Guanti di Astrakan

  di Marcella Corsi 

          Il funerale aveva dato esiti inaspettati. Avevo avuto modo di rendermi conto del tipo di rapporto che univa, fin oltre la morte, un generale bersagliere con i suoi compagni d’arma e, entro il normale confermarsi delle relazioni familiari allargate, avevano preso qualche rilievo i rapporti con un paio di cugine mai molto frequentate.

Con una m’era accaduto di trovarmi a parlare per ore: il risultato di un incontro tra le parti più autentiche dei rispettivi sé, avevo pensato. Avevo letto la sorpresa anche negli occhi del marito che, tornato dopo tre ore, ci aveva trovate ancora lì in attesa di una figlia ormai da tempo rientrata senza che ce ne fossimo accorte.

Con una sua caratteristica cogente naturalezza, l’altra mi aveva introdotta in una dimensione non secondaria del suo continuare ad essere castellana pur essendosi da anni trasferita a Perugia: le passeggiate mattutine in gruppo dal parcheggio del cimitero fino alle terme.

          L’avevo accompagnata diverse volte durante l’estate. E ora, a novembre, mi trovavo a fare la stessa strada in compagnia di uno dei suoi amici. Entrambi a turno ci chinavamo a raccogliere carte e plastiche sul camminamento pedonale che dal cimitero arrivava fino alla stazione termale.

Fino ad allora li avevo trovati sempre al bar delle terme, dove facevano colazione insieme. L’andata me la godevo da sola. Non che mi dispiacesse qualche volta incontrarli dove si lasciavano le macchine o appena più oltre, ma poter camminare al ritmo che l’umore del giorno suggeriva, potermi guardare intorno seguendo le mie tangenti emotive era all’andata piacevole almeno quanto, tornando, adattarsi al ritmo veloce del loro camminare in gruppetti di due o tre variamente chiacchieranti. Oggi però non avrei voluto incontrare nessuno.

Avevo visto la mattina prima il percorso ingombro di molte carte e pezzi di plastica. In un punto un largo polistirolo era stato fatto a pezzi non piccoli e spiccava bianco tra l’erba bacchettata dal freddo notturno. Ne avevo raccolti alcuni di quei pezzi, poi buttati nell’unico portaimmondizie capiente dello spiazzo antistante l’albergo delle terme. E la mattina dopo ero arrivata munita di busta di plastica e pinze per il ghiaccio da usare come raccoglitore.

Non intendevo certo esibire inopportuni atteggiamenti da ecologista. Ma ero stata costretta da qualche tempo a rendermi conto di quanto poco fino ad allora io mi fossi espressa per come mi veniva più spontaneo. Questo cominciava a darmi qualche problema e mi ero ripromessa di seguire più spesso le mie inclinazioni. E poi quella del ripulire i posti naturalmente belli un po’ maltrattati dagli uomini era da parecchio una mia caratteristica comportamentale (qualche volta ho l’impressione che i poeti siano gli spazzini del loro mondo: cercano di far pulizia dei valori che non sembrano loro tali?).

Norberto l’avevo incontrato subito. La sua bella faccia aperta s’era piegata in un’espressione di incredulità appena un poco critica, che le parole confermavano: ‹‹E che fé, l’ecologista? … de prima matina?››. Il dialetto sottolineava bene.

Più di tanto non spiegai ma alla sua intima benevolenza bastò. Così all’inizio del cammino io raccoglievo e lui rideva, più avanti raccoglievamo entrambi senza più il bisogno di commentare, vicino alle terme io cominciavo a distrarmi, lui invece continuava a raccogliere. Allora pensai che potevo raccontargli la storia dei guanti.

         Quel paio di guanti bianchi di pelle di astrakan, morbidi e caldissimi, li avevo trovati in casa della nonna quando avevamo dovuto svuotarla dopo la sua morte. Da qualche anno ormai mi tenevano compagnia ogni inverno. Sebbene a Roma si possa far a meno di guanti come quelli, li usavo spesso, lasciandoli poi nelle tasche del cappotto. Erano stati scelti dalla nonna, portati dalle sue mani. Ero poi dolorosamente consapevole che la loro confezione era costata la vita ad un delizioso piccolo essere vivente, ucciso forse per una delle umane Pasque. Li indossavo dunque con il rispetto dovuto ad una morte innocente.

Quattro righe nel taccuino che portavo sempre in borsa ne testimoniano:

in ogni cucitura una tristezza bianca
allaccia invano alle mie dita la tua paura
riccioli minuscoli venuto da lontano
per scaldarmi le mani hai perduto la vita.

Ne persi uno un giorno, né riuscìi più a ritrovarlo. Me ne rammaricavo senza pudore. Lo pensavo buttato sulla strada, bagnato, calpestato dai passanti, la sua pelle chiara sporcata anche dalla mia poca accortezza. Come se fosse ancora una parte viva di quell’agnello il cui pelo ricciuto vedevo all’interno del guanto rimastomi.  

Mentre ancora lo cercavo sulle strade tra casa e lavoro, notai altri guanti singoli, evidentemente anch’essi perduti. Nessuno bianco ma alcuni belli quasi quanto il mio.

Mi augurai che qualcuno lo avesse raccolto, ripulito e tenuto. Magari per indossarlo in casa quando d’inverno, leggendo o scrivendo, le mani gelano. Si perdono, pensavo, sia guanti per la mano destra che per la sinistra. E in casa che importanza ha se i guanti sono diversi. Ogni guanto di pelle, pensavo, è progettato e realizzato in morte di un animale. Non merita il disprezzo della noncuranza.

Cominciai a raccogliere i guanti di pelle perduti. Progettavo di parlarne e scriverne, di convincere molti a fare lo stesso. E nel mio desiderio il progetto poteva vagamente arrivare fino a coinvolgere il mio guanto perduto. Ne collezionai molti, destri e sinistri quasi in ugual numero, diversi della mia misura.

Uno nero di pelle di capretto foderato di lana fa ancora il paio con quello bianco di pelle di astrakan nelle mie ore invernali al computer.  

4 pensieri su “Guanti di Astrakan

  1. Grande Marcella.
    I guanti spesso guariscono
    da malattie .
    Quelli che trovi soli , abbandonati,
    sono la terapia per i giorni perduti.
    Ciao

  2. E ricordiamo anche i guanti di cui parla in una sua poesia recente Emilia Banfi :

    Frugo nel tempo
    nel gruppo di amici
    seduti alla Casa.
    Ricordo le voci
    poesie , entusiasmi.
    Essere tutti poeti
    facili assensi e fogli
    per quel tempo caduto
    che ancora mi lascia
    un ricordo quasi di fiamma
    accesa e forte di dubbi
    e speranze.
    Ancora scrivo ma penso
    alla Casa, al freddo del parco
    alle mani gelate
    ai guanti che tu mi avevi
    prestato.

  3. …bella poesia, Emilia. Eppure quel gruppo in qualche modo sopravvive ancora: si compare sul blog, si coltivano amicizie da anni ormai… alcuni ci hanno lasciato, ma c’è un ricordo. Personalmente ho frequentato poco la Casa, la Palazzina Liberty dove vi riunivate, ma capisco il tuo “..ricordo quasi di fiamma…” come non spenta, nonostante il gelo del parco intorno…e forse grazie ai guanti….
    Il racconto di Marcella mi colpisce molto per quell’affanno dimostrato nel raccogliere, vedi per cestinare, vedi per preservare…Non mi sembra solo ecologico il compito che si è assunto Marcella. In particolare nel secondo caso, non vorremmo fare la stessa fine di un oggetto (di valore per la vita che è costato, nel caso del guanto e non solo) smarrito…I guanti smarriti- come nella canzone di V. Capossela “il paradiso dei calzini spaiati”- hanno diritto a vivere una seconda vita magari tra le mura domestiche …Come valorizzare “La solitudine dei numeri primi” avvicinandoli…

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