Giornata mondiale dell’ambiente: Milano nell’occhio del ciclone

di Giuseppe Natale

5 Giugno: Giornata mondiale dell’Ambiente. I nuovi movimenti ecologisti tornano in piazza a ricordarci che abbiamo pochi anni a disposizione per curare la nostra casa comune , la Terra, e salvare il genere umano dall’estinzione.

E’ drammatico il monito a chi ha responsabilità di governo, a tutti i livelli (locale, nazionale, continentale e mondiale): invertire la rotta che ci porta verso il baratro e smetterla di versare lacrime di coccodrillo; intervenire con politiche concrete di riconversione ecologica dell’economia, di giustizia sociale e ambientale. A partire dai territori, in primis da quelli urbani e dalle grandi città. Nel nostro caso da Milano e dalla Lombardia.

Con micidiale tempismo, Milano è stata per l’ennesima volta sferzata violentemente da un uragano monsonico che l’ha mandata in tilt. Strade, cantine, garage, negozi, cortili, appartamenti a piano terra di interi quartieri allagati. Puntuale come la morte, il fiume Seveso ha vomitato le sue acque miste a fango e melma. Nel quartiere di Niguarda sono saltati tombini fognari e impianti di illuminazione e s’è bloccata la linea del metro. Il Lambro, minacciosamente gonfio nella zona nord-est della città, è straripato a sud nei comuni di Opera e Locate Triulzi.

E’ letteralmente vero: Milano sta nell’occhio del ciclone. Ma non stanno meglio altre zone della Lombardia. In questi giorni piogge torrenziali e grandinate si scatenano lungo la fascia prealpina di Varese, dei laghi e di Bergamo.

Non esiste, nel milanese e nella sua area metropolitana e regionale, un governo adeguato dei corsi d’acqua, e di quelli interrati in particolare. E’ la prova provata del fallimento delle classi dirigenti locali e sovra-comunali , in un quadro nazionale gravemente carente, se non di vera e propria assenza, di un piano di manutenzione e riassetto idrogeologico .

Allargando lo sguardo sull’intera pianura padana, emerge con evidenza l’insostenibilità e la nocività inquinanti dell’eccessivo sovraccarico di attività economiche , industriali, commerciali, agricole e di allevamenti intensivi che insistono in uno spazio limitato ma densamente popolato e cementificato, su cui si muove freneticamente un traffico automobilistico e di mezzi pesanti che divora oltremisura energie e avvelena l’aria e gli habitat. Con un consumo di suolo e una riduzione di verde che portano ad aggravare la persistenza di smog, di ossidi e polveri sottili.

In questo ambiente degradato e malato ha trovato vie agevoli il coronavirus.

Già dal 2007 la ricerca scientifica aveva messo in evidenza la correlazione tra l’inquinamento atmosferico e la diffusione di epidemie virali. Oggi si ha la conferma da ulteriori ricerche (Università di Harvard e Cambridge, Società italiana di medicina ambientale in collaborazione con le università di Bologna e Bari) che nei territori con maggiore concentrazione di smog i virus viaggiano e si diffondono in modo più agevole e mantengono più a lungo la loro carica letale. E si riscontra, dai primi risultati provvisori, un legame tra coronavirus e polveri sottili (PM 10 e PM 2,5). Questi veleni sembrano funzionare anche come vettori di virus, la cui persistenza dura ore e anche giorni in atmosfere inquinate e umide, mentre scendono a terra più velocemente con temperature più alte. Finalmente anche l’Istituto Superiore della Sanità, assieme al Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) e all’ Agenzia nazionale per l’energia e lo sviluppo economico (Enea), ha avviato una ricerca ad ampio spettro – denominata Pulvirus – su degrado ambientale/inquinamento atmosferico/virus letali, che durerà un anno.

Dal rapporto del club di Roma (1970) sui limiti delle risorse del pianeta sono passati cinquant’anni e la situazione si è talmente accelerata verso il disastro planetario da mobilitare scienziati, climatologi, studiosi di diverse discipline, ONU, organizzazioni non governative, Chiesa cattolica, e gli stessi Stati nazionali . Nonostante tante mobilitazioni dei movimenti ecologisti e dei No Global , sostanzialmente nulla è cambiato. Dominano le industrie della distruzione e della morte. Il turbocapitalismo , il vorace e feroce dio mercato continuano a consumare risorse ed energie , a distruggere foreste, a consumare suolo senza limiti, ad avvelenare aria terra e acqua. Si concentrano sempre più enormi ricchezze nelle mani di pochi e aumentano a dismisura disuguaglianze, povertà e paure. Si mettono in discussione dalle fondamenta non solo le conquiste dello Stato sociale, ma le regole fondamentali della democrazia e del vivere civile e gli stessi diritti umani, quelli inalienabili della persona: la salute e la vita stessa.

In questi due ultimi anni, è salito sulla scena mondiale il movimento giovanile animato da Greta Thunberg , il Friday For Future (FFF), che giustamente e con ostinazione pone la questione ultimativa di intervenire subito (non c’è più tempo) per curare il pianeta, l’unico che abbiamo, nostra casa comune, e di fare presto per salvare l’umanità dall’estinzione. E proprio Extinction Rebellion (XR) si chiama l’altro movimento, nato in Inghilterra, che, altra faccia della stessa medaglia, propugna azioni radicali di disobbedienza civile e di ribellione pacifica per impedire l’estinzione del genere umano e di tutti i viventi .

La politica dominante ha finora fatto finta di ascoltare, promettendo di cambiare rotta e di mettere in atto politiche di giustizia ambientale e sociale. Promesse da marinaio. Si attendono ancora misure conseguenti, che portino all’abbandono dell’economia fondata sui fossili e sulla distruzione del mondo vegetale e animale, sullo sfruttamento e la mercificazione del lavoro e della salute delle persone, sulle sperequazioni sociali insostenibili. Si attende da troppo tempo uno stop al consumo di suolo e all’espansionismo di mostri urbani. Da troppo tempo si chiedono progetti sensati di ripensamento e programmazione in termini equilibrati e umani delle forme stesse delle città contemporanee.

Un anno fa, il 20 maggio 2019, il Consiglio Comunale di Milano approvava una mozione (primi firmatari il presidente della Commissione Ambiente, Carlo Monguzzi, e il presidente stesso del Consiglio, Lamberto Bertolè), avente per oggetto la Dichiarazione di Emergenza Climatica e Ambientale (DECA, l’acronimo nuovo di zecca!).

Nel documento si riconosce la validità delle ragioni degli scioperi globali per il futuro , quelli del venerdì indetti dal movimento di Greta. Grande è la partecipazione in tante piazze d’Italia e del mondo allo sciopero degli studenti di venerdì 15 marzo 2019. Milano si riempie di un corteo di 100.000 persone. Fulminati da cotanto successo, i nostri amministratori non esitano a scendere loro stessi in piazza. Si legge nella mozione: “ Il Consiglio Comunale aderisce allo Sciopero Mondiale contro i Cambiamenti Climatici del 24 maggio”. Il sindaco Sala in persona si presenta, il giorno fatidico, in mezzo ai dimostranti per il “diritto al futuro”. E, con tanto di foto, comunica che Milano è il primo comune in Italia ad accogliere le richieste del FFF.

Tornando alla mozione consiliare, vi si mettono sotto accusa i Governi che “non hanno fatto e non stanno facendo abbastanza per contrastare i cambiamenti climatici”; vi si afferma in termini generici che “per riconvertire ecologicamente la nostra economia occorre la partecipazione di tutti”, la modifica di “alcune abitudini” e il perseguimento della “Giustizia Climatica” in aiuto ai paesi più poveri. Canonico il riferimento all’Accordo di Parigi del 2015 sul clima da parte di 192 Nazioni e all’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel of Climate Change), che impongono di non superare l’1,5 gradi di aumento delle temperature entro il 2030 per “evitare danni irreversibili al pianeta”, e di ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030. Obiettivo, quest’ultimo, in contraddizione con il Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano che, mentre si caratterizza ancora come strumento per consumare suolo, nella mozione si accetta come valido. Nella parte centrale e conclusiva del testo si impegnano Sindaco e Giunta a “dichiarare lo stato di emergenza climatica e ambientale e a predisporre entro 6 mesi iniziative […] per la riduzione delle emissioni e per l’introduzione di energie rinnovabili, per incentivare il risparmio energetico nei settori della pianificazione urbana, nella mobilità, negli edifici, nel riscaldamento e raffreddamento, sviluppando ulteriormente il progetto di riforestazione già in atto.” (!?…); e a “ intensificare il coinvolgimento attivo di cittadini e associazioni nel processo di individuazione delle criticità ambientali e nella loro soluzione”. E, dulcis in fundo, a “ farsi parte attiva presso il Governo e la Regione perché prendano provvedimenti analoghi”.

Le ragazze e i ragazzi ed anche gli adulti del FFF hanno invano aspettato un anno. In una loro recente lettera – appello al Comune stigmatizzano: nessun impegno, contenuto nella Deca (Dichiarazione di emergenza ambientale) è stato mantenuto. La pandemia da coronavirus ha drammaticamente messo in evidenza il rapporto simbiotico tra salute e habitat : “ Non possiamo pretendere di essere sani se viviamo in un ambiente malato” – si afferma giustamente. Nell’appello si invoca una Milano che metta al centro la salute, la qualità dell’aria, lo stop al consumo di suolo, una vera mobilità sostenibile (dall’uso generale e sicuro della bici su piste protette a una fitta rete di mezzi pubblici adeguati, gratuiti almeno per gli studenti e le fasce sociali più deboli), un aumento consistente, non a parole ma nei fatti, del verde pubblico. “ Abbiamo bisogno di azione e non di retorica”. L’amara scoperta: mentre da 50 anni si discute di “obiettivi ecologici”, si persegue una politica esattamente opposta!

Non rimane che la protesta. Nell’anniversario della dichiarazione di emergenza, mercoledì 20 maggio, militanti di FFF e di XR hanno fatto una biciclettata “sportiva” per le vie della città contro l’amministrazione comunale del sindaco Sala che non solo non ha mantenuto nessun impegno preso , ma continua “ con il suo business as usual , velando di verde le sue politiche, aggravando ulteriormente la situazione, illudendo l’intera città che Milano sia in prima linea contro i cambiamenti climatici”. Contro un’amministrazione che “non vuole mettere in discussione il proprio operato e non vuole confrontarsi ” seriamente sulle questioni che riguardano la qualità della vita e il futuro stesso dell’umanità, a partire dalla “nostra” città.

Quale morale dalla rottura di questo incantesimo bello?

Ai due movimenti darei qualche modesto consiglio (ovviamente non richiesto).

1. Considerate attentamente le grandi opportunità e potenzialità nel perseguire obiettivi così grandi e decisivi per il bene della nostra città nel contesto globale del futuro dell’umanità. Ricordatevi che non si può prescindere dalla storia e dall’esperienza di tanta cittadinanza attiva che, nei comitati di quartiere e di scopo, in gruppi e associazioni , si batte giorno dopo giorno per la qualità della vita quotidiana e dell’ambiente urbano. Cittadinanza consapevole e impegnata e propositiva, ignorata dai mass media e sistematicamente inascoltata, ormai da molti anni, dalle diverse amministrazioni che si succedono nel governo della “grande” Milano.

2. Per ampliare il consenso e farsi capire dal maggior numero possibile di persone, non esagerate nell’uso dell’inglese. Non cadete nella trappola modaiola così devastante, che ( mi fa venire in mente l’uso del latinorum di Azzeccagarbugli per fregare il povero Renzo … ) tanto male fa alla nostra bella lingua madre ed inquina comunicazione e informazione. Ad es., al posto di business as usual, non potrebbe essere più chiaro e suonare meglio: al primo posto i soldi come sempre. Va bene importare esperienze e movimenti da altrove e sintonizzarsi nel circuito globale , ma è altrettanto importante radicarsi nel proprio locale .

Milano, venerdì 5 giugno 2020

13 pensieri su “Giornata mondiale dell’ambiente: Milano nell’occhio del ciclone

  1. Sono d’accordo con quel che dice l’articolo, compreso il punto 2. della chiusa finale contro l’inutile uso dell’inglese. Ma non sono d’accordo con quel che non dice. Nella letteratura militante sui problemi dell’ecologia ci sono due grosse aree problematiche sulle quali si tace o vi si accenna appena sorvolando via, eppure sono problemi chiave, che entrano nel gioco come variabili gigantesche che è impossibile trascurare se si vuole risolvere qualcosa. Quindi il discorso svolto nell’articolo, pur condivisibile, non va alla radice dei problemi e quindi non affronta in modo realistico le strategie di uscita, ciò che è necessario fare per cambiare la situazione. Si ferma a quel riformismo migliorativo, utile indubbiamente, ma che può solo fare guadagnare un po’ di tempo.
    **
    1) La prima area problematica non affrontata è quella della realtà scientifica dell’aumento globale del riscaldamento del pianeta Terra. Circa un anno fa, a una conferenza sul tema in cui tre esperti hanno svolto le loro relazioni, sembrava che le attività umane fossero responsabili del 100% di emissione di anidride carbonica e del fenomeno di surriscaldamento globale. Alla fine sono intervenuto e ho detto: ma sul fenomeno ci sono opinioni scientifiche molto diverse e molti scienziati suddividono le cause del surriscaldamento in cause naturali non dipendenti dall’attività umana e in cause artificiale dipendenti da questa attività. La cause artificiali inciderebbero, secondo stime molto diverse il che dimostra l’incertezza di questo tipo di ricerche, da un minimo dello 0,7% a un massimo del 30%. Per il resto si tratterebbe di variazioni naturali sulle quali l’attività dell’uomo non ha influenza. Uno dei tre conferenzieri ha confermato questi dati parlando del 30% massimo di incidenza dell’attività umana. E allora perché non se ne parla e sembra che nemmeno se ne tenga conto? Se le cose stanno davvero così, gran parte dell’attività militante su questo problema sta lavorando con dati truccati e sta trasformano una visione scientifica in una propagandistica e ideologica, sostanzialmente falsa perché ripulita degli elementi che possono dare fastidio.
    **
    2) La seconda area problematica riguarda l’aumento continuo della popolazione. Dalle analisi del Club di Roma (1970) ad oggi la popolazione mondiale è più che raddoppiata (in certi paesi è cresciuta da cinque a dieci volte), quella Europea, area già fittamente popolata nel 1970, è comunque cresciuta da circa 656 a 740 milioni (nel 1900 era di circa 405 milioni). L’Italia, considerato un paese demograficamente in declino, è passata in un secolo, fra il 1920 a oggi, da circa 40 a oltre 60 milioni, e non mi pare una piccola crescita (nel 1970 gli abitanti erano circa 54 milioni). Infine, Milano, dal 1970 a oggi, ha diminuito i suoi abitanti (da 1.700.000 a 1.380.000 circa), ma l’area milanese, i 133 comuni della “città metropolitana”, ha comunque aumentato il numero complessivo di abitanti e l’area milanese è oggi una delle più densamente popolate del mondo (2073,5 abitanti per chilometro quadrato; Italia 200 abitanti per chilometro quadrato; Europa 73 ab./kmq).
    Gli ultimi significativi rappresentanti di quella antica «scienza delle acque» che comprendeva ingegneria, idraulica, agrimensura, agricoltura, diritto privato e pubblico che convergevano a garantire la migliore gestione delle acque, a Milano sono stati Giandomenico Romagnosi e Carlo Cattaneo, che scrivevano quando Milano aveva circa 200mila abitanti.
    Ebbene, per quanto duro possa sembrare dirlo, il problema ecologico, di cui le continue esondazioni del Seveso sono solo uno fra i tanti, non sta nel porre riparo alla diminuzione della popolazione con incentivi alle famiglie e con la richiesta di più immigrazione, ma con la diminuzione in numeri assoluti della popolazione e, in qualche zona, come nei pressi del corso del Seveso, l’abbattimento di interi quartieri per restituire il suolo alla natura, al verde pubblico o coltivato.
    Finché il problema demografico non sarà visto come strettamente collegato ai tanti problemi ecologici, surriscaldamento compreso, e più grave di ognuno degli altri, non potrà esistere nessuna soluzione soddisfacente.
    Finché il problema demografico sarà visto non in relazione stretta alla gestione ecologica del Sistema Mondo ma in relazione alla gestione economica del Sistema produttivo, che richiede più lavoratori e più consumatori, non ci sarà soluzione ai problemi né capacità di prevenire le catastrofi ecologiche annunciate.
    **
    3) I fantascientifici programmi di gestione tecnica molto avanzata di tutti i problemi, anche in un pianeta Terra che nei prossimi cento anni arriverà e oltrepasserà i dieci miliardi di abitanti, con vaste estensioni degli oceani trasformati in zone coltivate (per vegetali, alghe commestibili, e per l’allevamento di pesci commestibili), con grattacieli sotterranei con 40 o 100 piani sotto terra per risparmiare suolo alla superfice ecc. ecc. non tengono conto di:
    a) Enormi effetti collaterali imprevedibili e presumibilmente assai più negativi delle rosee prospettive annunciate.
    b) Quale immenso potere, in un mondo in cui la componente artificiale è tutto e quella naturale poco, in cui la vita delle persone dipende interamente dal controllo tecnologico dei sistemi di vario tipo, quale immenso potere politico, economico, psicologico verrà affidato agli «esperti» e a che cosa misera si ridurrà la libertà degli individui. Avremmo allora realizzato davvero la versione “dolce” della distopia, una delle tante di cui sono pieni romanzi e film avveniristici. Dove la maggioranza delle persone, condizionata fin dalla nascita, sarà contenta e non si sognerà nemmeno che è possibile vivere in altro modo, mentre la minoranza più fantasiosa, creativa e ribelle sarà eliminata sistematicamente.
    4) Credo fermamente che il problema ecologico più importante, oggi, sia quello delle libertà individuali, che sono alla base delle libertà collettive e pubbliche. C’è una legge ferrea che domina la quantità di libertà di cui si può godere (oltre a tante altre variabili sociali ed economiche, politiche e giuridiche ecc.), ed è questa: tante più persone mettete in un chilometro quadrato e tanto meno saranno libere, nonostante qualunque accorgimento possiate usare. E c’è un corollario: la diminuzione di libertà può essere, fino a un certo punto, un elemento positivo perché porta a un aumento di collaborazione fra gli individui; ma superata quella soglia, diventa un elemento negativo che agisce in senso asociale e antisociale e che porta all’aumento dei comportamenti criminali e parallelamente al rafforzamento degli apparati di repressione. Fino a fare della società una vera e propria prigione collettiva in cui tutti sono dentro. E c’è un secondo corollario: gli individui, perdendo sempre di più il rapporto con la natura, perderanno anche il rapporto con la propria natura e per vivere avranno sempre più bisogno del supporto tecnologico, non solo per il controllo dello spazio e del tempo, per le comunicazioni e il lavoro, ma anche e soprattutto per la propria alimentazione, per la gestione della propria vita privata e per il proprio equilibrio mentale. Le “protesi mentali” diventeranno diffuse e indispensabili, perché senza di esse saremmo tutti “disabili mentali” incapaci di camminare con le proprie gambe e col proprio cervello.
    ***
    PS. Una curiosità personale: Giuseppe Natale, sei lo stesso che con me e Francesco Colucci ha collaborato per l’edizione di alcuni libri sulla scuola nel 1975, o sei uno dei tanti omonimi esistenti?

    1. Ciao Luciano, sono proprio io quel Giuseppe Natale …
      Condivido il tuo intervento. E mi ha fatto molto piacere leggerti e re-incontrarti dopo tanti anni .

  2. SEGNALAZIONE 1

    Global Dialectic Warming
    di Pierluigi Fagan
    https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15985-pierluigi-fagan-global-dialectic-warming.html?highlight=WyJmYWdhbiIsImNsaW1hIiwiY2xpbWEnLCIsIidjbGltYSJd

    Stralcio:

    In questi giorni s’è sprigionato un Global Dialectic Warming su quanto obiettivi siano una serie di temi concatenanti tra loro nella teoria del riscaldamento globale.

    Tale teoria dice che: a) si registra nelle misurazioni traccia di un recente aumento indicativo delle temperature medie; b) tale aumento nel rapporto entità/tempo in cui s’è prodotto tenderebbe ad escludere cause naturali che nella storia planetaria hanno fatto oscillare la temperatura media di qui e di là (queste pare impieghino molto ma molto più tempo a dare risultati percepibili); c) relativizzate anche se non sempre escluse del tutto cause naturali (solari, planetarie, magnetiche, altro), rimane un grosso buco esplicativo che si pensa di riempire con la teoria della causa antropogenica. Genica sta per generatrice, antropo sta per uomo, generata dal’uomo. Ma come? In vari modi tra cui un eccesso di emissioni di alcuni gas non sempre nocivi in sé per sé ma la cui quantità sembrerebbe portare ad una chiusura parziale dell’atmosfera ovvero della capacità di disperdere il calore riflesso dal livello di superficie (terra e mare) colpito dai raggi del Sole. Tale fenomeno è detto “effetto serra” poiché produce quell’effetto noto ai contadini per il quale impacchettando con qualcosa di trasparente delle culture, dentro questo involucro, la temperatura rimane calda ed il calore non si disperde. Più avanti chiameremo questo l’”argomento”. La natura dell’argomento, pare, non permetta certezze di tipo episteme per cui cerchiamo di trovare una endoxa che restringa il campo della doxa, opinioni fondate che espellano quelle infondate che fanno confusione. Inutili a noi opinione pubblica anche se forse utili a chi la vuole portare di qui o di là.

    Ora, su questa teoria, ci sono le opinioni dei sapienti. Ma quali “sapienti”? Trattandosi di faccenda che mette in campo fisica, chimica, matematica, astrofisica, ecologia, geologia, geofisica, glaciologia, idrologia, oceanografia, vulcanologia, topografia ma anche biologia soprattutto vegetale ma non solo, i “sapienti” sono un particolare gruppo di scienziati detti “climatologi”. Evidentemente, costoro debbono studiare prima un sacco di discipline, non tutte con storie di lungo corso (molte hanno solo qualche decennio di evoluzione), poi applicare il loro sapere a dati ed anche i dati non hanno questa gran storia alle spalle. Ci sono modi di ricostruire i dati dei tempi in cui non c’erano i rilevatori di dati, ma ovviamente, più indietro si va nel tempo, più vanno presi con più o meno ampie bande di oscillazione. Questo è lo statuto dei “sapienti” in tema. Ripeto, non importa quanto scienziato siete in senso generale, non si demanda ad un biologo molecolare il controllo di una reazione atomica, il “sapiente” sull’argomento è il climatologo. Altri possono discutere lo statuto epistemologico della sua scienza particolare ma non il suo argomento, o almeno non con lo statuto di “sapiente”. Sarà magari sapiente in altro ma di “altro” discuteremo altrove.

    Nel 2016, viene pubblicato questo studio che non si occupa dell’argomento in sé ma degli studi che l’hanno studiato. O meglio, ci sono migliaia di studi che hanno studiato l’argomento, poi ci sono sette studi che hanno fatto statistiche su ciò che hanno detto le migliaia di studi e poi c’è questo studio che analizza i sette che hanno analizzato le migliaia. Il tutto è peer-reviewed. Lo studio affermerebbe che il 97% circa degli scienziati sul clima che si esprime sul punto è concorde su quanto abbiamo sintetizzato come “argomento”. La percentuale scende al 90% se si prendono studi i cui autori non sono soltanto scienziati del clima. Non mi è stato possibile trovare su Internet confutazioni di questo studio, ma magari alcuni di voi sono più segugi per cui vi invito a pubblicare qui le confutazioni totali o parziali che troverete. Confutazioni di questo studio non di altro, non punti di vista diversi sull’argomento, strettamente confutazioni di questo specifico studio, peer-reviewed anch’esse, per esigenze di simmetria epistemica. Tale studio pare svolgere una funzione centrale nel dibattito sul’argomento, per questo ci fissiamo su esso.

    Nel citato Global Dialectic Warming sull’argomento che s’è scatenato negli ultimi giorni, alcuni hanno pubblicato molti appelli, dichiarazioni, articoli, a volte anche singoli studi alternativi (peer-reviewed) che cercano altre cause che non quelle umane. Però tutto ciò che non attiene ad articoli scientifici peer-reviewed, è doxa. Ci può interessare ed anzi come sociologia della comunicazione ci deve interessare, ma questa è un’altra questione, non è l’argomento e il rapporto tra opinione e verità sull’argomento ovvero il suo statuto di endoxa. Se ci sono articoli scientifici che propongono altri meccanismi di causa possono ben appartenere a quel 3% o portarlo (dal 2016 ad oggi magari sono cresciuti molto, non lo sappiamo) al 5% o forse anche di più, teniamone conto. Ad occhio però e stante che alcuni climatologi non sarebbero d’accordo con questa mia generosità epistemica, non si va oltre il 10% di apertamente contrari e credo di star esagerando e non di poco. Ripeto, un 90% di consensus non è episteme, episteme sull’argomento non pare ottenibile, siamo nel campo endossale e 90%-97% fonda decisamente una opinione. E sull’argomento l’endossale pare il massimo si possa ottenere.

  3. SEGNALAZIONE 2

    Quattro interventi sul fenomeno “Greta”
    https://www.sinistrainrete.info/ecologia-e-ambiente/14814-quattro-interventi-sul-fenomeno-greta.html?highlight=WyJmYWdhbiIsImNsaW1hIiwiY2xpbWEnLCIsIidjbGltYSJd

    1.
    In direzione ostinata e contraria
    di Pierluigi Fagan

    Stralcio:

    Ho visto su Repubblica stamane due cose. Uno è un video di interviste a giovani ieri riuniti a Piazza del Popolo, nel quale si tendeva a metter in contrasto i proclami integralisti di Greta contro lo shopping e l’utilizzo di aerei. L’altra è una intervista fatta da Formigli che sorrideva ironico mentre la ragazza svedese (ha sedici anni, non si capisce perché molti la chiamano “bambina”) ripeteva i suoi punti di vista che potremmo definire “ingenuamente radicali”. Domandava anche dell’Asperger come se a Rosa Parks avessero domandato della sua mancanza di diploma, come le gerarchie cattoliche chiesero a Giovanna d’Arco divenuta un po’ troppo ingombrante dopo aver svolto la funzione simbolica, quale fosse la sua formazione teologica ed i suoi rapporti con la magia. Mi sembra cioè che non tutto il mainstream sia poi così tranquillo nell’utilizzare la Rosa Parks svedese.

    Di contro, la ragazza sciorinava il decalogo dell’ambientalista individuale ma due volte, sottolineava che il problema -in realtà- è sistemico. Dire che un viaggio in aereo inquina di più di tutti i nostri possibili sforzi sulla raccolta differenziata, è intaccare un caposaldo del nostro attuale modo di vivere. Dire di avere un cellulare di quattro anni fa datogli da uno che non lo usava più, anche. Dire che vanno bene i comportamenti individuali responsabili ma il problema è a livello di multinazionali e governi è un inquadramento proto-politico. Dire che il settore energetico svedese è “abbastanza pulito” ma aggiungere che serve a poco se si continua “a consumare, costruire, importare ed esportare merci” non è molto conforme al modo di vedere il mondo del WEF di Davos. O dire che in fondo Trump è meno ipocrita di tanti leader europei che si sciacquano la bocca con pie intenzioni a cui non conseguono fatti o “è tutto il sistema che è sbagliato ed i media hanno più responsabilità di ogni altro poiché se non c’è corretta informazione non c’è conoscenza diffusa e non può esserci mobilitazione” non sembrano imbeccate di chi presuntivamente la starebbe “manipolando” per fini neo-liberali. O almeno non solo, o almeno non del tutto.

    Allora, certo la ragazza ha sedici anni ed ha la sua conformazione mentale bianco-nero. Ha dietro qualcuno ovvio. La sua rivolta individuale è stata da qualcuno scelta per far notizia e di notizia in notizia è diventato “un caso”. Un “caso” manipolato da opposti interessi, ovvio. Ognuno contribuisce a creare quel caso parlandone, nel bene e nel male. Inoltre, voluto o meno, l’intero discorso finisce per collassare sul riscaldamento climatico che è un terreno complesso ed incerto, facile da negare o sminuire o dubitare, quando invece attiene a questioni ben più complesse ed assai meno dubitabili, sminuibili, negabili.

    Quello che mi e vi domando è perché non ci lamentiamo dell’assenza di un Martin Luther King, di un “movimento” politico che su questo tema possa far battaglia politica trasformativa del nostro modo di stare al mondo? Perché molte menti acute si dilettano solo in contro-narrazione della narrazione gretesca (ma è poi quella di Greta o è delle interpretazioni che gli sono state appiccicate addosso?) e non vanno alla cosa, cosa che non fa meno parte del dominio neo-liberale al pari delle diseguaglianze? Perché non c’è chi usa il simbolo a modo suo riempiendo di contenuti forti una questione che rischia di finire nel calderone del tema d’opinione settimanale e via alla prossima? Perché ci accaniamo sul media e sottovalutiamo il messaggio o almeno le sue potenzialità?

    2.
    Timeo Gretas et dona ferentes
    di ilsimplicissimus

    Stralcio:

    Come si sa uno dei temi più spinosi per il capitalismo e il suo fuorigiri dell’iper produzione è quello ambientale, i cui effetti cominciano a farsi sentire anche nel quotidiano: si tratta di un argomento pericoloso che potrebbe deflagrare e saldarsi al malcontento per la precarietà, la sottrazione di welfare, il calo dei salari, la disoccupazione e sottoccupazione di massa, per cui non si può più continuare a fare una debole guerriglia con le truppe di accanite retroguardie reazionarie e negazioniste o simulando un’attenzione che poi si riduce a nulla quando si vanno ad intaccare i profitti. Bisogna trovare un cavallo di Troia per controllare il campo. Ed ecco che spunta fuori dal nulla una ragazzina che si dice abbia la sindrome di Asperger, figlia di due personaggi in vista del jet set svedese, che come una giovannina d’Arco se ne sta ogni venerdì davanti al parlamento di Stoccolma ad esigere provvedimenti per l’ambiente, facendosi profetessa di imminenti e distruttive catastrofi che sono una bassa vulgata del problema, ma proprio per questo sono utili a chi le prepara. Un giornalista francese, Marc Reisinger, voleva intervistarla, ma ha scoperto che non tutti i venerdì Greta è davanti al Parlamento, che quando ci va è circondata da numerosi sorveglianti che si mimetizzano tra gli astanti, e che impediscono contatti diretti, specie con i giornalisti: se la ragazzina si tocca il berrettino o se lo toglie significa accorrete e toglietemi di torno questo moscone. Infatti questo è accaduto a Reisinger, che ha anche filmato l’intervento prima di una guardia del corpo e successivamente di altre due (qui per i curiosi) .

    3.
    Greta e i… gretini
    di Stefano Bonora

    In questo modo, come obbiettivo politico-sociale, si prova a incanalare preventivamente ogni possibile contestazione complessiva del “sistema” dentro un alveo innocuo, più “sentimentale” che risolutivo. Che è poi la manifestazione odierna di un vecchio gioco: il nemico che marcia alla tua testa per portarti fuori strada.

    Tutt’altro ragionamento va fatto per chi partecipa alle manifestazioni e alle assemblee del movimento innescato intorno al “fenomeno Greta”. Cui abbiamo peraltro dedicato già un’attenzione senza pregiudizi.

    Distinguere tra desiderio e realtà. Cioè tra ciò che sogniamo e ciò che è. A tanti piace sognare la favola della bambina che dal nulla sale alla ribalta mondiale e salva il mondo. Ma la realtà è palesemente diversa.

    Le cose che dice Greta si sentono da anni, le hanno dette e le dicono milioni di persone. Eppure non finiscono su tutti i media del mondo (per lo meno quello occidentale).

    Come succede che una sconosciuta bambina svedese di 15 anni finisce da un giorno all’ altro su tutti i giornali del mondo? Ecco, fatevi qualche domanda.

    4.
    Greta e il problema
    di Andrea Zhok

    Stralcio:In effetti chi mai potrebbe essere in disaccordo rispetto alla necessità di affrontare il Grande Problema, declinato nei termini della “Salvezza del Pianeta”? Chi? I Klingon? I Rettiliani? Galactus il Divoratore di Mondi?

    Il vero problema, dietro al Grande Problema, è che da che mondo è mondo i conflitti non sono mai avvenuti su cose come “il Bene deve vincere”, “la Sofferenza è brutta”, “Salviamo l’Umanità” (o “il Mondo”, o “la Natura”).

    Sono assai fiducioso che Churchill, Stalin e Hitler avrebbero concordato senza nessun problema su tutti questi obiettivi. Senza che ciò gli impedisse di cercare in buona coscienza di estinguersi a vicenda.

    Il problema dietro ad ogni presunto Grande Problema è che la rappresentazione astratta del Bene è sempre pragmaticamente insignificante. Le strade cominciano a divergere solo dopo, quando vedi quali interessi, di chi, e in quali modi, il ‘perseguimento del Bene’ minaccia.

    Fino a quando nessuno apre bocca intorno a chi dovrebbe cominciare a dimagrire per ottenere quei risultati, l’accordo regna pacifico e sovrano.

    Questo è particolarmente vero nell’odierno sistema liberal-liberista, dove si presume che per ogni problema, disgrazia o sciagura, sarà il sistema stesso a fornire la soluzione, mettendo sul mercato un prodotto acconcio – rilanciando i consumi e i profitti in una progressione infinita e magnifica.

    Così ogni problema posto, ogni ‘crisi’ è, schumpeterianamente, un’occasione di innovazione, e di crescita ulteriore.

    Peccato che tutti i problemi ecologici di cui parliamo sono proprio prodotti costanti della dinamica schumpeteriana dell’innovazione competitiva perenne, quell’innovazione che consente di superare gli stalli di crescita (la caduta tendenziale del saggio di profitto) ingegnandosi a produrre di più e meglio. Quell’innovazione anarchica e immensamente pluralista, forzata dalla competizione, e glorificata come il motore del progresso e della crescita, ecco, è proprio quella il Problema.

    Se facciamo coincidere il problema ecologico con un suo singolo aspetto (es: riscaldamento globale), ci nascondiamo (magari in buona fede) l’essenza della questione, che non ha a che fare con la capacità di rispondere di volta in volta ad uno specifico problema noto, ma col fatto che mentre ne soppesiamo pian pianino uno, ne stiamo producendo simultaneamente altri cento, ancora ignoti.

  4. SEGNALAZIONE 3

    La demografia si appresta a riscrivere le mappe del mondo?
    di Italo Nobile
    https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/14697-italo-nobile-la-demografia-si-appresta-a-riscrivere-le-mappe-del-mondo.html?highlight=WyJjcmVzY2l0YSIsIidjcmVzY2l0YSciLCJjcmVzY2l0YSciLCJjcmVzY2l0YScsIiwiY3Jlc2NpdGEnLiIsIidjcmVzY2l0YSIsIidjcmVzY2l0YScuXHUyMDFkIiwiJ2NyZXNjaXRhJywiLCInY3Jlc2NpdGEnLiIsImRlbW9ncmFmaWNhIiwiY3Jlc2NpdGEgZGVtb2dyYWZpY2EiXQ==

    Stralcio:

    Cosa è successo nei quindici anni che sono intercorsi dal 2000 al 2015 in campo demografico?

    L’incremento demografico registra la presenza di qualche caso limite il più eclatante dei quali è la Nigeria che si prevedeva nel 2015 avere circa 163 milioni di abitanti ed invece aveva nel 2014 circa 176 milioni di abitanti.

    Dove si andrà di questo passo? Altri paesi con incrementi di popolazione oltre le attese sono stati l’India (che forse già nel 2025 avrà una popolazione più numerosa della Cina), gli stessi Stati Uniti, l’Indonesia, le Filippine, il Brasile, il Messico, l’Etiopia. Relativamente meglio (rispetto alle previsioni) sono andati Pakistan (che però in questi anni ha avuto un incremento di popolazione di 50 milioni di persone pari al 37%), Bangladesh, Vietnam, Egitto, Iran. I paesi dell’Est Europa hanno avuto una flessione dovuta forse all’intensa emigrazione.

    La natalità più alta la hanno sempre i paesi africani anche se si è scesi da una banda tra 55/1000 (55 nati per 1000 abitanti) e 42/1000 per i primi venti nel quinquiennio 2000-2005 ad una banda tra 49/1000 e 35/1000 per i primi venti nel 2015-2020. Niger, Somalia e Angola rimangono in testa a distanza di 15 anni. I risultati migliori (ma ottenuti come? E con quale rilevanza?) sono del Ciad (sceso da 48,4 a 36,1 del 2016), dell’Angola (da 51,2 a 38,6) del Congo (da 44,2 a 35,1), del Niger (da 55,1 a 44,8) ma quest’ultimo con un tasso di fecondità che rimane altissimo (7 nati per donna).

    Mentre i progressi più scarsi sono del Burundi, del Camerun, dell’Etiopia (una possibile bomba demografica), del Malawi, della Nigeria (la bomba demografica più preoccupante), dell’Uganda, dello Zambia. Per quanto riguarda il tasso di fecondità anche qui i progressi sono stati pochi o quanto meno non del tutto tranquillizzanti (anche se gli Stati con oltre sette nati per donna da 6 sono scesi ad uno solo e quelli oltre sei figli da 14 sono scesi a 4).

    Gli orizzonti più preoccupanti sono quello africano e quello del sub-continente indiano: Nigeria, Etiopia, Egitto, Sudafrica, Tanzania da un lato non sembrano progredire molto per quest’aspetto mentre India, Pakistan e Bangladesh dall’altro per quanto in progresso rimangono paesi con alta densità di popolazione e le prospettive sono tali che solo un intervento complessivo di diversi paesi (soprattutto europei nel caso dell’Africa) può attenuare gli effetti che possono derivare da queste linee di tendenza. Nel caso di paesi islamici come nel subcontinente indiano questi processi potrebbero portare ad un’accresciuta instabilità politica. Il tasso di natalità di Timor Est combinato con l’incremento demografico indonesiano, la presenza islamica e quella degli immigrati cinesi rende l’Indonesia un altro incubatore di problemi politici.

    Giappone, Germania ed Italia sono i paesi con l’età media più alta (anche se in Germania e Italia la percentuale di over 65 è diminuita contrariamente al Giappone dove sono aumentati in maniera sensibile) e dunque si devono attrezzare (più con l’immigrazione che non il tasso di fecondità) a riequilibrarsi da questo punto di vista. I problemi più forti li avrà probabilmente il Giappone la cui tendenza isolazionista ha radici storiche e culturali profonde e dunque difficili da superare (i migranti in Germania sono più di 12 milioni mentre in Giappone sono poco più di 2 milioni) . Un forte invecchiamento in questi quindici anni ha caratterizzato Portogallo, Grecia, Bulgaria e Lituania mentre i paesi scandinavi (grazie forse all’immigrazione) hanno relativamente migliorato la loro situazione (la percentuale di over 65 è aumentata in Finlandia ma è più sensibilmente diminuita in Svezia e Danimarca) .

  5. E qui per ora mi fermo non perché penso di aver messo troppa carne al fuoco (come si dice) ma perché sull’immenso problema sollevato dall’articolo di Giuseppe Natale ci sarebbe da studiare per tutti. E siamo in ritardo, troppo in ritardo.

    SEGNALAZIONE 4

    Sperando di fare cosa gradita, segnaliamo il seminario ” Umani e ambiente. Diritto, politica, economia in un’epoca di crisi”.
    L’incontro parte dal numero 1/2019 della rivista Jura Gentium, dedicato a “La crisi dei paradigmi e il cambiamento climatico”, e si terrà il 25 giugno 2020, ore 10.00,sulla piattaforma Meet dell’Università degli Studi di Firenze all’indirizzo https://meet.google.com/dqp-qzoo-hzq.
    Il seminario sarà presieduto da Luca Baccelli e vedrà la partecipazione di Nicolò Bellanca, Giulia Sajeva e Dimitri D’Andrea. Interverranno anche i curatori e gli autori del volume: Giacomo Bazzani, Sofia Ciuffoletti, Marco Deriu, Emanuele Leonardi, Serena Marcenò, Katia Poneti.

  6. @ Ennio:
    Ho letto nella loro versione originale gli articoli e interventi di cui riporti alcuni stralci, senza esprimere una tua opinione in dettaglio. Del caso Greta Thunberg non m’interessa discutere e negli interventi da te riportati la questione è già inquadrata bene. Del primo intervento di Pier Luigi Fagan condivido l’idea che un 90% di “endoxa” costituisca una opinione forte, ma Fagan non rivela l’equivoco di quel 90 per cento, d’accordo che l’attività umana incide sul riscaldamento globale (opponendosi quindi ai negazionisti completi), ma non d’accordo su quale percentuale di responsabilità attribuirgli. Si tratta, in pratica, di un 90% assai graduato e non compatto.
    L’articolo di Italo Nobile è interessante per la parte informativa e i dati statistici che riporta, ma poi conclude con questa “morale” politica:
    «se il problema demografico di questi paesi non sarà affrontato di concerto da tutti i paesi del mondo. Al momento, nelle campagne di questi paesi si sta consumando una tragedia silenziosa, ma questa tragedia presto o tardi si presenterà agli occhi del mondo.
    Il punto fondamentale è che la questione demografica viene quasi sempre presentata in termini neo-malthusiani quando invece essa va inserita all’interno della crescita delle forze produttive della teoria di Marx e delle contraddizioni che questa crescita comporta. Se lo sviluppo dell’automazione tecnologica da un lato e quello della popolazione dall’altro sembrano processi che entreranno in conflitto tra di loro, questo è dovuto alla permanenza dei vecchi rapporti di produzione. Una prospettiva rivoluzionaria invece potrebbe ricomprenderli all’interno di un circolo che non sia più vizioso e, quindi, profondamente antisociale».
    Mi chiedo:
    1) Che cosa vuol dire «la questione demografica viene quasi sempre presentata in termini neo-malthusiani quando invece essa va inserita all’interno della crescita delle forze produttive della teoria di Marx e delle contraddizioni che questa crescita comporta»?
    La popolazione mondiale è troppa o no? Va progressivamente diminuita o no? Ecco questioni semplici alle quali la sinistra non ha mai risposto. Malthus, a modo suo e secondo i suoi tempi e il suo ambienti, ha detto una cosa interessante che Marx non ha capito, permettendosi il lusso tragico di riderci sopra. I marxisti continuano a non capire e a comportarsi di conseguenza. Quando saremo tutti estinti a causa della catastrofe demografica, si parlerà ancora di teoria di Marx? cioè di come voler risolvere problemi di oggi con una teoria che era già vecchia quando Marx era vivo e che ha fallito ogni volta che si è cercato di metterla in pratica?
    2) Non ho nemmeno capito il significato di questa frase: «un circolo che non sia più vizioso». In che consiste questo circolo? Ho letto migliaia di libri sul socialismo e il comunismo di autori socialisti e comunisti, ma non ho ancora capito, perché non ne ho mai trovato la spiegazione dettagliata e concreta, in che cosa consista il circolo non vizioso. In tutti i paesi comunisti e ex comunisti (Urss, Cina, Cuba, Jugoslavia, Albania ecc. ecc.) ho visto che al capitalismo privato hanno sostituito un capitalismo di Stato ancora peggiore, in termini di sfruttamento degli operai, di repressione del dissenso, di limitazione di ogni tipo di libertà, di inquinamento industriale, di sfruttamento irrazionale del suolo agricolo.
    E quindi?
    Credo che l’opposizione al capitalismo di oggi debba ripartire da basi teoriche ben diverse da quelle del vecchio marxismo e che debba considerare il problema demografico non subordinato a quello dei rapporti di produzione, ma piuttosto il contrario. Credo che molti elementi della “sovrastruttura” marxiana non derivino dalla “struttura”, ma proprio il contrario.
    Il “turbocapitalismo” non è la causa prima dei guai odierni, ma non è altro che una fase di una lunga storia dominata dalla cultura predatrice della razza umana che ha causato diecimila anni (a dir poco) di storia criminale. Cultura predatrice che, all’atto pratico, anche il marxismo ha dimostrato di perseguire diventando da strumento di liberazione una strategia per la conquista del potere totalitario. E non è solo colpa di Lenin o di Stalin. Già negli scritti di Marx ci sono tutti gli elementi del totalitarismo, come avevano ben visto e predetto tanti suoi critici, dai socialisti (che Marx irride come utopisti e borghesi) agli anarchici, dai mazziniani ai cattolici e ai luterani, dai liberali ad alcune componenti dello stesso marxismo del dissenso.
    Quindi basta con le ideologie astratte, errate e vecchie, ma fondare un programma su:
    a) Autocrazia, democrazia dal basso, decentramento spinto e riduzione dei poteri dello Stato, federalismo comunale.
    b) Politica demografica che miri a una graduale diminuzione della popolazione.
    c) Non violenza, se non nei casi di legittima difesa.
    d) Politica industriale che miri alla produzione di beni di consumo più durevoli e meno inquinanti.
    e) Un sindacalismo che miri sempre più a sostituire alle rivendicazioni nei confronti dei padroni la creazione di attività imprenditoriali cooperative a proprietà comune e indivisa fra i lavoratori.
    f) Una politica estera (e un commercio estero) che non s’intrometta negli affari interni di altri paesi, che rifiuti la guerra e le missioni di guerra camuffate da missioni umanitarie, che non invii, per nessun motivo, uomini armati fuori dai propri confini, che instauri rapporti commerciali equi con tutti i propri partner, e che non venda armi a nessuno.
    ***
    Un altro elemento che incide sulle variazioni climatiche, che è effetto dell’attività umana ma che ha poco o nulla a che fare con l’emissione di gas serra, è l’aumento rapido della popolazione in alcuni paesi e lo sfruttamento irrazionale di terreni agricoli che ha contribuito alla desertificazione, nell’arco di pochi decenni, di vasti territori dell’Africa centrale. Altro aspetto assai complesso e problematico che si tende a sottovalutare. Eppure, se guardiamo alla storia nell’arco degli ultimi diecimila anni, un tempo apparentemente lunghissimo ma brevissimo dal punto di viste geologico, registriamo forti cambiamenti climatici e cambiamenti nella natura dei terreni che nulla hanno a che fare con i gas serra, ma molto con le variabili naturali e con tecniche agricole di sfruttamento irrazionale dei terreni. Si tratta sempre di attività umana, ma di tipo ben diverso. Fino a qualche migliaio di anni fa gran parte del deserto del Sahara era terreno coltivabile e in una certa misura tale rimase fino agli inizi del Medioevo, cioè fino all’epoca romana e immediatamente successiva. Poi, quando con la conquista araba si sostituirono le tradizionali coltivazioni con l’allevamento di bestiame, pecore e capre in particolare, quel terreno si trasformò rapidamente in deserto.
    Gli orientamenti culturali incidono moltissimo nel rapporto fra popolazione umana, ambiente e attività economiche. Diversi paesi dell’Africa (ma anche dell’Asia e dell’America Latina), dopo aver conquistato l’indipendenza nel 1960 e anni successivi, compresi quelli con governi socialisti o pseudosocialisti, hanno cercato di rompere gli equilibri tradizionali e imitando i paesi capitalisti, nella fretta di uscire dalle condizioni del “Terzo Mondo”, hanno introdotto culture e tecnologie che hanno provocato disastri, rotto equilibri di antichissima data, arricchita parte della popolazione ma impoverita il resto, hanno creato squilibri con conseguenze disastrose. Come e peggio del precedente colonialismo. Il che dimostra che ci sono problemi culturali che pesano di più delle strutture economiche e che producono strutture economiche distorte, e non viceversa.
    Quindi, la mia domanda è: ipotizzando che si arrivi a una industria a emissione zero di gas serra, il problema sarà risolto o solo rallentato un poco?
    E le domande collaterali sono: l’aumento della popolazione e soprattutto dei consumi pro-capite non annullerà qualsiasi progresso verso un’industria meno inquinante? Non aumenterà l’impatto ambientale e quindi la drastica diminuzione di terreni agricoli (per la cementificazione, per la desertificazione e altro ancora)? E ciò non causerà delle conseguenze geopolitiche tali da far tremare vene e polsi?
    E infine: la vera soluzione del problema non sta forse nel diminuire in numeri assoluti la popolazione umana vivente nel pianeta Terra? Nel riportarla a un equilibrio più compatibile con le possibilità di sostenibilità del pianeta?

  7. @ Luciano

    ” Già negli scritti di Marx ci sono tutti gli elementi del totalitarismo, come avevano ben visto e predetto tanti suoi critici, dai socialisti (che Marx irride come utopisti e borghesi) agli anarchici, dai mazziniani ai cattolici e ai luterani, dai liberali ad alcune componenti dello stesso marxismo del dissenso.”

    Ma il dente deve continuare a battere sul dente che doleva, anche quando il dente non c’è più? Marx è stato abbondantemente seppellito da tutta la “Cultura che conta”, il grosso dei marxisti si è sciolto come neve al sole del neoliberismo e i pochi si sono rifugiati in catacombe più o meno dignitose; e tu ancora a gridare al lupo marxista?
    Ci sono altri pensatori e organizzazioni politiche che, toltesi le fette di salame marxista dagli occhi (o non avendole mai messe), vedono meglio i problemi irrisolti e indicano soluzioni migliori?
    A me non pare, visto che su ogni questione ( coronavirus, clima, ambiente, crescita demografica) anche gli scienziati non infettati dal virus marxista si scannano e dicono cose diverse o contrapposte. Né mi pare che rivalutare tutti quelli, che a torto o a ragione Marx bastonò ai tempi suoi, sia un gran passo avanti. Ad un supposto totalitarismo non si rimedia con altro totalitarismo.

    P.s.
    Preferisco una visione storica più equilibrata e non moralistica di Marx e dei marxismi.
    Un esempio soltanto: https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/01/19/per-una-concezione-realistica-della-storia/
    Ma molti altri se ne trovano in giro.

    1. @ Ennio
      1) La tua segnalazione inviava a un articolo di Italo Nobile dove Marx è esplicitamente citato e richiamato. A questo articolo mi sono riferito, non ad altri. Sono d’accordo con te che, in generale, il “lupo marxista” è morto. Ma non per tutti, non certamente per una piccola minoranza della sinistra, piccola ma molto attiva (almeno in diversi blog), in cui il richiamo a Marx e al marxismo è continuo. In forme più distaccate, meno esplicite, è poi, questo richiamo, presente anche altrove. Insomma, forse il lupo è agonizzante ma non morto, e per qualcuno è ancora il capo branco di un tempo, non un semplice oggetto di studio.
      2) Non rivaluto i suoi critici di un tempo, i quali, del resto, sono collocati su posizioni così diverse e contrastanti che non è possibile rivalutarli tutti. Si tratta però di una documentazione storica da cui sorge una domanda cruciale: se l’avevano capito loro, perché altri hanno impiegato più di un secolo per capirlo? Naturalmente ci sono le ragioni, e sono tutte collocate nella immensa forza di Marx nel suscitare, accompagnare, giustificare lo spirito di ribellione e di rivoluzione. E nella situazione storica che lo asseconda. Grande forza distruttiva che poi, al momento della costruzione, si è sempre trasformata in cosa diversa dalle speranze e dalle promesse.
      3) Non si tratta di una visione moralistica, ma di interrogarsi su una tragedia che ha percorso il mondo intero e cercare delle risposte storiche fondate sui fatti.
      Un caso analogo è quello dell’Urss. Sto cercando nei mercatini di antiquariato vecchi libri, per lo più reportage giornalistici, sull’Urss. Già negli anni Venti ci sono descrizioni dell’Urss come un inferno, eppure molti “campioni” del “pensiero critico” ancora negli anni Sessanta e Settanta parlavano dell’Urss come del paese del comunismo, come di una specie di paradiso in terra, con qualche difetto ma nel complesso una terra da sogno.
      4) C’è chi, per spiegare questo prolungato effetto del tutto infondato rispetto alla realtà, ha parlato di fede religiosa o di qualcosa di molto analogo. Ecco, vorrei capire perché questa fede dura ancora, sia pure molto ridotta numericamente, e perché ha prodotto tanti miti.
      E che rapporti ci sono fra questi miti (ancora perdurano quelli di Che Guevara, di Castro, di Allende e di altri, anche fra chi non è marxista. I miti sono contagiosi e qualcosa resta attaccato anche dove ormai manca la fede o la fede non c’è mai stata) e quelli antichi del filone detto utopistico, che ha ormai quasi tremila anni di storia e che dalle sue origini fino, almeno, il Settecento, lega in modo stretto l’utopia sociale con quella religiosa, o, se non vogliamo usare il termine utopia diventato molto ambiguo, possiamo dire la speranza sociale a quella religiosa, il progetto sociale a quello religioso. Tanto che perfino Robespierre sente il bisogno di fondatore una nuova religione.
      Ecco di che si tratta. Niente tentazioni totalitarie né moralistiche. Storia, filosofia, dottrine politiche, progetti sociali, errori e fallimenti ecc. ecc. Tutto si tiene.

      1. @ Luciano

        DUE APPUNTI

        1.
        “@ Ennio
        1) La tua segnalazione inviava a un articolo di Italo Nobile dove Marx è esplicitamente citato e richiamato. A questo articolo mi sono riferito, non ad altri.”

        Si dà il caso che il mio stralcio dell’articolo di Italo Nobile si concentrasse interamente sui dati della crescita demografica, tema da te sollevato, avendo scartato proprio quelle ultime righe “dove Marx è esplicitamente citato e richiamato”. Saltare il tema da te stesso messo a fuoco per ribadire la tua ormai nota posizione antimarxista a me pare una conferma di un tuo irrisolto problema con Papà Marx e fratellini o fratellastri marxisti.

        2.

        “Sono d’accordo con te che, in generale, il “lupo marxista” è morto. Ma non per tutti, non certamente per una piccola minoranza della sinistra, piccola ma molto attiva (almeno in diversi blog), in cui il richiamo a Marx e al marxismo è continuo.” 

        Eh, no. Ho scritto ironicamente: “ Marx è stato abbondantemente seppellito da tutta la “Cultura che conta”, il grosso dei marxisti si è sciolto come neve al sole del neoliberismo e i pochi si sono rifugiati in catacombe più o meno dignitose; e tu ancora a gridare al lupo marxista?”. Non mi puoi arruolare nelle schiere dei liquidatori di Marx!

        Su Marx, i marxismi, i critici di Marx, il fallimento delle rivoluzioni socialiste ci sono studi che ho spesso segnalato. Qui su Poliscritture ospiterei volentieri recensioni e riflessioni argomentate, ma rifiuto le diatribe occasionali e sbrigative pro o contro Marx. No ai like o ai no like.
        Avevo fatto una domanda (non provocatoria) che permetterebbe, se tu non la eludessi, di navigare verso altri lidi: “Ci sono altri pensatori e organizzazioni politiche che, toltesi le fette di salame marxista dagli occhi (o non avendole mai messe), vedono meglio i problemi irrisolti e indicano soluzioni migliori?”. Parliamo di loro, se vuoi….

  8. SEGNALAZIONE DA FB

    E visto che qui siamo in diversi ex-sessantottini, facciamoci anche una domanda COLLATERALE come questa:

    Lanfranco Caminiti
    ma perché in questo czzo di paese non succede niente?


    Luca Nobile
    Il movimento americano è (tra le altre cose) il frutto di un lustro di lavoro politico di Bernie Sanders, che ha reinventato e ricostruito un senso comune socialdemocratico negli under 30. In Francia qualcosa di simile è stato fatto da Mélenchon, in Spagna da Iglesias, in Grecia da Tsipras. In Italia è mancata l’ascesa di una sinistra “populista” cioè realmente popolare. Sia perché la borghesia e la destra sono state profondamente vaccinate dall’esperienza dei ’70 e la reazione televisiva berlusconiana è stata profonda e meditata. Sia perché i sinistri in Italia sono troppo spocchiosi e saccenti, appunto a causa dei passati successi, e credono che essere di sinistra consista nel non sporcarsi le mani col popolo. Sia perché i 5S hanno soffiato loro lo spazio politico prima che capissero cosa volesse dire “smartphone”. A ciò si aggiungano i fattori socio-antropologici già evocati: 1) la deindustrializzazione; 2) l’alto tasso di proprietà immobiliare e quindi di welfare familistico-individualista; 3) l’alto tasso di precarizzazione giovanile in sistema poco dinamico e clientelare, se non criminale, e quindi l’educazione al servilismo; 4) il basso tasso di scolarizzazione, specie universitaria, e quindi la poca fantasia politica nelle classi popolari e la tanta spocchia classista tra le persone colte. Ma non durerà per sempre. Verrà il momento anche per l’Italia.
    o
    Lanfranco Caminiti
    sottoscrivo la parte sui 5S (aggiungendo che vi è stata una “delega” da parte di una certa sinistra, che quindi ha “collaborato” alla propria estinzione, non affrontando il nodo istituzionale e popolare; sottoscrivo tutti i punti 1), 2), 3) e 4). e, ovviamente, la chiosa di speranza. sul ruolo dei sanders e dei melenchon non sono d’accordo – nel senso che mi pare sopravvalutato in quel che dici
    o
    Oreste Montebello Luca Nobile
    sinceramente quello che più mi è mancata è stata la continuità della sinistra rivoluzionaria, delle compagne, dei compagni, di tutto quel movimento che via via si è andato a sciogliere come una goccia di sangue in acqua. Ha resistito per un po cercando nuove forme e nuove tonalità di rosso ma alla fine la diluizione totale era ineluttabile. Ne abbiamo visti tanti e tante che hanno tentato la strada della dirigenza nei partiti ma pochi siamo rimasti per strada, nelle terre, nelle scuole a tentare il nuovo percorso. Perché è difficile. Perché è disarmante. Perché, forse non ho più, non abbiamo piu, l’orecchio allenato.
    o
    Luca Nobile
    La sinistra rivoluzionaria è declinata con tutto il resto della sinistra a partire dalla fine dell’URSS (1992) perché, anche se si rappresentava diversamente, non è mai stata altro, in fondo, che una declinazione particolarmente ricca, colta ed europea del movimento operaio, socialista e comunista internazionale. Personalmente ho vissuto la fase finale del processo e credo che la pietra tombale sul movimento 68-77-90 l’abbiano messa le Torri gemelle (2001) con l’apertura della guerra di civiltà e la chiusura di ogni spazio politico per il conflitto sociale e l’anticapitalismo. Da questo punto di vista, tra 2001 e 2015 (apogeo dell’ISIS) è stato il deserto. Poi pian piano, viste anche le ricadute della crisi del 2008, sono venute fuori: 1) le sinistre istituzionali dette populiste (Podemos, Syriza e Corbyn nel 2015, Sanders nel 2016, Mélenchon nel 2017); 2) l’emergenza climatica e la sua incompatibilità sempre più evidente con la crescita capitalistica (a partire dalla COP21 di Parigi del 2015); 3) nuovi movimenti che hanno posto con forza crescente la questione dell’eguaglianza, in particolare il metoo nel 2017, i gilet gialli in Francia nel 2018-2019 e ora il movimento antirazzista. Ecologia, informatica e, secondo me, anche una certa forma di spiritualità, sono le tre componenti nuove che rendono il presente diverso e per certi versi estraneo alla cultura politica della sinistra novecentesca, e che andrebbero reintegrate in un pensiero (auto)critico per togliere l’impasse.
    o
    Lanfranco Caminiti Luca Nobile
    eravamo solo più comunisti degli altri – è solo in parte vero. il sessantotto non nasce comunista (da port huron a berkeley al maggio francese all’occupazione delle prime università in italia è tutt’altro, e d’altronde basterebbe pensare al 68 di praga che non fu esotico né marginale, ma è immiserito nella lettura della dissidenza, dai socialisti al manifesto) e anche il settantasette tutto si potrebbe dire meno che fosse parte della tradizione del movimento operaio. vero è che non siamo stati abbastanza anticomunisti. sulla frattura delle torri gemelle sono d’accordo – e peraltro qui si arrivò dopo genova, che pure fu un momento straordinario e lo sarebbe potuto diventare ancora di più, invece. come al solito, giocò molto l’antiamericanismo. sul presente non so (ecologia e informatica, mi sembrano temi vecchi, consunti) – ma certo, penso sia importante, e richiederebbe un gran ragionarci, questa cosa che tu chiami della “spiritualità” (che invece è un tema antico) e che è la cosa più laica che c’è
    o
    Luca Nobile
    Anche se il 68 culturalmente non è stato comunista in gran parte del mondo, è potuto esistere, come contestazione radicale del “sistema”, solo grazie allo spazio di manovra che il conflitto tra i blocchi aveva aperto nelle società occidentali. Anzi, più largamente, tutto il welfare, tutta l’alfabetizzazione di massa, e tutta la società dei consumi, senza i quali il 68 te lo sogneresti, dipendono solo dall’affermazione del movimento operaio socialista e comunista, dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla vittoria dell’URSS nella 2aGM. Su ecologia e informatica ti sbagli: sono terreni che il pensiero critico è bel lontano dall’aver digerito e dal sapere come farlo (per questo, come te, li snobba). La spiritualità è quella cosa senza la quale le rivoluzioni finiscono in guerre fratricide e in “uomini forti”.
    o
    Lanfranco Caminiti Luca Nobile
    collochi male – il periodo del 68 a livello geo-politico è quello della “collaborazione distensiva”, cioè della fine della guerra fredda, il cui acme fu la crisi dei missili a cuba. credo anch’io che le rivoluzioni culturali – e non solo per la distribuzione della ricchezza – nascano nei momenti affluenti e non quelli poveri di una società. ma le radici culturali del 68 sono marcuse e l’anarchismo, una vena di anticonsumismo (rafforzato da certo anti-imperialismo), in certi casi di vero e proprio francescanesimo (la spiritualità? una cosa che si può ritrovare, certo, anche nelle questioni dell’ecologia), quindi proprio il rifiuto del benessere e de “l’addormentamento” della classe (qui è proprio marcuse). nasce anti-riformista proprio per questo. d’altronde, lo spirito vero con cui il capitalismo si acconciò al welfare fu proprio per addormentare la classe e non farla inclinare verso le terribili sirene del comunismo. insomma, per paura. ebbero paura e tanta anche di noi – ma noi non rappresentavamo larghe masse
    o
    Luca Nobile Lanfranco Caminiti
    siamo d’accordo su marcuse, la crisi dei missili, l’addormentamento e il welfare. non credo però che questo escluda la dipendenza del 68 dall’URSS. è solo che ragioniamo su scale temporali diverse: tu su quella del decennio, io su quella del secolo. sul lungo periodo il fatto grosso è l’ottobre, non il maggio. poi secondo me il 68-77-90 andrebbe ormai ripensaato come un unico movimento, durato appena 22 anni (meno di quanto ci separi dal 90), durante il quale si producono simultaneamente l’emergenza/sussunzione dello spirito libertario e antiborghese dentro il quadro capitalistico (società dello spettacolo, immaginazione al potere, intellettualità di massa, ecc.) e la sconfitta politica, economica e culturale dell’URSS. le due cose mi paiono del resto strettamente legate, anche se non conosco analisi dettagliate del come e del perché. oggi l’unico terreno su cui una critica del capitalismo paragonabile per radicalità a quella dei ’60 può sperare di diventare maggioritaria è quello dell’ambientalismo, perché la contraddizione tra crescita e clima diventerà sempre più evidente, un’estate dopo l’altra, e chi avesse la forza di promuovere un neofrancescanesimo scientificamente attrezzato potrebbe sin d’ora anticipare la tendenza.

  9. A proposito di Milano…

    SEGNALAZIONE

    Lo sguardo del drone su Milano
    di Sergio Bologna
    https://www.sinistrainrete.info/societa/17968-sergio-bologna-lo-sguardo-del-drone-su-milano.html

    Stralcio:

    Siamo ben consapevoli che quelle che abbiamo chiamato le “fragilità”, le caratteristiche della città che rappresentano un rischio di degrado se non addirittura d’imbarbarimento, sono altrettanto consistenti quanto le caratteristiche positive. Ma se non vengono alla luce non è certo perché si è preferito fare City Life invece di un quartiere di case popolari, le scelte urbanistiche c’entrano pochissimo. Le trasformazioni sono avvenute con processi che hanno coinvolto principalmente il fattore lavoro, declinato in tutte le sue modalità, non soltanto il lavoro industriale rispetto al lavoro nei servizi ma soprattutto il lavoro tecnico-intellettuale, il lavoro professionale, il lavoro con le tecniche digitali: non si è trattato solo di un problema di costi – anche se rimane centrale oggi la questione delle retribuzioni con la proliferazione di working poor – ma si tratta di una partita con una posta in gioco molto più alta, che è quella della modificazione degli assetti mentali, della modificazione del cervello umano – apertamente dichiarata come obiettivo aziendale da giganti come Google, Facebook, Amazon. Si dice che oggi il problema è quello dell’accaparramento delle risorse della natura, in realtà il problema è quello dell’accaparramento of the human brain. È la capacità raziocinante dell’essere autonomo e indipendente, capace di resistere al bombardamento di mistificazioni della realtà, di selezionare l’informazione dalle fake news, è la possibilità di provare ancora sentimenti di solidarietà coi propri simili – sono queste le cose che vogliono estirpare dal nostro DNA, dal nostro sentire, dal nostro agire. La presenza di questi agenti “predatori”, che non a caso scelgono come primo terreno di conquista il nostro patrimonio cognitivo, configura uno scenario molto più drammatico di quello che Saskia Sassen ci propone con le sue teorie sulle espulsioni, anche perché l’arena in cui questa partita si gioca non è solo la città o la città globale ma è anche il più sperduto borgo dell’Appennino. Semmai è il vecchio discorso di suo marito Richard Sennett su the corrosion of character a essere più pertinente, più utile per capire come mai tanti giovani newcomers sono disposti ad accettare di lavorare per un euro di meno dei loro colleghi già inseriti nel mercato. Fenomeno questo capace di produrre più working poor di qualunque padrone avido, capace di svalorizzare il cosiddetto “capitale umano” come nessuna crisi economica è capace di fare.

    La costituzione di ACTA, la creazione di reti europee dei freelance e il loro gemellaggio con la Freelancers Union degli Stati Uniti, cioè le attività militanti di organizzazione per arginare l’individualismo esasperato, per rendere consapevoli i lavoratori della conoscenza dei loro diritti, per convincerli a difendere il loro valore di mercato, gli appelli a non lavorare gratis per l’EXPO: sono tutte esperienze con cui abbiamo di fatto attraversato la città con una specie d’inchiesta permanente. Con questo bagaglio di esperienze affrontiamo il nodo del mito ingannevole di Milano, nella speranza di arrivare in tempo a introdurre dei correttivi prima che la prossima scadenza elettorale ci riporti all’epoca buia dei Formentini-Albertini-Moratti.

    Oggi il downgrading della città e di certi suoi quartieri lo si legge nel privato, assai più che nel pubblico, le trasformazioni urbane di una città “globale” come Milano sono riconducibili alle scelte di specializzazione produttiva del nostro sistema economico di cui la speculazione immobiliare è solo uno degli aspetti e non dei più devastanti. Sono fenomeni che hanno acquistato una forte accelerazione dopo la crisi del 2008 e che una volta di più ci fanno capire che “la città” come unità concettuale è una pura mistificazione. Milano come entità omogenea non esiste, non può essere trattata come un soggetto, è semplicemente un segmento di uno spazio: qui si ritrovano, magari esaltate, tutte le fragilità del sistema-Italia, le quali hanno il loro punto di coagulo in una classe imprenditoriale e manageriale che, pur di salvare i suoi margini di profitto, ha condannato il paese al declino (qualunque settore si prenda in considerazione, dalla logistica al ciclo dell’auto), un paese che nella transizione verso Industria 4.0 probabilmente si staccherà definitivamente dal novero di quelli cosiddetti “avanzati”.

    L’Italia è il paese dove in questi anni si è formata la nuova categoria di ricchi che prosperano sul mercato delle braccia e offrono la loro merce di moderni schiavi alle grandi multinazionali della logistica o ai grandi gruppi partecipati da Cassa Depositi e Prestiti, come Fincantieri. Se ne parla perché magistratura e Guardia di Finanza hanno deciso finalmente di intervenire. Ma questi delinquenti hanno dei cugini non troppo lontani, quelli che prosperano con le loro agenzie d’intermediazione di lavori tecnico-intellettual-creativi di cui Milano è forse la piazza più importante d’Italia. Sono la “faccia pulita” del commercio di forza lavoro qualificata low cost. Essi costituiscono il lato oscuro del “modello Milano” ma per stanarli non possiamo certo ricorrere a parametri urbanistici. E questo vale per Milano come per Napoli, per Firenze come per Torino. Ma se le amministrazioni comunali volessero prendere in mano direttamente l’iniziativa per contrastare il fenomeno mondiale del degrado delle condizioni di lavoro ben venga! Questo ci fa guardare con interesse l’iniziativa Decent Work Cities lanciata un paio d’anni fa dal sindaco di Seul su incoraggiamento dell’ILO e alla quale si stanno aggregando metropoli quali New York, Parigi, Dakar, Bangkok.

  10. Ancora con in mente il supposto “lupo marxista” e per riflettere su quello ( la “realtà”) che si è perso e non si riesce più a pensare…

    SEGNALAZIONE

    La prima grande crisi epistemologica del marxismo
    di Alessandro Barile
    Luigi Vinci, 1895-1914 La prima grande crisi epistemologica del marxismo. La lezione mancata, Punto Rosso, 2018, pp. 457, € 20.00
    https://www.sinistrainrete.info/marxismo/18080-alessandro-barile-la-prima-grande-crisi-epistemologica-del-marxismo.html

    Stralcio:

    Alla base del materialismo marxiano è il postulato che la realtà sia conoscibile. Per essere conoscibile, e dunque comprensibile, misurabile e infine realizzabile, questa realtà non può che essere una. Non ciascuna per ogni soggetto che la osserva, procedimento che conduce – per il Lenin dell’Empiriocriticismo – all’inevitabile solipsismo, costruendo così una realtà per ogni soggetto agente. La realtà dev’essere dunque esterna. Esiste una realtà all’infuori di noi, che noi possiamo osservare e, attraverso il metodo scientifico, svelare, approssimandoci ad essa. Questa realtà ci determina. Esiste prima dell’uomo e continuerà dopo di esso, e l’azione che l’uomo svolge nella storia è in rapporto dialettico con essa. L’uomo è il prodotto della realtà sociale in cui vive. Le sue idee, i suoi comportamenti, le sue azioni, l’insieme delle sue credenze e dei suoi giudizi sono il risultato di una realtà che agisce sull’uomo e lo condiziona. In base a ciò, Il Capitale di Marx è il tentativo di descrivere questa realtà sociale, di misurarla scientificamente, svelandone l’essenza posta dietro all’infinita molteplicità dei fenomeni contingenti. È in base a questo procedimento che Marx può illustrare un movimento interno alla società che si presenta come oggettivo, nel senso di determinato a prescindere dalle singole volontà.

    L’azione del movimento operaio risponde a una necessità storica. Non si presenta come inevitabile a prescindere dai soggetti che hanno il compito di attuarla, ma si situa dentro un processo che si trasforma in base a una direzione. Una direzione precisa, per Marx: il percorso che conduce dalla coscienza di classe all’autocoscienza dell’uomo. Questo percorso è chiaramente soggetto a incidenti, ma non “torna indietro”: l’azione sociale, di cui il capitalismo è il più alto momento di sviluppo transitorio, agisce trasformando continuamente la realtà. La realtà non è stabile e contiene in sé i motivi del suo superamento. Questo è il senso della necessità storica entro cui agisce il proletariato. La coscienza di classe è la consapevolezza del proletariato di situarsi dentro questo percorso, di doverlo realizzare non in base a intendimenti etici o volontà di potenza, ma in connessione con la storia.

    Per darsi, tutto questo ha bisogno di essere studiato e di essere conosciuto. Marx ed Engels non escogitano il comunismo studiando il proletariato, ma scoprono il proletariato studiando il capitalismo. Studiando cioè una realtà che esiste e che può essere esaminata, quasi in laboratorio. La scoperta posta alla fine di questo studio è il comunismo. Il segreto del capitalismo è la rivoluzione. L’azione del proletariato è tale non in base ai suoi pensieri e alla sua momentanea (falsa) coscienza di sé che ha nella fase della sua infanzia e adolescenza, ma in base al suo rapporto con la realtà sociale nel suo complesso, al suo ruolo nel capitalismo.

    Per questi motivi, schematicamente tracciati, abolendo il determinismo (cosa diversa dal “positivismo”) non rimane che una teoria dei soggetti senza un oggetto comprensibile che li determina. Anzi: ribaltando il ragionamento, l’oggetto di studio viene rinvenuto dalle contingenti volontà dei soggetti, dalla loro “disponibilità alla lotta”, dalle loro istanze etiche. Cambiano al cambiare delle stagioni, di volta in volta identificati con quei soggetti che, temporaneamente, sembrano incarnare un certo spirito dei tempi. O meglio, un certo spirito di rivolta. Di questo passo però il comunismo si tramuta in atto di volontà, in azione consapevole, su di un piano di parità con le azioni contrastanti di altri soggetti, individuali ed organizzati. C’è anche questo, lo abbiamo capito: la lezione leniniana dimostra della fallacia teorica di facili teleologismi impersonali. Eppure il soggetto senza necessità viene – è venuto – comodamente fatto a pezzi e disciplinato da quel capitale dalle sembianze sempre più “totalizzanti” e sempre meno (auto)contraddittorie. La rivoluzione si fa rivolta esterna al capitale stesso. Un capitale di cui non conosciamo più la struttura, la sua composizione, i suoi punti di cedimento. Le analisi del capitalismo rimangono ferme alla prima metà del Novecento; il resto non riesce a tramutarsi in scienza organica alle lotte di classe e alla trasformazione. Scienza e ideologia hanno separato i propri destini, i propri uomini e i propri linguaggi. Il risultato è la scissione odierna, in cui ogni discorso politico è tutto interno alle questioni ideologiche, e ogni discorso scientifico immediatamente tecnicizzato e posto al servizio dell’evoluzione tecnologica del capitale. Occorre allora riavvicinare scienza e ideologia, ma per farlo è inevitabile tornare a studiare la realtà a prescindere dai soggetti che la compongono. Forse rimarremo ancora impotenti, ma almeno avremo colto l’essenziale di questo capitalismo apparentemente invincibile. Le generazioni future potranno così portare a termine il lavoro iniziato due secoli fa dai padri del socialismo scientifico.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *