Brutti segni

a cura di Samizdat

Poi dicono che Agamben esagera o “spara cazzate”…

1.GIORGIO AGAMBEN – REQUIEM PER GLI STUDENTI

https://www.iisf.it/index.php/attivita/pubblicazioni-e-archivi/diario-della-crisi/giorgio-agamben-requiem-per-gli-studenti.html

Stralcio:

Di ogni fenomeno sociale che muore si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono però restare fermi:


1. i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.

2. Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.

2. AL VOLO/ RECLUTAMENTO E ADDESTRAMENTO DI CANI MASTINI “CIVILI”?

Stralcio:

Saranno i sindaci a impiegare i nuovi volontari in attività di sostegno alle categorie più deboli ma soprattutto per collaborare al rispetto del distanziamento sociale. I cittadini stanno tornando via via alla normalità e a ripopolare le città, ha detto Boccia, per questo ora è il momento di reclutare «tutti quei cittadini che hanno voglia di dare una mano al Paese, dando dimostrazione di grande senso civico». Senso civico che in questa Fase 2 dell’emergenza si traduce nel pieno rispetto «di tutte le misure messe in atto per contrastare e contenere il diffondersi del virus», ha aggiunto il ministro Boccia. Al senso di responsabilità fa appello anche il presidente dei sindaci Decaro: «è ai volontari che vogliamo affidare le nostre comunità in questa nuova e complessa fase: quella in cui proviamo a convivere con il virus e impariamo a difenderci, anche tornando a una vita meno compressa dai divieti».

(Da https://www.ilsole24ore.com/art/distanziamento-sociale-arriva-bando-reclutare-60000-assistenti-civici-AD2u5rS?fbclid=IwAR0h8AGL2YVCqW_-Br-h89p1ycbEqy3AXQpxL84Et6-kKia_2RVX1ovE8lY&refresh_ce=1)

8 pensieri su “Brutti segni

  1. Agamben ha ragione in certi suoi timori, ma mescola con troppa disinvoltura fenomeni diversi in un discorrere che così si svuota di logica e anche di efficacia (a parte l’efficacia propagandistica).
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    1) Paragonare i professori del 1931 che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo con quelli che oggi potrebbero rifiutare la didattica digitale è illogico e improprio. Si tratta di situazioni del tutto diverse sotto ogni punto di vista e soprattutto in termini di rischio. Del resto, anche molti professori contrari a ridurre tutta la didattica solo a un rapporto da remoto, praticavano forme di didattica digitale da anni, soprattutto nelle discipline dove il ricorso a questi mezzi è ormai da tempo indispensabile, oltre che utile.
    Quindi a mio parere il problema non si pone nei termini del rifiuto personale e individuale, ma in quello di una approfondita discussione nelle riunione di dipartimento e di facoltà per individuare il modo migliore di continuare l’indispensabile didattica del rapporto fisico nelle lezioni e nei seminari integrata con l’uso dei mezzi digitali più recenti.
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    2) In quanto al secondo punto, quello della fine della tradizione del modo di vita studentesco, Agamben mi pare che prenda un abbaglio storico. Le prime «Universitates» nascono dal “basso” (ma gli studenti di quei secoli del Medioevo erano figli di personaggi quasi sempre potenti e ricchi, non certo studenti simili agli odierni), sono amministrate dagli stessi studenti e i docenti sono loro dipendenti.
    Ma già dal 1224, quando Federico II di Svevia fonda l’università di Napoli come università imperiale, il discorso cambia ed è il modello di università imperiale o statale che prevale. In queste gli studenti non sono più i finanziatori, gli amministratori e gestori e i datori di lavoro dei docenti, ma sono sudditi ammessi agli studi con leggi dello Stato che fissa modalità, programmi e condizioni disciplinari.
    Non si può pertanto parlare di «studentato come forma di vita» durata dieci secoli. Nel corso dei dieci secoli la forma di vita dello studentato è cambiato varie volte, attraverso tutti i riti dei rapporti con il potere, della goliardia e poi della politica. Inoltre, visto che una notevole percentuale di studenti non frequenta le lezioni, in particolare nelle discipline umanistiche; o le frequentano perché costretti dai professori non perché convinti della loro utilità, credo che da molti studenti la diminuzione del rapporto con la presenza fisica in facoltà sarà bene accolta.
    Lo «studentato come forma di vita» è sempre stato un privilegio di pochi più che una situazione comune a tutti gli studenti, e comunque fa parte della vita delle vecchie università ed è in gran parte defunto molto prima che arrivasse il Covid.
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    3) Mi piacerebbe che si tornasse a fondare università dal basso, come cooperative di studenti, «all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura». Come scrive Agamben.
    Ma credo che per farlo ci voglia un programma un po’ più concreto rispetto al desiderio elitario, all’appello agli «studenti che amano veramente lo studio», come si esprime Agamben. Con questa mentalità ci sono in Italia università e facoltà particolarmente attente allo studentato come forma di vita, ma sono realtà elitarie, molto meritocratiche e selettive, che non è possibile estendere alla “massa” di tutti gli studenti che seguono un corso di studio universitario e meno ancora alla “massa” degli studenti mancanti per mettere l’Italia, in termini di numero di laureati in percentuale sulla popolazione, alla pari dei paesi più evoluti.
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    4) In quanto ai “cani mastini civili” che c’è da dire? È un prodotto malgradito da molti, gradito – purtroppo- da altri (e mi riferisco ad “altri” come persone comuni, lavoratori, spesso di sinistra), con il ripetere il motto: se non hai nulla da nascondere, non c’è motivo di opporti a un controllo più rigido. In tutti i periodi e luoghi storici dove si è incentivato il controllo, fino al vero e proprio spionaggio con invito a denunciare anche gli stessi familiari, la percentuale di chi ha approvato queste misure è stato alta. Si trattasse del periodo giacobino o napoleonico negli anni 1890-1814 in Francia e dovunque i francesi aveva imposto la loro “repubblica” e poi il loro “impero”. Si trattasse dei totalitarismi nazista e sovietico o del controllo di casa per casa organizzato da Fidel Castro e Che Guevara a Cuba in difesa della Rivoluzione. Sempre, con il concentrarsi del potere, con il rafforzarsi dello statalismo, in misura parallela si è diffuso l’invito a collaborare con lo Stato, ma non però come iniziativa autonoma di gruppi di cittadini (anzi, lo Stato reprime le iniziative autonome anche quando vanno nella stessa direzione) ma con un ordinamento preposto dallo Stato stesso. Cittadini volontari e non pagati, ma inquadrati dallo Stato.

  2. 1.
    Sui limiti politici dei discorsi di Agamben concordo. Ma forse i nostri o quelli di altri sono minori oggi?
    Sulla “dittatura telematica” però ci penserei di più. Un medium non è mai neutro e la sua gestione capitalistica non dovrebbe essere sottovalutata. Il processo di sottomissione delle università a metodi di gestione manageriale e a interessi di mercato l’ha veramente distrutta o la sta trasformando a vantaggiò di élites che tagliano fuori dal sapere gli strati più economicamente fragili. Le “forme di didattica digitale” sono state adottate da anni? Ma con quali effetti sociali? E soprattutto entro quale cornice strategica? Sono gestite democraticamente o da specialisti?
    Certo, “lo «studentato come forma di vita» è sempre stato un privilegio di pochi più che una situazione comune a tutti gli studenti”, ma la sua probabile o certa abolizione cosa segnala? Va forse a vantaggio della massa degli studenti che non potevano o non possono frequentare fisicamente le lezioni? Non mi pare.

    2.
    Sui “mastini” questo giornalista la mette sul ridere…

    SEGNALAZIONE

    CAPOLAVORO DI BOCCIA. GLI ASSISTENTI CIVICI IN PIAZZA CON METRO E BINDELLA
    FABIO CAVALLARI
    https://www.glistatigenerali.com/governo_partiti-politici/capolavoro-di-boccia-gli-assistenti-civici-in-piazza-con-il-metro-e-bindella/

    Stralcio:

    Ebbene, questi “assistenti civici” saranno dei volontari che verranno reclutati tra pensionati, inoccupati, lavoratori in cassa integrazione o persone che ricevono il reddito di cittadinanza o altre forme di sostegno al reddito.
    Gireranno nelle piazze, nelle strade e nei parchi, si presume a piedi seppur io suggerirei i cavalli che danno una certa imponenza, per ricordare alle persone l’uso delle mascherine e il mantenimento delle distanze di sicurezza e il divieto di assembramenti. Saranno riconoscibili perché indosseranno una casacca blu con la scritta “assistente civico”. Non avranno alcun compito di polizia: non potranno fare multe o richiami, dovranno limitarsi a ricordare le regole a chi non le rispetta.
    Si presume che verranno formati e considerata la loro accezione “civica” dotati di un sapere minimo condiviso sulle norme legislative, e aggiungerei io su almeno i primi tre articoli della Costituzione così da poter dibattere in caso di controversie dialettiche.  Dovranno, recita il comunicato di domenica, lavorare con “gentilezza”.
    Ora, con tutta la buona volontà e la disponibilità a comprendere il terrore per gli assembramenti, ci vuole davvero uno sforzo notevole per immaginarsi questi “assistenti” all’opera. Saranno dotati di un metro da sarta, o da una bindella da muratore? Saranno muniti di macchina fotografica per immortalare gli erranti per poi pubblicarli sui social con l’hashtag “seipococivico”? Giungeranno nelle strade affollate e come Mosè apriranno le acque al grido gentile “sgomberare, sgomberare”? Li vedremo arrivare in coppia nei parchi accolti dagli applausi degli astanti che neppure “gli ausiliari del traffico”…? Come potranno riconoscere due coniugi, due fidanzati, due amanti che su una panchina non manterranno le distanze? Quante discussioni si apriranno ancora una volta sul concetto di congiunti? Come potranno palesare la loro autorevolezza, che è sempre l’unico “strumento” per farsi ascoltare? Per aiutarli nel compito non sarebbe il caso di dotarli di qualche strumento in grado di allertare e mettere sul “chi va là” le masse? Che so io, tamburi, fischietti, e campanelli, in modo tale che gli avventori, possano vivere almeno un fremito al loro arrivo. Sentiremo per la strada, al posto del famoso “la pula, la pula” seguito da una fuga di massa, la un più rassicurante e gentile: “l’assistant, l’assistant”.
    L’esercito dei sessantamila, non può certo ricordarci le ronde o le milizie come qualcuno ha iniziato a farfugliare, quanto un tentativo davvero tragicomico di affrontare un problema serio.

  3. ….”Brutti segni”…mi sposto leggermente, cioè dagli studenti universitari a “quelli” delle scuole materne…sono stata informata da amiche nonne di bambini dai due ai cinque anni, che hanno lasciato i loro asili per affrontare rigorosamente la quarantena: maestre no, amichetti no, genitori fin troppo, come il sempre maggiore consenso all’accesso dei mezzi telematici…beh, sembra che diversi tra questi “bravi bimbetti”, che hanno ascoltato fino in fondo le raccomandazioni all’isolamento, ora fatichino ad uscire di casa…I nonni che li vogliono portare ai giardinetti, si sentono respingere l’invito, oppure i nipoti lo accettano ma subito dopo premono per tornare a casa. Massimo, acconsentono di uscire sul balcone con la mascherina…Speriamo, penso, che sia una crisi di passaggio e che non ne escano agorafobici…E speriamo che non diventi una tendenza collettiva quella di aver paura a rapportarsi con gli spazi aperti e, soprattutto, con gli altri in carne e ossa…Anni fa lessi un romanzo di I. Asimov, non ricordo, forse del “ciclo dei robots”…in cui, si narra, uno degli ultimi investigatori-umani si reca in un pianeta lontano per indagare su un delitto e di persona avvicina una donna nella sua casa, allungandosi per una stretta di mano, ma lei retrocede terrorizzata quando si accorge che lui è vivo e non figura virtuale…In quel pianeta i contatti fisici erano finiti da tempo…

  4. @ Ennio Abate
    Se questa tua frase è riferita a me, o anche a me: «Sulla “dittatura telematica” però ci penserei di più», ti dico che ci ho pensato da tempo e che sono d’accordo con te, come mi pare chiaro dai miei interventi, anche se, come sempre, tu sottolinei l’aspetto politico più attuale mentre io l’aspetto più analitico e di medio e lungo termine. La fine dello studentato non può andare a vantaggio degli studenti che non frequentano, mi pare ovvio. Casomai a loro vantaggio provvisorio va l’effetto collaterale dell’aumento delle lezioni telematiche. Ma il meglio sarebbe che tutti gli studenti potessero frequentare e che tutti i professori facessero lezione personalmente e seguissero personalmente gli studenti. Mentre oggi, in certe università, ci sono ancora docenti largamente assenteisti e che firmano i registri come fossero presenti mentre le lezioni e le esercitazioni vengono fatte da collaboratori. Ma pensare, ad esempio, a lezioni ed esercitazioni messe online che lo studente può usare o per ripassare, se ha seguito la lezione, o per seguirla se non ha potuto o voluto farlo prima. La tecnologia di oggi mette a disposizione tante possibilità che dovrebbero servire per arricchire la didattica, non per sostituire il rapporto diretto col docente. Ma certi momenti della vita universitaria, come i colloqui con gli studenti per chiarimenti, informazioni, tesine e tesi, che fanno sempre perdere un sacco di tempo (agli studenti, non ai professori che non sempre sono presenti), potrebbero benissimo essere in gran parte svolti per via telematica. E ci sono poi altri aspetti, in Italia ancora del tutto trascurati, come avere a disposizione online in formato PDF libri e giornali e documenti di studio, e tutor automatici per tutta una serie di esercitazioni a cui lo studente che ne ha meno bisogno potrebbe ricorrere raramente, mentre altri più spesso, in modo da poter mantenersi alla pari.
    La famosa didattica individualizzata, pezzo forte della scuola attiva da più di cento anni, con i mezzi audiovisivi che abbiamo oggi può cominciare a realizzarsi davvero e anche a livello universitario.
    Quindi il mio parere è che il dialogo diretto fra studenti e docenti non deve venir meno, ma deve arricchirsi utilizzando tutti i mezzi disponibili.
    ***
    Agamben, nel suo articolo, menziona anche: «Le piccole città, sedi di università un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di studenti che ne costituivano spesso la parte più viva».
    Piccole città e piccole università, ma nient’affatto di serie B o C. Alcune sono, sì, di serie C, e addirittura in mano a gruppi mafiosi. Ma nell’Italia Centrale ci sono piccole università che sono gioielli e dove fra studenti e professori si formava davvero una comunità che si incontrava a lezione, ma anche in piazza e al bar. Si pensi a una città come Urbino dove, in certi mesi dell’anno, gli studenti sono più numerosi degli abitanti fissi.
    Ma queste piccole università possono vivere al meglio se conservano libertà e indipendenza, mentre se sono costrette, per avere finanziamenti, a diventare in tutto e per tutto identiche alle università statali, si ingrigiscono inevitabilmente. Non si tratta infatti di poco poter sviluppare in autonomia programmi, contatti con il mondo locale, assumere docenti disposti a collaborare e in linea con i programmi elaborati, anziché docenti di prima nomina che vanno a Urbino solo un giorno alla settimana e che non vedono l’ora di ottenere il trasferimento per tornare all’università d’origine o comunque all’università di una grande citta.
    Questa dinamica fra le sedi maggiori e le minori penalizza le piccole università, ma potrebbe non essere così se le piccole fossero più indipendenti e potessero sviluppare delle eccellenze in sinergia col territorio, come è oggi in parte per l’università di Ancona, di Reggio Calabria (ma non di Messina), di Perugia ecc.
    La bufera del Covid suggerisce di reimpostare il rapporto città – campagna sul quale tanto si è scritto anche in tema di programmi politici mai attuati, ma anche il rapporto città piccole – città grandi dovrebbe cambiare, con il decongestionamento delle metropoli e il passaggio di poteri ai comuni e alle province che dovrebbero – a mio parere – rinascere come consorzi di comuni, e insieme ai poteri lo Stato dovrebbe passare una parte maggiore dei finanziamenti fiscali raccolti localmente e favorire l’autonomia territoriale, per comprensori di circa 100 / 200 mila abitanti, da ogni punto di vista possibile: alimentazione, piccola e media industria, trasporti, distribuzione commerciale, scuole e università, ospedali, musei e biblioteche e altro ancora. Le piccole università potrebbero in questo quadro svolgere un ruolo fondamentale di studio, ricerca, elaborazione di proposte, valutazione delle realizzazioni e così via e non sarebbero, come erano considerate in passato e in parte sono ancora oggi, università di seconda serie per studenti poveri o poco studiosi che in quelle piccole università periferiche si laureavano più facilmente.
    La telematica potrebbe non sostituire, ma arricchire e innervare una buona cultura e una buona didattica che facendo perno alla sede si irraggi e serva meglio tutti gli studenti con le loro diverse esigenze.
    L’ideale di Carlo Cattaneo delle “cento città d’Italia” nasceva da un federalismo che voleva decentrare per fare di ogni città un centro, una capitale di un territorio di riferimento, con quelle caratteristiche proprie delle capitali, così diverse dalle città periferiche che, svuotate di funzioni culturali e dirigenziali, si trasformano in dormitori degradati.

  5. D’accordo. Ma si sta andando proprio dalla parte opposta. Io non so se si realizzerà la “profezia” di Agamben (abolizione dell’università “fisica” e telescuola come surrogato) ma l’assenza nelle scuole e nelle università di movimenti contro questo “uso capitalistico della telematica” è preoccupante.

  6. Forse perchè ho cominciato il mio ’68 anni prima, lottando nelle aule contro il sapere pietrificato e usato quindi nel solo modo adeguato a quella forma, come clava contro la testa degli studenti; ma i discorsi di Agamben mi sembrano volare in un suo universo parallelo, mentre quello che più latita sono iniziative, riflessioni e lotte dei diretti protagonisti. Un punto tuttavia merita attenzione, uno di quei presupposti nascosti che inficiano poi a cascata anche i ragionamenti più raffinati: ma chi l’ha detto che la scuola debba essere fatta da gente che parla (gli attori/docenti) e gente che ascolta (il pubblico/studenti)? Questa è una cattiva abitudine, cara a Socrate ma inadatta ad una scuola di massa..ma non solo. Nella scuola migliore il docente quasi mai parla ma guida, indirizza, fornisce fonti e dati, dà buoni esempi, prepara attrezzature, interviene nelle discussioni: maieuta a volte, mai profeta in cattedra. E anche cattedre e aule, il gruppo classe fisso sono portati militari.
    Se togliamo questi presupposti nefasti possiamo anche immaginare una scuola, nel senso migliore, dove l’incontro telematico e in teleconferenza non è esiziale e dove anche gli incontri de visu possono seguire protocolli distanziati e mascherati.
    Esperienze ce ne sono state e ci sono (da Montessori all’organizzazione delle scuole europee a scuole sperimentali in tutto il mondo).
    Mi piacerebbe ne discutessero i diretti interessati, ancora in tempo a intervenire a giocare su un tavolo che, se lasciato vuoto, può venire occupato da tendenze nefaste…come tutto.

  7. “ma i discorsi di Agamben mi sembrano volare in un suo universo parallelo, mentre quello che più latita sono iniziative, riflessioni e lotte dei diretti protagonisti. (Paolo Di Marco).

    Ho poche ore fa segnalato su POLISCRITTURE FB l’articolo di un critico equilibrato di Agamben e ribadito una mia convinzione profonda, che mi fa essere attento verso le opinioni di questo filosofo senza esserne un seguace o un ammiratore (vedi sotto).
    Su quanto auspica Paolo ho dei dubbi. Temo che movimenti di studenti come quello che dilagò nel ’68, per come è conciata l’università ( e non credo soltanto in Italia) non ce ne saranno più. Come si vede da quanto sta succedendo negli USA di Trump con le rivolte dopo l’uccisione di George Floyd, le “polverieri” che scoppiano riguardano contraddizioni sociali più profonde e più antiche…

    ——————————————————————————————————————-
    Agamben sì, Agamben no…Resto dell’idea che per non buttare il bambino con l’acqua sporca nei discorsi di Agamben ci vorrebbero pensatori che non si sono disfatti di Marx…[E. A.]

    AL VOLO
    (dalla pagina FB di Franco Senia)

    Ma allora, se Agamben non ci convince, occorre bruciare Agamben? Occorre marchiare come famigerato il suo pensiero sul Covid? Se Agamben è l’unico, o uno dei pochi (almeno in Italia), ad alzare la propria voce per denunciare – in modo anche scomposto, esagerato – la pandemic shock doctrine, come Naomi Klein ha chiamato la dottrina dello shock pandemico che sta già producendo una nuova ‘teoria’, lo Screen New Deal, che ha tra i principali obiettivi proprio il sistema dell’istruzione, allora egli merita di essere famigerato. Egli vorrebbe chiamare alla rivolta, ma in realtà ciò che ci fornisce è l’armamentario di un Bartleby, quel preferirei di no che non ci serve come arma per rispondere all’asse tecnopolitico che oggi vuole prendere la palla al balzo e rendere l’istruzione (universitaria) un affare: minori salari, lavoro precario istituzionalizzato (ancora di più?), risparmi sulle dotazioni ‘fisiche’. Del resto Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York, ha chiesto retoricamente «all these buildings, all these physical classrooms – why, with all the technology you have?». Niente aule, niente palazzi, ‘avete tutta quella tecnologia’, e pazienza per il divide, che non è solo una realtà delle relazioni tra Nord e Sud del mondo, tra Est e Ovest, ma gerarchizza l’Occidente stesso; pazienza se i device devono essere privati e non pubblici, e se non li puoi comprare o se non hai una casa con una stanza per ogni discente.

    (https://www.iisf.it/index.php/attivita/pubblicazioni-e-archivi/diario-della-crisi/francescomaria-tedesco-agamben-il-famigerato.html?fbclid=IwAR3lWi1XsZh6gZ7HygukdU8v67kBKqRZa7BgzV_k-l50YNJUPv1JPAYO3tU )

  8. Nell’articolo di Francescomaria Tedesco a cui Ennio Abate rimanda, si usa cinque volte la parola potere. Tre volte in questo passo:
    «Agamben ripropone la sua concezione di un potere trans-storico che, senza soluzione di continuità, dai romani ad Auschwitz, cattura tutti noi in quanto homines sacri. È il ‘paradigma del campo’ (di concentramento) ciò che caratterizzerebbe il Moderno, ma che in fondo non fa che rinnovare la pulsione tanatopolitica di ogni potere in ogni tempo. Ma se il potere è questa cattura, questo contemporaneo essere dentro e fuori del diritto, allora siamo vittime sacrificali che vivono in un mondo in cui le Furie si alzano in volo precedendo la colpa. Siamo gli uomini kafkiani sempre in procinto di essere pugnalati, i copisti melvilleani che non possono fare altro che morire rannicchiati accanto alle mura di cinta delle Tumbs di New York. Senza sapere perché».
    Fatico molto a seguire questo discorso dove il “potere” diventa qualcosa di demoniaco, di profondo e di magico, qualcosa che ha a che fare col sacro, col destino, con l’ineluttabile. Sarà pur vero, ma perché non dirlo e soprattutto non vederlo e non capirlo in modo più realistico e vero, con un po’ più di psicologia, di etologia, di sociologia, di diritto e meno fumo verbalistico?
    Il potere, in fondo, è sempre una relazione: con le cose, con le persone, con le istituzioni, con enti giuridici, e persino con i fantasmi della nostra mente.
    È una relazione nella quale il rapporto non è alla pari perché c’è una qualche differenza fra coloro che sono in rapporto e questa differenza, a vantaggio di qualcuno e a svantaggio di altri, si traduce in potere, cioè, a secondo di chi e di che cosa è in relazione e delle circostanze in cui si entra in relazione, si traduce nella capacità, o possibilità, o diritto, di fare qualcosa, o di decidere qualcosa o di comandare qualcosa, che per l’altro diventa un obbligo o un atto subito o un dovere da eseguire.
    Il potere è ineliminabile. Il problema, nei rapporti fra due persone come nei rapporti politici ed economici internazionali, è di eliminarne tutti gli aspetti in cui il potere si manifesta e afferma come violenza, come sfruttamento, come sopruso e abuso, perché prevalgano e restino solo quelli in cui si afferma come legittimo diritto, come autorevolezza, come cura e come amore fra pari (ma “pari” per elezione, etica o affettiva o politica, perché la realtà non ammette “pari”, in quanto crea sempre differenze suscettibili di trasformarsi in relazioni di potere).
    Sul piano pedagogico, uno dei punti chiave del rapporto fra docenti e allievi, cioè del “rapporto pedagogico” discusso da millenni in migliaia di libri di pedagogia, filosofia dell’educazione, scienze dell’educazione, didattica, psicologia, è che l’«autorità» del maestro non sia tale per l’allievo, ma sia autorevolezza, stima, carisma, affetto. In sostanza che il maestro non eserciti il volto truce del potere, ma si faccia accogliere, accettare e amare esercitando il volto dolce del potere: quello di guida che si rende necessaria, quello dell’aiuto, quello di chi si preoccupa del tuo bene.
    Fra questi due volti del potere si svolgono tutte le relazioni, vivono la loro quotidianità e la loro storia.
    Allora chiediamoci: la didattica a distanza, che tipo di relazione è? Che tipo di esercizio di potere esercita? Che relazione è quella fra la persona e il computer e quella fra la stessa persona e chi sta dietro al computer, cioè chi ne organizza la rete, fornisce l’hardware e il software e decide il tipo di hardware e software?
    Poniamo i problemi nel loro aspetto concreto e affrontiamoli con il metodo scientifico con cui vanno affrontati, perché se parliamo di «pulsione tanatopolitica di ogni potere in ogni tempo» non riusciamo a capire di che cosa si sta parlando e ci limitiamo ad agitare fantasmi verbali che è dubbio che abbiano qualche senso.
    Io, personalmente, non so cosa voglia dire “tanatopolitica”, né detto così né detto, con un tentativo di traduzione, “politica che tende alla morte” o che “porta alla morte”. Conosco «Bios» di Roberto Esposito, i concetti di «biopolitica», di «protezione negativa della vita», dell’uso che del neologismo «tanatopolitica» si fa nella critica al nazismo, della sua politica che, per salvare integralmente certi valori (la purezza ariana, per esempio), si trasforma in politica che ne uccide altri (la dignità e la vita dei non ariani, per esempio), tuttavia continuo a non capire bene, soprattutto perché si debbano inventare astrusi termini e modi di discorrere per dire cose che si possono meglio dire in modo più semplice e comprensibile da tutti. In questo modo di parlare e scrivere ci vedo una maschera indossata per allontanare la realtà, forse considerata troppo volgare e quotidiana. La filosofia della chiacchiera è molto brava in questo, ha alle spalle oltre duemila anni di esperienza.
    In fondo, si potrebbe dire che anche Agamben eserciti un suo potere e una sua «tanatopolitica», con le sue migliaia di pagine spesso illeggibili dove l’analisi della realtà è soffocata dalla chiacchiera e non porta a nessuna conclusione. Insomma, c’è una filosofia che gioca con i concetti (con tutto l’apparato di analisi, verità, emotività, potere ecc. che si mette in gioco nel gioco) e una che li usa come elementi di un progetto ingegneristico di costruzione. Agamben non è l’ingegnere.

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