano dialetti. Così si potrebbe sintetizzare il processo. E quando un dialetto cessa di essere lingua madre, cessa di essere spontaneamente creativo.
    Ma nulla vieta che una lingua ridotta a dialetto torni ad essere lingua se viene adottata come lingua nazionale in un processo storico di trasformazione politica e sociale. Ad esempio in parecchie zone dell’Africa coloniale le lingue ufficiali e scolastiche erano quelle dei colonizzatori (inglese, francese, italiano, arabo), ma dopo la conquista dell’indipendenza si è elevato a lingua nazionale una delle tante lingue tribali considerate dialetti (spesso del tutto prive di scrittura) e questo ha comportato l’adozione di un alfabeto e un progressivo uso letterario e sociale e l’estendersi della lingua a tutti, con un parziale abbandono dell’uso delle lingue coloniali e delle lingue tribali.

    6. Concludendo, il bilinguismo dialetto / lingua presenta oggi una problematica complessa con variabili linguistiche, letterarie, sociali. Ma a determinare, a mio parere, il persistere, e anzi il recupero, dell’uso dei dialetti nella scrittura, in particolare nella poesia, sono determinanti i fattori psicologici che si presentano come attaccamento (e nostalgia) a una presunta maggiore spontaneità, maggiore aderenza alla realtà e infine al mito della lingua “sorgiva”, della “lingua madre” in senso psicologico e ancestrale, non nel senso di prima lingua appresa e parlata. Il fenomeno ha il sapore dell’attaccamento al mito del paradiso terrestre dell’infanzia e ha il suo punto debole nella nostalgia e il suo punto forte nella creatività alternativa al mondo normalizzato della lingua nazionale.
    Si pensi anche come, in certe correnti del femminismo anni Settanta-Novanta, la “lingua madre” sia stata interpretata come lingua femminile, lingua della casa e della pace, contrapposta alla lingua maschile, lingua del potere e della guerra. Il dialetto, in questo senso, sarebbe anche politicamente più vicino alla lingua madre come lingua della casa e della pace, della tradizione e dell’amicizia, intrinsecamente inadatta alle narrazioni epiche e di guerra, se non per trascriverle in registri comici e satirici.
    Il dialetto, spesso, nell’uso municipalistico di molti poeti locali, diventa l’aiuola della tradizione, del buon vicinato, del vogliamoci bene, che, quando parla di politica, lo fa per prendere in giro, per canzonare, per far ridere, per segnalarne a dito le malefatte.
    Ci sono anche le eccezioni, ma sono rare.

  4. @ Luciano

    Per appunti veloci:

    1.
    Perché sminuire la soggettività dell’ascolto? Persino l'”ascolto distratto” (dello psicanlista ad es.) ha dei vantaggi.
    E poi in una intervista registrata (come questa) c’è la stessa possibilità di tornare indietro come si fa quando leggiamo su carta stampata.
    Qualcosa sfugge? Ma sempre della realtà (e non solo di un’intervista o di uno scritto o di un quadro) ci sfuggono tante cose.

    2.
    Nell’intervista di Agamben “qualcosa non regge”, salta da un piano ad un altro, ecc. Ma è un’intervista, una conversazione, non un trattato sulla lingua o sul rapporto dialetto/lingua. Dobbiamo evitare le conversazioni o le interviste? No, sappiamo già cosa più o meno ci attende.

    3.
    L’autocompiacimento. Secondo me è cosa secondaria e si può tollerare o sorvolare. Ci si può concentrare senza troppa fatica sulle (poche o tante) “buone osservazioni” dell’intervista. E’ per quelle che l’ho proposta.

    4.
    Sul “sorgivo”. Sarebbero utili per un confronto e un approfondimento delle riletture mirate di alcune tesi di Chomsky e Vygotskij, ma credo sia cosa al di fuori dalla nostra portata. Propendo anche io per spiegazioni di tipo scientifico, ma per non sprecare questa occasione minima di confronto e prendendo spunto proprio dall’accenno ai casi dei bambini “selvaggi”, penso che si possa concordare sul fatto che, senza società attorno al neonato o in-fans ( colui che non sa parlare), non si svilupperebbe in lui la capacità del linguaggio o non ci sarebbe il salto dal mugolare al linguaggio articolato.

    5.
    Quindi anche se la lingua materna avesse una sua grammatica o non fosse al 100% naturale (e Agamben esagerasse, per la sua impostazione filosofica, a considerarla totalmente naturale), a me interessa discutere proprio del ‘salto’ o dello ‘stacco’ tra lingua materna e lingua grammaticale ( e sociale ); e soprattutto degli aspetti storico-politici e psicologici di tale stacco o salto. E in particolare delle esperienze fatte almeno dalle nostre generazioni tra lingua parlata in casa o in famiglia ( per noi il dialetto) e lingua parlata e imposta normativamente a scuola o nelle varie dimensioni della vita pubblica.

    6.
    E’ questo il problema per cui questa intervista mi ha attirato. Sia per l’esperienza diretta (e spesso penosa) che ne ho avuto in passato. E sia per il fatto che il bilinguismo dialetto/lingua (nell’accezione in cui ne parlò De Mauro negli anni ’70, che non mi pare trascurabile) ha fatto sentire i suoi effetti anche nelle mie scritture poetiche e narrative.

    7.
    Aggiungo che sono proprio quelli che tu chiami “legami psichici profondi che si formano nella prima infanzia” che hanno un valore spesso misconosciuto o represso. E questo fa problema! Pasolini avrà esagerato a parlare di genocidio dei dialetti. Agamben tirerà l’acqua al suo mulino heideggeriano quando parla di “sorgività” e farà svolazzi estetizzanti sul bianco della pagina (ma “Infanzia e storia” che lessi alla fine degli anni ’70 è un libro importante; e ,con lo sguardo vigile di Fortini addosso, non c’è rischio di lasciarsi ipnotizzare dalle sue tesi “sorgiviste”).

    8.
    Ma la “questione della lingua” ha da noi un’importanza fondamentale dai tempi della polemica tra Manzoni e Graziadio Isaia Ascoli fino a Dionisotti e poi a Brevini, Fortini, Agamben e neodialettali.
    Concordo con te che oggi siamo di fronte a nuovi mutamenti. E che per le generazioni più recenti il dialetto non è manco più o non sempre lingua madre. Come pure sul fatto che i dialetti sono sempre meno usati e sempre più contaminati, che il milanese di Carlo Porta ha poco a che fare con quello di Franco Loi, che quelli dei neodialettli sono “dialetti inventati” e per italiofoni ( e perciò ho citato “Il filologo e l’allodola” di Fortini) e sulla ristrettezza lessicale o povertà dei dialetti.

    9.
    Eppure a me pare ancora importante politicamente (e anche sul piano estetico) interrogarsi proprio sul problema dell’esistenza di un ‘basso’ del dialetto e di un ‘alto’ della lingua nazionale (come pure sui processi più globali che possono ridurre una lingua nazionale a “dialetto” rispetto ad altre più egemoniche).

    10.
    E’ questa tensione tra basso e alto, tra dialetto e lingua che Agamben ha ben colto e tematizzato affermando provocatoriamente che ci si sbaglia a pensare che Leopardi abbia scritto la sua poesia in italiano e ad indicare – in un modo che a me è parso originale – che tra il “basso convenzionale” e l'”alto convenzionale” il poeta ) ma non solo lui) possono/devono cercare un “terzo”, una “possibilità”, che oltrepassa entrambi i contesti che condizionano la sua ricerca.

    11.
    Questa tensione tra basso e alto, tra dialetto e lingua tu la metti in luce con l’esempio di Ferrante Aporti, che imponeva di punire i ragazzi che insistevano a parlare in dialetto, ma mi pare che che presenti l’evoluzione che ha finito per imporre la lingua nazionale come processo quasi neutro. “Un dialetto diventa lingua, altre lingue diventano dialetti”. Embè! Ma cosa comporta questa “evoluzione” non solo linguisticamente ma anche socialmente e politicamente? Chi sono i sommersi chi i salvati? E con quali costi? Provocatoriamente e in apparenza andando fuori tema, si potrebbe dire che il comunismo si sia ridotto a “dialetto”. E con quali effetti, con quali costi e chi ne ha fatto di più le spese?

    12.
    Quindi su quello che tu chiami “attaccamento al mito del paradiso terrestre dell’infanzia” rifletterei di più. Del resto mi ricordo che persino il “razionalista” Marx vedeva all’origine del fascino dell’arte greca il fatto che essa era “la fanciullezza storica dell’umanità” .

  5. @Ennio
    Eliminiamo innanzitutto gli equivoci:
    1.
    «Perché sminuire la soggettività dell’ascolto?». Non intendo sminuirla, mi sono limitato a una osservazione che mi pare oggettiva. Fra l’ascolto non registrato, quello registrato e quello trascritto in testo vi sono differenze nei modi di usufruirne. Punto e basta. Poi ogni modo ha le sue ragioni e le sue priorità.
    2.
    No, non dobbiamo evitare le conversazioni e le interviste. Il punto che mi ha colpito è che due persone molto colte conversano su problemi linguistici in un modo come se non avessero mai letto un libro di linguistica ma si basassero solo su letture di narrativa e di poesia e sulle loro riflessioni su queste. Si tratta volutamente di una conversazione “leggera”, forse come tattica di comunicazione per evitare la noia e stimolare di più l’ascoltatore. Non saprei dire. A me fa un effetto di impoverimento.
    3.
    Nulla da dire. Non ho criticato il fatto che tu abbia proposto l’intervista. Anzi. Mi sono limitato a chiarire – dal mio punto di vista – alcuni aspetti del problema, proprio per cercare di ritrovare un filo che non ho trovato nell’intervista, pur apprezzando gli aspetti stimolanti di diversi passaggi.
    4.
    Non vi è dubbio: il contesto sociale determina l’apprendimento della lingua e, come mi pare di avere detto, determina anche pressoché tutti i fenomeni legati allo sviluppo delle lingue e ai rapporti fra di loro. Il parlare è un fatto sociale, il linguaggio lo è e anche le grammatiche lo sono. Oggi, 14 maggio 2020, abbiamo disponibili grammatiche e dizionari che hanno recepito in maniera diversa le novità linguistiche degli ultimi 50 anni: certe forme lessicali o morfologiche o sintattiche sono considerate errate da alcuni e corrette e accettabili da altri. Non ritengo che questo sia un fatto puramente linguistico ma coinvolge anche il chi è e il come il linguista sta in società e che rapporti ha con gli altri.
    5.
    Il «‘salto’ o dello ‘stacco’ tra lingua materna e lingua grammaticale (e sociale )» e soprattutto degli aspetti storico-politici e psicologici di tale stacco o salto. E in particolare delle esperienze fatte almeno dalle nostre generazioni tra lingua parlata in casa o in famiglia (per noi il dialetto) e lingua parlata e imposta normativamente a scuola o nelle varie dimensioni della vita pubblica». Siamo pienamente d’accordo. Il mio discorso era un po’ più distaccato solo perché cercavo di mettere insieme una serie di fenomeni di tipo più generale. Se scendiamo nel particolare, il salto è stato, storicamente, in diversi casi, addirittura una tragedia a danno dei ceti subordinati. Nell’inchiesta Jacini di fine Ottocento si registrano casi, nel Meridione, di maestri analfabeti mantenuti in servizio per la loro utilità come “guardiani” della disciplina e come maestri di comportamenti e discorsi in linea col potere. Ciò mi ricorda, altro fatto molto noto, come in Prussia e in Germania dal Settecento in poi (dopo Federico II), molti posti di insegnamento spettavano agli ex ufficiali dell’esercito collocati in congedo per l’età. La scuola-caserma di cui ho parlato in un altro mio commento ha sempre fatto un uso repressivo della disciplina, compresa la disciplina del linguaggio. La storia della lingua è sempre anche una storia politico e una storia che vede contrapposti ceti di diverso livello sociale, ma anche gruppi di più o meno pari livello sociale ma in concorrenza fra di loro. Si pensi alla lingua burocratica e al suo uso in difesa corporativa del ceto degli amministratori, a partire dai dirigenti. Si può dire che ogni gruppo sociale e professionale oltre ad avere differenziato la propria lingua per motivi di specializzazione e di competenze, lo ha fatto anche per motivi di stile, di abitudini, di difesa. La specializzazione si sviluppa pertanto sia per l’aspetto tecnico (il linguaggio tecnico proprio di ogni disciplina) sia per l’aspetto gergale (il gergo proprio degli addetti a quel lavoro, mascherato spesso da linguaggio tecnico mentre non ne ha le caratteristiche. Nel caso dell’informatica (ma anche della pletorica normativa fiscale) la gergalità è diventata esasperata e spesso parole, frasi e periodi interi hanno un significato diverso, anche molto diverso, dal significato che le stesse forme hanno secondo il significato comune. In molti casi c’è una deliberata volontà di confondere e di impedire al cittadino comune di cavarsela da solo e fare a meno degli specialisti.
    6.
    Capisco quello che dici ma il rapporto personale col bilinguismo cambia da persona a persone. Ci sono persone che fanno fatica a gestire due lingue come il dialetto e la lingua nazionale, altri gestiscono benissimo cinque o sei lingue anche molto diverse fra loro. Ciò dipende da tanti fattori: memoria, investimento psichico, metodo di studio e di pensiero, perché anche il modo di pensare si può addestrare in modo che fornisca più risorse. Ci sono persino casi estremi, come quello del cardinale Gasparo Giuseppe Mezzofanti docente di lingue orientali a Roma nella prima metà dell’Ottocento di cui si dice che conoscesse 98 lingue e che solo il cinese gli avesse dato dei problemi perché aveva dovuto impiegare ben cinque mesi per impadronirsene.
    Più la lingua è legata agli stati emotivi e più diventa difficile il bilinguismo o il trilinguismo. Per i ragazzini che hanno problemi di controllo dell’emotività il “salto” da una lingua all’altra è in genere più difficile e, se imposto, più doloroso e conflittuale.
    7.
    Lo scrittore ha poi un problema diverso da quello della gente comune, perché deve costruire la propria lingua che non coincide mai con quella comune che parla quotidianamente ma nemmeno con quella letteraria dei letterati che legge e conosce, salvo che non voglia fare l’imitazione di qualcuno. Lo scrittore sente una sua lingua, dentro di sé, che fatica a trovare la forma scritta soddisfacente. In tanti scritti autobiografici ritorna questo tema della ricerca della propria lingua personale adatta a esprimere ciò che lui, non altri, vuole esprime. Quanto più si riesce a trovare la propria lingua tanto più si acquista in stile, in personalità e in originalità.
    In questo senso lo scrittore sarebbe obbligatoriamente bilingue anche se conoscesse solo una lingua, ma lo sarebbe in senso letterario e stilistico, non in senso vero e proprio. Ci sono invece scrittori autenticamente bilingui, come i tanti europei che sono diventati scrittori statunitensi, che non riescono ad usare indifferentemente una o l’altra loro lingua, perché certi libri nascono dentro di loro in una delle due o tre lingue che conoscono e solo in quella può essere scritto, mentre parallelamente altri libri nascono in altra lingua. Sicuramente si stabilisce un forte legame psicologico fra l’uso di una lingua e il contenuto che si vuole trattare. Ma anche in questo caso non tutti gli scrittori vivono la stessa esperienza. Alcuni, specialmente i saggisti in ciò facilitati rispetto ai narratori e ai poeti, possono scrivere indifferentemente lo stesso libro in una o nell’altra lingua e scelgono quella più adatta non alla psicologia o ai contenuti ma al pubblico a cui intendono rivolgersi.
    8.-9.
    «interrogarsi proprio sul problema dell’esistenza di un ‘basso’ del dialetto e di un ‘alto’ della lingua nazionale (come pure sui processi più globali che possono ridurre una lingua nazionale a “dialetto” rispetto ad altre più egemoniche)».
    Siamo senz’altro d’accordo, ma faccio notare che gli studi linguistici lo fanno, magari senza porre l’accento specialmente sugli aspetti politici diretti o indiretti. Ma lo si fa. Del resto la difesa dei dialetti e delle lingue minoritarie è stato un tema politico importante anche a livello di proposte di legge, di programmi politici, di rapporti fra comuni, regioni e Stato. Con risvolti diversi e anche paradossali, perché le iniziative di certi gruppi (Lega in particolare) hanno suscitato il sarcasmo della sinistra la quale, però, in altre zone d’Italia ha sostenuto programmi analoghi a favore di altri dialetti o di lingue minoritarie. In Calabria, ad esempio, dopo contrasti di vario tipo, si sono infine trovati d’accordo sia la sinistra, sia il centrodestra sia le destre con la legge di difesa della minoranza linguistica greco-calabra (grecanico) e per il bilinguismo in un certo numero di classi di scuole elementari. Ciò ha rappresentato una rivoluzionaria rivalutazione del greco di Calabria che per lungo tempo, dopo la sua scomparsa come lingua letteraria e amministrativa (gli ultimi documenti ufficiali redatti in grecanico sono del Seicento), era considerato meno del dialetto calabrese, che era parlato da tutti; era considerato il dialetto dei contadini, degli ignoranti, di quelli che vivono isolati in campagna e non sanno nulla di come va il mondo. Insomma, chi avesse parlato in grecanico era destinato a farsi prendere in giro e a essere considerato il più infimo strato sociale. Va da sé che fosse proibito parlarlo a scuola, negli uffici ecc. e anche nelle case private i padroni proibivano alle domestiche proveniente dalle campagne della Bovesia di parlare il grecanico. La rivalutazione di questa lingua neogreca calabrese è iniziata negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento a partire da alcuni docenti e intellettuali di sinistra e ha subito avuto anche un significato di contestazione sociale.
    La lotta dei veneti in difesa della lingua veneta è un altro caso aperto di lotta linguistica e politica insieme e, nel caso dei veneti, anche nazionale.
    10.
    Ma anche a prescindere da tutte queste implicazioni sociali e politiche particolari, ogni lingua ha sempre avuto e, credo, avrà sempre un suo “basso” e un suo “alto” perché svolge usi diversi. Questo, in sé, non rappresenta un conflitto perché sono le stesse persone che ora parlano “basso” ora “alto”. Il conflitto nasce quando sono ceti diversi a usarli e quando il “basso” è legato a interessi politici e sociali in conflitto con quelli dell’uso “alto”. Questo aspetto dei fenomeni linguistici, forte nei secoli passati, mi pare che oggi sia finito o, meglio, abbia cambiato forma in modo significativo. Non si tratta più del conflitto fra dialetto (popolo) e lingua (Stato e signori), ma piuttosto di quello fra linguaggio chiaro e trasparente e quello volutamente non trasparente (politichese, burocratichese).
    Un conflitto, fonte di subordinazione e di disagio, resta nei casi, purtroppo ancora numerosi, in cui gli individua parlano solo forme “basse” e scorrette, miste di dialetto e italiano entrambi storpiati, spesso sono persone analfabete di ritorno o appena capaci di leggere poche frasi ma incapaci di comprendere anche un semplice articolo di cronaca di giornale. La deprivazione culturale è sempre un fattore di emarginazione e quando si manifesta già a livello del linguaggio elementare è più grave.
    In quanto a Leopardi che non scrive in “italiano”, concordo, ma mi pare una banalità perché io ho sempre dato per scontato che un poeta e uno scrittore in genere scrive in una propria versione della lingua che non coincide mai del tutto con la lingua comune né nella sua versione bassa né in quella alta. Se non fosse così, non esisterebbe lo stile. Lo scrittore si addestra nell’uso delle lingue di cui viene a conoscenza e al loro interno, ma in parte anche al loro esterno, cerca una sua propria via. Quella terza possibilità di cu tu parli capace di oltrepassare i contesti in cui opera.
    Dire ciò non mi pare una provocazione perché indica un elemento che è proprio, in poesia come in pittura come in qualsiasi altra attività, di tutte le arti (e direi di tutte le attività di qualunque tipo), che è l’elemento dell’innovazione e dello stile personale.
    Leopardi scrive in italiano, ma in un italiano che è solo suo, perché all’italiano comune lui ha aggiunto stile e originalità personali. Che ciò lo abbia fatto anche ricorrendo all’italiano “basso” e distaccandosi notevolmente da tanti aspetti dell’italiano letterario comune grammaticalizzato ecc., è un fatto letterario prima che linguistico e linguistico perché letterario ma di un letterato con la forza di Leopardi. La forza letteraria ha dato forza alle scelte linguistiche e queste hanno rinnovato la letteratura. Succede sempre così quando si è di fronte a fenomeni innovativi forti. Sono contestati all’inizio ma poi diventano il riferimento comune.
    Alcuni scrittori delle neoavanguardie del Gruppo ’63 e dintorni cercavano una «lingua bianca», diversa dalla lingua comune popolare troppo povera e diversa da quella borghese troppo aulica e enfatica, ma diversa soprattutto dalla lingua troppo carica di connotazioni sentimentali. La lingua non doveva esprimere il sentimento, ma rappresentare le cose, e le cose rappresentate, non la lingua, dovevano suscitare i sentimenti. Era la realtà, non il sovraccarico emotivo della lingua, che doveva smuovere, stimolare il cuore e la mente del lettore. I vari tentativi produssero opere che certamente non sono scritte nell’italiano “ufficiale” alto o basso. Sono scritte nell’italiano che è proprio di quegli scrittori in quelle opere in quel tempo.
    11.
    «presenti l’evoluzione che ha finito per imporre la lingua nazionale come processo quasi neutro». No, è un equivoco di prospettiva. Ho scritto con distacco per delineare fenomeni generali, ma nei riferimenti storici che ho richiamato non mi sembra che ci sia un processo neutro. Ho persino citato i mutamenti linguistici indotti dal colonialismo. Ma il sangue che c’è dietro mi pare chiaramente compreso, senza bisogno di richiamarlo continuamente. Non ci sono fenomeni sociali e linguistici neutri. Se una lingua muore è perché ci sono popolazioni sconfitte che muoiono come entità etnografica autonoma; se nasce, è perché ci sono dei vincitori che l’impongono. Ma mi paiono cose ovvie che è inutile ripetere continuamente per capirci.
    12.
    Chiamalo come vuoi, “mito dell’infanzia” o della “fanciullezza storica dell’umanità” . È un fatto che ritroviamo in tantissimi scrittori e poeti il richiamo all’infanzia come periodo felice, periodo dove si sono determinati tutti gli elementi ella vita futura, o quasi. Ma questo mito, in molteplici forme, è ben presente anche nelle persone comuni. Guarda cosa succede in Facebook nelle pagine di gruppi locali: se uno pubblica un articolo ben fatto su qualche cosa (letteratura, arte, storia) che narra in forme culturalmente corrette e articolate, ottiene 10/20 mi piace; se pubblica la fotografia di un vecchio attrezzo di lavoro o di cucina o un giocattoli del tempo dell’infanzia o dei nonni accompagnando la foto solo con due parole, magari: «Vi ricordate?», arriva una valanga di mi piace e di commenti di poche parole in tutti i quali emerge la nostalgia per quei vecchi tempi considerati quasi sempre migliori.
    Ci sarebbe proprio da fare uno studio psicologico e sociologico approfondito per capire perché un vecchio ferro da stiro a carbonella susciti tanto entusiasmo e apprezzamenti del tipo: «Che bei tempi!». Ma erano davvero bei tempi quando le donne stiravano con i ferri a carbonella?
    Non c’è in questo diffuso fenomeno secondo il quale tutte le cose dell’infanzia e dei nonni vengono giudicate con più simpatia un atteggiamento mitologico? Un allontanarsi dalla verità storica per ritrovarsi in una presunta verità psicologica secondo cui il passato è migliore del presente o comunque aveva tante cose belle che vale la pena di riprendere?

  6. @ Luciano

    Mi pare che concordiamo quasi in pieno sulle questioni fondamentali e trovo di estremo interesse tutti i chiarimenti che hai portato in questo scambio di opinioni su dialetto/lingua. Non darei mai per ovvia e risaputa, però, specie di questi tempi e con l’occhio alle giovani generazioni, che si sappia quale “tragedia a danno dei ceti subordinati” si sia consumata ( e si consumi in nuove forme) dietro il paravento degli usi sociali e politici della lingua (comunicativa e letteraria). Repetita iuvant.
    Infine, data la tua dimostrata competenza nel campo della linguistica, t’inviterei a scrivere, quando vorrai, un articolo per Poliscritture dal tuo punto di vista su questo tema del rapporto dialetti/lingue .

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