L’ultimo viaggio di Odisseo

di Daniele Barni

Quando con la prua della pentecontera intaccammo nella notte l’oceano, al di là delle Colonne d’Eracle, io mi tenevo seduto al timone di sinistra. A quello di destra penzolava, addormentato, mio cognato Euriloco. Lo rinvenni con un sibilo, perché non volevo che, trascinando nel sonno il timone, mi impedisse di conficcarmi perfettamente a perpendicolo in quel nuovo mare: lo avrei considerato un indizio dell’avversità di Tiche. Anche tutti gli altri dormivano. Solo allora, e poi mai più, riesumai dalla coscienza i compagni perduti, e contai il misero gruzzolo di coloro che mi rimanevano con l’ultima nave. Poi chiamai Perimede, che guizzò con la testa dal torpore, intorpidendola di nuovo contro la fiancata. Barcollò fino a me, anticipato da altrettanto barcollanti imprecazioni: “Odisseo, per la tripunta di Poseidone scuotitore di terra, che cosa accade?!”

“Abbiamo oltrepassato adesso le Colonne d’Eracle.”, risposi, forse sorridendo.

Perimede, coccolando con il dito medio il suo bernoccolo: “Odisseo, per il fulmine di Zeus…”

Ma prima che sproloquiasse gli ordinai: “Ascoltami: sceglierai un legno sicuro della nave, al riparo dalle intemperie e dall’equipaggio: su di esso, a partire da stasera, aggiungerai una tacca a ogni luna nuova”.

“Perché devo farlo?”

Lo attanagliai con le mani a entrambe le spalle: “Non deve sfuggirci il conto del tempo, Perimede! Solo grazie al tempo potremo piantare qualche riferimento in mezzo a questo deserto d’acqua.”

Non mi rispose. Se ne tornò a sdraiarsi trascinandosi dietro il suo dubbio e la sua obbedienza. Perimede: quando partimmo da Itaca era un giovinetto diritto come un’asta di lancia, biondo come i riflessi del mattino e dalla pelle chiara come il caglio. Ora, appariva scurito e uncinato di pericoli e lutti.

Non ho mai smesso di pensare che il mio destino fosse bizzarro: sono sempre stato ammirato per i miei vizi e disprezzato, o almeno biasimato, per ciò che di me reputo di qualche valore. Tutti, anche coloro i quali si accendano di ammirazione per me, presto o tardi si stemperano fino ad accusarmi di essere un ingannatore, anzi, l’ingannatore. Il cavallo di legno è oramai issato sul piedistallo di Mnemosine a esempio delle malizia umana. Eppure, nessuno considera che l’inchiodatura di quella maledetta macchina ippica abbia seguito dieci anni di guerra, migliaia di pire funebri e infiniti pianti. Non avrei potuto inventare di meno per trovare una fine a tutto ciò.

La nave pian piano componeva con le Colonne d’Eracle un triangolo dal vertice sempre più prossimo al grado zero. Una combriccola di delfini ci affiancò per qualche miglio, festante. Uno, forse il più anziano, ammirava concentrato la nave con il suo occhio levigato. Mi sono sempre domandato, in seguito, che cosa avesse pensato nel vedere quel guscio sostenuto dall’abisso. Euriloco lasciò il timone e si avvicinò per guardare i delfini. S’inchiodò per un momento, quasi commosso, poi sputò in mare, come a condire con la sua rabbia di anni quella per lui sciapa tranquillità di acque. Se ne tornò al timone.

La mia voglia, anzi, la mia volontà di conoscenza, quella sì che fa aguzzare di ammirazione le sopracciglia ai molti. Io la detesto. Non ho calpestato il limite di Eracle per curiosità: ma solo perché costretto. Dopo che i miei uomini ebbero bivaccato con le mandrie del Sole, Zeus avrebbe sicuramente precipitato il fulmine contro la nave. Non avevo altra scelta se non la fuga più inconcepibile, quella verso l’ignoto, oltre la giurisdizione dell’Olimpio. Non solo io, però, ma ogni uomo è costretto alla conoscenza: le Moire lo costringono a frugare sempre da qualche parte, come il porco nel brago, alla ricerca di un avanzo di salvezza. Qualcuno, forse qualche giocoliere di parole, potrebbe obiettare, ad esempio, che dall’isola del ciclope sarei dovuto salpare subito dopo aver caricato acqua, anziché lasciarmi abbindolare dalla curiosità. Rispondo che anche quella volta, come ogni volta, fui costretto all’esplorazione: ogni incontro, ogni conoscenza, ogni evento, anche inaspettati, avrebbero potuto essermi di aiuto per tornare a Itaca. Soprattutto dopo i Lotofagi, dai quali, ricordo a tutti, fui io, non altri, a volermene andare: da allora, infatti, avevo cominciato a intuire che il viaggio fosse aggiogato a qualche maledizione, e l’ordine bucolico dell’isola di Polifemo solleticava la speranza di soccorso, non il sospetto di insidie. Ma non voglio ripetermi: dicano pure!

Corsi a prua, proprio al bacio delle murate, dove non mi avrebbe visto nessuno. Lì mi accovacciai con la faccia contro la notte, cercando di respirare con avarizia, per non regalare troppo fiato al male che non mi lascia dalla sera del cavallo: il petto, all’improvviso, mi si comprime come sotto mille carri falcati… ogni respiro fa attrito sulla gola come fosse l’ultimo… e trovo la calma solo in un sonno o, forse, delirio malinconico o, peggio, impaurito.

A tre giorni di mare dalle Colonne d’Eracle, una balenottera, con uno sgarbo di coda, ci frantumò i timoni. Solo il giorno dopo riuscimmo ad aggrapparci a uno sparpaglio di isole, vicine le une alle altre. Ne avremmo approfittato, finalmente, per imbarcare acqua e cibo: dopo giorni e giorni di navigazione, infatti, in fuga, senza scali, non solo gli stomaci ma anche le menti si erano svuotate, eccetto il pensiero, appunto, della fame e della sete. I due avanzi di timone vollero allinearsi, come per bizza, verso un’isola, fra le altre, grande e rotonda. Una lama di sabbia, candida come l’avorio, s’incastrava tra gli scogli, anch’essi bianchissimi. Approdammo. Scesi solo io, per il momento. Al di là degli scogli, non appena mi fui arrampicato sopra quello che sembrava invitarmi con la sua conformazione a scalini, quasi di tempio, si allungava un confine di alberi, ginepri, olivastri, lentischi. Non così folto e spesso, tuttavia, da non lasciare intravedere oltre, dove mi sembrava che degli animali si muovessero su di un prato. Ridiscesi alla nave e feci sbarcare tutti gli uomini, tranne cinque che lasciai a bordo di guardia. Ci inoltrammo fra gli alberi con la cautela del felino che si dispone all’agguato. Perimede e io conficcammo la faccia in mezzo alle ultime frasche: un prato davvero grandissimo, contornato da colline di roccia color fuliggine, era abitato da migliaia di animali. Gli uni vicini agli altri. Linci, leopardi, leoni insieme a vitellini, capretti, maialini. Ruzzavano, senza divorarsi. E poi lupi e cinghiali, donnole e galline, vipere e topi selvatici. Si rincorrevano in scherzi animaleschi. In cielo, gheppi, astori, aquile con rondini, tortore, cardellini. Intrecciavano geometrie perfette. In un torrente, che, al diradarsi dello stupore, ci accorgemmo scorrere lì accanto, e che dal mare attraverso il bosco, dunque all’incontrario, riempiva un laghetto rotondo in mezzo al prato, piroettavano in tuffi reciproci trote e alborelle, salmoni e libellule, lucci e persici. Persino l’erba era diversa, lucida, ordinata, come pettinata: nessun animale la brucava. E infine tanti cani, forse i più numerosi e i più gioiosamente rumorosi, levrieri, molossi, cirnechi: a Perimede, perciò, venne in mente di chiamare le isole con il nome di Cinarie, Cunarie o Canarie. Anche gli altri compagni trapassarono con i nasi le frasche, e subito cerchiarono gli occhi di meraviglia. In quel momento, una pantera balzò da dietro un tronco. Ma il terrore di tutti noi sbiadì in allegria quando lavò il muso di Euripide con una leccata esagerata quanto affettuosa. Allora, nemmeno pensammo: chi strappò dal fianco la spada, chi il pugnale, chi bilanciò a due mani la lancia, chi innalzò pietre, chi bastoni: ci buttammo su quegli animali inermi per sfamarci. Vanamente: ogni fendente si cambiava in carezza, ogni affondo in abbraccio, ogni morso in un bacio. In quell’isola non era consentito uccidere.

Vagammo su quel prato, istupiditi dalla fame, per l’intero giorno e per l’intera notte, ribadendo i nostri ridicoli assalti. Disperati, provammo ad addentare persino l’erba: anch’essa invano. Quando l’aurora cominciò a lucidare il buio, decidemmo di tornare alla nave. Brancicando. Ancora lontani, dalla cima degli scogli, urlammo ai compagni sul ponte:

“Issate l’albero, presto!”

“Liberate le scotte!”

“Ficcate i remi in acqua, subito!”

Volevamo abbandonare l’isola prima che la fame ci uccidesse. Alcuni ararono rabbiosamente l’acqua col petto come fosse un vomere trainato da cento buoi; altri sembravano saltellarci sopra come delfini, tanto erano veloci; io mi tuffai non appena mi sentii rinfrescare le ginocchia e, più che nuotare, sembrava che mi arrampicassi freneticamente sulle onde. Saltammo a bordo come foche impazzite. Vibrammo i remi. Voga, voga, e ancora voga! Ma la nave non si muoveva. Allora, mi ricordai che il torrente scorreva dal mare verso il laghetto nel centro del prato. Nell’isola era possibile approdare, ma non ripartire. Ogni tentativo rimaneva invischiato fra le correnti che, potentissime, ci trattenevano sulla spiaggia.

Saltammo tutti giù dalla nave, senza che l’avessi ordinato, d’istinto. Rimanemmo a guardarci nel silenzio profumato di salsedine e, se ci ripenso, di estate quasi autunnale. Le onde ticchettavano sulla spiaggia. Proprio io ricominciai a parlare, per spiegare ai compagni, rimasti il giorno prima a bordo, cosa fosse accaduto. Tornammo verso il prato per mostrare ciò che avevamo, a chi non aveva, visto. Ma in fondo agli scogli, improvviso come lo spavento, ci affrontò uno sbaffo di uomo, che pian piano assunse il contorno; poi la plasticità, seppur diafana contro l’alba saliente: sembrava il nostro compagno Polite.

“Per Zeus ingannatore di ninfe, da dove sbuchi!? Non eri sulla nave?!”: sbraitò Perimede a quel Polite impossibile: e uno dopo l’altro ci voltammo, quasi a verificare che fra di noi ci fosse la conferma di quell’impossibilità. Rovistammo con lo sguardo nella notte residua. Polite non c’era. Perciò, quello lì davanti doveva essere proprio lui, tornato da chissà quale incantesimo.

“Sono proprio io, compagni, il vostro Polite!”

“Hai voglia di scherzare?!”: scattò innanzi Euriloco, facendosi precedere da un cazzotto che, mortificando le intenzioni del suo sferratore, si tramutò in abbraccio.

Polite sorrise, benevolo come sempre: “Non puoi colpirmi, testone di un Euriloco!”

“Vedrai se non posso colpirti!”: per altre due volte i cazzotti si sciolsero in abbracci.

“Nella fuga verso la nave, non vi siete accorti della caduta del vostro povero Polite?”, riprese, con vera tristezza, “Sono scivolato da quello scoglio alto, laggiù. Ho rimbalzato più volte con la testa sulla roccia tagliente. Eppure, non può essermi testimone una sola gocciolina di sangue. Forse, se in quest’isola è impossibile uccidere, non è possibile nemmeno morire.”, ed emise una risatina bambinesca, sottile. Poi, continuò: “E poi non vi siete accorti di altro? Sicuramente no, impauriti come siete, i miei agnellini castrati. Non sentite che la fame non addenta più gli stomaci?”

Ci inarcammo tutti sul ventre: come per il cenno di un dio, i denti della fame avevano schiuso il loro morso.

In quello stupore, due navi, all’improvviso, tagliarono la continuità dell’orizzonte. Il loro ingrossarsi leggero ci confermò che miravano all’isola. Non tardammo ad accorgerci che erano carene greche. Poi, che erano itacesi. Poi, che quelle due navi erano due delle nostre: erano nostri compagni! Urlacci commossi e premurosi si liberarono dalle nostre bocche: non per attrarli a riva, ma per respingerli al largo. Sapevamo, infatti, che, se si fossero avvicinati ancora, sarebbero stati catturati dall’incantesimo. Ma da laggiù, quelli, immaginarono i nostri mimi come segnaletiche di accoglienza o di aiuto, così ribadirono la direzione. Non molto tempo dopo ci abbracciavamo con gioia e disperazione: due dozzine di uomini erano sbarcate dalla mia coscienza, la quale avevano zavorrato come ancore di piombo, sulla spiaggia; ma era anche naufragata la speranza che qualcuno potesse aiutarci dal mare. Anche loro, dopo il pasteggio con le mandrie del Sole, avevano tentato scampo ai fulmini di Zeus oltre le Colonne d’Eracle. Quando però svelammo loro la verità sull’isola i loro volti si accartocciarono di sgomento.

Si era già ricongiunto il giro di una luna. Trascinavamo le ore come pietre di cava. Respiravamo noia, non aria. E, dalla distanza di uno scoglio, ogni giorno osservavo non altro che frantumi umani qui e là muti e immobili sul prato. Ho detto prima che le Moire costringono l’uomo alla ricerca, all’agire, al tentativo sempre inutile di salvarsi dalla morte, magari anche sfidandola. Se la morte non lo attendesse sulle forbici di Atropo, l’uomo, come su quest’isola, non farebbe nulla: non lavorerebbe, non immaginerebbe, non parlerebbe, non navigherebbe, non farebbe nemmeno l’amore. Infatti, gli uomini avevano smesso persino di accoppiarsi: e sarebbe accaduto lo stesso se ci fossero state delle donne. Se fossimo immortali, insomma, non avremmo nemmeno bisogno di vivere.

Dovevo trovare lo stratagemma che ci soccorresse da quel luogo di maledetto incanto. E, forse per stupido caso, forse per volontà alta, catturai con l’occhio una serpe di fumo che strisciava verso il cielo, al di là, eppure sulla cima, di una delle colline. Questa volta andai senza nemmeno accennare ai compagni. Scavalcata con gli occhi la mano stretta sull’ultimo dente di roccia, vidi un labbro di fuoco pronto a parlarmi da un cespuglio incandescente, forse un letischio:

“Ti aspettavo”: sembrò dire e ridacchiare.

Abituato a fenomeni stravaganti, non fuggii: “Chi o che cosa sei?”

“Puoi chiamarmi Dio, o anche Zeus, o Mistero, o Tutto, o Morte, o Nulla, o Tempo, o Nonso, o Chittipare: fai tu!”

La cosa che mi impressionava di più era il suo modo buffonesco, anche femmineo, eppure perfettamente ineluttabile. Rimasi all’ascolto:

“Lo so che tu e i tuoi uomini vi state annoiando. Poveretti! E so che rimpiangi la morte e che pensi che solo grazie a lei sia possibile vivere. Che disprezzi la noia immortale che hai conosciuto in quest’isola diversa. Lo so. Eppure, caro il mio Odisseo, fai le cose un po’ troppo facili: non pensi?”: a queste parole accodò una risatina infuocata.

“Che cosa devo pensare, allora?”, chiesi, aggiungendo qualche passo, ma non troppi, verso quella pira.

“Non: ‘devi’, ma: ‘puoi’, se vuoi!”

“Che cosa posso, dunque, o voglio pensare?”, richiesi, cercando di essere astuto.

“I tuoi inganni di parole, e non solo di parole, possono portarti bene nell’isola del Ciclope o all’ombra dei bastioni di Troia, non qui con me!”, e sorrise, stavolta meno temibile, “Ma lasciamo stare… Odisseo, mio caro, dimmi, se puoi, quale sia quella cosa che comincia dove finisce, che parte da dove arriva, che procede da dove segue!”

Non sapevo che rispondere, e neppure che pensare. Improvvisai: “Forse…la vita?”

“La fai sempre un po’ troppo facile, caro mio!”, e grattò la gola con una risata ruvida, “Odisseo, la verità, la verità è la risposta. Essa è circolare, oppure sferica, e procede da dove segue, parte da dove arriva, comincia dove finisce. Perciò, non ha mai fine e non ha mai inizio, o, piuttosto, ha infinito inizio e, al contempo, fine infinita. E ciò è peggio della morte, o dell’immortalità. Credimi! Te ne accorgerai presto, ora che hai deciso di navigare al di qua delle Colonne d’Eracle. Siete liberi, tu e i tuoi compagni: torna alle navi e ordina di salpare!”

Così disse e così il fuoco tacque. Tirandosi dietro un riso, da ultimo, quasi materno o, forse, malizioso. Il lentischio riapparve in luogo di quella voce ardente.

Non cercai di capire, interpretare, spiegare. Franai dagli scogli, misurai la spiaggia con lo stile della cavalletta, abbracciai i compagni. Poco dopo eravamo al largo con tutte e tre le navi, e con le prue testardamente a Occidente. Sapevo di essere frugato alle spalle da una doppia dozzina di pupille interrogative, mentre rimanevo piantato a prua, in silenzio. Nella mente ribiascicavo soltanto le parole del cespuglio infiammato, senza perciò ricavarne alcun sapore: “La verità è circolare, oppure sferica. Te ne accorgerai presto… Che significava? Forse, che la verità è il cercare la verità stessa, senza fine? Forse, che è irraggiungibile? Forse, che, pur raggiunta, è inutile? Forse, che la si raggiunge senza accorgersene? Forse, che il raggiungerla o il non raggiungerla coincida con il suo contrario? Forse, che la si può raggiungere, semplicemente, noiosamente? E, poi, in che senso dovrò accorgermene presto? Di sicuro, la stavo facendo ancora una volta un po’ troppo facile!”…

Quando mi risvegliai sulla spiaggia, posato sopra una tela accanto alle navi, una corona di teste mi ricordò chi fossi: re naufrago. Quanto avevo dormito o, forse, delirato? Due giorni: mi dissero. Ciò che avevo sognato era vero, bugiardo o, come avviene spesso, avevo miscelato sensazioni esterne, vere, a sensi interiori, non bugiardi ma veri solo in me? L’ultima fra le tre ipotesi si rivelò quella sincera: due navi e nuovi, antichi compagni si erano sommati all’avventura, con mia spropositata felicità; l’isola era una dispensa generosa di animali, verdure, acque; e Polite, come le donne le idrie, trasportava sul capo il suo bel bernoccolo. Il resto era stato sogno.

Una luna e due giorni, secondo le tacche di Perimede, rubammo a Crono per rammendare la nave, saziare le stive e darci riposo. Poi, salpammo, con le prue “testardamente a Occidente”. Volevamo allontanarci il più possibile dalla vendetta di Zeus. Ma, più conquistavamo l’ignoto, più l’ignoto conquistava noi: non ci accorgemmo nemmeno di aver oltrepassato da giorni il limite del cibo e dell’acqua dolce: se avessimo voluto ripararci di nuovo alle isole di partenza, non ci sarebbero bastati i viveri: eravamo condannati all’avanzata. Quando gli uomini ne ebbero consapevolezza, si disperarono; poi, la necessità li domò al viaggio.

Rimanevo quasi sempre a prua, nel ripostiglio dei miei pensieri e delle mie ossa stanche: tutto quel mare, abbondante, esagerato, mi rimpiccioliva, e con me rimpicciolivano anche le mie indecisioni, le mie insoddisfazioni, le mie paure, compresa quella di avanzare a Ovest e, magari, di perdersi e di perdere la vita. Non avrei desiderato di meglio che morire lì, sul vertice della nave, di fronte all’iride di cielo e mare che ti guardava, al tramonto, con la sua pupilla incendiata. Pure i compagni erano calmi: forse, il loro panico era temperato dai miei stessi sentimenti.

Nella nettezza di un pomeriggio qualsiasi (solo Perimede si ostinava ancora a scavare tacche di cui non importava più a nessuno!), dalla murata l’occhio mi precipitò su qualcosa che si bilanciava sulle crespe dell’oceano, anzi, su più di qualcosa: un giunco e un bastoncino color terra ferma, poi un rametto con la sua orchidea bianchissima appisolata sul cuscino delle onde. Indizi di approdo. Additai ai compagni. I toraci si gonfiarono subito di speranze come l’otre di Eolo. Ciò fu ancora più gradito per il fatto che nella sentina ci attendeva oramai l’ultima razione. E fu ancora più gradito perché la notte prima, nel buio più perfetto che avessi mai visto, eravamo entrati in un colonnato di fulmini che percorreva da ogni lato l’orizzonte. Quelle colonne incandescenti parevano poggiare sul mare per fare travatura con il cielo. Mare e cielo che, stranamente, erano rimasti attoniti e afoni. Forse, un nuovo incantesimo mandato a imprigionarci? Ci aveva preso il timore che il Padre Zeus ci avesse raggiunto fin lì. Invece, poco dopo, ogni effetto si era spento ed eravamo rimasti a interrogare la notte su quanto avvenuto, senza risposta.

Ma alla luce imminente, benché ancora miope, sentii Euriloco in coro con Polite cantare, più che urlare: “Terra, terra, terraaaaaaaaa!”

Tutti si unirono a quella corale. Tutti rimbalzavano di qui e di là tra le murate. Quindi, si trattenevano con abbracci quasi violenti.

Fin lì ci eravamo abbandonati in collo al dio dei venti, per fortuna amico nostro, ma allora, senza che lo ordinassi, ogni mano raggiunse il suo remo, i remi l’acqua, l’acqua, in esultanza di schizzi, il cielo.

Voga, voga, e ancora voga! Finché non incidemmo con le prue le sabbie candide di una riva.

Ci lanciammo dalle navi, tutti, e conficcammo i piedi su quella sabbia morbida e profumata come schiuma di mungitura.

Il sole, chinato sul nostro perpendicolo, sembrava osservarci tra curiosità e scherzo.

Un giro d’occhio comprese mare, sabbia, foresta di alberi mai visti e ancora sabbia e mare: semplicità di paesaggio.

Pestammo avanti quella sabbia soffice, che veniva voglia di mangiarla. Gli alberi ci attendevano a non più di duecento piedi: tronco di pietra biancastra, chiome che sembravano palmi verdi di giganti, frutti rotondi e irsuti.

A un tratto, gli alberi sembrarono, in lontananza, animarsi: le chiome divennero teste piumate multicolori, i tronchi toraci color bronzo, i rami braccia e gambe, sempre bronzei, i frutti armi essenziali, lance e spade con punte e tagli forse di ossidiana.

Chi erano? Dove eravamo? E, soprattutto, quando? Quanto tempo era passato dalla partenza?

Sollevai la mano destra nell’impegno di un saluto. Chissà: forse, il braccio aveva allineato con il sole qualche geometria per loro divina; forse, i biondi fra di noi sembrarono loro figli dell’astro; o, forse, per altre ragioni ormai inconoscibili: di fatto, quegli uomini piccoli e olivacei si prostrarono di fronte a me, regalandomi imbarazzo o, magari, spavento.

Allora, sempre in posa, cercai con quarti di occhiate Perimede: volevo sapere quante tacche avesse in serbo, e magari indurre i giorni, e magari dedurre le parasanghe navigate. Ma Perimede non c’era. Era l’unico a non essere sbarcato.

Mandai Polite ed Euriloco alla nave. Dopo qualche attimo, l’urlo flebile di Polite ed Euriloco, di nuovo in coro, delineò il mio nome: “Odisseo, Odisseo, corri!”

Frantumai subito la mia posa e corsi alla nave. I compagni mi seguirono. Superai la murata. Scansai Polite ed Euriloco.

Perimede stava prono sul ponte, in delirio, assediato da miriadi e miriadi di tacche, ovunque, sul ponte, sulle murate, sull’albero, sui remi, su ogni singola madiera e su ogni singolo scalmo. Dai visi di ognuno gocciolava meraviglia e interrogazione insieme al sudore: quando e come Perimede aveva tirato tutte quelle tacche?

Mi inginocchiai su di lui, lo sollevai per le spalle, la testa gli annuì più volte all’indietro: perseverava nel delirio, blaterando incomprensioni.

“Perimede!”, gli dissi con quanta più calma e dolcezza potessi, “Che cosa è successo? Perché hai fatto tutte queste tacche? Quanto tempo è trascorso dalle isole? In che giorno, mese, anno siamo?”

Perimede, ancora in delirio, si liberò piano dalle mie mani, trascinò da sotto di sé il coltello e, senza parlare, come guidato dal dèmone, rispose incidendo segni incomprensibili sul ponte:

12 10 1492

5 pensieri su “L’ultimo viaggio di Odisseo

  1. Una nuova e interessante versione del mito di Ulisse in uno stile funambolesco e con sorpresa finale.

  2. Ho molto apprezzato lo stile effervescente, con le bollicine in dose giusta da gustare. Forse, qui e là, un po’ troppo tirato per i capelli, lo stile, ma mi pare peccato veniale, ché “del poeta il fin è la meraviglia”, diceva un altro… marino.

  3. …un linguaggio poetico e arcaico che vuole porsi fuori dal tempo, cucendo nella trama vicende di epoche storiche diverse: l’Odisseo omerico, quello dantesco e il nostro Colombo alla conquista del nuovo mondo…ma si lancia anche nel futuro con le “tacche” del tempo di Perimede, secondo una circolarità-verità delle vicende umane..e della sua natura feroce per “necessità”…La parte che ho apprezzato maggiormente è quella che descrive l’arrivo della ciurma affamata alle “Canarie”, con la strabiliante scoperta della valle degli animali affettuosi di ogni specie…l’isola dove non si uccide e non si muore..Poteva essere l’ennesima tappa favolosa del viaggio di Ulisse, come presso i giganti Ciclopi o la maga Circe, in una “realtà trasfigurata”..
    forse l’idea di presentarla come un sogno non era necessaria, spezza l’incanto…comunque un veramente bel racconto. Grazie

  4. Daniele Barni fa questa similitudine tra Ulisse e Colombo immaginando la fine di un epoca e l’inizio della globalizzazione. Il nostro pianeta dopo Colombo è diventato molto più piccolo. La scrittura è davvero frizzante, piena di inventiva poetica.

  5. CRISTOFORO COLOMBO (E ALTRI “GRANDI CONDOTTIERI”) GUARDATO CON ALTRI OCCHI

    Segnalazioni

    1.
    Perché vengono abbattute le statue di Cristoforo Colombo
    Storia del mito e del dibattito intorno all’esploratore genovese, simbolo identitario per qualcuno, di colonialismo e razzismo per molti altri

    https://www.ilpost.it/2020/06/12/cristoforo-colombo-statue-abbattute-crimini/

    Stralcio:

    A difendere Colombo, nel dibattito in corso da anni negli Stati Uniti, ci sono storici secondo i quali le sue reali responsabilità nelle crudeltà e nelle violenze commesse dagli spagnoli furono marginali, in quanto dovute soprattutto alla volontà e agli ordini della monarchia. Le commemorazioni nei suoi confronti sono difese principalmente per motivi legati alla sua importanza nell’identità italo-americana e cattolica, e a sua discolpa vengono spesso citati episodi aneddotici riguardo alla sua fede religiosa e a manifestazioni di compassione nei confronti degli indigeni, con i quali, secondo i suoi difensori, sarebbe stato più magnanimo rispetto ai suoi contemporanei, nonostante tutto.
    Ma le statue di Colombo, così come quelle degli schiavisti e dei generali confederati che difesero lo schiavismo nella Guerra Civile, sono interpretate da sempre più persone come testimonianze di un passato i cui effetti sono visibili ancora oggi nella società statunitense, dove il razzismo è non a caso definito “sistemico”, cioè scritto nelle leggi e organico all’amministrazione della giustizia. Le ricostruzioni storiche più moderne dicono infatti che la conduzione del potere di Colombo nei Caraibi fu un’anticipazione dei metodi applicati successivamente dai coloni europei nei confronti dei nativi di Nord e Sud America, sterminati e soggiogati per secoli, e soprattutto della tratta degli schiavi tra il XVI e il XIX secolo, due tra i più grandi crimini contro l’umanità della storia moderna.

    2.
    Tema di M. A. ( 2°A Liceo scientifico di Cologno)del 5 mag. 2019

    ABBATTIMENTO DELLA STATUA DI CRISTOFORO COLOMBO

    Nel novembre 2018 è stata rimossa una statua di Cristoforo Colombo dal Grand Park, che si trova al centro della città di Los Angeles; e altri episodi simili sono accaduti in altre città americane. Un consigliere comunale di Los Angeles ha accusato Cristoforo Colombo di essere stato responsabile di diverse atrocità nei confronti degli indios latinoamericani e di aver aperto la strada ad uno dei più grandi genocidi della storia. Quindi perché celebrarne la memoria con una statua?
    La scultura era stata donata alla città da un’associazione italiana nel sud della California ed era da tempo nel mirino della comunità dei nativi americani di Los Angeles, che da tempo facevano pressioni sulle autorità per eliminare questa statua che per loro è un segno d’oppressione. La statua di Colombo era solo una delle tante presenti a Grand Park, in cui si trovano anche una scultura di George Washington e un monumento dedicato ai veterani della guerra in Vietnam.CRISTOFORO COLOMB
    L’avvenimento ha suscitato grandi reazioni e discussioni in molte altre città statunitensi. I consigli comunali di Los Angeles, Seattle, Minneapolis, Albuquerque, Phoenix e Denver hanno abolito il Columbus Day, che celebrava il navigatore genovese scopritore delle Americhe, e al suo posto hanno introdotto una commemorazione dei popoli indigeni. Statue di Cristoforo Colombo sono state decapitate, fatte a pezzi o imbrattate a Baltimora, Houston, New York, Yonkers, eccetera. A New York il sindaco italo-americano e democratico Bill De Blasio annuncia che la statua di Colombo nei pressi di Central Park potrebbe essere rimossa in base alle decisioni di una commissione incaricata di fare piazza pulita di tutti i «simboli dell’odio» presenti in città.
    Molti giustificano o comprendono l’antipatia dei discendenti degli indigeni, perché lo stermino degli indios c’è stato ed è documentato. Altri invece ritengono che abbattere volti di marmo, far cadere dei simboli sia una guerra inutile e che comunque la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo abbia cambiato la storia e non può essere dimenticata.

    Questi episodi fanno venire in mente una riflessione del grande filosofo tedesco Walter Benjamin, il quale osservava che le grandi conquiste della civiltà umana hanno «immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore », perché esse devono «la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che le hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie» (W. Benjamin, Tesi… cit., in Angelus Novus, Torino 1962, pp. 75-6).

    3. Le statue della vergogna celebrano il passato ipotecando il presente
    di Sandro Portelli

    https://ilmanifesto.it/le-statue-della-vergogna-celebrano-il-passato-ipotecando-il-presente/?fbclid=IwAR3uuSZck5WKBiw6ZvMZ4X9KhZ5nr54iLfDOI6hkyrCGmmDfoaAai91XDjg

    In questi giorni, molte persone colte che non avevano visto niente di biasimevole nella distruzione o rimozione delle statue di Marx e Lenin in Europa orientale si sono sentite offese dalla rivendicazione (e dalla pratica) dei movimenti afroamericani negli Stati Uniti di rimuovere le statue dei generali e degli uomini politici del Sud schiavista.
    A quanto pare, non avere più il monumento a Robert E. Lee nel centro di Charleston o Richmond, sarebbe un’offesa alla memoria, una cancellazione della storia, un insulto alla cultura.
    Partiamo da noi. Ogni volta che vado allo Stadio Olimpico rimpiango di non avere una gru con cui rimuovere l’obelisco che in pieno terzo millennio proclama «Mussolini Dux», o almeno qualcuno di quei tetragoni blocchi di travertino dedicati alle conquiste del regime fascista che stanno lì come forche caudine (per non dire dei mosaici con l’ossessiva scritta «Duce» che almeno mi metto sotto i piedi).
    UNA STATUA, UN OBELISCO, il nome di una strada o di una piazza non servono a ricordare che queste persone sono esistite ma a celebrarle, segnando con la loro presenza lo spazio pubblico. Perciò è proprio in nome della memoria e della storia che non sopporto quei blocchi di travertino, che non sono storia ma una falsificazione, una menzogna di regime scolpita nella pietra; e che non riconosco «memoria» in quell’obelisco: non è certo per questo che ci ricordiamo di che cosa è stato Mussolini; e Robert E. Lee gli afroamericani se lo sentono sul collo tutti i giorni anche senza bisogno di intitolargli la strada principale di New Orleans. Come qualcuno ha detto: non ci sono statue di Hitler in Germania. Eppure se lo ricordano benissimo.
    Un monumento esiste perché qualcuno l’ha eretto, e l’ha eretto con qualche intenzione: è un messaggio, un segno di quelle intenzioni. Così, quasi tutte le statue dei gerarchi sudisti sono state erette a cavallo del ‘900 per sancire il consolidamento della segregazione razziale, o ancora negli anni ’50 come reazione al movimento per i diritti civili (allo stesso modo, intitolare oggi strade a Giorgio Almirante non serve a ricordare un discutibile passato, ma a proporne la continuità e il ritorno). Queste icone, lungi dallo svolgere una funzione di storia e memoria, impongono una sola memoria su tutte le altre, congelano la storia in un passato monumentale e negano tutta la storia che è venuta dopo.
    In quanto segni, i monumenti, i nomi, le opere d’arte mutano di senso col mutare dei tempi storici. Parte dello scandalo riguarda, per esempio, la rimozione di Via col Vento dal catalogo della Hbo. Ora, a parte il fatto che la Hbo è un’impresa privata e non possiamo obbligarla a trasmettere qualcosa se non gli va, per fortuna nessuno ha proposto di bruciare in piazza le copie del film. Ci saranno sempre altri distributori per farlo circolare, e cineteche per conservarlo. Negli anni ’30, la sopravvivenza del Sud alla sconfitta nella Guerra Civile era anche una metafora della capacità degli Stati Uniti di sopravvivere (con ogni mezzo: «anche se dovessi rubare e uccidere», dice Scarlett) alla crisi economica. Oggi, la domanda è semmai perché due epici capolavori del cinema americano – l’altro è Nascita di una Nazione – siano dedicati alla nostalgia dello schiavismo e del KuKluxKlan. Che cosa è stata Hollywood, e quanto è diversa, se lo è, oggi?
    LA MEMORIA non è semplicemente il deposito di un tempo passato, di un’epoca conchiusa, ma una forza attiva nel presente. Nel piccolo dibattito nostrano, ho sentito dire che se «censuriamo» Via col Vento e Robert E. Lee, allora dovremmo rimuovere anche le statue dell’imperialista Giulio Cesare o la Colonna Traiana che racconta la conquista della Dacia. La riduzione all’assurdo è sempre un segno di debolezza dell’argomentazione; ma io direi che la differenza sta nel tempo – non nel tempo trascorso ma nel tempo presente. Robert E. Lee e i suoi pari non sono pericolosi perché ricordano una guerra dell’800 ma perché legittimano la centralità del razzismo nel terzo millennio.
    Di Giulio Cesare e Traiano mi preoccuperei se qualcuno adesso progettasse di invadere la Gallia o impadronirsi della Dacia (e infatti di loro si è ampiamente servito l’Impero Fascista quando voleva rinnovare i fasti di Roma Imperiale). Posso un po’ faticosamente convivere con Corso Regina Margherita o piazza Vittorio perché nessuno pensa seriamente di far tornare il re; ma è più difficile convivere con «Mussolini Dux» perché non solo serve a celebrare quel passato, ma legittima adesso i fascisti che poi trovo dentro lo stadio, Forza Nuova, Casa Pound, Fratelli d’Italia, ed è adesso che mi fa paura. Comunque sono contento che Black Lives Matter induca qualcuno a ricordarsi di cosa c’è su quella colonna.
    IN OGNI FRATTURA culturale, come quella che stiamo vivendo, non mancano ambiguità, confini sfumati. Sempre per partire da noi: io non esito a schierarmi su Robert E. Lee o Mussolini, ma fatico di più con Cristoforo Colombo. A differenza dei razzisti e dei fascisti, Colombo non è «altro» da me; fin da bambino me l’hanno instillato come gloriosa storia patria di mezzo millennio fa, parte della mia identità. Ma per i nativi americani rappresenta una violenza attuale (l’oleodotto sulle terre sacre dei Dakota), una discriminazione presente e in atto (sono percentualmente uccisi dalla polizia anche più degli afroamericani). Guardare quella statua a Columbus Circle con i loro occhi è faticoso, per un italiano, perché ci impone di riconoscere che non siamo quello che ci hanno insegnato a credere di essere. Ma va fatto comunque.
    Anche perché non siamo più gli stessi. Oggi anche l’Europa comincia a somigliare alla multietnicità americana, con gli stessi problemi e conflitti. A Bristol si sono sbarazzati della brutta statua di uno schiavista che deturpava la città. Forse si potrà rimuovere o spostare le statue di Leopoldo II, uno dei peggiori criminali della storia dell’umanità, dalle piazze di un paese nella cui nazionale giocano cittadini belgi di nome Nainggolan e Lukaku. E forse la Colonna Traiana può farci interrogare anche su come trattiamo quei discendenti dei Daci che vengono in Italia a lavorare, e i loro figli a cui rifiutiamo la cittadinanza.

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