Tre tentativi di teologia contemporanea

di Giuseppe De Angelis

Giuseppe De Angelis è un giovane dottore in filosofia. Recentemente mi ha fatto leggere queste “Tre prove di teologia contemporanea”, continuazione in qualche modo della sua tesi di laurea. Ho letto volentieri le sue pagine e, pur condividendo singole proposizioni, in uno scambio di mail, gli ho detto chiaramente che la mia ricerca si muove su un altro terreno e all’interno di altri orizzonti. Per quanto mi riguarda, infatti, se devo ricorrere alla teologia, preferisco il «Trattato teologico-politico» di Spinoza o il messianismo di Benjamin. «Ma non è questo il punto. – Gli ho scritto nella mia e-mail. Preferisco restare sul tuo terreno, sulle scelte di scrittura-riflessione che tu compi. Allora ti pongo queste domande:

  1. È proprio necessario ricorrere al mito biblico per indagare e comprendere l’Essere, l’Esistere e l’Amare? Quale maggiore comprensione si guadagna rispetto ad altre modalità d’indagine?
  2. Per spiegare l’Amore perché scegliere il mito di Lucifero e non quello raccontato da Platone nel Simposio? Insomma, perché preferire il divino vetero-testamentario?
  3. La riflessione filosofica che, mi pare, si caratterizzi proprio per il suo emanciparsi dal “mithos” a favore del “logos”, se torna ad affidarsi in modo così palese e prevalente al mito religioso, non rischia dei passi indietro?…»

De Angelis ha provato a rispondere alle mie domande, ma i miei dubbi e le mie perplessità rimangono. Credo, comunque, che, per far crescere la riflessione, le “tre prove” abbiano bisogno di una circolazione più ampia. Da qui la mia proposta di pubblicazione su Poliscritture. (D.S.)

                                                Simulacra gentium aurum,
                                          oculos habent et non videbunt
                                            aures habent et non audient.
                                                   Pedes non ambulabunt
                                             non clamabat in gutture suo
                                                            (Salmo 113b)

L’offerta che gli dèi – o i demoni – fanno è sempre la stessa: sacrifica al mio altare, ti darò gioia, potere, gloria. Ma i fumi dei sacrifici finiscono per scurire i metalli luccicanti delle statue e per attossicare le narici, le menti e i cuori degli officianti. Gli idoli, dal canto loro, rimangono muti, freddi, indifferenti, non importa quanto e cosa sia stato loro donato. Nel momento dell’inefficienza, la rabbia dell’adoratore – che improvvisamente si riscopre lucido e razionale – vi si scaglia contro, a distruggerli: ma per ogni idolo abbattuto, uno nuovo sorge, subdolo, nel cuore dell’iconoclasta.

La radice dell’idolatria non è nel rito, ma nell’animo che non smette di cercare  rassicurazioni. La rivelazione, la folgorazione, l’illuminazione – momenti differenti della percezione del grande vuoto, lo spirito – suggeriscono che l’uomo potrebbe diventare ben più che se stesso, un essere limitato dai propri bisogni e dalle proprie paure.

Potrebbe essere terribilmente libero.

Il costo è elevato: la più grande libertà si accompagna alla minore delle certezze, un costante e divorante dubbio che avvolge l’intera esistenza. Dietro ogni estasi si nasconde una atroce paura: e se fosse tutto un sogno? Un fantasma dell’immaginazione? Allora starei fluttuando nel nulla, oltre questo istante c’è soltanto un’eterna notte senza luce…Gli uomini vivono esistenze misere, fatte di infelicità, invidia e sofferenza. Sempre pensano a un modo per allontanare il dolore, ignorando che il dolore è un tutt’uno con loro stessi, con la vita che conducono e le regole che si impongono di seguire.

Di fronte all’ineluttabilità di questa situazione, ecco che si rivolgono a dio. Essi vogliono risposte, cercano un porto sicuro in cui approdare e continuare a portare avanti le loro infime esistenze, questa volta prive di timori. Eppure in ciò sta il più grande inganno, dio non dà rassicurazioni, non conferma le miserie individuali. Dio è una domanda, la più antica, la più attuale: vuoi essere libero? Vuoi svegliarti dal lungo sonno dei sensi e dello spirito?

Ma gli uomini sono testardi e pavidi. La libertà li spaventa, preferiscono una guida, delle regole, fosse solo per poter dare la colpa a qualcun altro, per non trovarsi soli di fronte al proprio destino. Così costruiscono idoli e tessono da soli i propri lacci, risposte immediate per un’inquietudine antica e insolvibile.

I. Essere

Abramo, il primo uomo senza dèi, è figlio di un costruttore di idoli. Suo padre costruisce statue che vende ai templi e a chiunque voglia un’effigie da adorare nel suo giardino, nel suo palazzo o nella sua umile stamberga. Abramo, che parla da solo e cammina spesso ai margini della città – dove i canali di irrigazione non arrivano, dove il deserto torna a far sentire la sua presenza accerchiante, totale – non vuole lavorare con suo padre, non gli piacciono le statue. Non vuole fabbricarle né tantomeno adorarle. Porta le greggi al pascolo, un lavoro da servi, ma che gli permette di guardare il cielo, sperdersi sulle alture e scrutare l’orizzonte.

La Mesopotamia, la terra in cui è nato, è un piccolo giardino attanagliato da un deserto immane, tentatore. Una presenza concreta, incombente. Il deserto instilla il dubbio: sei davvero al sicuro, uomo, nella tua casa di argilla? Sei felice rintanato tra le tue quattro mura? Tra domande del genere il giovane trascorre le giornate, almeno quelle in cui può dedicarsi alle lunghe passeggiate con la scusa di badare agli armenti di famiglia.

Un giorno suo padre lo lascia nell’officina perché deve andare a concludere un grosso affare. Quando torna trova tutte le statue in frantumi e Abramo nascosto in un angolo. Questi gli racconta che gli dèi di pietra si sono messi a lottare, quelli più piccoli contro quelli più grandi. Se le sono date di santa ragione, e alla fine si sono distrutti a vicenda. Furente, il padre impreca contro di lui:

- Mi prendi per fesso, Abramo? Queste sono statue!
- Tu lo dici, padre. Allora dimmi: perché mai dovrei inginocchiarmi e adorarle fuori da questa officina? Forse che quando escono di qui la loro natura cambia?

Dopo questo alterco, il giovane lascerà la casa paterna e andrà nel tanto bramato deserto. Il resto, come si suol dire, è storia.

Tuttavia, più che la storia, sono i luoghi in cui Abramo si sperde che lo faranno diventare ciò che è. Le piane desolate, la sabbia: nessun punto di riferimento, e dunque la possibilità dell’orientamento puro. Lì la direzione è un tutt’uno con la decisione, necessariamente. Lì nasce la possibilità di ogni storia, ed è lì che Abramo, io, tu, tutti gli esseri umani, siamo uguali: non siamo.

Il deserto mette alla prova, libera dai vincoli.

Nel deserto il quotidiano sparisce, si è sempre sul limite: di se stessi, della vita, del mondo. Facile credere alle leggi, ai costumi, alla morale, quando si è in mezzo agli altri, si ha un tetto sulla testa, si può scambiare qualcosa in cambio di cibo, compagnia.

Nel deserto vedo la nuda terra nella sua trama più intima: polvere inconsistente, arida, che tuttavia sostiene i passi pesanti del pellegrino. E quando, raramente, piove, subito inverdisce.

Nel deserto vedo il cielo, meglio che in qualsiasi altro posto: di notte le stelle illuminano la via.

Nel deserto l’uomo che mi porto dentro sparisce: non ho più paura, sono libero.

Il deserto dice: tu sei tutto, non temere nulla, perché nulla può soggiogarti, nulla può distruggerti.

Ma quando tornerò in mezzo agli uomini, tra le case e i giardini, quando godrò di nuovo della compagnia, della musica, del vino, sopporterò quella libertà indicibile?

Ricorderò che sono nulla e sono tutto, che sono libero di gioire nella breve pioggia del mondo?

II. Esistere

Ciò che differenzia i pagani da noi, è che all'origine di tutte le loro credenze vi è un terribile sforzo per non pensare in quanto uomini, per mantenere il contatto con l'intera creazione, cioè con la divinità.
                                                   (Artaud, Eliogabalo)

Mentre il cadavere di Mosè imputridisce in un remoto crepaccio del Moab, Giosuè rade al suolo Gerico, a capo di un’orda di guerrieri ricolmi di sacro furore.

Il rabbi è asceso al cielo! dicono alcuni; dio l’ha baciato e se l’è venuto a prendere! sostengono altri. In realtà il vecchio era un peso, non era più ebbro di quel terrore pànico che ardeva nei suoi occhi quando discese dal Sinai e non esitò ad avventurarsi nel deserto, sprezzante della propria vita e di quella di tutti coloro che aveva alle spalle: donne, uomini, bambini, vecchi, animali, servi.

Mosè è stato intimo troppo a lungo con dio. Di fronte al mistero tremendo la vita perde senso. E allora ci si attacca alle piccole cose: una passeggiata al calar della sera, il piacere di un sorso d’acqua che calma l’arsura del giorno. Ci vuole un’altra vita, lunghissima, per riprendersi da quell’incontro. Mosè ce l’ha fatta, anche se ha dovuto girovagare per quarant’anni ingannando e trascinando con sé una turba di ignari impauriti. è sopravvissuto, si è riappacificato con dio.

Perciò deve morire, un vecchio stanco e pacifico non serve a nessuno. Arrivati alle porte della terra promessa, i nomadi devono trasformarsi di nuovo in santi se vogliono che dio li benedica e sia di nuovo in mezzo a loro. Nella quiete non c’è spazio per le rivelazioni; nessun mondo viene creato, nessun prodigio si compie. Solo nell’attuazione di una volontà inumana attraverso gesti umani l’uomo si eleva e diviene più che creatura, l’incarnazione delle forze che, scontrandosi, danno vita alle cose. Quelle forze che incontra nello spavento del sogno, nelle fantasmagorie delle notti senza luna, nell’ebbrezza atterrita dell’estasi.

Quando Giosuè e i suoi lo circondano, sfoderando le armi, il venerabile protesta; non come un capo ma come chi sa di aver perso ogni autorità, come un mendicante che tenta di nascondere la propria miseria dietro il velo della vecchiaia. Dov’è l’uomo pieno di spirito che scendeva dalla montagna circondato dagli angeli, gli occhi iniettati di sangue, la cui parola è legge? C’è solo un vecchio che piange, e il pianto diventa rantolo quando il pugnale misericordioso di Giosuè recide la giugulare secondo i riti prescritti dalla legge. Mosè si accascia, il suo sangue santifica la terra. Tremendo, ecco il furore che ritorna, salendo nelle narici del nuovo sacerdote guerriero e dei suoi compagni attraverso l’odore acre del sangue impastato alla polvere. Un nuovo santo è pronto a guidare il popolo, a fare la volontà del grande mistero indicibile, incarnarla nella sua forma più terribile.

III. Amare

Vitalità dell'Amore: non si può, senza essere ingiusti, parlar male di un sentimento che è sopravvissuto al romanticismo e al bidet.
                                       (Cioran, Sillogismi dell'amarezza)

Adamo ed Eva nell’Eden sono animali, vivificati eternamente dallo spirito divino. Sono fuori da spazio e tempo: e siccome lo spirito divino è eros, possiamo dire che sono il prototipo degli amanti. Nel giardino la vita scorre beata, identica in ogni istante, è un tripudio di gioia. E questa gioia è talmente grande da essere cieca e senza memoria. Gli amanti sono perfettamente in accordo con sé e con tutto ciò che li circonda. L’amorevole sguardo di dio li accompagna sempre, e loro non se ne curano né se ne rendono conto più di tanto. Sono le macchinette ben funzionanti del grande orologiaio che, compiaciuto, si bea del meccanismo universale da lui prodotto. Nell’Eden tutto è prototipo e nulla è reale.

Si dice che Lucifero, in quanto prima e più grandiosa emanazione di dio, fosse destinato a tutelare la parte più importante nella creazione: l’immagine, l’uomo. Egli era il protettore dell’umanità. E qual è la prima azione che Satana fa come protettore? Si ribella a dio e contemporaneamente travia ciò che avrebbe dovuto proteggere. Il primo angelo di dio non volle inginocchiarsi al cospetto della creatura, immagine del suo creatore. Qualcosa era mutato nel suo cuore: si era distolto da dio e la superbia lo aveva inorgoglito, facendogli concepire l’immonda volontà di spodestare il creatore. Questa è la verità delle scritture, questa la spiegazione conclusiva e rassicurante: giustifica il male, giustifica la sofferenza e si arrocca nel cieco fanatismo della giustizia.

Ma la storia che libri segreti raccontano parla diversamente di questo evento, accaduto all’inizio dei tempi, prima della storia ma dopo la creazione. Possiamo supporre che quello, il momento in cui Lucifero lancia il suo assalto al trono celeste, sia stato l’attimo di distrazione, il sussulto all’interno dell’imperitura onnisciente grazia divina che permise la caduta dell’umanità dall’Eden al mondo: il Padreterno, in preda a ben altre preoccupazioni, distolse lo sguardo dalle meccaniche creature amanti.

Possiamo supporre che la ribellione degli angeli, guidata dalla più sfavillante emanazione dell’arcano intelletto divino, non sia stata un atto di superbia ma un diversivo, un segreto  che l’angelo caduto custodisce gelosamente nell’antro della sua pena, nascosto ancor più dalla coltre dell’apparente dannazione. Quale sarebbe questo segreto? Il primo angelo, il prediletto, è anche colui che comprende dio meglio di dio stesso: egli sa che una creazione asfittica come quella dell’Eden è una farsa. Quel microcosmo ha bisogno del costante sguardo vigile del creatore per andare avanti: è poco più che un diorama. Lucifero sa che, nonostante le migliori intenzioni, quello che dio ha messo in atto non è  la grandiosa opera d’amore che aveva in mente da sempre.

L’amore è qualcosa di diverso dalla semplice concordia idilliaca mantenuta in essere eternamente da uno spirito onnipotente. L’eternità non contempla diversità: tutto è sempre identico e perfetto. Come si può amare in una situazione del genere? Sicuramente si sperimenta una costante beatitudine. Beato, dio lo è sempre e per sempre. Un amore per la propria natura più intima è ben poca cosa, quasi un insulto all’onnipotenza divina.

Dio non lo sa, ma Lucifero sì: per amare dovrà soffrire, dovrà sperimentare la ferita dell’alienazione e dell’abbandono. Solo così dio potrà ben dirsi perfetto, solo e non prima di aver integrato nella sua eterna beatitudine il tarlo della diversità, l’inconcepibilità dell’annientamento.

Sarebbe un’imperdonabile leggerezza, una blasfemia addirittura, vedere nell’azione dell’angelo che più era intimo alla mente e al cuore del creatore, il più vicino alla grazia eterna, una malvagità senza scopo. Perché incolpare Lucifero vale egualmente ad incolpare la volontà divina, accettare che la grazia sia corrotta ab aeterno. E non è forse questo il più grave dei peccati, la bestemmia contro lo spirito che non sarà mai perdonata?

Lucifero sa che il Padre Celeste, nella sua eterna grazia e beatitudine non può ancora comprendere l’amore, che pure lui stesso ha generato, perché non ha ancora potuto esperirlo. Nell’eternità non ci sono luoghi né estensioni, tutto è spirituale; ma solo i corpi possono desiderarsi. Nell’eternità non c’è storia; ma solo nel tempo si può dare l’amore.  La beatitudine è oblio, nell’amore c’è il ricordo. Ma nell’eternità non si danno ricordi, perché tutto è attuale e indifferenziato. Lucifero lo sa perché ha avuto in dono dalla divina prescienza incosciente una capacità che dio stesso non ha: il dubbio. Lucifero comprende il limite della macchinazione cosmica, l’errore insuperabile all’interno dello stato di grazia del creatore e del suo giardino. Per far conoscere l’amore a tutto il creato, anche la sua parte più perfetta dovrà sperimentare l’alienazione e l’abbandono. Solo così potrà liberare lo spirito erotico intrappolato nelle maglie di una creazione fin troppo perfetta e immobile.

Lucifero concepisce un grande progetto, un progetto terribile e grandioso: egli si assumerà la responsabilità della rottura dell’equilibrio, macchiandosi di quelli che agli occhi del cosmo sembreranno dei peccati immondi contro la benevolenza divina. Romperà l’equilibrio e, convogliando su di sé odio e riprovazione, permetterà che il cosmo possa conoscere il nulla oltre all’essere, la mancanza e quindi il desiderio, una felicità sofferente ma consapevole, opposta all’immobile e idiota beatitudine della contemplazione eterna.

In tutto questo, la sua opera più premurosa, le sue cure più amorevoli sono riservate alla creatura che gli era stata assegnata: egli è l’arconte dell’umanità, il grande protettore, e non se ne dimentica perché sa che, in tutta la faccenda, sarà proprio la creatura a soffrirne maggiormente – dopo di lui, beninteso. Proprio per questo, mentre nei cieli imperversa lo scontro fra gli angeli, un suo fantasma, ispirando il serpente, fa a sua volta dono a Adamo e Eva della qualità più preziosa che egli possiede: la capacità di discernimento, il dubbio.

Non sarà stata una decisione facile, possiamo e dobbiamo immaginare un Lucifero che per eoni, durante l’eterna pace senza tempo della prima creazione edenica, abbia dissimulato questi gravi pensieri mentre univa la propria eterea voce nell’eterno coro angelico, perennemente in giubilo. Eppure alla fine si decise all’azione: possiamo e dobbiamo credere che egli abbia vagliato tutti i possibili esiti, abbia simulato infiniti mondi e infinite possibilità pur di trovare un’altra strada. Ma se, infine, si decise proprio a questa – il tradimento e la corruzione dell’eden – dobbiamo ammettere che era l’unica possibile, l’unica che avrebbe permesso, a costo di inenarrabili sacrifici, l’effimero miracolo dell’eros.

Dio e la creazione erano un blocco immutabile: Lucifero crea uno squarcio nella perfezione, dona una grande vagina al cosmo. Da questa vulva, orizzonte degli eventi che separa eternità e storia, dio e mondo, si genereranno le infinite forme presenti in nuce nell’Eden. D’ora in poi tutto sarà possibile, ciò che era stato seminato darà luogo a infinite e incontrollabili fruttificazioni. Non più un orto, ma una lussureggiante giungla in cui anche dio, deposta l’effimera rabbia sortita dopo il turbamento dell’eterna quiete, amerà inoltrarsi.

27 pensieri su “Tre tentativi di teologia contemporanea

  1. Non ho capito se questo testo viene proposto come brano narrativo, o come saggistica di interpretazione biblica, o come riflessione teologica e filosofica su alcune questioni da sempre oggetto di meditazione, o come variazione paradossale che si ricollega alle interpretazioni esoteriche di parti delle antiche scritture (non solo Bibbia, ma anche testi di altre religioni), o come rivelazione di miti e simboli con alla base una interpretazione antropologica e psicologica insieme.
    Tutte le possibili versioni hanno già una ricca letteratura che viene alimentata continuamente, e quando non si tratta di ricerche scientifiche, storiche e antropologiche (come quelle James Frazer: «Il ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo: magia e religione» e «La crocifissione di Cristo»), si tratta sempre, in fondo, di narrativa d’invenzione, sia che si presenti come tale, sia che tenti di assumere vesti teologiche o filosofiche o d’altro tipo. Possiamo chiamarla “narrativa di pensiero”, ma si sviluppa comunque sempre sulla base di propri e personali pensieri e non ha i caratteri né della “teologia razionale”, né della “teologia” esegetica dei testi, né della riflessione logica o dialettica della filosofia.
    Questo corpo letterario assai esteso ha già prodotto molte dottrine o comunque narrazioni eterodosse. Una delle più antiche è quella degli “uomini preadamitici”, cioè degli uomini creati da Dio prima di Adamo ed Eva e poi distrutti, forse, qualcuno dice, perché la creazione gli era riuscita male e prima di arrivare ad Adamo ed Eva gli ci sono voluti cinque o sei altri tentativi.
    Le interpretazioni eterodosse, da quelle antiche a quelle moderne, passando per la lunga stagione plurisecolare del “libertinismo” fra Cinquecento e Ottocento, investono praticamente ogni aspetto e soprattutto ogni figura della Bibbia. Cristo stesso è stato dato per sposato e con figli, prima di dedicarsi, malvolentieri, alla sua missione. Giuda, in diverse versioni, non è il traditore ma il fedele servitore di Dio, doppiamente santo, perché alla fedeltà a Dio ha sacrificato anche la glorificazione in terra che invece, di solito, i santi “normali” non disdegnano, anzi, in più casi, ricercano accanitamente.
    C’è anche la versione secondo cui Dio non ha creato il cosmo per sua volontà e per amore, ma perché necessitato dalla stessa “natura del tutto” (il Fato della mitologia antica greca, romana, nordica? Il Logos?) alla quale anche lui appartiene e in qualche modo deve obbedienza; per cui avrebbe creato senza amore prevedendo che la sua creatura gli avrebbe dato dei problemi e gli avrebbe fatto concorrenza.
    E poi ci sono tutte le narrazioni di diverse tradizioni culturali che vedono il cosmo e la materia come degenerazione della sostanza divina, come opposizione e ostacolo, per cui il compito dei “saggi” e dei “santi” sarebbe proprio l’annientamento della materia e la restaurazione della sostanza divina nella sua integrità.
    Non mancano nemmeno le sette sataniche che non vedono in Lucifero il Signore del male, ma una specie di Prometeo biblico, il ribelle a Dio per amore dell’uomo. E il testo di Giuseppe De Angelis mi sembra in parte richiamarsi a posizioni analoghe.
    ***
    Ma di tutto questo noi non possiamo fare “scienza” e nemmeno una razionale teologia o filosofia, perché mancano i documenti. I testi che abbiamo, di qualunque religione siano, anche i più antichi, e il Vecchio Testamento è certamente fra i più antichi, sono testi redatti in epoche storiche molto successive al periodo in cui si sono formati quei contenuti. Dobbiamo immaginare almeno due o tre millenni precedenti alle prime scritture bibliche, o a quelle dell’Antico Egitto, o sumeriche, o ai racconti mitologici di Esiodo e della tradizione greca antica, o dei testi Vedanici (che vengono datati fra il duemila e il mille a.C.). Due o tre millenni nel corso dei quali si formano quelle narrazioni, circolano fra gli antichi popoli, si diversificano e articolano nei nomi dei personaggi (dei, semidei, eroi) e negli eventi, vengono adattate alle circostanze storiche, si trasformano in testi religiosi delle diverse tradizioni.
    Lucifero, come altre figure della Bibbia, è presente anche in mitologie e religioni antiche molto diverse, comprese le mitologie greca e romana antiche. Ciò testimonia sia l’antichità del mito sia la sua circolazione in tutte le aree indoeuropee, mediorientali e dell’Africa del Nord (e oltre).
    In questi miti confluiscono e si miscelano cose molto diverse. Essi sono infatti collegati sia all’astronomia e alla “personificazione” zodiacale del cielo; sia all’analogo lavoro di osservazione e “lettura” dei fenomeni della Terra (dei e miti della terra, del mare, delle foreste, dei fiumi ecc.); sia alle tradizioni storiche dei singoli popoli e sia, infine, alle loro pratiche di tipo religioso e alle pratiche di tipo sociale e politico. In sostanza ci sono dei miti che hanno funzione “scientifica” (di conoscenza), altri funzione storica (di conservazione della memoria collettiva), altri religiosa, altri ideologica-politica (e l’elenco non è esaustivo). Nel mito, poi, si mescola la narrazione vera e propria e il simbolo. Il che vuol dire che il mito ha significato per quello che racconta ma anche per quello che rappresenta come simbolo che a volte è esplicito e a volte è implicito al racconto. Di tanti miti il significato simbolico sì è ormai completamente perso, anche perché nel corso dei millenni sono stati riutilizzati in relazione a significati simbolici diversi. La produzione di miti, ovviamente, non è un fatto riservato al mondo antico. Anche oggi la società continua a produrre miti di vario tipo.
    Ciò che caratterizza il mito, in generale, è che contiene o parte da qualcosa di vero e di reale, però raccontato in modo che perde i connotati della verità realistica per diventare o verità simbolica o presunta e falsa verità realistica (come i miti politici che ci danno per reale ciò che non è reale, pur avendo una qualche radice nella realtà) o anche verità ideale che rappresenta una verità che non c’è ma che ci potrebbe essere.
    Il mito manipola la realtà, in buona o in mala fede. E la manipolazione può essere più diretta o meno diretta. I miti antichi, proprio per i millenni trascorsi, si presentano a noi, spesso, come cipolle i cui molteplici strati rappresentano diversi significati sovrappostisi nel tempo. Ogni tanto sorge qualcuno che aspira a spiegare i significati originali, i più antichi e nascosti, e qualche volta pretende d’esserci riuscito.
    Ad esempio tutta la ricca letteratura di “archeologia del mistero” o “fantarcheologia”, alla quale uno scrittore come Peter Kolosimo ha dato molta visibilità, ha spiegato miti antichi in vario modo, unendo e interpretando in modo eterodosso (o forse basterebbe dire in modo non approvato dagli studiosi accademici) dati storici, dati archeologici e dati filologici (lingue antiche, testi antichi, alfabeti ed etimologie). Una delle spiegazioni meno convincenti eppure, all’apparenza almeno, fra le più documentate, è che moti miti antichi derivano da visite di extraterrestri e dal loro contatto con i terrestri. La confusione e poca chiarezza e interpretabilità dei miti deriverebbe dal fatto che la loro forma scritta è il residui di ciò che rimane di una tradizione orale che via via ha corrotto la conoscenza iniziale. Corrotta perché non compresa, perché relativa a una conoscenza scientifica troppo superiore a quella degli umani di 10/6 mila anni fa.
    Una spiegazione analoga è quella che non fa riferimento agli extraterrestri bensì ai mitici abitanti della mitica Atlantide, popolo che era già arrivato, secondo alcuni “fantarcheologi”, a una conoscenza scientifica addirittura superiore a quella che abbiamo oggi. Con la catastrofica distruzione di Atlantide i pochi superstiti si sarebbero sparsi fra gli altri popoli, ai due lati dell’Oceano Atlantico, ed i miti dei Maya e degli Aztechi come quelli dell’Antico Egitto, dell’India ecc. non farebbero altro che riferirci, in modo corrotto e ormai incomprensibile, ciò che rimane del sapere degli atlantidi, fiorito oltre diecimila anni fa e trasmesso per via orale per circa sei/ottomila anni prima di venire registrato per iscritto.
    ***
    Possiamo sbizzarrirci all’infinito, ma resta il fatto che, al di là delle interpretazioni storiche e documentate dall’archeologia e dalla filologia, non possiamo leggere a piacere nostro i testi antichi attribuendogli i più diversi significati, sia che si tratti di fare teologia creativa o filosofia o altro.
    Ogni nuova interpretazione, ogni nuova narrazione, non è altro che narrativa di invenzione, per quanto possa, in qualche caso essere suggestiva anche sul piano del pensiero teologico, filosofico e politico.
    E come tutte le narrazioni di invenzioni sono piene di affermazioni “esistenziali” e “psicologiche” che ci rimandano al pensiero dell’autore e non al senso storico del mito di cui si discute.
    ***
    Ad esempio
    1) De Angelis scrive: «Gli uomini vivono esistenze misere, fatte di infelicità, invidia e sofferenza. Sempre pensano a un modo per allontanare il dolore, ignorando che il dolore è un tutt’uno con loro stessi, con la vita che conducono e le regole che si impongono di seguire». Ma chi ‘ha detto? Qui è De Angelis che parla riecheggiando vecchi luoghi comuni che possono essere validi per alcuni e falsi per altri, trattandosi di questione soggettiva. Io, personalmente, non ritengo di vivere un’esistenza misera e infelice, e tanto meno fatta di invidia e di sofferenza (ma si noti questa strana unione di piani diversi: l’invidia è un male psicologico, la sofferenza può essere un male fisico e qualche volta inevitabile). Né penso sempre a come allontanare il dolore, a cui penso solo quando ho un dolore e ci penso per eliminarlo o attenuarlo, ma in quel momento e con gli strumenti del realismo scientifico. E nemmeno ignoro che nell’esistenza abbiamo anche momenti di dolore, diversi per lunghezza e intensità, e nego che questi siano un tutt’uno con la vita che conduco e con le regole che seguo. Piuttosto è un “tutt’uno” con la natura animale dell’uomo che le regole di condotta possono diminuire se non eliminare del tutto.
    Analizzata parola per parola, l’affermazione di De Angelis è sia una banalità sia una banalità falsa se la si vuole prendere come teoria generale. È solo un tipico espediente narrativo che serve per costruirci sopra una serie di conseguenze romanzesche.
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    2) «Di fronte all’ineluttabilità di questa situazione, ecco che si rivolgono a dio». Di nuovo, chi l’ha detto? Il timore del male come origine delle religioni è solo una fra le tante teorie e una delle più parziali e incomplete. Oltre al “timore” David Hume e tanti altri hanno aggiunto la “speranza”. Ma siamo ancora a un livello parziale e solo sul piano psicologico. Bisogna aggiungere, per arrivare alla fondazione delle religioni, la funzione della religione collegata alla conoscenza. È la spinta a conoscere, più della paura e della speranza escatologica, che porta a formulare teorie mitiche sulla realtà del cielo e della terra, sulla loro origine e sul loro comportamento. Le religioni sono la prima risposta “scientifica” ai problemi posti dalla realtà e la prima risposta “tecnologica” nel tentativo di umanizzare la realtà, piegarla al proprio volere e comunque influenzarla, se non altro stringendo un patto fra noi e fra chi “è” che comanda la “natura”.
    Le religioni moderne tendono a presentare la fede religiosa come un qualcosa di disinteressato, come amore dovuto al proprio creatore. Se con la preghiera si chiede una grazia, si è consapevoli che si tratta di una grazia, cioè di un atto non condizionato. Nelle religioni antiche (e nel vissuto religioso popolare anche oggi) il rapporto fra l’uomo e le divinità, compreso ciò che emerge da passi del Vecchio Testamento, è spesso diverso: è un rapporto contrattuale. Dio promette qualcosa in cambio dell’obbedienza e l’uomo obbedisce aspettandosi di essere ricambiato. I rapporti fra uomini sono alla radice dei rapporti fra uomo e Dio, e viceversa. In qualche modo Dio non è il Dio di tutti, ma è il Dio del popolo con il quale ha un vincolo contrattuale.
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    3) «Abramo, il primo uomo senza dèi, è figlio di un costruttore di idoli. Suo padre costruisce statue che vende ai templi e a chiunque voglia un’effigie da adorare nel suo giardino, nel suo palazzo o nella sua umile stamberga».
    Questa è un’industria fiorente anche oggi. Ci sono fabbriche che producono statue di Cristo, della Madonna, dei vari santi ecc. E, fuori dalla tradizione cristiana, ci sono fabbriche che producono immagini religiose di altre divinità ecc.
    Questo fenomeno non manca nemmeno nell’islamismo, che vieta immagini di Dio e dei santi. Qui le aziende producono edizioni del Corano ricche di decorazioni simboliche (geometriche, alfabetiche, grafiche di vario tipo), tappeti, amuleti, e tante altre cose che contengono decorazioni che rimandano alla religione e fungono da immagini religiose. Manca la raffigurazione della figura umana, ma non mancano immagini che svolgono la stessa funzione simbolica e di “idola”.
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    4) «Nel deserto il quotidiano sparisce, si è sempre sul limite: di se stessi, della vita, del mondo». Il quotidiano, per definizione, è quotidiano e non sparisce mai, semplicemente può trasformarsi se cambia il contesto in cui viviamo il nostro giorno. Quel vivere al «limite di se stessi, della vita, del mondo» non mi pare desiderabile. Sarebbe ridurre il quotidiano ai più elementari livelli della sopravvivenza fisica. Un simile impoverimento non è augurabile e non credo nemmeno che favorisca l’elevazione mentale e spirituale. Si medita meglio sui misteri del mondo stando seduti in una comoda casa o abbrutiti dal vivere in un deserto?
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    5) «Mosè è stato intimo troppo a lungo con dio. Di fronte al mistero tremendo la vita perde senso. E allora ci si attacca alle piccole cose: una passeggiata al calar della sera, il piacere di un sorso d’acqua che calma l’arsura del giorno».
    A me parrebbe più vero il contrario. La noia delle piccole cose e della passeggiata al calar della sera fanno perdere il senso della vita, che si può riacquistare di fronte al «mistero tremendo» e a contatto con Dio [ammesso che questo contatto lo si possa vivere davvero].
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    6) «Nell’Eden tutto è prototipo e nulla è reale». Se si legge la Bibbia e la si interpreta per quello che dice, questa affermazione è falsa. L’Eden è dato come realtà e non come un qualcosa in cui nulla è reale. Se invece si usa la Bibbia come pretesto per innestarvi sopra le proprie divagazioni, allora a me parrebbe più provocante la divagazione opposta, cioè questa: nell’Eden tutto è reale perché direttamente creato da Dio; al di fuori dell’Eden tutto diventa irreale, provvisorio, un fantasma che esce dal nulla per ritornale al nulla, in continua e tormentata tensione per ritornare a ciò che solo è reale, all’Eden perduto.
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    7) «E qual è la prima azione che Satana fa come protettore? Si ribella a dio e contemporaneamente travia ciò che avrebbe dovuto proteggere». Ma perché Satana [ma è preferibile il nome originale, Lucifero, Satana è il nome che gli hanno poi dato gli avversari, quando lo hanno definito il maligno, il calunniatore, il ribelle, l’agente del male] si ribella a Dio? Perché poi si ribellano anche Adamo ed Eva? E perché nel corso dei secoli si ribellano in tanti, compresi Robespierre e Marx e Ennio Abate?
    Forse sarebbe più interessante una divagazione narrativa su questo perché che è alla radice del mito.
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    8) «Ma la storia che libri segreti raccontano parla diversamente di questo evento, accaduto all’inizio dei tempi, prima della storia ma dopo la creazione».
    Chiederei a De Angelis la citazione bibliografica di questi libri per vedere se li ho già letti o per leggerli se non li conosco ancora.
    *
    9) «L’eternità non contempla diversità: tutto è sempre identico e perfetto. Come si può amare in una situazione del genere?».
    Non credo che De Angelis, come chiunque altro, sappia che cos’è l’eternità, termine che non ci rimanda a nessuna idea precisa ma che, come il termine “infinito”, nasce per estensione, per accumulo, di ciò che non è eterno né infinito. Immaginiamo l’eternità come un susseguirsi di tempi, non come un qualcosa senza tempo, che è fuori dalla nostra possibilità di determinazione concettuale. Quando diciamo: «l’eternità è un tempo che non finisce mai», nella frase ci mettiamo la nozione di tempi finiti e la negazione. Ma che cosa sia l’eternità “in positivo”, non lo sappiamo e tanto meno sappiamo se esiste davvero e, se esiste, quali siano i suoi attributi.
    Quindi la frase citata è priva di senso reale e assume un significato solo in relazione al modo in cui noi, con la nostra psicologia e il nostro vocabolario, la formuliamo. Ma non credo possibile pensare che a questa realtà soggettiva corrisponda una qualche realtà oggettiva con gli stessi caratteri.
    L’eternità, qualunque significato si voglia dare al termine, è un “noumeno” kantiano che sta al di fuori di ogni nostra esperienza e di cui non possiamo propriamente dire nulla.
    Invece, su che cosa pensiamo noi quando pensiamo all’eternità, possiamo dire un sacco di cose, comprese quelle che dice De Angelis, ma compreso anche il suo contrario, cioè che l’eternità contempla la diversità e che nulla è mai identico e perfetto, che l’eternità rende possibile l’amore, anzi, è la condizione migliore per amare.
    Qualunque affermazione può essere interscambiabile.
    *
    10) Ma se davvero l’eternità non contemplasse la diversità, da dove sarebbe scaturita quella singolarità che ha dato origine al cosmo? E a Giuseppe De Angelis? E al suo racconto? Se non c’è una qualche tensione fra stati diversi del fisico e/o dello spirituale, se tutto è identico e perfetto, tutto sarebbe destinato a restare immutabile e nulla potrebbe essere nato (creato o no che sia) da quella realtà compatta.
    Evidentemente qualche diversità doveva esserci, magari all’interno del pensiero di Dio fra il proposito di continuare a dormire e quello di creare qualcosa. E la tensione creata dai diversi livelli di diversità ha rotto gli equilibri, ha creato la volontà e la decisione, ha messo in moto tutto.
    *
    11) «Dio non lo sa, ma Lucifero sì: per amare dovrà soffrire, dovrà sperimentare la ferita dell’alienazione e dell’abbandono. Solo così dio potrà ben dirsi perfetto, solo e non prima di aver integrato nella sua eterna beatitudine il tarlo della diversità, l’inconcepibilità dell’annientamento».
    L’amore è in funzione della vita animale (sia nei suoi aspetti fisici, sia in quelli mentali e psicologici). Non c’è amore senza vita animale ma non ce n’è nemmeno il bisogno. Chi sentirebbe il bisogno dell’amore?
    Perché mai Dio dovrebbe creare la vita animale per bisogno d’amore? E perché dovrebbe aver bisogno dell’amore (e della sofferenza ecc.) per potersi dire perfetto?
    È evidente che questa “teologia” alla De Angelis pensa a Dio come a una persona con qualità umane, magari una specie di super-persona, di superman, ma dilaniato dagli stessi sentimenti umani e, pertanto, incompleto (cioè, non completamente umano) se non ha esperienza dell’amore, del soffrire, dell’alienazione, dell’abbandono. E solo dopo aver provato tutto questo potrà dire di avere integrato «nella sua eterna beatitudine il tarlo della diversità, l’inconcepibilità dell’annientamento».
    Questa, se si vuole chiamare teologia, sarebbe “teologia irrazionale”. Perché mai l’essere eterno e beato e perfettissimo per definizione dovrebbe aver bisogno di queste esperienze per «ben dirsi perfetto»? Perché De Angelis non prova a spiegarcelo in modo più chiaro e logico?
    E se a Dio, per completare se stesso, serve questa esperienza, perché allora non credere che allo stesso modo gli serva qualunque altra esperienza? Ad esempio anche questa mia di ora che sto scrivendo un commento al testo di De Angelis? Ma forse è proprio così, forse questa esperienza gli serve; forse non sono io a scrivere ma è Dio stesso in incognito che scrive tramite le mie mani.
    Forse tutta la realtà non è altro che Dio e solo Dio che si compiace di esperimentare tutto: da quel che si prova a creare l’universo fino a quel che si prova a vivere come una zanzara. Anzi, come la zanzara che mi ha appena punto.
    Ci vorrebbe un po’ di consequenzialità logica per legare insieme le cose che, nelle narrazioni d’invenzione, scappano da tutte le parti inseguendo le ragnatele delle divagazioni mentali.
    *
    12) «Sarebbe un’imperdonabile leggerezza, una blasfemia addirittura, vedere nell’azione dell’angelo che più era intimo alla mente e al cuore del creatore, il più vicino alla grazia eterna, una malvagità senza scopo. Perché incolpare Lucifero vale egualmente ad incolpare la volontà divina, accettare che la grazia sia corrotta ab aeterno. E non è forse questo il più grave dei peccati, la bestemmia contro lo spirito che non sarà mai perdonata?».
    Dunque, non è Lucifero che si è ribellato a Dio suo creatore, ma è Dio che si è ribellato a se stesso e ha creato Lucifero affidandogli la missione di suo competitore. Stanco di giocare da solo, Dio ha creato il suo avversario per intavolare partite prima a due e poi a squadre. Partite che, col tempo, sono degenerate in accanite battaglie raccontate da migliaia di libri, di romanzi, di film e di serie TV.
    E noi, nelle vesti di spettatori, di fan, ma talvolta anche in quelle di giocatori, partecipiamo al gran gioco cosmico. Siamo nella squadra di Dio o in quella di Lucifero? Tanto, comunque vada, chi vince è sempre il “Boss” e negli spogliatoi torniamo tutti figli del Creatore.
    *
    13) «Lucifero concepisce un grande progetto, un progetto terribile e grandioso: egli si assumerà la responsabilità della rottura dell’equilibrio, macchiandosi di quelli che agli occhi del cosmo sembreranno dei peccati immondi contro la benevolenza divina. Romperà l’equilibrio e, convogliando su di sé odio e riprovazione, permetterà che il cosmo possa conoscere il nulla oltre all’essere, la mancanza e quindi il desiderio, una felicità sofferente ma consapevole, opposta all’immobile e idiota beatitudine della contemplazione eterna».
    Ecco il Lucifero prometeico, il santo che si sacrifica per il bene di Dio e degli uomini. Ecco il capro espiatorio volontario.
    Ma Lucifero, nella sua ribellione, ha avuto dei seguaci. Egli era un serafino, quindi collocato ai vertici della complicata gerarchia celeste. Nella ribellione lo hanno seguito creature celesti di ogni ordine e grado e naturalmente anche molti angeli, che sono quelli del livello inferiore. Tutti questi seguaci lo avranno seguito per motivi diversi e molti proprio per il gusto di ribellarsi e di dedicarsi ai piaceri del male. Pertanto è da presupporre che ci sia stata una successiva ribellione contro il Lucifero prometeico e che oggi frammisti all’umanità ci siano tanti diavoli veri, ex angeli di ceto subordinato, ex angeli custodi, ex angeli protettori dei boschi e dei fiumi ecc., che godono nel fare il male perdavvero, nel convincere gli uomini ad amori folli e perversi in cui l’amore diventa esercizio di potere maniacale, al furto e all’omicidio, alla perdita di sé nella droga chimica e nella ludopatia ecc. ecc.
    E magari un prossimo teologo ci rivelerà che Lucifero si è alleato di nuovo con Dio perché il suo progetto prometeico ha creato una situazione degenerata e insostenibile. Del resto una parte dell’umanità, e altre creature analoghe (ad esempio i vampiri umanoidi), sono già coalizzate contro questo Lucifero revisionista tornato in seno a Dio.
    *
    14)
    «Dio e la creazione erano un blocco immutabile: Lucifero crea uno squarcio nella perfezione, dona una grande vagina al cosmo». Sì, mancava il sesso femminile, la grande vagina da fecondare (da Dio padre, ovviamente), affinché la Perfezione creasse il cosmo. Abbiamo scoperto il vero significato della Trinità: Dio padre, Perfezione (essere femminile dotato di grande vagina) e Cosmo. Il Cosmo è il figlio.
    ***
    Tutta questa narrazione ci parla di esseri fatti a immagine dell’uomo. Qui non si esce dalla creazione di Dio a immagine e somiglianza dell’uomo.
    È evidente che l’uomo che scrisse [Genesi, 1,26]: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza», ha prima creato Dio a propria umana somiglianza e poi a questo Dio specchio di se stesso ha attribuito la creazione dell’uomo. E, attribuendogli la creazione dell’uomo, gli ha attribuito anche il potere di dominio sull’uomo, e lui, che come scrittore sacro rappresentava Dio, si è sentito in dovere di rappresentare Dio anche come detentore del potere sull’uomo.
    ***
    Restano in sospeso le domande cruciali alle quali potrei dare una risposta narrativa che, almeno per ora, tralascio. Le domande sono:
    1) Perché Dio ha creato qualcosa?
    2) Perché ha creato Lucifero?
    3) Perché ha creato il cosmo?
    4) Perché ha creato l’uomo?
    5) Perché Lucifero si è ribellato?
    6) Perché Adamo ed Eva si sono ribellati?
    7) Perché la ribellione è un comportamento costante nella vita dell’uomo?
    8) Contro che cosa ci si ribella?
    9) E, soprattutto, la domanda delle domande: perché l’Ur-Dio ha creato il Dio conosciuto dai terrestri? E chi è questo Ur-Dio, Dio primigenio, Dio antichissimo, Dio da cui sono derivati tutti gli altri dei, compresi gli dei creatori del cielo e della terra?

  2. Interessante questa ontologia del male di Giuseppe De Angelis, per mia formazione un po’ troppo libera la lettura dei testi biblici (e talmudici) ma interessante.
    Le obiezioni dell’amico Abate invece (scusami Ennio) non colgono il segno. Se De Angelis avesse impiegato in questa sua ontologia… come dire? “metaforica”, Platone al posto della Tanakh, o Ovidio o, per dire, i deliri di Ezra Pound, cosa sarebbe cambiato?

    1. @ Ezio

      Piccola correzione. Le obiezioni al testo di Giuseppe De Angelis non sono mie ma di D.S. [Donato Salzarulo]

  3. Giorni fa, in montagna, una bambina di sette anni, alla quale era da poco venuto a mancare il nonno, mi ha chiesto se i morti diventano prima fantasmi o angeli. Mi ha guardato, interrogativamente, col sorriso e la serietà dei bambini. Mi sono commosso. Ho risposto che non lo sapevo, capendo che per lei si trattava di verità incontestabili. Leggendo le pagine di Giuseppe De Angelis ho provato, più o meno, la stessa sensazione: di trovarmi di fronte a una persona che cerca una verità che gli necessita (“non di solo pane vive l’uomo”), alla quale aspira, e per la quale mette in gioco se stesso, il suo vissuto, la sua cultura.Qui entra in campo la facoltà mitopoietica dell’uomo, quella che non dovrà mai cessare, pena la sua morte interiore. Non ha senso contestare analiticamente le singole affermazioni di questo testo, perché sono esse stesse la sua verità, e non altro. Si è liberi di accettarle o meno, ma non si può sostenere che sono vere o false. Sono le verità visionarie di G. De Angelis. Lo stesso discorso potrebbe valere anche, poniamo, per l’Apocalisse di S. Giovanni, anche se è considerato un libro sacro.
    Ogni civiltà ha espresso i propri simboli, i propri miti, che sono stati oggetto di studio anche per le loro affinità (cfr. C. G. Jung ‘Le strutture antropologiche dell’immaginario’; oppure di Jung, kerényi ‘Paralipomeni allo studio scientifico della mitologia’). E’ un dato che non si può contestare. Una domanda posta male è il chiedersi se devo credere a Platone. a Spinoza o a Carlo Marx (sì, proprio a lui, perché nel fondo della sua teoria c’è uno spirito messianico che rivela radici ebraiche). Devo, solo, accontentarmi di capire la ‘verità’ di Platone, la ‘verità’ di Spinoza, la ‘verità’ di Marx.
    Le domande che pone, alla fine del suo intervento, Luciano Aguzzi (forte della sua cultura enciclopedica e di uno spirito socratico), che egli sa benissimo non essere alla portata dello scibile umano, possono trovare soltanto delle risposte genericamente astratte (ma non per questo meno reali), o confessionali. Considero solo l’ultima delle sue domande, quella che egli ritiene giustamente come la domanda delle domande: chi è l’Ur-Dio. Prendo per buona la risposta del ‘Vecchio Maestro’ Laotse nel suo Tao-te-King (Classico della Via e della Virtù) dove afferma, sostanzialmente, che Dio si può intuire ma di Lui non si può dire niente. Ci si avvicina attraverso la Via della Virtù (tratto comune a tante religioni). Quella dell’intuizione è una componente che richiama, a suo modo, anche Spinoza.
    Ma interrogo anche Gesù, per il quale Dio è il Padre, stabilendo così un rapporto filiale fra umano e divino (già presente nell’A.T.: ” e si chiama figlio di Dio”, ” e si vanta di avere Dio per Padre” (Sapienza 2, 13-16).
    Mi si consenta questa mia testimonianza (visto che anche le pagine di G. De angelis lo sono): la vita, l’opera e il pensiero di Cristo sono stati il gradino che mi hanno avvicinato a Dio. Al di là di tutta la costruzione teologica che si può elaborare attorno al suo pensiero ( a partire da Isaia, 53 e segg.) e delle pretese dogmatiche della Chiesa, voglio richiamare l’attenzione solo su alcune frasi che gli vengono attribuite dagli Apostoli, di una disarmante semplicità ma di una profondità abissale, del tipo: “Lasciate che i fanciulli vengano a me”, vale a dire: non tenetemi separato dall’innocenza, che è l’essenza della vita. Oppure:”Non cade un passero dal cielo che il Padre mio non lo sappia”, vale a dire: tutti gli esseri viventi fanno parte di una stessa unità che dipende dal Padre; o ancora:” I miti erediteranno la terra”, che a mio avviso contiene buona parte della filosofia buddhista; e anche: “Ti darò un’acqua di vita eterna” alla Samaritana del pozzo; e infine: “Beati i poveri di Spirito, perché di loro è il Regno dei cieli”; e cioè: non pretendete di conoscere Dio, ascoltate la sua voce (‘shema israel’: ascolta Israele. Già, perché Gesù è stato un ebreo rivoluzionario). E altre ancora.
    Questo, da ultimo, cerco di fare anch’io: il vuoto della mente, il silenzio, per lasciare spazio alla Voce, convinto come sono che ‘in interiore homine habitat veritas’ (Agostino, per il quale la verità si raggiunge solo nella relazione). E questa relazione può comportare delle visioni (anche se sulla base di proiezioni antropologiche, come sostiene Luciano Aguzzi, per delle narrazioni immaginarie) o a partire dai ‘desiderata’ di Giuseppe De Angelis.

    1. “Non ha senso contestare analiticamente le singole affermazioni di questo testo, perché sono esse stesse la sua verità, e non altro. Si è liberi di accettarle o meno, ma non si può sostenere che sono vere o false. Sono le verità visionarie di G. De Angelis. Lo stesso discorso potrebbe valere anche, poniamo, per l’Apocalisse di S. Giovanni, anche se è considerato un libro sacro.” (Casati)

      E perché no? Perché la verità di un soggetto (singolo, individuo o gruppo) dovrebbe essere o accettata o rifiutata (in blocco, magari)? Imparare a distinguere tra vero e falso, tra apparenza (immaginario, visionarietà) e realtà oggettiva (e condivisibile anche da altri) mi pare una conquista fondamentale del pensiero filosofico e una necessità per la sopravvivenza in un mondo che non è un paradiso terrestre. Se la verità soggettiva resta solipsistica e senza relazione con gli altri e il mondo circostante, a che (e a chi) serve? Verrebbe meno anche la possibilità di ritenerla verità, mi pare; perché il vero richiede una separazione, una distinzione da qualcosa ad esso contrapposto che diciamo falso. Con tutte le complicazioni che seguono.

  4. “Dio è una domanda, la più antica, la più attuale: vuoi essere libero? Vuoi svegliarti dal lungo sonno dei sensi e dello spirito?” Ecco che quindi tutto si è spostato sul singolo che, in un teatro grandioso, si sente interpellato. È lui il vero personaggio che campeggia in scena. Che si racconta sperduto in un deserto tra i vivi, in guerra coi padri invecchiati, e intende gestire con tutto se stesso (con tutte le fantasie onnipotenti e luciferine su di sé) la relazione amorosa. Ahi! psicologia andante femminista su un giovine uomo colmo di intenzioni. Eppure…
    Aggiornando il mito su quasi 11 miliardi di creature e circa 6 di sesso femminile, tra prodigi tecnici e orrori politico-ecologici, tra incertezze generative e stupori desideranti, chissà che nuove storie nascerebbero. Un po’ più esplicite quanto alle implicazioni dei soggetti narranti, cinema e letteratura danno una mano.

  5. @ franco casati
    Scrivi: «Non ha senso contestare analiticamente le singole affermazioni di questo testo, perché sono esse stesse la sua verità, e non altro. Si è liberi di accettarle o meno, ma non si può sostenere che sono vere o false. Sono le verità visionarie di G. De Angelis».
    Infatti, non ho sostenuto che le posizioni di De Angelis sono vere o false, la mia lettura e il mio giudizio conseguente verte su altri aspetti, che sono:
    *
    1) La tipologia del testo. Non mi pare che si tratti di teologia ma di narrativa del tutto soggettiva e di invenzione. La teologia è un disciplina che, addirittura, secondo molti suoi cultori, rientra nel numero delle «scienze religiose». Scienza, il che significa uno specifico contenuto e un metodo che ne circoscrivono l’ambito. La teologia poi si suddivide in branche diverse: una è la “teologia razionale” o ” naturale”, che si occupa dell’ontologia (esistenza e attributi di Dio) sulla base della sola ragione; un’altra è la “teologia rivelata”, che si occupa dell’ontologia sulla base delle sacre scritture e in pratica tende a chiarire il loro significato, quindi ciò che Dio ha detto di sé e ciò che ha prescritto agli uomini. Come la filosofia, anche la teologia può essere teoretica o morale, applicata alle situazioni concrete e sviluppare una casistica o formulata per dottrine generali. A ciò si aggiungono le diverse teologie come dottrine particolari che rientrano nella prima o nella seconda branca sopra citate. Ad esempio la “teologia negativa”, che non è una disciplina di studio ma una dottrina che rientra nella teologia razionale e nella filosofia. Infine ci sono altre discipline che solo in senso improprio si possono far rientrare nella teologia. Fra queste c’è lo studio esegetico dei testi sacri, che è più un lavoro storico e filologico che teologico in senso proprio; lo studio dei testi religiosi, di santi o di altri, e lo studio, dal punto di vista teologico, di qualsiasi testo, letterario o no.
    Il testo di De Angelis non rientra in nessun tipo di teologia. Sì occupa, sì, di Dio e di problemi teologici, ma con metodo narrativo e soggettivo. Con questo stesso metodo abbiamo centinaia di racconti, di romanzi e di riflessioni autobiografiche ecc. che trattano uno o l’altro dei temi classici delle discipline teologiche. Ma è il metodo che fa la differenza
    Tanti anni fa, quando ero appassionato della lettura di romanzi di fantascienza, avevo messo via una raccolta di circa quaranta romanzi che avevano al loro centro un qualche problema teologico. Ma erano romanzi, non trattati o saggi o monografie teologiche. Erano speculazione di fantasia. Ricordo che uno trattava il problema del nome originale e segreto di Dio, del perché molte religioni ne proibiscono la conoscenza e comunque la pronuncia e di che cosa succederebbe se questo nome venisse scoperto e pronunciato a voce alta. Un altro trattava il problema del peccato originale, se fosse esclusivo degli abitanti della Terra o comune anche agli abitanti di altri pianeti. Un terzo trattava delle figure analoghe a Gesù Cristo presenti nelle tradizioni religiose di popolazioni extraterrestri. Un quarto dei rapporti fra i “costruttori di stelle”, una specie di super esseri, quasi divini, e Dio stesso. Un quinto di un problema assai intrigante: se Dio, nella sua onnipotenza, ha il potere, volendo, di suicidarsi. O se non lo ha, se è condannato a vivere, quali limiti ne derivano alla sua pretesa onnipotenza? E così via, temi a volte basati su una particolare lettura di passi biblici, a volte su speculazioni paradossali di temi della tradizione, altre volte su interpretazioni che hanno veste realistica. In fondo anche la Divina Commedia è piena di teologia, in modo dottrinale, mentre Giovanni Papini, nel suo grande libro intitolato «Il giudizio universale», fa della teologia applicata, e in uno dei suoi tanti racconti fa della teologia portata al paradosso: se la forma migliore per imitare Cristo è soffrire come lui, allora la sofferenza maggiore che più unisce a Dio è la sofferenza eterna, quindi la condanna all’inferno. Per cui il protagonista del racconto uccide e subito, prima di potersi pentire ed essere perdonato, si suicida in modo da garantirsi l’inferno. L’inferno, dunque, come sofferenza eterna scelta per essere più simile a Cristo.
    Di speculazioni teologiche a diversi livelli, dall’intreccio con le condizioni esistenziali a quello con l’elaborazione dottrinale, da quello storico a quello di proiezioni in altri tempi e mondi, la letteratura è piena. Ma nessuno legge questi libri come si leggono i libri di teologia, perché sono romanzi e gli autori li propongono come narrativa, anche se a volte hanno consapevolmente l’ambizione di suscitare determinate riflessioni.
    Questo è, ad esempio, il caso di José Saramago, ateo e anticattolico, che ha scritto, fra l’altro, «Il Vangelo secondo Gesù Cristo» e «Caino», due romanzi pieni di polemica anticristiana.
    *
    2) Un secondo aspetto di riflessione del lettore è la coerenza del testo. Anche un testo di fantasia, un racconto o un romanzo, devono essere coerenti. La vita può essere incoerente, ma il racconto dell’incoerenza della vita deve essere formalmente coerente. Le incongruenze possono essere di vario tipo: una è quella banale dello scrittore che si dimentica di quello che ha già scritto e che, ad esempio, cambia nome a un personaggio, o colore dei capelli o qualche altro particolare. Queste incoerenze, di solito, vengono eliminate in fase di rilettura, di editing, di correzione delle bozze. Ma oggi, con editori che non si servono di editor specializzati, capita che certe incoerenze, per quanto banali, sfuggano e il lettore se li ritrova nel testo stampato. Una seconda incoerenza più difficile da individuare è l’incongruenza dei tempi e delle età. L’errare sulla scaletta temporale di svolgimento degli eventi del romanzo o del racconto. Una terza incoerenza ancora più difficile da cogliere è quella concettuale, cioè affermare una cosa e poi, poche righe o qualche pagina dopo, sostenere il contrario. Spesso è l’autore stesso che non riesce a cogliere questo tipo di incoerenza perché non è allenato ad analizzare i concetti nella loro formulazione sintattica e lessicale e non vede la contraddizione che esiste fra una affermazione e l’altra. Eppure anche un narratore, e l’autore di qualsiasi tipo di testo, non può fare a meno del controllo del testo anche dal punto di vista della coerenza. Se questa manca, il testo presenta lacune, debolezze, incongruenze che ne inficiano il valore e il significato stesso.
    Da questo punto di vista mi pare che il testo di De Angelis presenti diverse incongruenze e alcune le ho rilevate a titolo di esempio.
    *
    3) Un terzo aspetto di riflessione riguarda il contenuto nel “merito”, come si dice. Ma non nel merito in termini di verità o falsità, perché, quando si tratta di narrativa di invenzione e di speculazione soggettiva non c’è paragone di verità o di falsità. Ma in questo caso il merito riguarda l’originalità o meno del racconto, se il contenuto è intelligente e interessante o banale e scontato, se la scrittura è efficacie o andante.
    Anche da questo punto di vista il racconto di De Angelis presenta difetti che ne diminuiscono l’efficacia. Il nucleo principale, l’idea ontologica di giustificazione del male, o meglio, di una certa esperienza necessaria alla stessa personalità di Dio e all’avvicinamento fra Dio e gli uomini, è un po’ affogata in una improbabile (come coerenza formale e concettuale) delineazione della figura di Lucifero e quindi non emerge con chiarezza, con coerenza e forza di convinzione.
    *
    4) Quanto poi alla verità o falsità – e siamo al quarto livello di lettura – non se ne può dire nulla all’interno del racconto. Ma se si leggesse il racconto come se… si trattasse di un capitolo di un testo di teologia e al suo interne avesse un termine di paragone, allora si dovrebbe dire che non è vero perché non ha un fondamento né nella teologia rivelata, cioè nei testi sacri delle tradizioni religiose, né nelle basi di partenza della teologia razionale o della filosofia teoretica e morale o della teodicea intesa come parte della teologia razionale che studia il rapporto fra la giustizia di Dio e il male presente nel mondo. Per diventare vero all’interno di un sistema teologico e morale dovrebbe presentare anche le basi del sistema, visto che queste non possono essere quelle tradizionali e comuni della teologia cristiana. Allora il giudizio di verità o falsità riguarderebbe, come è logicamente più giusto, l’intero sistema e in particolare i suoi principi di base.
    *
    5) Quindi, l’analisi, più che la contestazione, analitica ha senso, sia perché si tratta di normale esercizio di lettura e diritto del lettore ad esprimersi sul testo che gli è stato proposto, sia perché non è vero che «le singole affermazioni di questo testo, […] sono esse stesse la sua verità, e non altro». Sarebbero la sua verità se fossero coerenti e se presentassero i fondamenti su cui si basano, ma se l’autore è incoerente, l’incoerenza non può essere la verità di nessuno, bensì l’errore dell’autore. Anche un testo di invenzione, ripeto, deve seguire un filo logico o, se non lo segue, ne deve giustificare la mancanza e deve avere, nel contesto del racconto, una sua logica alternativa, una sua giustificazione, come avviene nelle favole e in tanti romanzi d’avventura e di fantasy.
    *
    Un autore che scrive un testo e lo pubblica si mette in gioco e in circolo. La lettura e la critica fanno parte del gioco e del percorso del circolo. Tanto più è ambizioso lo scritto, tanto più dev’essere seria la lettura e la critica, perché si possa progredire insieme.

  6. @ cristiana fischer
    «“Dio è una domanda, la più antica, la più attuale: vuoi essere libero? Vuoi svegliarti dal lungo sonno dei sensi e dello spirito?” Ecco che quindi tutto si è spostato sul singolo che, in un teatro grandioso, si sente interpellato. È lui il vero personaggio che campeggia in scena».
    Sono d’accordo. Le domande su Dio riguardano sempre l’uomo. Di Dio non sappiamo nulla e non possiamo dire nulla. Possiamo però dire molto sul rapporto, storico, antropologico, psicologico ecc., fra l’uomo e la sua idea di Dio e tutta la produzione relativa di testi, di arte, di dottrine, di istituzioni e così via.
    E possiamo anche dire molto sui nostri desideri relativi a Dio e al rapporto fra Dio e noi. Dal desiderio ateo che Dio non ci sia a quello che sia presente e che ci sorregga e aiuti in ogni cosa.
    Fa parte di questo discorso umano anche il valorizzare la presenza, in molte religioni antiche e moderne, di divinità femminili e di sacerdotesse. Ma mi pare che questo aspetto sia piuttosto relegato a pura curiosità eccentrica o al compito degli specialisti di storia delle religioni che scrivono per altri specialisti e raramente ne esce un libro divulgativo che arriva a un largo numero di lettori. Ci sono delle storiche cattoliche che hanno pubblicato ottimi libri sulla presenza femminile nella tradizione cattolica, valorizzando figure di sante, di predicatrici, di scrittrici religiose, di mistiche.
    Un lavoro analogo da parte dei laici è carente e spesso è in funzione polemica e negativa, anti religiosa e antiecclesiastica, anziché essere in funzione positiva nel presentare il ruolo avuto dalle donne in diverse religioni antiche e moderne.
    C’è, ad esempio, una antica tesi, basata sull’interpretazione filologica di antichi nomi di dei, che il primo nome di Dio non fosse né maschile né femminile, ma maschile e femminile insieme, come se noi lo chiamassimo «Luilei» unendo due pronomi. La Chiesa cattolica ha condannato queste tesi con l’accusa di voler dare a Dio attributi androgini o, peggio, sebbene sia poi la stessa cosa, usando il termine peggiorativo di ermafrodita. Mentre quei filologi sostenevano non che Dio avesse entrambi i sessi, ma che fosse al di fuori di una qualificazione sessuale e che in sé avesse pertanto l’insieme delle qualità maschili e femminile e perciò capace di rivolgersi allo stesso modo ai maschi e alle femmine.
    Mi risulta però che gli studiosi di questi problemi siano quasi tutti maschi.
    *
    Anche a livello di romanzi scritti da donne, più raramente, rispetto agli uomini, questi trattano problemi religiosi in cui le donne siano protagoniste, anche nel genere fantascientifico, con Dee e istituzioni religiose che dominino i mondi.
    Lo stesso si può dire per il cinema e per i fumetti.
    Ci sono film, considerati femministi, che a me sembrano proprio il contrario. Un esempio è il classico e fortunato «Thelma & Louise» (1991, regia di Ridley Scott). Bel film, dove le due protagoniste, che si ribellano a una insoddisfacente vita matrimoniale, scappano e si sottraggono così al controllo degli uomini, Ma usano questa libertà passando da un errore all’altro, uccidono e rubano e alla fine, anziché farsi catturare dalla polizia, si uccidono. Ma dove sta l’emancipazione della donna? Come può dirsi femminista un film dove le donne, appena sfuggono al controllo oppressivo degli uomini, si mostrano leggere, sciocche, incapaci di controllarsi e di avere una vita migliore? Dove si danno a cose pazze che le porta alla morte? E dove sta il messaggio di liberazione in quel salto nel nulla che è il suicidio?
    Io sarò scemo, ma a me, quel film ha fatto solo rabbia e mi è parso offensivo verso le donne. Eppure ha avuto tanta fortuna fra le donne e tante critiche positive da parte delle donne che evidentemente si sono riconosciute nel desiderio di libertà e nella fuga, nella sfida delle due amiche ai maschi, ma non hanno riflettuto sulle conseguenza, sul fatto che la sfida è stata persa, che i delitti contro gli uomini li hanno pagati diventando assassine e infine morendo. Non c’è certo un messaggio positivo di emancipazione.
    Questo film è stato fatto da un regista maschio. Ma ci sono anche tanti film di registe donne in cui le donne sono maltrattate in tutti i mondi, ridotte a prostitute, a sceme che non sanno gestire la propria vita, a vittime che non sanno ribellarsi e rendersi autonome e così via. Perché certe donne registe trattano i temi femminili con morbosità e maschilismo peggio degli uomini?

    1. Su Ridley Scott: è appunto una libertà che si ritorce contro chi se l’è presa… Così impara! È tanto piaciuto per l’atto iniziale di ribellarsi. Ma era tanti anni fa, oggi non significa più niente.
      Non so a che film di registe ti riferisci, alcune però, per “denunciare” una dura situazione vera, devono anche descriverla.

      1. Ricercare ora nomi, titoli e date mi porterebbe via troppo tempo. A memoria, senza controllare, e per restare in casa Italia e a nomi classici, si possono citare alcuni film di Lina Wermüller e di Liliana Cavani. Ottime registe, ma film spesso dalla psicologia complicata e morbosa dove le donne sono complici delle malefatte maschile o autrici direttamente di malefatte analoghe.
        Due registe e due donne sicuramente molto emancipate, autonome e libere, ma sulla loro “sororità” – stando ad alcuni loro film, non a tutti – avrei molti dubbi.
        Si tratta solo di denuncia? O anche di complicità e di identificazione con comportamenti maschili negativi?
        Quando («Travolti da un insolito destino ecc.»), alla fine del film, le spettatrici donne – come gli spettatori uomini – concludono dicendo che Raffaella è una stronza, è pur sempre di una donna che parlano.

  7. Gent. Luciano Aguzzi, la ringrazio per il suo excursus teologico che è sempre utile e prezioso (un giorno raccoglierò i suoi dotti interventi in una piccola Enciclopedia del Sapere). Lei ha ragione su tutto quello che scrive; ma se ricorda, le mie considerazioni sul testo del De Angelis sono partite da un’ingenua domanda di una bambina, anche questa incoerente e campata per aria, ma vera nella sua intenzione. Ho sostenuto, infatti, che quella di De Angelis è la ‘sua’ verità, incoerente fin che si vuole ma, a mio avviso, giustificata dalle sue intenzioni e spinte personali. Anch’io non mi ci ritrovo in tanti punti di questa speculazione teorica (se la considero tale), in alcuni sì. Lei afferma di avere letto tanti romanzi e altro sullo stesso tema (a me, invece, questo genere di letteratura non ha mai attratto); ma pur nella loro falsità vogliamo togliere a questi autori la libertà di esprimersi? Con tanto apprezzamento da parte mia e stima.

  8. @ Franco Casati
    Non voglio togliere a nessuno la libertà di scrivere, nemmeno ai lettori, ai recensori, ai critici.
    In quanto alle verità personali, liberissimo ognuno di avere le sue. Ma se sono troppo personali interesseranno a pochi. Non ci sono verità personali più personali di quelle della poesia lirica che esprime i moti interiori dell’animo, le proprie emozioni, i propri sentimenti. Ma la poesia lirica diventa grande quando l’espressione personalissima si eleva, in qualche modo, nella forma, nella profondità del contenuto e nella verità, a espressione universale. È grande quando ognuno leggendola si emoziona ed è costretto a dire: «sì, è proprio così».
    Per l’ingenuità dei bambini gli adulti a volte si sorprendono, si meravigliano di certe loro “verità” o di certe loro uscite paradossali. Ma poi la cosa finisce lì, a meno che l’adulto non riprenda e trasformi le frasi del bambino e ne faccia un caso esemplare o un gustoso aneddoto.
    In un lontano mese di luglio ero commissario agli esami di maturità in un istituto di Napoli, ospite di un collega padre di un bambino di cinque anni. Stavamo parlando di cose complicate, di Kant e del concetto di “trascendenza” e della posizione di Hegel rispetto a Kant. A un certo punto il padre chiese al bambino che sembrava ascoltarci attento: «Tu che ne pensi, per Hegel il noumeno è conoscibile o no?». Il bambino sembrò riflettere molto seriamente e dopo una manciata di secondi rispose: «Mi fa venire il mal di pancia». La risposta ci fece scoppiar dal ridere e, a parte ciò che il ragazzo volesse veramente dire, ci parve una risposta saggia e demolitrice e l’accogliemmo come un invito a passare ad altro.
    Ma non la prendemmo come verità filosofica.
    Spesso le “verità incontestabili” dei bambini sono solo il riflesso delle verità contestabili degli adulti che gliele hanno insegnate o suggerite.
    La riflessione critica non può fermarsi a questo livello. Il commuoversi o no è un fatto personale che non fa testo in tema di analisi di una posizione teologica. Io mi commuovo tante volte e in tante occasioni; spesso anche leggendo un libro che mi piace e interessa o guardando un film. Ma se poi devo scrivere una recensione, non mi baso su quella emozione, che può essere solo un elemento fra i tanti e da valutare con molta cautela e senso autocritico, e ironia.
    Uno scrittore di saggistica dovrebbe essere come un atleta: qualunque sia la sua passionalità e facilità di commuoversi e di lasciarsi coinvolgere nelle relazioni con le persone e con le cose, quando è in gara deve diventare freddo come il ghiaccio e concentrarsi per dare il massimo, sgombrando la mente di ogni altra preoccupazione. La sua verità si misura unicamente dalla sua posizione di arrivo. Se si portasse dietro le passioni, le agitazioni, le commozioni della vita extra-gara, in gara non combinerebbe niente. Così per un pensatore: se si porta dietro le passioni personali smette di essere un pensatore e diventa un servitore delle sue passioni, smette di cercare una verità valida per tutti e si ferma a quella sua personale verità che si adatta alle sue passioni. E non arriva al traguardo. Ma in questo caso, la narrativa è uno strumento migliore della saggistica, può meglio servire le passioni e renderle interessanti.

  9. Gent. Luciano Aguzzi, conversare con lei è un piacere (ringraziamo Ennio Abate che col suo sudore gestisce questo sito aperto al confronto); invidio la sua memoria, che lei gestisce come un archivio ben ordinato ( io credo di avere dimenticato il 99,9 per cento di tutto quello che ho letto e studiato). Dopo il mio intervento su De Angelis mi aspettavo di dovermi scontrare con la corazzata Luciano Aguzzi, che le sue bocche da fuoco avrebbero cercato di affondare il mio povero ‘vasel’ disperso in un ‘gurgite vasto’. Non vorrei che si pensasse che ho preso le parti del De Angelis perché ammetto le sue idee. Difendo solo le mie. In soldoni, mi sento di dire questo: la domanda della bambina, e non si trattava di mal di pancia, la sua esigenza profonda su un piano esistenziale, simbolicamente ha più valore di tutto lo scibile contenuto nell’Enciclopedia Treccani (libero di non essere d’accordo); proseguo: le persone che hanno fatto cultura, specialmente i grandi pensatori (mi fa piacere che lei lasci un maggiore spazio di libertà ai narratori), fortunatamente non si sono posti il problema se fossero o meno in linea con i ‘canoni’ della cultura. Tanti sono stati dei rivoluzionari presi per pazzi. Se ci si propone di fare un ‘compendio’ va bene l’atteggiamento atletico che descrive lei, ma se si fa cultura o arte forse è meglio passare dall’osteria, come fecero Machiavelli e Caravaggio. In questi giorni mi sono preso la briga di rivedere il ‘Convivio’ di Platone, visto che viene additato come un esempio di cultura in alternativa ad altro. Ho riscoperto che vi si citano almeno due miti in voga all’epoca (per il solitario pensatore Kafka il mito non ha alcun valore di verità perché tanti sono in contraddizione fra di loro su uno stesso tema), e che, alla fine, Socrate distingue fra l’amore naturale e quello ideale. Col che ha detto tutto e niente. Quante sono le coppie vere che rientrano in queste due categorie? Io sono d’accordo che per Platone si parli di cultura, ma sono d’accordo anche con un altro pensatore quando afferma ‘queste cose sono negate ai sapienti’. (E povera filosofia, che si è fatta ‘fenomenologia’ e, poi, culto della ‘tecnica’…).
    Sa, invece, qual è il mio vero cruccio? non tanto capire, da vivo, cos’è la verità o preoccuparmi di rapportarmi in modo ‘corretto’ di fronte alla cultura, ma constatare che i libri di una piccola casa editrice vengono esclusi da una Fiera del Libro perché non conformi alle idee ‘culturali’ degli organizzatori. Veda lei se non è d’accordo con me… Forse un giorno avremo modo di parlare della politica culturale del ‘900, e oltre, in Italia. Di sicuro Luciano Aguzzi, per il quale provo ammirazione e simpatia, ne sa più di me e avrà tante cose da insegnarmi!

  10. @ Casati
    Noi navighiamo talvolta fra onde di mare che cercano di portarci a fondo, altre volte fra pietraie e distese di sassi che ci spezzano i piedi o fra sabbie dove si perde ogni via. Se vogliamo, dopo tanta fatica, tornare a casa, tornare in città, tornare al dialogo civile, abbiamo bisogno di usare strumenti di orientamento.
    *
    1) Lo sapeva Platone che non esce, nella sua ricerca, da ciò a cui lo conduce la ragione. Solo arrivato ai confini di questo ampio campo, che però sembra sempre piccolo a chi mira all’assoluto, Platone utilizza il mito per proiettare la ragione oltre i confini e scandagliare quel mistero che la ragione non basta a conoscere, comprendere e descrivere. Ma il mito platonico non è contro la ragione, bensì è un suo prolungamento. Potremmo dire che si tratta di speculazioni fanta-filosofiche che ci suggeriscono possibili sviluppi della filosofia, come le speculazioni fanta-scientifiche ci suggeriscono possibili sviluppi della scienza.
    *
    2) Machiavelli passava del tempo all’osteria per divertimento, ma tornato al suo studio non dimenticava di leggere i classici e di meditarci sopra. E dell’osteria gli restava la conoscenza pratica dell’animo umano, non l’ebrezza del vino. E quella conoscenza pratica la riportava alle tradizioni e ai comportamenti che rintracciava nel lungo corso della storia. Così poi la contraddizione sostanziale del pensiero e del comportamento umani si traducono nella contraddizione, sanata solo parzialmente e solo idealmente, fra il “Principe” e i “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”. Il Niccolò in carne e ossa preferisce la Repubblica, ma pur di tornare in campo, attivo e con un ruolo di qualche rilievo, è pronto a mettersi al servizio di un tiranno e dei suoi delitti.
    Machiavelli non è uno studioso distaccato dal sangue della storia, né un idealista che lo denuncia e vi si oppone sempre, ma uno disposto a lasciarsi intingere di quel sangue. Non è una figura che io amo. Trovo molto opportunismo nella sua biografia che poi ritrovo anche nelle contraddizioni della sua opera.
    *
    3) Caravaggio usa bussole molto efficaci come pittore, ma come uomo è troppo incline alla rissa e al coltello e non è certo un personaggio da proporre come modello. Mi limito ad ammirarne l’opera pittorica.
    *
    4) Nell’immenso mare della cultura, dei libri, delle dottrine, bisogna muoversi con libertà e un personale senso critico che non può prescindere anche da un senso etico. Ci sono grandi autori che hanno detto tante sciocchezze. Non vale, per me, nessun principio di autorità. La verità non è un’emanazione dell’autorità, ma il frutto di una ricerca che non dimentica mai né la realtà né gli strumenti appropriati del metodo.
    La verità non è mai, per me, una rivelazione che proviene da qualcun altro, chiunque sia, Dio reale o presunto o provvisorio compagno d’osteria o dottrina di partito o di Stato. La verità è un qualcosa da verificare con la propria esperienza e, quando ciò non è possibile, e siamo costretti a basarci sulla testimonianza (testimonianza, non rivelazione), bisogna esaminare i caratteri della testimonianza e verificarne l’attendibilità. Non tutti i testimoni sono testimoni validi. Alcuni si sbagliano in buona fede, altri mentono in mala fede.
    *
    5) Non so se i complimenti che rivolgi alla mia cultura siano una innocente ingenuità o una maliziosa ironia. Non si tratta di ampiezza o meno di cultura, ma di strumenti con i quali ci navighiamo dentro. Il lettore di un solo libro può essere più profondo del lettore di diecimila libri. Non è il numero di libri che conta (e tu ne menzioni parecchi, per cui deduco che la tua cultura è ampia, probabilmente più della mia), ma il lavoro che poi la nostra testa fa con tutto ciò che ci passa dentro, a partire dall’esperienza prima ancora che dai libri.
    *
    6) Stammi bene e trascorri un buon Ferragosto, festa dell’Assunzione di Maria, e prima ancora festa di altre cose in altre tradizioni religiose e culturali. E per me, anche festa mia personale, perché ho avuto la ventura di nascere alle ore 12 di un 15 agosto di un anno in cui era ancora in corso la Seconda guerra mondiale e appena partorito mia madre è scesa dal letto e con me in braccio è corsa al rifugio perché sulla casa di campagna in cui i miei erano sfollati passavano i proiettili dell’artiglieria tedesca che provenivano dalla parte nord del Metauro e quelli dell’artiglieria alleata che provenivano dalla parte sud. Era la famosa Linea Gotica, confine mobile, sebbene fortificato, di distruzione e di sangue. Da ragazzino, lungo il Metauro, si andava a caccia di lucertole e di uccelli e alla ricerca di residuati bellici. E non ci incontravamo solo con le casematte ora vuote e abbandonate, con i bossoli dei proiettili e con le bombe ancora inesplose di cui conoscevamo il pericolo, ma capitava anche di trovare residui di altre guerre precedenti, fino a quella della famosa Battaglia del Metauro fra Romani e Cartaginesi, quando sul campo non rimase solo la testa mozza di Asdrubale . In quel lontano 22 giugno del 207 a.C. in 24 ore, uccisi all’arma bianca e quindi uno per uno, in scontri uomo a uomo, morirono dai 30 ai 60 mila soldati (le stime sono molto incerte), prevalentemente cartaginesi.
    Questa è la storia: diecimila anni di crimini, secondo alcuni. Come fare a meno di buoni strumenti di navigazione, etica compresa, se si vuole uscire dalla storia del crimine e entrare in una storia della civiltà?

  11. Condivido in pieno questa affermazione di Luciano [Aguzzi]:

    «La verità non è mai, per me, una rivelazione che proviene da qualcun altro, chiunque sia, Dio reale o presunto o provvisorio compagno d’osteria o dottrina di partito o di Stato. La verità è un qualcosa da verificare con la propria esperienza e, quando ciò non è possibile, e siamo costretti a basarci sulla testimonianza (testimonianza, non rivelazione), bisogna esaminare i caratteri della testimonianza e verificarne l’attendibilità. Non tutti i testimoni sono testimoni validi. Alcuni si sbagliano in buona fede, altri mentono in mala fede».

    Via aggiungerei, per riportare il discorso dal piano più filosofico a quello storico, che per me è irrinunciabile e non va MAI perso, un richiamo alle difficoltà di dire o scrivere la verità del pur stagionato Bertolt Brecht:

    « La grande verità della nostra epoca (che non è sufficiente limitarsi a riconoscere, ma senza la quale non è possibile scoprire nessun’altra verità importante) è questa: il nostro continente sta sprofondando nella barbarie perché i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione vengono mantenuti con la violenza. A che cosa servirebbe uno scritto coraggioso dal quale risulti la barbarie delle condizioni nelle quali stiamo per cadere (il che in sé è verissimo), se poi non risultasse chiara la ragione per cui veniamo a trovarci in queste condizioni? Dobbiamo dire che degli uomini vengono torturati perché i rapporti di proprietà rimangano immutati. Certo, se lo diciamo, perderemo molti amici che sono contrari alla tortura perché credono che i rapporti di proprietà si possano mantenere anche senza di essa (il che non è vero).
    Dobbiamo dire la verità in merito alle barbare condizioni del nostro paese, dobbiamo dire che è possibile fare ciò che è sufficiente a farle sparire, e cioè qualcosa che modifichi i rapporti di proprietà.
    Dobbiamo dirla inoltre a coloro che di questi rapporti di proprietà soffrono più di tutti, che hanno il maggiore interesse a cambiarli, ai lavoratori e a coloro che possiamo trasformare in loro alleati perché in realtà non partecipano nemmeno loro alla proprietà dei mezzi di produzione, anche se partecipano ai guadagni.
    E per quinta cosa dobbiamo procedere con astuzia.
    E queste cinque difficoltà dobbiamo risolverle tutte contemporaneamente perché non possiamo ricercare la verità sulla barbarie di certe condizioni senza pensare a coloro che soffrono di questo stato di cose; e mentre – combattendo costantemente ogni impulso di viltà – cerchiamo di scoprire le vere connessioni, mirando a coloro che sono pronti a utilizzare la loro conoscenza, dobbiamo anche pensare a porger loro la verità in modo tale che divenga un’arma nelle loro mani e al tempo stesso con tanta astuzia che il nemico non si accorga che gliela porgiamo e non possa impedirlo.
    Tutto ciò viene richiesto allo scrittore, quando gli si chiede di scrivere la verità».

    (https://moltinpoesia.blogspot.com/2012/11/ennio-abate-sulle-cinque-difficolta-per.html).

    Oltre a ringraziare Luciano per la profonda passione politica e civile che alimenta la sua erudizione e proprio per il piglio analitico dei suoi commenti, che ha il vantaggio di mantenere il discorso aperto e verificabile anche da chi non lo condividesse (cosa che non può avvenire con le verità soggettive, anche le più sentite da chi le annuncia o commoventi per chi le ascolta), visto che ha avuto« la ventura di nascere alle ore 12 di un 15 agosto di un anno in cui era ancora in corso la Seconda guerra mondiale e appena partorito mia madre è scesa dal letto e con me in braccio è corsa al rifugio perché sulla casa di campagna in cui i miei erano sfollati passavano i proiettili dell’artiglieria tedesca che provenivano dalla parte nord del Metauro e quelli dell’artiglieria alleata che provenivano dalla parte sud», gli faccio gli auguri di buon compleanno.

  12. C’è da stupirsi? C’erano le kapo’. L’oppressione distorce il volto, no? Cavani indaga la complicità delle vittime. Una più dura sindrome di Stoccolma.

  13. Gent. Luciano Aguzzi, abbiamo recitato due ruoli diversi ma, alla fine, la pensiamo allo stesso modo, di questo sono profondamente convinto. Ci troviamo a combattere su una stessa trincea umanistica, oggetto di continui bombardamenti, e umanitaria. Questa è la nostra guerra, se non andremo incontro a qualcosa di peggio, in un prossimo futuro che sembra già iniziato. La via della cultura, razionale, è sicuramente la strada maestra che avvicina alla verità. Se ci sono altre forze da mettere in campo e che ci possono essere di aiuto sta a noi valutarle e accettarle, nella massima libertà e nel rispetto degli altri. Auguro anche a lei un buon Ferragosto, sperando che cessi questo caldo infernale…

  14. Un caro saluto, specialmente all’amico Donato che ha permesso al testo di circolare su questo blog. Ringrazio tutti della calorosa accoglienza e del bel dibattito che ne è scaturito. Esso è stato, per chi scrive, fonte di ispirazione e grandi riflessioni. Non me ne vogliano le altre e gli altri, in questa prima (?) risposta mi rivolgerò a colui che più minuziosamente ha smontato e penetrato le righe di questo scritto.

    Egregio dott. Aguzzi, mai più nome fu adeguato del suo: la precisione, la dovizia con cui analizza ogni virgola del testo denotano un acume fuori dall’ordinario. Così come è impressionante l’immensa cultura di cui è portatore e che padroneggia egregiamente, nell’argomentazione come nella confutazione. Lei è un umanista di prim’ordine, non c’è che dire. Prima di entrare nel vivo della polemica, devo tuttavia citare l’esergo del secondo capitoletto.

    Ciò che differenzia i pagani da noi, è che all’origine di tutte le loro credenze vi è un terribile sforzo per non pensare in quanto uomini, per mantenere il contatto con l’intera creazione, cioè con la divinità. (A. Artaud, Eliogabalo)

    Il testo è uno sforzo di questo tipo ed è disseminato di queste citazioni con le quali si voleva dare un indizio circa la natura dello stesso. Pensi al titolo: si parla di “tentativi”, la qual cosa esclude la precisione ed il rigore del trattato scientifico. Inoltre, questi tentativi sono di “teologia contemporanea”. L’utilizzo che si fa dei due termini è come se fossero autoesculdenti. Davvero si può fare teologia contemporanea? Da materialista, ritengo che oggi la teologia non sia più possibile come scienza – con buona pace dei teologi – a meno che non sia intesa come ricostruzione filologica del dato di fede (e quindi si riduca la scienza al lavorìo filologico). C’è stato un tempo in cui la teologia era la disciplina attraverso cui si indagava il reale. Questo tempo è finito. Per quanto possa essere trattata con tutti i crismi accademici, non credo che oggi la teologia possa essere ancora considerata una scienza se non da coloro che mantengono una fede intorno agli oggetti che essa studia.

    Lei dice:

    “Ciò che caratterizza il mito, in generale, è che contiene o parte da qualcosa di vero e di reale, però raccontato in modo che perde i connotati della verità realistica per diventare o verità simbolica o presunta e falsa verità realistica (come i miti politici che ci danno per reale ciò che non è reale, pur avendo una qualche radice nella realtà) o anche verità ideale che rappresenta una verità che non c’è ma che ci potrebbe essere”.

    Mi sembra che in quello che afferma ci sia qualcosa di pericoloso dal punto di vista metodologico. Mi riferisco all’accostamento tra “vero” e “reale”, accostamento non casuale e che caratterizza, a quanto mi pare di comprendere dalle sue parole, la sua visione filosofica. Un’ulteriore sua citazione:

    “Possiamo sbizzarrirci all’infinito, ma resta il fatto che, al di là delle interpretazioni storiche e documentate dall’archeologia e dalla filologia, non possiamo leggere a piacere nostro i testi antichi attribuendogli i più diversi significati, sia che si tratti di fare teologia creativa o filosofia o altro”.

    Qui mi permetto di contraddirla apertamente: è proprio questo che dobbiamo fare, anzi che ci resta da fare. O che resta a De Angelis. Per quello che mi sembra di poter osservare, le teorie dell’interpretazione hanno trovato la propria fine nei forni crematori e nelle fosse comuni del novecento. Nonostante tutto se ne sono custoditi i simulacri all’interno delle accademie per tutto il secolo scorso. Nel nuovo millennio è ora di disfarsene. Non come oggetti di studio, per carità, ma come gli strumenti principali con cui fare scienza. Spero ci si renda conto di quanto sia datata e dannosa la filologia, quando non è fine a se stessa. Senz’altro è fondamentale nella ricostruzione materiale dei testi, tuttavia essa porta in sé una pericolosa eredità. Sappiamo bene cosa vuol dire amare il logos nella nostra cultura. Com’è noto, l’incipit del vangelo di Giovanni recita:

    In principio era il logos,
    e il logos era presso dio
    e il logos era dio.
    Egli era, in principio, presso dio:
    tutto è stato fatto per mezzo di lui
    e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

    Se sia “vero” o meno il contenuto di questi versetti è secondario rispetto al fatto che da essi si è sviluppata la visione cosmologica e scientifica di un’intera civiltà, e di cui non è stata ancora smaltita la pesante eredità. De Angelis a dispetto del suo nome è fatto di carne e sangue e conosce solo il linguaggio di questi ultimi. Da buon materialista chiedo dunque: siamo così sicuri di ancorare ancora e nonostante tutto il metodo scientifico al logos? A quella cosa che per secoli i nostri antenati hanno adorato come divinità, allontanando l’attenzione umana dalle realtà materiali e orientandola verso simulacri simbolici? Temo fortemente che quello che non è riuscita a fare la tradizione scolastica in mille anni di onorato servizio l’abbia fatto la democratizzazione della razionalità negli ultimi due secoli. Se nel medioevo nessuno – salvo qualche decina di sapienti – non soltanto non sapeva, ma nemmeno si interrogava minimamente su cosa fosse – ad esempio – la trinità, oggi ogni individuo mediamente scolarizzato ritiene di poter avere una visione razionale ed esaustiva del mondo che lo circonda. E lo fa ricorrendo alle interpretazioni più elaborate, si pensi al proliferare delle teorie del complotto. Se questo succede non è perché alla massa manchi un corretto addestramento all’ermeneutica bensì perché ne abusa con una sorda e cieca fede di fondo mai questionata, in barba a tutti i Galileo e i Keplero. La fede è questa: esiste una Verità, una Razionalità universale che regge tutto e che aspetta solo di essere scoperta.
    Parlare di verità, specialmente in relazione alla scienza moderna, mi sembra dunque pericoloso. Ho una formazione empirista e materialista: la scienza nasce dal dubbio e nel dubbio prospera. I dogmi vanno bene quando bisogna costruire lampadine, copertoni, carri armati e shuttle: lì per forza di cose bisogna dare per “vere” certe leggi frutto dell’osservazione empirica.

    Per chi scrive, comunque, teologia resta un bel nome: ricorda infatti il grande sforzo aristotelico di mettere a sistema il reale, in uno dei suoi scritti più intensi e complessi. Teologia è la scienza prima, scienza della realtà “separata e immobile […] perché se mai il divino esiste, esiste in una realtà di questo tipo” (Metafisica, E 1/2, 1026 a 15-24; traduzione Giovanni Reale). Una definizione di scienza e quindi della conoscenza ad essa legata che quasi nega se stessa, foriera del limite invalicabile per coloro che tenteranno di praticarla. Una conoscenza così completa e astratta, infatti, per essere padroneggiata avrebbe bisogno di una mente divina. Purtroppo o per fortuna, simili menti non esistono. In quanto esseri umani, quindi, l’unico modo di fare teologia – a mio avviso, sia chiaro – è attraverso il paradosso: usare ciò che per sua natura sarebbe dogmatico, astratto, puro, per inficiare ogni atteggiamento dogmatico, per far saltare dal suo interno ogni pensiero gerarchico. Che poi è quanto hanno fatto nel corso dei secoli passati – quando la teologia andava di moda per intenderci – quegli autori spesso anonimi bollati come eretici da questo o quell’altro concilio ecumenico (ecco i “libri segreti” di cui si parla nel testo, volutamente non citati: utilizzarli come fonti sarebbe stato a mio avviso un insulto a coloro che li scrissero)

    La cito nuovamente e mi avvio a concludere:

    Restano in sospeso le domande cruciali alle quali potrei dare una risposta narrativa che, almeno per ora, tralascio. Le domande sono:
    1) Perché Dio ha creato qualcosa?
    2) Perché ha creato Lucifero?
    3) Perché ha creato il cosmo?
    4) Perché ha creato l’uomo?
    5) Perché Lucifero si è ribellato?
    6) Perché Adamo ed Eva si sono ribellati?
    7) Perché la ribellione è un comportamento costante nella vita dell’uomo?
    8) Contro che cosa ci si ribella?
    9) E, soprattutto, la domanda delle domande: perché l’Ur-Dio ha creato il Dio conosciuto dai terrestri? E chi è questo Ur-Dio, Dio primigenio, Dio antichissimo, Dio da cui sono derivati tutti gli altri dei, compresi gli dei creatori del cielo e della terra?

    Per rispetto della sua attenta analisi, violerò la regola principale che riguarda questa controversa disciplina (In teologia si danno solo domande e mai risposte – Carmelo Bene) e proverò ad abbozzare qualche risposta alle questioni da lei poste e rimaste inevase. Ribadisco, rifacendomi all’esergo artaudiano citato all’inizio, che la logica utilizzata per forza di cose sarà paradossale.
    Rispondo:
    1) dio?
    2) creato?
    3) bella domanda;
    4) un errore imperdonabile;
    5) coazione a ripetere;
    6) può ribellarsi chi è inconsapevole?
    7) perché è un animale scostumato;
    8) alcuni alla propria madre, altri alla morale comune. Troppo pochi al lavoro;
    9) se avessi questa risposta probabilmente sarei beato nel Pleroma. Anzi, sarei un tutt’uno con esso.

    Servus,
    Giuseppe De Angelis

    1. Una rettifica.
      “democratizzazione della razionalità”: costrutto impreciso e poco significativo. Un passaggio che non ho ricontrollato bene, me ne scuso.
      Si voleva intendere:
      “democratizzazione, cioè diffusione, della cultura razionalista nelle istituzioni di irregimentazione delle masse in tempi di pace: scuole e accademie”.

  15. Provo a commentare le affermazioni di Giuseppe De Angelis: accostare il valore delle interpretazioni (o il vero e il reale) ai campi di sterminio e alle fosse comuni mi pare una convulsione ideologica ossessiva. L’azione combinata di materialismo e solo paradosso suggerisce l’immagine di un cane che si morde la coda. La povertà degli argomenti speculativi del suddetto (fare piazza pulita del valore del Logos o della sacralità del Verbo per sostituirlo col semplice dubbio; esecrare la diffusione della cultura razionalista: cosa che metterebbe in dubbio i fondamenti della civiltà contemporanea) mi induce a pensare che le sue precedenti ‘visioni’ non abbiano quella valenza che avevo cercato di attribuire loro. Un po’ di umiltà, da parte sua, non sarebbe del tutto fuori luogo, ai fini della ricerca di una via interiore di umana verità.
    Negare è facile, affermare è più difficile: farlo significa avere il coraggio e la forza psichica per affrontare ‘la notte oscura’ (S. Giovanni Della Croce). Il negazionismo ‘tout court’ non è la lampada di Aladino. La ricerca di una verità assoluta è intrinseca all’essere umano; questo dimostra che non siamo ‘un imperdonabile errore da parte di Dio’, ma creati a sua immagine.
    Non aggiungerò altro per il futuro perché il tempo e le parole hanno un valore.

    1. Gentile Franco Casati,
      l’immagine del cane è piuttosto azzeccata. Un riferimento che non ho esplicitato è senz’altro la scuola cinica, di cui cerco di mettere in pratica i precetti quotidianamente. Quando però parla di umiltà, mi permetto di dissentire: cinici a parte, ho esplicitato tutti gli autori e le correnti di pensiero a cui mi ispiro evitando di attribuire al sottoscritto l’originalità o la particolare acutezza del pensiero espresso. Inserisco queste riflessioni nel solco di una tradizione lunga e articolata: parlare del pensiero materialista come riduzionista o nichilista è alquanto semplificante. E quello che lei chiama “semplice dubbio”è lo strumento più potente a disposizione dell’intelletto umano. Ma non lo dice Giuseppe De Angelis, egli si limita a ripetere e ad applicare la lezione che fu di Democrito, Epicuro, Sesto Empirico, Cartesio, Hume, Kant, per citarne alcuni. Ribadisco: il dubbio è uno strumento. Trovo inoltre capzioso lo slittamento che lei fa circa le mie parole sull’ermeneutica. Ho parlato delle interpretazioni come degli strumenti poco efficaci, non del valore che esse possono avere. Quando si parla di valore si finisce, per come la vedo io, nel campo dell’intimo: un campo in cui non ci può essere discussione ma solo confronto privato. Il passaggio relativo ai campi di sterminio poi, non è un accostamento analogico, ma una deduzione. Io mi limito a commentare quello che si può constatare studiando la storia delle idee e l’influsso delle stesse sugli accadimenti più eminenti della storia umana. Era come per dire: “Interpreta interpreta e alla fine si arriva al forno crematorio”. Ricorderà bene che un grandissimo filosofo e giurista occidentale contemporaneo, Carl Schmitt, ha elaborato al culmine della sua carriera mondana la seguente affermazione: “Il Führer protegge il diritto” (Der Führer schützt das Recht. Zur Reichstagsrede Adolf Hitlers vom 13. Juli 1934). Lo protegge, aggiungerà, in quanto lo “crea”. Non mi risulta che abbia mai smentito queste affermazioni. Inoltre mi piace ricordare che lo Schimtt fu uno dei pochi ad essere assolto al processo di Norimberga: il delitto perfetto.
      Tornando al discorso principale, ritengo che gli eventi e i corpi vengono prima della verità. Una cultura che ha permesso che anche un solo essere umano potesse essere trattato, grazie ad un complesso sistema di legittimazioni giuridiche e filosofiche, peggio di una bestia al macello ha fallito sul piano ideologico. E non sarà l’ideologia o un approccio speculativo a poterla riabilitare. Ho a cuore la cultura da cui provengo, in cui sono stato educato e entro i cui orizzonti navigo: non condivido tuttavia questo assolutismo che traspare dalle sue parole. Tra l’altro lo dicevo nell’intervento precedente: quando parlo di “pericolosità” di un certo pensiero alludo proprio a questo che sta avvenendo nello scambio tra me e lei. L’irriducibilità dei due pensieri appare evidente fin da subito, così come è evidente che tra due pensieri del genere non può che esserci uno scontro. Ma questo scontro è tipico del pensiero dogmatico che prescrive, impone, detta linee e traccia muri invalicabili o sacri: perciò dico che avendo la verità e il logos come modello teorico non si può fare scienza. La scienza è continuo interrogarsi, mettere in discussione i risultati e continuare a ricercare. Il dogma per sua natura tende a fermare questo processo, e il suo appunto quasi offeso alle mie precedenti parole lo dimostra.
      Ora, se come immagino la sua reazione dipende dal fatto che lei appartiene a una confessione religiosa, mi scuso se il contenuto delle mie argomentazioni, o la modalità delle stesse, abbia potuto offendere la sua sensibilità o addirittura il suo credo. Però vede: è proprio per questo che sono convinto del discorso che ho fatto. Fede e scienza non sono compatibili, e quando si fa confusione tra i piani si finisce facilmente al “come si permette”. La scienza non può essere un fatto personale, figuriamoci se può esserlo questo tipo di narrativa.

      Servus,
      Giuseppe De Angelis

  16. Gent. G.De Angelis, rispondo a caldo alle sue affermazioni. In effetti mi era sembrato, col senno di poi, di essere stato un po’ duro nei suoi confronti. Se così è stato me ne scuso. Ma vedo che lei è sopravvissuto ugualmente: la sua cultura la sostiene. Voglio solo specificare quanto segue e poi chiudere questo dialogo. Non sento di appartenere a una confessione religiosa pur sforzandomi di essere cristiano (cosa non facile). Non ho mai parlato di dogmi, tutt’altro. Faccio affidamento sul pensiero che ho elaborato nel corso di una vita, sull’esperienza che ho acquisito, sulla riflessione interiore, sulla mia personale cultura. Non ho verità da vendere a nessuno, e tanto meno da imporre, ognuno se la cerchi con gli strumenti che sono a disposizione di tutti, compresi i testi sacri, che meritano rispetto. Ho fatto una scommessa, nella quale investo psiche e volontà (sono Junghiano, questo sì); intravvedo una via e ciò mi dà fiducia, al di là del dubbio (ma anche il credere fermamente nel dubbio diventa un dogma). E’ una lotta interiore dove non si fanno sconti a nessuno. Del rapporto scienza-fede, francamente, non mi importa più di tanto. Penso semplicemente che se abbiamo un’intelligenza anche questa ci viene da Dio. Vale.

  17. Più che il rapporto scienza-fede credo che dal punto di vista umano conti quello tra scienza ed etica. Se, poniamo, il coronavirus è un prodotto artificiale questo ha comportato una grave trasgressione del comportamento etico.
    Approfitto per correggere la mia affermazione ” il credere fermamente nel dubbio diventa un dogma” in “il credere fermamente nel dubbio diventa un atteggiamento dogmatico”.

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