Oggi parliamo di Cultura

di Samizdat Colognom

 Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza. E per il fatto di non essere più capaci di affrontare la padronanza simbolica dell’assenza, oggi siamo immersi nell’illusione inversa, quella, disincantata, della proliferazione degli schermi e delle immagini.

Jean Baudrillard, "Il Patto di lucidità o l'intelligenza del Male" (Raffaello Cortina)

Lettera aperta ad Alessandra Roman e alla sua coalizione

Cara Alessandra,

scrivo  e pubblico questa lettera all’indomani della tua diretta su “Oggi parliamo di Cultura” condotta con Renato Scuffietti e Loredana Manzi.

Non voglio rompere le uova nel tuo paniere di candidata sindaco, che sostengo con convinzione, né in quella della coalizione che ti appoggia.  Ma, pur apprezzando le cose che  hai sostenuto nei tuoi interventi durante la trasmissione,[1] mi sento di dover proporre  un ragionamento sulla Cultura,  che a me è parso del tutto assente nella trasmissione.

Lo faccio – è chiaro –  basandomi sulla mia esperienza: di abitante a Cologno Monzese dal 1964; di militante politico, che ha operato su questo territorio come membro di Avanguardia Operaia (dal ‘69 al ‘76); e poi di “militante in proprio”(o Samizdat, indipendente, cane sciolto) al di fuori dei partiti al governo e all’opposizione in questa città; e, infine, di  coordinatore di varie riviste culturali, autofinanziate e fondate proprio qui a Cologno (Spartacus, Laboratorio Samizdat, Poliscritture) oltre che dell’Associazione culturale Ipsilon (1989-1999).

La domanda che pongo non solo a te ma a tutti è semplice: oggi parliamo di Cultura ma di quale Cultura? O, in altri termini, cos’è la Cultura che vorremmo portare al maggior numero possibile di cittadini colognesi?

Sembra una domanda banale ma la Cultura, al di là dell’apparenza, è un terreno pieno di insidie e di equivoci. Moltissimi fan o appassionati di letteratura, cinema, arte, musica hanno  una visione davvero ingenua e molto romantica della Cultura. E ignorano quasi del tutto i meccanismi reali, che regolano la produzione e il consumo ( o “fruizione”) dei cosiddetti “beni culturali”. Tale ingenuità e rimozione mi è parsa di coglierla non solo negli interventi di Renato Scuffietti e di Loredana Manzi ma in quasi tutti i commenti che sono stati fatti durante  la tua diretta. In essi compare una visione  della città di Cologno (la periferia) come se fosse un “vuoto” (o quasi) da riempire con un “pieno”, la Cultura appunto. Che a Cologno – in misura maggiore o minore – mancherebbe  o sarebbe insufficiente.  E che, invece, c’è altrove, a Milano soprattutto. Per cui, in’ottica progressista e modernizzatrice, si tratterebbe di portare a Cologno le tante belle cose che si fanno a Milano: Book City, Piano City, i caffè letterari,  i concerti in chiesa, ecc.

Ora non nego che, sul piano della quantità e della qualità, ci sia un abisso tra le offerte e i consumi di Cultura promossi a Milano e le offerte e i consumi di Cultura che ci sono a Cologno. (Come accadde in genere tra i grandi centri e le periferie o le province). E ritengo lodevole ridurre questo scarto.  Quindi, mi andrebbero bene tutte le proposte che farete per avere più libri, più film, più musica, più arte, più fotografia a Cologno. E magari non solo “popolari” ma di qualità o “di livello superiore”. Ma attenzione!  Vedete che a Cologno già circola – attraverso la  TV, il cinema parrocchiale o il Cineteatro di Via Volta o i social –   questa benedetta Cultura sia “popolare” che “di livello superiore”! Certo, la città è di recente formazione e nata dall’emigrazione. (Ah, se si potesse leggere e discutere insieme il libro “Nascita di una città. Trasformazioni e migrazioni interne negli anni ’50 e ‘60” di Giovanni Mari!). E, dunque, ci sono i vuoti, le arretratezze,  i ritardi delle periferie. E problemi di deprivazione culturale che vanno affrontati e non sottovalutati.

Ma – e vengo alla questione per me fondamentale – non ci si può limitare a, ironizzare sui nostalgici  dei fontanili di Cologno,  sulle sagre, sulle rievocazioni storiche (romane o, più recentemente, longobarde o naziste). O  sentirsi  innovatori e modernizzatori perché si vogliono portare a Cologno  i caffè letterari, le presentazioni dei libri d’autore e magari qualche bel concerto che attiri gente da fuori (ahi,  non avete fatto i conti con il Coronavirus!). Non si può, secondo me, agire efficacemente sullo scarto tra “situazione arretrata” e “situazione progredita”, se manca una visione precisa di cosa siano oggi i meccanismi reali di quella che ancora ci ostiniamo a chiamare genericamente Cultura (e con la C maiuscola!).

M’immagino per un attimo che Alessandra abbia in mano una bacchetta magica; e che, insieme al futuro/a Assessore alla Cultura, trovi  gli sponsor giusti, ottenga udienza da Mediaset, riceva i finanziamenti per portare  qui a Cologno tutto il “meglio” che si troverebbe a Milano (Book City e Piano City, ecc.). E magari che riesca anche a costruire a Cologno il Museo della telecomunicazione e sintonizzi perfettamente  Cologno a Milano. Dovremmo essere contenti di questo? Io rispondo no e spiego il perché.

“Panem et circenses” (letteralmente «pane e [giochi] circensi») era  – si dice – la massima aspirazione della plebe nell’antica Roma.  Ma siamo sicuri che “panem e Cultura” sia l’aspirazione del “popolo di Cologno”?  A parte il fatto che  qui ci  vogliono dare  solo circenses (o Cultura), mentre  di panem (in senso lato, cioè i beni essenziali per una vita decente), che ancora proviene per i più solo da duro lavoro, restando il reddito garantito o di cittadinanza una favola, se ne vede sempre meno, che i poveri aumentano,  i lavoratori perdono il lavoro, i precari perdono anche il lavoro precario e abbiamo una scuola ed un’università sempre più disastrate, insisto con la domanda: quale Cultura?

E’ stato proposto il modello di Nicolini,  ma – ahi noi –  quel modello impose più “cultura di massa” contro una cultura “alta” che, a quei tempi, pur con tutti i limiti elitari, aveva un minimo di consapevolezza  degli abissi esistenti tra  borghesi e proletari, tra scrittori e popolo,   tra partito e masse. Quel modello Nicolini servì a scacciare quei “parrucconi” della cultura “alta” nelle loro eterne torri d’avorio della ricerca accademica, dove godono tuttora i loro antichi privilegi quasi indisturbati e senza nemmeno un po’ di “coscienza infelice”(=di rimorso) , mentre  l’invasione, grazie all’industria culturale, della “cultura di massa”, non più frenata né educata da quella “alta” (povero Schiller! povero Lukàcs!), ci ha condotti di filato alla “dittatura dell’ignoranza” (G. Majorino), di cui tutti ci lamentiamo.

Collaborare con Mediaset? Ma Mediaset vende  cultura “spazzatura”,  che già arriva in abbondanza pure a Cologno! Ne vogliamo di più? Vogliamo metterci il timbro dell’assessorato alla cultura di una futura giunta Roman?  Se è così, fate pure.  E, siccome mi è sembrato che è troppo forte tra voi la tentazione di non perdere neppure un minuto su cosa sia in effetti la Cultura (feticcio o valore reale?), ho  pensato di ricordarvi la lezione che tenne Franco Fortini proprio qui a Cologno in Villa Casati nel lontanissimo 1989.[2] Ne riassumo le tesi decisive:

1.

La cultura (in minuscolo e non per caso) si è ridotta a “un certo settore della comunicazione e delle forme, che ha a che fare soprattutto con le ar­ti e con la letteratura” . E si è è sempre più impoverita. Si sono omogeneizzati “ i linguaggi, il sa­pere, le ideologie della gente”  (“consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati “). Eppure linguaggi, saperi e ideologie – contraddittoriamente – hanno ancora il medesimo obiettivo: “valorizzazione o estre­mizzazione dell’individuo”.  Infatti pur parlando alla massa («cultura di massa»), continuano a ripetere lo stesso messaggio: “non essere come gli altri, sii di­verso, più bello, più forte ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una «cultura» (a scapito, cioè, del “noi”, del “comune”);

2.

 Si è avuta una divaricazione fortissima tra la «cultura di massa» (i “prodotti di seconda qualità”) e la cultura di ricerca (“la cosiddetta alta cultura universitaria”): “la distanza tra la vera ricer­ca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enor­me, astronomica”. Gli effetti sociali sono due:  da una parte l’”al­largamento di un’ area di deprivazione, di neoalfabetismo o di anal­fabetismo di ritorno; e non solo qui in Italia, ma anche negli stessi Stati Uniti”. Dall’altra “ una estesissima parte del corpo sociale, alla quale sono destinati saperi, forme artistiche o di intrattenimento, forme di realizzazione di se stessi”.

3.

Si è creduto e si crede ancora che  il rimedio possa essere  “la divulgazione” (Fortini citava ad es.” i fascicoli della storia della letteratura universale, della religione o della geografia venduti nelle edicole”). Ma il divario, la separazione,  resta insormontabile: “la distanza tra la vera ricer­ca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enor­me, astronomica”.  E  ci si divide in apocalittici o integrati (Eco). Chi denuncia i limiti di questa operazione di divulgazione facendo notare “ la falsa ricchezza dell’informa­zione o della cultura e dell’arte «per tutti», veniva o viene criticato dai progressisti e indicato come un uccello del malaugurio: “ tu sei un aristocratico della cultura e vuoi che determinate opere siano precluse a coloro che ne hanno fame e sete”.  Insomma, chi vede il bicchiere già mezzo pieno e chi vede soprattutto la parte vuota.

4. La«cultura di massa»  non fa che ricreare “naturalmente al pro­prio interno delle gerarchie”. Perciò come non esiste la Cultura,  “non esiste la cul­tura di massa, esistono delle forme molto differenziate all’interno di strumenti che sono, quelli sì, veramente di massa. E tali strumenti sono quelli che vanno, a rigore, dalla scuola, che è uno strumento di acculturazione – diciamo così – di massa, fino all’ editoria (libraria, giornalistica, periodica ecc.), alla pubblicità, che è un grande feno­meno di cultura di massa, e naturalmente a tutte le forme degli au­diovisivi”.

5.

Fortini in quegli anni proponeva una lotta “per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo”, pur sapendo che “la cosa non va al di là della pia pratica individuale” e che, se davvero si fosse riusciti a “proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assa­liti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso la linea dell’ascetismo, la drammatizzazione della storia, l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag”.

 Aggiornando al presente  queste tesi si potrebbe dire che voi siete i “divulgatori” e io sarei l’apocalittico o l’ascetico. Mi va bene così. Io continuerò a scommettoere e a lavorare a favore di ” processi ecologici (che non riguardano soltanto l’industria inqui­nante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente)”. E a dissentire da tutte le operazioni che rischiano  di seppellire con altra spazzatura Mediaset o dell’industria culturale  gli abitanti di questa città. Mi batterò soltanto per aiutare noi stessi e gli altri ad organizzarsi per non cedere al  feticcio della Cultura e per imparare, sì, a criticarla la Cultura, perché ce n’è bisogno. Del resto il sottotitolo di Poliscritture è “laboratorio di cultura critica” e ho scritto un manifesto per la troppo effimera “Officina delle arti”,  dove mettevo in guardia proprio da questi rischi:

In questa società (capitalistica), ora investita dalla globalizzazione resa possibile dal primato  delle tecnologie, la nostra «Officina», per non illudere i suoi aderenti, farà attenzione anche agli ostacoli oggettivi e ai pregiudizi che potrebbero scoraggiare o deviare in forme consolatorie o solipsistiche o deliranti i tentativi più ingenui di capire e praticare le arti. Inviterà, dunque, a non dare per scontato, a problematizzare, a discutere ciò che, nel campo delle arti, appare “normale amministrazione”. E, cioè, la  “mostruosità” di certe specializzazioni, la sacralizzazione della figura dell’artista sacrificale o puer o maudit o folle, o genio sregolato. Oppure il tacito e conformistico silenzio sulla distribuzione dei finanziamenti e delle sponsorizzazioni (spesso clientelari). Oppure la costruzione truffaldina di certe figure di pittori, poeti, narratori, attori, registi, giornalisti proposte come star, divi, icone, maschere dalla macchina dell’industria culturale prima e ora  della «società dello spettacolo» e offerte al culto adorante e plaudente della  “gente comune”, degli “appassionati”, dei “dilettanti”, dei “consumatori”.

Forse i miei sono discorsi marziani ( e ancora un po’ marxiani). Ne prendo atto e non voglio convincere nessuno. Certo, nel capitalismo ci si diverte col capitale. Attenzione, però, perché il capitale ci fa anche morire e gestisce a  suoi vantaggio persino la nostra agonia.  Sintonizzatevi pure con il resto del mondo. Ma sappiate che in buona parte siamo già tutti fin troppo sintonizzati. E, purtroppo, non con il resto del mondo ma solo con una sua parte, quella americana, abbastanza compromessa nei suoi ideali di libertà. Quanto  al collegamento tra Cologno e Milano io l’ho sempre avuto. Ma con quale Milano? Stabilii un filo (qui) tra la mia Cologno e la Milano di Fortini (quindi con un certo tipo di cultura presente allora a Milano). Vedete voi con chi stabilirete il vostro. Buona fortuna.


[1] Agevolare l’accesso di più persone alla cultura; studio del territorio e delle sue esigenze culturali; portare la biblioteca in giro per la città; curare i collegamenti con Milano e l’area metropolitana; valorizzare le competenze e le professionalità presenti a Cologno; ricerca di un equilibrio tra bisogni dei cittadini e compiti istituzionali dell’Amministrazione; stabilire regole chiare per rendere accessibili a tutti gli spazi di cui il Comune dispone; non dimenticare che anche la politica è cultura.

[2] Nel 1989 esisteva a Cologno Monzese l’associazione culturale ipsilon e invitammo Franco Fortini, uno scrittore che per tutta la vita si è occupato di cultura. Tenne una conferenza in Villa Casati che registrammo e pubblicammo in LABORATORIO SAMIZDAT, IV, n. 7, novembre 1989, col titolo da lui scelto: “Contro lo snobismo di massa”. Il testo è stato antologizzato anche in “Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994” a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003. il testo completo di Fortini si legge qui: https://immigratorio.wordpress.com/2020/06/29/contro-lo-snobismo-di-massa/


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