Il cane

 

di Rita Simonitto

“Tiresia si sentiva stanco e si sedette sul muretto.

Aveva fatto quella camminata sul monte Cillene, più facendosi trascinare dai profumi che dai colori della primavera che su quel monte comunque procedeva stitica. Ma tant’è. Senza saperlo, oppure lo sapeva, perché cieco sì ma stupido no, era come se fosse tornato sul luogo del misfatto. Succede. Sempre succede quando qualche cosa non è stata ancora chiarita del tutto. Si sedette dunque in attesa che qualche vaticinio, anche se proveniente da lui, lo smuovesse da quel turbamento. Ma nessun alito di chiarezza gli arrivò anche se percepì un muoversi leggero d’aria davanti a lui. Leggero, perché la ninfa Liriope aveva il passo danzante e quasi non poggiava al suolo. Non la vedeva ma ne conosceva a filo le sembianze, la sua dolce bellezza piegata dalla brutalità del Dio Cefiso.

– Tiresia, sono Liriope, la madre di Narciso, esordì la ninfa.

– Lo so, lui rispose, sei molto turbata

– Sì è per mio figlio, Narciso

– Già (le solite madri ansiose e ansiogene, pensò Tiresia). Parla.

– Dimmi grande Vate. Quanto vivrà mio figlio?

Un po’ seccato, anche perché memore delle sua esperienza personale riguardo alla arroganza della conoscenza, e del rischio di dare risposte avventate, Tiresia rispose: “Vivrà fino a quando non si conoscerà.” .

Nicastri si passò le dita tra il colletto della camicia e il collo e poi decise di slacciarsi la cravatta. Mise la matita a segno del punto in cui la sua lettura di quanto aveva scritto il giorno precedente si era fermata e decise di aprire le finestre. Mentre scendeva i due gradini della predella della cattedra – era prof, di Filosofia -, si chiedeva perché mai aveva intrapreso l’avventura di introdurre il discorso della conoscenza attraverso il mito di Tiresia, l’indovino greco reso cieco perché aveva osato esporre la sua esperienza personale nella diatriba tra Zeus e Era (*). Come sempre, aveva ‘visto’ troppo (e parlato troppo) e questo era imperdonabile.

La classe sembrava essere intorpidita non tanto per il caldo che era esploso subitaneamente trovando tutti impreparati, ma forse perché… chissà perché. Apri le ampie vetrate e il verde degli ippocastani che arricchivano il cortile del Liceo Classico dove lui insegnava da alcuni anni, irruppe dentro l’aula con una ventata di freschezza.

Si sedette sulla predella, quasi all’altezza dei banchi degli studenti, un po’ stupiti di quella mossa inedita. Stupore che durò poco. Decise di continuare a braccio. Non gli era facile perché doveva superare l’assenza della parola scritta, ma poi, piano piano piano si appassionò. Si inoltrò a toccare la fantasia onnipotente che investiva la conoscenza di poteri salvifici, un assoluto dove tutto era chiaro ed evidente, senza luci e ombre, senza dubbi … la campanella di fine lezione suonò provvidenziale per i suoi studenti che in men che non si dica si accalcarono alla porta.

“Buon giorno, Prof.”

“A domani, Prof.”

Sì, ci sarebbe stato un domani. Ma davvero ci sarebbe stato un domani? Chi glielo poteva assicurare?

Tornò a casa con pensieri di tal fatta, non certo allegri come accadeva da un po’ di tempo a questa parte.

Avrebbe voluto sfogarsi con qualcuno, ma con chi?

Forse poteva chiamare suo figlio, ma sapeva già che la conversazione si sarebbe svolta secondo il noto clichè.

“Ciao Giacomo”.

“Ehi Furio”. Fin da piccolo suo figlio aveva incominciato a chiamarlo per nome. Dietro la spinta della madre ‘progressista’ che non accettava le declinazioni di padre e madre, e così progressista che lo lasciò di punto in bianco, lui Furio, perché qualcun altro le garantiva più successo e visibilità di quanto non le potesse dare lui, insegnante di Liceo, anche se paludato di studi e ricerche che portavano il suo nome.

Dunque: “Ciao Giacomo”, “Ehi Furio, come butta?”.

E poi Giacomo si sarebbe speso in dettagliati problemi che stava incontrando al Cern di Ginevra, intoppi agli acceleratori nucleari, ecc. ecc., tematiche che avrebbero gonfiato di orgoglio il petto della madre ma che a lui sollecitavano soltanto  un interesse marginale.

Dunque, niente telefonata.

C’era il Giorgini, che lui affettuosamente chiamava Mister George, per dargli un po’ di quella importanza che gli stava un po’ striminzita e sgraziata addosso, come un pullover a righe larghe su una corporatura un po’ ridondante. Ma non aveva nessuna voglia, quel pomeriggio, di fare il frate francescano. Più che mai sentiva la necessità di aprirsi lui a qualcuno, di prendere le distanze, almeno per un po’, da quella sicurezza che aveva permesso a molti di appoggiarsi a lui, di contare su di lui, senza se e senza ma, di usufruire della sua cultura… di tutto quello che lui poteva mettere a disposizione.

Adesso Nicastri incominciava ad avere dei dubbi, ma non quelli che portavano con sé almeno una vena dialettica in modo da renderli proficui… erano dubbi di altra natura, che non aveva mai sperimentato… se non avesse avuto una pregiudiziale terminologica, avrebbe osato dire ‘nihilisti’ … ma anche lì non ne era del tutto sicuro… perché anche nelle negazioni si nasconde una qualche affermazione…

Che cosa gli stava succedendo in quel penoso pomeriggio di una data anonima, di un anonimo giugno che non aveva nulla di nulla per cui passare alla storia? Ma ormai da troppo tempo assisteva ad un continuo affastellarsi di situazioni anonime, o, per lo meno, non degne di nota.

Né più né meno di come accade a certi turisti che hanno girato il mondo in lungo e in largo e alle frontiere, quelle che sono rimaste, frettolosamente ai controlli dicono “nulla da dichiarare”.

Beh, non poteva rimanere in quello stato: sudava caldo e freddo. Quale era stato l’emergente che gli aveva scatenato dentro quel putiferio?

Tiresia? Narciso?

Non era stato anche lui ‘supponente’ come Tiresia?

Il ‘vuoto’ interiore di Narciso incominciò a lavorare nell’immaginario di Nicastri il quale, pur riuscendo ancora a discernere tra realtà e rappresentazione, era travolto dalla sfinitezza: l’afosità di quella giornata non rendeva labile soltanto la percezione delle distanze attraverso gli asfalti che lasciavano andare fumi ondivaghi.  

Un ‘vuoto’, certo. Ma di che cosa? Questo lo sapeva bene che non esiste il vuoto assoluto, ma forse una mancanza ‘di’, una assenza ‘di’, ma il saperlo non sembrava sufficiente. Quel vuoto al centro dello stomaco premeva e si faceva sentire e non c’era modo di strapparselo di dosso.

Vagò per la stanza alla ricerca di un antidoto. Però la stanchezza prevalse. Si accasciò sulla poltrona che aveva molte volte dato contenimento e sollievo ai suoi turbamenti.

Ma l’avvolgimento di quei braccioli gli sembrò una trappola.

E se dovesse cercare fuori? Non ci aveva mai pensato!

Si precipitò alla finestra. L’aprì. “Nulla di nuovo sotto il sole” si disse. Forse con sarcasmo, mentre lo spasmo pressorio del suo vuoto lo spingeva da dentro fino all’inverosimile. Ed era come se, di contro, quel ‘vuoto’ che vedeva dal balcone chiedesse invitante di essere attraversato.

Rabbrividendo salì sul davanzale: un quarto piano è sempre un quarto piano, ma il Prof Nicastri non stava certo pensando all’altezza ma solo a quel vuoto che gli si stava parando davanti, quasi un amico che lo invitava a impadronirsene, a farlo suo anziché esserne schiavo.

Ma ecco che inaspettatamente, sul cornicione sotto la sua finestra, se ne stava un cane, un cane di mezza taglia, un bastardino si sarebbe detto, che lo stava osservando nei suoi movimenti. Non scodinzolava, come se lo scodinzolio potesse turbarne l’equilibrio e farlo precipitare giù.

Nicastri era stupito oltreché impedito nel suo progetto. Qualsiasi suo movimento avrebbe rischiato di trascinare con sé la ignara bestiola in una sorte non voluta. Cercò di attirarlo dentro la stanza, ma non c’era verso di smuovere l’animale che immobile continuava a guardarlo. Velocemente cercò di fare mente locale su quanto potesse avere di appetibile in casa onde attirarlo dentro, ma erano già alcuni giorni che lui stesso era disappetente e il frigo era desolatamente vuoto.

Giù in strada si era formato un piccolo assembramento che a naso insù guardava la scena dell’uomo e il cane. Smorzate voci gli arrivavano: c’era chi affermava che lui stesse mettendo in atto un tentativo di salvare il cane… alcuni clackson incominciarono a suonare… forse fu questo a spingere la bestiola spaventata a fare un balzo verso di lui, così inaspettato che lo buttò a terra. Il bastardino incominciò a slinguacciarlo dappertutto, tenendogli puntate le zampine sul petto.

E così, in un pomeriggio dimenticato da Dio e dagli uomini, Furio Nicastri, rispettabile professore di liceo di anni 67, non più giovane ma nemmeno ancora vecchio, si trovò steso sul pavimento della sua casa, con un cagnolino scodinzolante che gli stava addosso e gli faceva le feste. Una bestiola che non aveva mai visto prima di quel momento, a cui non aveva mai dato nulla, né una ciotola di croccantini né una qualche attenzione eppure continuava a slinguarlo mostrandogli la sua felicità per quell’incontro.

E allora Nicastri, vincendo ogni ritegno, si sciolse in un pianto singhiozzante come mai gli era accaduto nella sua vita, nemmeno quando aveva perduto i suoi affetti più cari, ovvero sì, con sua madre aveva pianto molto quando l’aveva persa ma mai aveva sperimentato quello struggimento intenso, totale così come stava sperimentando adesso con l’affetto di quel cagnolino sconosciuto… e finalmente quel vuoto piano piano si stava colmando e lui si addormentò abbracciato a quell’animale.

Nota

(*) Sull’indovino Tiresia si sono intrecciate molte narrazioni mitiche, tutte però ruotanti attorno alla conoscenza connessa con la funzione della vista, già intuita nella sua potenzialità rappresentativa. Solo nel racconto dello scontro tra Tiresia, Zeus ed Era, la moglie di Zeus, si cerca l’abbinamento, ancora rudimentale, conoscenza-esperienza.

Da Wikipedia:

Ci sono tre tradizioni riportate dallo Pseudo-Apollodoro:

  • Secondo la prima fu reso così dagli dèi perché non volevano che profetizzasse argomenti “segreti”;
  • nella seconda tradizione è figlio di una ninfa ed è reso tale da Atena per punizione perché la vide nuda farsi il bagno, ma poi, su supplica della madre, fu reso indovino dalla stessa dea;
  • nella terza tradizione, Tiresia passeggiando sul monte Cillene (o secondo un’altra versione Citerone), incontrò due serpenti che si stavano accoppiando e ne uccise la femmina perché quella scena lo infastidì. Nello stesso momento Tiresia fu tramutato da uomo a donna. Visse in questa condizione per sette anni provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Passato questo periodo venne a trovarsi di fronte alla stessa scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio e nello stesso istante ritornò uomo. Un giorno Zeus ed Era si trovarono divisi da una controversia: se in amore provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscendo a giungere a una conclusione, poiché Zeus sosteneva che fosse la donna mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in causa Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolvere la disputa essendo stato sia uomo sia donna. Interpellato dagli dei, rispose che il piacere si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea Era, infuriata perché Tiresia aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco, ma Zeus, per ricompensarlo del danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni: gli dei greci, infatti, non possono cancellare ciò che hanno fatto o deciso altri dei.

11.07.2020

4 pensieri su “Il cane

  1. Piacevole racconto, che scorre con apparente naturalezza, senza forzature, tra uno sguardo esteriore ed uno interiore, rapportati in un giusto equilibrio. Nella sua calcolata imprevedibilità l’esito finale esprime molta carica vitale, positiva. Il passaggio dall’astrazione filosofica alla benefica energia animale realizza quella pulsione esistenziale che vale più di mille riflessioni mitologiche.
    Con me e mia moglie vive il gatto Ginger, immigrato dalle Canarie, che ci dà gioia e serenità; perciò capisco bene i sentimenti dell’autrice.
    “Neppure un passero cade dal cielo che non lo sappia il Padre mio”.

  2. …in questo racconto di Rita Simonitto la vicenda del professore poteva avere una conclusione tragica, e invece no…Si puo’, credo, parogonarla alla storia di un naufrago che a un certo punto “cade” dall’alto della cattedra da cui impartiva lezioni di conoscenza ai suoi giovani liceali, in mare aperto, roso dal dubbio di non avere risposte certe per nessuno, non avendole per se stesso. Proprio come l’indovino Tiresia alla ninfa Liriope, che gli chiede una profezia sulla sorte del figlio Narciso, quando ambiguamente risponde: “Vivrà fino a quando non si conoscerà”, dove il “non” abita un crinale tra la vita e la morte: vivrà finchè non riuscirà a portare a termine la sua conoscenza oppure morirà proprio quando l’avrà portata a termine? La conoscena, allora, che ruolo ha veramente? Il professore “nuota” senza meta nel mare del dubbio e cosi’ gli si affaccia l’idea del nulla…Ma per tentare ogni possibilità si aggrappa a qualche “relitto” della sua vita: l’amico bisognoso di comprensione con il quale, pero’, dovrebbe assumersi il ruolo di buon francescano, che non sente…il figlio in carriera, anche quello lontano dalla sua sensibilità e a cui gli sarebbe difficile confidarsi…si ritrova cosi’ in piedi, quasi inconsapevolmente, sul davanzale della finestra di casa, a contemplare il desiderabile nulla…ma ai suoi piedi appare un cagnolino affacciato al vuoto, immobile e terrorizzato, diversamente da lui…Solo pochi gesti d’intesa e i due capiscono di essere l’uno il salva-vita per l’altro, cosi’ gratuitamente. Succede

  3. • Grazie a Franco Casati per la sua ‘sinergica’ lettura e per avermi in qualche modo presentato il suo gatto Ginger. Lo presenterò senz’altro alla truppa dei miei gatti (ormai ridotti a sei) coccolosi e curiosi di storie.
    • Grazie ad Annamaria la quale, con questo suo passaggio “…cagnolino… terrorizzato, diversamente da lui”, mi ha fatto vedere qualcosa che io non avevo visto (a proposito di ‘vedere e conoscere’), e cioè il fatto che la bestiola potesse essere terribilmente spaventata. Eppure lo avevo anche scritto, vale a dire che non scodinzolava per paura di perdere l’equilibrio, epperò quel terrore non mi era apparso…
    Ecco quello che succede quando ci si identifica troppo nel personaggio centrale (questo vale, per traslato, anche per noi quando siamo troppo incentrati ‘narcisisticamente’ su noi stessi) e ciò che sta intorno diventa come ‘sfocato’, ‘scentrato’. Certo, il mio intento era anche quello di cercare di rappresentare quel malefico rapporto che si instaura tra un vuoto interno che diventa sempre più oppressivo e angosciante e quel vuoto esterno che seduce e attira a sé fino alle drammatiche scelte finali. Ma la notazione di Annamaria mi è stata molto istruttiva. Grazie.

  4. …grazie Rita, giusto per un caso. E visto che voi avete presentato i vostri animali, anch’io procedo a fare altrettanto: mi riferisco a una cagnolina di taglia medio-piccola di nome Yosha che non vive con me ( in questo perido per varie ragioni non potrei tenere un animale) ma a casa di figlia e nipoti, ma dato che siamo piuttosto spesso insieme, la considero la mia attuale amica pelosa…Per le sue vicessitudini “parla” ben cinque lingue: il rumeno, essendo la Romania il suo paese di origine… il tedesco, essendo stata salvata, insieme a molti altri animaletti, da un’associazione animalista mentre viaggiava su un treno-tratta per animali destinati alla sperimentazione, e trasferita per un certo periodo in un cantone della Svizzera tedesca…il francese e l’italiano quando fu adottata da mia figlia, residente da anni in un cantone di lingua francese dove tutti i componenti della famiglia parlano, alternandole, entrambe le lingue…Infine la sua lingua ( o linguaggio) “canina”, che comprende sia “versi” che gestualità…insomma è in grado di capire gli umani, e molto piu’di me, viaggiando in mezza Europa, mentre, a sua volta, conosce un linguaggio mimico-gestuale e basato su suoni internazionale…Comunque non immaginatela troppo spavalda, non è una “donnina” d’affari; anche se ora è molto amata, il periodido di randagismo che ha vissuto da piccola ha lasciato in lei dei segni evidenti di paura e comportamenti particolari, come rasentare i muri scendendo le scale, sottrarsi spaventata quando le si vuole infilare un collare…insomma, potremmo studiarci la trasversalità elle reazioni degli esseri viventi in molte situazioni. Grazie a te, Rita…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *