Elogio del post apocalittico

di Michele Nigro

    "Lo sa cosa facevo prima della guerra? Vendevo fotocopiatrici..."   (Generale Bethlehem, signore della guerra. Dal film "L'uomo del giorno dopo")

Perché il sottogenere post apocalittico, sia letterario che cinematografico, ci affascina e attira molti di noi? Perché siamo dei convinti estinzionisti? Perché siamo talmente pessimisti sul futuro dell’umanità che non riusciamo a prospettare un avvenire diverso da quello catastrofico? Perché odiamo i nostri simili e auspichiamo uno spopolamento del pianeta, caso mai fantasticando su di noi che, rimasti soli soletti, avremmo tanto spazio a disposizione? Perché non si farebbe più la fila ai negozi e non si userebbe più il denaro guadagnato andando a fare un lavoro che non ci piace? Niente di tutto questo; se anche queste “idee” ci hanno sfiorato, è stato solo per un attimo, pensando soprattutto alle condizioni reali e poco romantiche in cui ci troveremmo a vivere se tutto ciò si avverasse. 

Non starò qui a snocciolare titoli di romanzi fantascientifici o di film fortunati tratti dagli stessi e che da tempo seminano scenari surreali, sotto forma di immagini filmiche divenute cult, nel nostro affollato immaginario collettivo. È importante, invece, capire perché ci sentiamo terrorizzati e al tempo stesso attratti dalle gesta solitarie dell’uomo post apocalittico; perché il mondo, il nostro mondo, così come lo vediamo ridotto negli scenari post apocalittici descritti nei racconti e nelle pellicole, pur spaventandoci suscita in noi domande scomode a cui sentiamo di non potere sottrarci? Una prima risposta potrebbe essere: perché la condizione post apocalittica ipotizzata “per gioco” induce a riflettere sulla condizione quotidiana “reale”, socialmente strutturata, pensata da altri, accettata, interiorizzata, mai più messa in discussione una volta raggiunta la cosiddetta “età della ragione”.

Una popolazione mondiale decimata da una pandemia, un pianeta Terra distrutto e contaminato in seguito a una catastrofe nucleare… Molteplici sono le cause “inventate” (o profetizzate?) dagli scrittori che hanno impegnato le loro penne in questo sottogenere letterario: alla fine non importa sapere quale sia stata la causa che determina la drastica diminuzione della popolazione terrestre, la sua quasi estinzione o la sua mostruosa trasformazione in qualcos’altro. Quello che conta, ai fini narrativi e introspettivi, è la nuova condizione esistenziale con cui devono confrontarsi i pochissimi sopravvissuti (o il sopravvissuto): a volte le storie cominciano con un solo sopravvissuto che in seguito scoprirà di non essere l’unico ad avere superato indenne l’ora zero del nuovo corso storico. Generalmente, come c’insegnano romanzi e film, questa scoperta non porta a nulla di buono: l’equilibrio che il sopravvissuto solitario aveva conquistato faticosamente nel tempo, creando intorno a se un piccolo paradiso sospeso sulle macerie del mondo precedente alla catastrofe, viene alterato dall’arrivo di suoi simili in cerca di aiuto o di fisiologica compagnia. L’uomo non è fatto per stare da solo ed è bello scoprire che anche altri ce l’hanno fatta: soprattutto gli adulti, bloccati a metà tra due mondi, che hanno un ricordo ancora vivo dei propri cari di cui spesso ignorano il destino o del mondo popoloso prima della tragedia, dopo un iniziale disorientamento dovuto alla scoperta sconvolgente di non essere più soli, tendono a riaccendere una speranza che la forzata condizione solitaria aveva assopito ma non del tutto cancellato. Un ritrovarsi che, però, porta guai, che guasta i piani collaudati del solitario: lo stare insieme implica responsabilità che vanno oltre l’io bastante a se stesso. È così anche nel mondo sovrappopolato e pre-apocalittico. 

Seduti comodamente sul divano di casa, fantastichiamo su cosa faremmo noi se ci trovassimo nelle medesime condizioni del protagonista dell’avventura post apocalittica: come succede nelle dimostrazioni matematiche, ipotizzando per assurdo, ci proiettiamo anima e corpo nello scenario proposto dallo scrittore o dal regista. Per un attimo decostruiamo le nostre convinzioni e le convenzioni; scardiniamo i nostri punti di riferimento sociali perché una società, così come generalmente la concepiamo, non c’è più; smantelliamo letteralmente le nostre sovrastrutture culturali e ci affidiamo a una nuova filosofia istintiva sorta dalla cenere del mondo. Insieme agli “attori” del racconto inventato riconquistiamo un’animalità addormentata, ridiamo valore ai sensi, non deleghiamo più la tecnologia onnipresente nel gestire il nostro sapere, ridiventiamo selvatici in nome dell’unico comandamento ancora in voga: sopravvivere. E quando il romanzo termina o il film mostra i titoli di coda, un po’ ci dispiace di dover ritornare al nostro mondo: ci disturba il dovere abbandonare, seppure immaginificamente, quelle nuove conquiste interiori, quella speranza riassaporata all’indomani del disastro e che, inaspettatamente, fornisce nuove energie, nuove visioni che danno forza, stimola una nuova progettualità in nome di una rinascita non invocata, perché il mondo è vuoto o quasi e non c’è nessuno che richieda una nuova spinta verso un progresso stavolta non autodistruttivo ma sano, legato ai cicli naturali, non capitalistico bensì esistenziale. Esistere per esistere; la tecnica serve a risolvere problemi e non ad accumulare guadagni: respirare è una fortuna a cui non davamo più valore; c’è bisogno dell’ipotesi catastrofica per rivalutare le fortune del mondo presente, per puntare all’essenzialità in una società che di essenziale non ha più nulla; tutto è sovrastrutturato, è ipertrofico per moda.

L’uomo post apocalittico è un essere che ha scarnificato l’uomo precedente riportandolo a una condizione quasi naturale: è vero, di tanto in tanto riaffiorano sopravvissuti sprazzi di civiltà, di sistemi di pensiero legati a schemi culturali radicati; i libri, la musica, l’arte, non sono solo prodotti del fare umano, come ormai accadeva nella società estinta, ma diventano testimoni necessari e imprescindibili a cui riandare nostalgicamente non per compiere dimostrazioni intellettualistiche in un mondo senza pubblico ma per non lasciare estinguere gli ultimi fuochi di una specie animale capace di pensare e di immaginare quando ne ha avuto la possibilità storica ed evoluzionistica. Non c’è lusso nel mondo post apocalittico, solo gesti significativi. Ma qual è il significato della vita in un mondo senza gli altri? Verso chi o in nome di quale obiettivo superiore alla mera esistenza l’uomo post apocalittico dirige i propri scopi?

L’uomo finalmente destrutturato, spogliato di ciò che è stato e rimasto, ora sì, nudo come la scimmia di Desmond Morris, non può più mentire a se stesso, e agli altri, ricorrendo all’alibi di una regolamentazione sociale da rispettare: quello che fa, lo fa per esistere e non per sembrare; la sua religiosità (o forse sarebbe più corretto parlare di spiritualità) torna ad assumere una sincerità di tipo eremitico e abbandona la consueta sovraesposizione ecclesiastica creata dagli uomini per altri uomini (escludendo di fatto il divino); la filosofia non è più schema di pensiero da proporre al mondo ma celebrazione nostalgica di idee estinte prodotte da uomini estinti per un’umanità estinta; la poesia diviene finalmente autentico canto dal mondo, per il mondo e non per gli uomini, ad uso e consumo dell’unico testimone; la storia, essendo storia del tempo misurato sull’uomo in quanto specie, viene inesorabilmente resettata a un ipotetico anno zero (anche se in realtà non c’è nessuno capace, o che ne abbia la necessità o la voglia, di ricominciare a contare gli anni, perché il tempo è fermo e non vi è uno spazio percorso dai protagonisti pensanti della storia). Chi potrebbe prendersi l’incarico di farlo – il nostro uomo post apocalittico – ha ben altro a cui pensare; o forse l’opera di decostruzione dell’uomo convenzionale è stata così accurata, nel caso in cui si assista a una timida ripresa della trasmissione dell’eredità tra sopravvissuti, che i compiti ritenuti necessari nell’era precedente, ora appaiono inutili o semplicemente non naturali. Il senso delle cose non è più confrontabile con parametri ormai superati; si ricorre a una saggezza naturale, non ereditata, non resa pubblica tramite i veloci mezzi di comunicazione. La memoria di una civiltà passata torna a darci consigli come in una sorta di residuo sogno conservato, non si sa bene come, in meandri genetici. Tutto questo fino alla ricostruzione di una nuova comunità (e del suo senso), al ripopolamento del pianeta e al conseguente riadottamento – è nella nostra natura di esseri sociali e istintivamente organizzati e organizzanti – di regole in grado di ristabilire l’ordine e una scala di valori pensata da un ricostituito establishment per il “bene di tutti”.

E ritornando alla domanda iniziale, sul perché ci attrae l’ipotesi di una tale condizione, come scrissi anni fa in un post riguardante il medesimo argomento: “… L’apocalisse azzera le misurazioni effimere dell’io saturo di sovrastrutture: gli spazi aumentano e gli ostacoli diminuiscono. Nel mondo post apocalittico siamo più veri e naturali, come quando di notte il flusso narrativo si mescola al sogno e non sentiamo il bisogno di separare quello che è ormai inseparabile. Gli abbellimenti musicali imposti dal sistema lasciano il posto al silenzio dell’esistere puro. I non luoghi di Marc Augè non hanno più ragione di esistere perché tutto ridiventa luogo. Forse è per questo che alcuni di noi, stanchi di un traffico creato dall’inutilità del vivere civile, sono affascinati dagli scenari post apocalittici: la perdita della memoria storica indotta dalla sciagura mondiale rende inutile una complessità creata dallo stadio evolutivo sociale e culturale raggiunto prima dell’anno zero. Noi lettori siamo lieti di regredire insieme ai personaggi delle storie post apocalittiche inventate da scrittori visionari: ne approfittiamo per capire finalmente, al di là della mancanza di traffico e di finto calore umano in un mondo più vuoto e silenzioso, cosa conta veramente anche nella nostra esistenza pre-apocalittica e chiassosa. Sfruttiamo quella storia per metterci alla prova, per sapere in anticipo quale potrebbe essere la nostra futura reazione a una solitudine forzata e per gustare la strana gioia nell’esserci ancora mista a un senso di morte che impregna la nuova storia. La devastazione e la tendenza all’estinzionismo come filosofie draconiane per ricercare la verità su noi stessi e sul perché del nostro esistere. «L’essenziale è invisibile agli occhi» e allora lo scenario abituale che c’è davanti ai nostri occhi deve cambiare drasticamente per permettere all’essenziale di essere scorto dai sensi assuefatti dal superfluo, per ripristinare il grado evolutivo più basso, quello basato sugli istinti, e raggiungere il nucleo arcaico dell’esistenza. Il mistico abbandona il mondo per riscoprire il divino; l’uomo post apocalittico è abbandonato dal mondo al quale apparteneva e scopre finalmente il divino che è in sé.

Dopo aver seppellito i morti durante l’anno zero, quando le acque si sono calmate e ci si conta, l’uomo post apocalittico comincia piano piano a dimenticare la funzione e il significato di certe vestigia; pur essendoci i libri e altri supporti mnemonici sopravvissuti alla sciagura, non riesce a collocarle in un contesto sensato, per mancanza di riscontri quotidiani, e ne rimuove l’importanza pratica che avevano; diventano mito. Un giorno dice a se stesso: “sono lì da sempre!” Come l’aria, il sole, le acque di un lago, gli alberi di un vecchio bosco… Perché tutto è destinato a cambiare e niente è eterno.

Michele Nigro©2020

28 pensieri su “Elogio del post apocalittico

  1. Accattivante testo, nel suo fluido ragionamento e descrittività; ma non facciamoci illusioni su questo ‘atomo opaco del male’; gli scenari post-apocalittici sarebbbero solo una breve parentesi, dopo la quale tutto ritornerebbe come prima (dopo il Diluvio Universale non è cambiato nulla e, quando cesserà il Covid 19, tutto ritornerà peggio di prima, per comprensibile reazione).
    Un cambiamento sostanziale avverrebbe solo con la scomparsa radicale dell’essere umano dalla terra, come ipotizza Claude Lévi-Strauss, dal quale trarrebbe giovamento la natura. Non escludo che nel futuro possano verificarsi scenari di tipo apocalittico, chi vivrà vedrà… In ogni caso, ipotizzarli per ragioni di ‘igiene’ umanitaria mi sta bene, così come riflettere sulle potenzialità positive che verrebbero liberate con la caduta delle sovrastrutture che ci siamo creati con la nostra civiltà, le ‘magnifiche sorti e progressive’. L’immaginario degli scrittori mira a spingere verso un mondo migliore.

    1. Nutro anch’io gli stessi timori riguardanti una non evoluzione profonda del genere umano all’indomani della tanto inflazionata (dalla pubblicità soprattutto) “ripartenza”, che fa il paio con un altro termine da me poco tollerato: “resilienza”.
      Sono contento che sia stato evidenziato e apprezzato l’ “esercizio mentale post-apocalittico”, per contrastare un immaginario collettivo, quello sì, “di gregge”.
      Grazie per aver letto.

  2. …Il racconto di Michele Nigro dà per scontata l’Apocalisse sul pianeta Terra e del genere umano e ragiona sul postapocalisse…Purtroppo sono d’accordo sull’avvento della “sciagura” inevitabile conseguente alle sciagurate scelte dell’essere umano soprattutto negli ultimi due secoli e l’insistenza a ripetere all’infinito gli stessi errori, aggravandoli. I protocolli sull’ambiente, le “intese” sul disarmo si sono dimostrati parole vuote e una formula economica consumistica predatoria che aggrava le diseguaglianze e spoglia l’ambiente hanno fatto il resto…Difficile credere in una volontà buona collettiva capace di invertire la rotta al punto in cui siamo…lo penso mio malgrado, avendo molto a cuore il futuro della vita sulla Terra…I ragionamenti di M. N. sono pieni di speranza in una rigenerazione dell’essere umano, dopo aver “perduto” tutto…L’unico aspetto su cui ho dei dubbi su questa ipotetica ricostruzione è la possibilità offerta ad “un unico testimone della specie umana”, attraverso il silenzio e la solitudine di un “anno zero” di costruirsi diversamente…Forse c’entra poco ma mi è venuto in mente la storia di Robinson Crusoé, che naufrago in un’isola con ingegno e intraprendenza sopravvive ma ripercorre, nel suo individualismo assoluto e superbo, tutte le tappe di una società prevaricatrice e imperialista…Secondo me già da subito solo una spinta di sopravvivenza di gruppo, anche elementare, puo’ generare qull’altruismo che potrebbe saper costruire “insieme” qualcosa di davvero nuovo…Qualche anno fa ho letto un romanzo postapocalittico che mi aveva colpito: “La strada” di Cornac McCarthY, in cui sullo sfondo di uno scenario desolato, da dopo esplosione nucleare, un padre e un figlio bambino cercano disperatamente una modalità di sopravvivenza dalla fame e dal pericolo di bande criminali, fino alle staffette finali padre estinto-figlio sopravvissuto e figlio- altro gruppo di sopravvisuti arrancanti ma solidali…in un barlume di speranza che la vita si possa riaccendere su altre basi…cosi’ come la storia, la filosofia, l’arte…grazie a M. Nigro

    1. La citazione di Crusoé, ahinoi, mette sale sulla ferita non rimarginabile del Male innato; però quand’è che, al di là del ricostruirsi solitario, l’Uomo esprime il “meglio” della propria natura prevaricante se non all’interno di una comunità? Vi è lo sfruttamento della Natura, vero: ma è verso i propri simili che l’essere umano diventa maleficamente “creativo”. Al solo accenno di ricostruzione di una cellula comunitaria, sarò pessimista, verrebbero a riproporsi gli stessi schemi innati della numerosa civiltà precedente.
      Grazie per aver letto!

  3. l’apocalittico è un grande archetipo che ogni tanto fa capolino nelle coscienze sconvolte dal malessere del vivere quotidiano che non riusciamo a sopportare. L’idea di una fine del mondo e di diventare naufraghi su un atollo sperduto forse si prospetta non come una grande sciagura ma come un mezzo terribile ma necessario per ritrovare se stessi.

  4. «L’uomo post apocalittico è un essere che ha scarnificato l’uomo precedente riportandolo a una condizione quasi naturalesi ricorre a una saggezza naturale, non ereditata, non resa pubblica tramite i veloci mezzi di comunicazione.»; «Nel mondo post apocalittico siamo più veri e naturali, come quando di notte il flusso narrativo si mescola al sogno e non sentiamo il bisogno di separare quello che è ormai inseparabile.».

    Non credo di poter condividere – come ho fgià anticipato all’autore – il pensiero sottotraccia di questo saggio pur ben scritto di Michele Nigro. Innanzituttonon pare facile il passaggio dalla «condizione post apocalittica ipotizzata “per gioco”», che come ogni gioco ha pur una sua innegabile serietà, alla « condizione quotidiana “reale”, socialmente strutturata». Tra «immaginario collettivo» e realtà (quotidiana o storica) non c’è continuità né facili viavai. E diffido di ogni nuova e indeterminata «filosofia istintiva», che sorgerebbe dalla «cenere del mondo». Come di una ipotetica e inquietante «animalità addormentata». Come di una sempre indeterminata «saggezza naturale, non ereditata, non resa pubblica tramite i veloci mezzi di comunicazione». O di una sempre generica « nuova comunità». O del «grado evolutivo più basso, quello basato sugli istinti». O del «nucleo arcaico dell’esistenza». Sono tutte formule eleganti ma che a me paiono ancora riconducibili ai filoni irrazionalistici che hanno percorso abbondantemente le filosofie europee tra fine Ottocento e seconda metà del Novecento.
    Insomma questo «uomo post apocalittico», che riporterebbe l’umanità a «una condizione quasi naturale», mi puzza troppo di roussovismo leggermente corretto. (Chissà – mi chiedo – perché si salverebbero proprio «i libri, la musica, l’arte» che oggi l’industria culturale e dello spettacolo ci hanno imposto come necessari o prioritari come merci e quindi indipendentemente da contenuti, qualità e intenzioni, anche quando milioni di persone scivolano sempre più verso forme di vita sempre più precarie o materialmente impoverite).
    Nel mondo post apocalittico saremmo «più veri e naturali» perché l’apocalisse azzererebbe « le misurazioni effimere dell’io saturo di sovrastrutture»? Mi pare una visione errata. Per dirla in breve ci sento molto estetismo. Dall’immaginario sociale non mi pare si riesca a scendere nella realtà quotidiana e storica e cercare lì soluzioni costruttive.

    1. Grazie Ennio per la tua critica come sempre illuminante.
      La tua fede positivistica è commovente.
      Il “passaggio non facile” a cui accenni all’inizio del tuo commento si esplicherebbe (anche se non specificato) nel corso dei secoli: non si tratterebbe di un’evoluzione dell’immaginario collettivo consumata in pochi decenni. In quel caso sì che il passaggio sarebbe eccessivamente forzato.
      Tu dici di diffidare degli istinti che riaffiorerebbero in uno scenario post-apocalittico: io li ho visti risorgere già dopo poche ore di blackout elettrico nel mio condominio, figuriamoci dopo decenni o secoli di involuzione catastrofica.
      Il razionalismo applicato alla storia non ci salverà e non salverà le sovrastrutture a cui siamo così tanto affezionati!
      “I libri, la musica, l’arte” si salverebbero non perché ritenuti salvabili fin dal principio ma semplicemente perché verrebbero “riscoperti” così come noi oggi poniamo in un museo, e proteggiamo, i reperti archeologici ritrovati a Pompei.

      Grazie per l’ospitalità su Poliscritture. Un caro saluto.

  5. @ Michele Nigro

    Solo per dire che trovo quasi offensiva questa frase: “La tua fede positivistica è commovente.”. Non difendo “il razionalismo applicato alla storia” ma la ragione critica contro gli irrazionalismi. Ricambio il saluto.

  6. Michele Nigro nel suo articolo compie un salto indebito fra due realtà del tutto incomparabili. Inizia con questa affermazione: «Perché il sottogenere post apocalittico, sia letterario che cinematografico, ci affascina e attira molti di noi?».
    *
    1. Quindi, qui, la realtà è una finta realtà, un sottogenere letterario e cinematografico che, secondo Nigro, affascina gli spettatori. Ma poi il “sottogenere” quasi per magia si trasforma in realtà, reale seppure solo immaginata, post-apocalittica sulla quale Nigro proietta, fantasticando e ipotizzando, alcune trasformazioni della natura e della prospettiva umana e afferma che questa situazione “affascina”.
    A mio parere qui c’è un grossolano errore di prospettiva. Il genere letterario e cinematografica affascina perché c’è il fascino dell’avventura, l’adrenalina del thriller ecc., mentre la prospettiva di una realtà apocalittica incute timore e non affascina proprio per niente. Credo che il 99,99% delle persone, in una situazione anche di crisi minima rispetto a quelle apocalittiche prospettate in molti libri e film, reagisca desiderando il ritorno alla “normalità”, cioè alla condizione pre-crisi, senza trovare nulla di affascinante nella catastrofe in cui si troverebbe a vivere.
    I meccanismi del fascino letterario e cinematografico sono completamente diversi da quelli del fascino della realtà.
    In sostanza l’operazione mentale di Nigro è questa, nella sua ossatura seminascosta: nella situazione sociale odierna non è più possibile vivere i valori dell’utopia ma solo quelli della distopia; questa situazione porterà alla sua fine per mezzo di eventi catastrofici che obbligheranno i sopravvissuti a vivere in una dimensione valoriale nuova che tornerebbe a rendere attuali (credibili) i valori dell’utopia.
    Insomma: dall’ideologia del progresso, del razionalismo ottimista, del costruttivismo, dell’ideologia dell’ingegneria politico-sociale e così via, venuto meno tutto ciò, si passa all’irrazionalismo e al nichilismo della distruzione come passaggio palingenetico per il ritorno su basi nuove alla fiducia nel progresso ecc. ecc.
    Si tratta di fantasticherie buone in letteratura ma senza alcuna base scientifica sul piano della psicologia, della sociologia ecc.
    Come tutte le proiezioni utopiche parte dalla realtà presente per distorcerla fino ad annientarla e tornare a un passato mitico, a una mitica natura dell’uomo, a mitici archetipi, a mitiche essenzialità ecc. ecc. In sostanza sogna un uomo mai esistito e che probabilmente mai esisterà.
    Innanzitutto, che tipo e che livello di catastrofe apocalittica? Ovviamente, il futuro dell’umanità cambierebbe molto se ci fosse un azzeramento totale (un unico sopravvissuto, quindi senza più possibilità di avere eredi, l’ultimo uomo / donna sulla Terra, secondo l’ipotesi di un famoso romanzo di qualche decennio fa), oppure solo un azzeramento parziale (muoiono alcuni miliardi di persone, ma ne restano pur sempre altri miliardi o almeno centinaia di milioni pronti a riprendere la precedente via e a ricostruire ciò che è stato distrutto, secondo l’ipotesi di decine di romanzi e di film).
    Anche il tipo di catastrofe influenzerebbe molto il post-apocalittico: un conto è una guerra atomica con l’ipotesi di gran parte del pianeta o la totalità del pianeta contaminato e inadatto alla vita e gruppi di sopravvissuti contaminati e in via di mutazioni biologiche per adattarsi alla nuova situazione; altra ipotesi del tutto diversa è quella di una catastrofe naturale (un grosso meteorite o corpo celeste che impatta con la Terra; una serie di terremoti e sconvolgimenti planetari; un virus o batterio contagioso che fa strage di miliardi di persone in poco tempo, ecc. ecc.), che non potrebbe che indurre i sopravvissuti a ripartire e recuperare il perduto, con pochi cambiamenti di tipo antropologico o di prospettive culturali.
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    2. Le ipotesi esistenziali di Nigro potrebbero avere valore per singoli individui e per piccoli gruppi, ma non certamente per i grandi gruppi. Inoltre, il ritorno all’«essenzialità» (concetto tutto da definire e verificare, perché certamente non per tutti l’essenzialità è la stessa cosa), può suggerire solo un regresso dei comportamenti umani verso le necessità elementari della sopravvivenza, con tutto ciò che comporta, compresi l’accentuarsi dell’aggressività da un lato e della legittima e propria autodifesa dall’altro, con la competizione (e quindi scontri violenti, guerre ecc.) per l’accaparrarsi delle risorse necessarie alla sopravvivenza e così via. In questo contesto le “sovrastrutture” culturali non scomparirebbero, ma certamente cambierebbero la loro scala di valore, però in peggio. Non è ipotizzabile un cambiamento in meglio. Non scomparirebbe nemmeno il lusso, che è presente anche nelle società cosiddette primitive, anche poverissime. Semplicemente il lusso si adeguerebbe al contesto, si impoverirebbe, si semplificherebbe, senza perdere però il suo carattere distintivo di simbolo sociale. Rousseau parla di una semplice collanina di conchiglie come inizio di una distinzione, di un ornamento che assume valore sociale e che dà inizio alla disuguaglianza.
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    3. Nigro scrive: «nuova spinta verso un progresso stavolta non autodistruttivo ma sano, legato ai cicli naturali, non capitalistico bensì esistenziale. Esistere per esistere; la tecnica serve a risolvere problemi e non ad accumulare guadagni: respirare è una fortuna a cui non davamo più valore; c’è bisogno dell’ipotesi catastrofica per rivalutare le fortune del mondo presente, per puntare all’essenzialità in una società che di essenziale non ha più nulla; tutto è sovrastrutturato, è ipertrofico per moda».
    Qui c’è il desiderio dell’utopista, completamente fantastico, non certo la previsione del futurologo che si basa su dati scientifici e critici.
    Mi piacerebbe poi sapere che cosa vuol dire «un progresso stavolta non autodistruttivo ma sano, legato ai cicli naturali, non capitalistico bensì esistenziale» in termini economici concreti e in termini giuridici di governance di una società complessa. Probabilmente, se Nigro facesse questa operazione, s’accorgerebbe che la sua formulazione è compatibile solo con le società piccole e povere, dedite unicamente alla sopravvivenza, dove tutta l’economia si riduce all’autoconsumo che richiede pressoché la totalità del tempo a disposizione. Se la società fosse appena un po’ meno povera, appena un po’ capace di risparmio e quindi di accumulazione e di riproduzione allargata e appena disponibile di tempo libero, la sua formulazione non sarebbe più valida e dovrebbe tornare a fare i conti con il capitalismo, con la divisione del lavoro e dei ruoli sociali, con una sovrastruttura a molti strati organizzativi e culturali e così via. E quell’«esistenziale» contrapposto a «capitalismo» non avrebbe nessun senso, nemmeno a livello di mera terminologia, visto che anche la vita del capitalista è «esistenziale» come qualunque altra esistenza umana.
    Ancora: «progresso stavolta non autodistruttivo»: che vuol dire? Il “progresso” è obbligatoriamente insieme sia distruttivo sia creativo di nuove condizioni. Non si dà un “progresso” solo creativo e non anche distruttivo. Quindi non si tratta di sognare un «progresso non autodistruttivo» ma bensì un “governo” sia della distruzione sia della costruzione e creazione, in modo che si distrugga ciò che si deve distruggere e non altro. Ciò è più facile in una società evoluta piuttosto che in una società ridotta all’«essenziale», salvo che la riduzione non sia così drastica da togliere alla società i mezzi materiali per distruggere, cioè, da riportarla all’estrema povertà della sopravvivenza e dell’autoconsumo.
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    4. Ma lasciando perdere i contenuti specifici della fantasia di Nigro (sulla religiosità, sulla poesia ecc.), possiamo cercare di inquadrare il fenomeno del “sottogenere post apocalittico” in letteratura e nel cinema (ma c’è anche nell’arte) nel quadro dello sviluppo della cultura. Ci sono i precursori e i parenti che si muovono fra la pura avventura e la riflessione sulla storia. È stato citato il Robinson Crusoè, a cui si possono aggiungere Tarzan e i tarzanidi, il «Libro della giungla» di Kipling e altro ancora, tutta narrativa che riporta l’uomo alla natura. Ma ci sono i romanzi sulla fine di Pompei e quelli sulla fine di Atlantide (e di innumerevoli civiltà e pianeti a livello di fantascienza) o di antiche civiltà africane e asiatiche, dove la riflessione sulla storia e sul “progresso” talvolta si affaccia come tema principale. E si tratta di crisi del progresso. Mentre con Crusoè e con Tarzan siamo tutto sommato a una visione positiva del rapporto con la natura e ottimistica della sorte umana, questo filone si sviluppa prevalentemente come pensiero della crisi dell’illuminismo e poi del positivismo e dell’idealismo e, in genere, come crisi del razionalismo in tutte le sue forme. Si presenta in modo parallelo, come lettura però rovesciata, dell’ottimismo scientifico. Contrappone lo “scienziato pazzo” allo “scienziato saggio”. Dal «Frankenstein o il moderno Prometeo» di Mary Shelley a «L’isola del dottor Moreau» di H.G. Wells è la logica scientifica che crea mostri. Nel Novecento, oltre allo sviluppo e alle infinite variazioni di ciò che già l’Ottocento aveva prodotto, la catastrofe scientifica, sociale e umana passa dall’avventura storica o a quelle di singole esperienze, all’avventura collettiva, planetaria, con qualche contenuto, più o meno esteso e serio, di profetismo e di critica sociale del presente. Ora è la natura che si ribella alla prepotenza e arroganza dell’uomo e che produce la catastrofe (animali che si ribellano, terremoti, incendi, catastrofe cosmica ecc.), che in questo caso è una catastrofe dell’uomo non della natura nel suo complesso; ora è l’uomo con la sua arroganza che produce la propria catastrofe (guerra atomica, distruzione chimico-biologica dell’ambiente, creazione di virus micidiali ecc. ecc.).
    Questo genere catastrofico, in tutte le sue varianti, accusa l’uomo e la sua irrazionale gestione delle proprie risorse e del rapporto con le risorse del pianeta. Qualche volta è un’accusa generale che coinvolte tutta la presente civiltà, altre volte solo parziale, contro gruppi politici e/o economici di particolare avidità e criminalità, statunitensi o di altri paesi.
    Distruzione della ragione e nichilismo si accompagnano in una visione tetra, dove la critica si fa spettacolo, qualche volte puntando sullo spettacolo e poco sulla critica, altre volte di più anche sulla critica. Tutto questo pessimismo profetico, anche quando è del tutto finto e mira solo allo spettacolo e al successo di vendita, riflette comunque il venir meno nella fiducia del progresso e della ragione e il timore di una reale possibilità che la catastrofe avvenga. Il punto di volta è da collocare negli anni della “guerra fredda” fra Usa e Urss e nella paura di una guerra nucleare. Il genere catastrofico, al cinema e nella narrativa, esisteva anche prima, ma per lo più a livello artigianale e di mero spettacolo. Diventa più raffinato e si moltiplica dopo gli anni Sessanta, ma la maggior parte della produzione, sia letteraria sia cinematografica, resta di serie B.
    Dal sottogenere apocalittico nasce il sottogenere del post apocalittico, in cui non è più la catastrofe il tema principale, ma le condizioni della sopravvivenza dopo la catastrofe. Gli spunti utopistici, ottimisti, sono pochi. Nella maggior parte dei romanzi e dei film post apocalittici prevale il ritorno a condizioni di vita difficili, precarie, incerte, condizionate dalla violenza e dalla competizione armata. Gli spunti utopistici sono quasi sempre limitati alla presenza di qualche saggio o di qualche piccola comunità che vorrebbe rifondare “il mondo” su basi nuove, mentre nella maggioranza dei sopravvissuti prevalgono le dinamiche aggressive e di lotta per la conquista delle risorse ancora disponibili, o semplicemente per la soddisfazione e il piacere della pura violenza sadica e dell’esercizio del potere arbitrario.
    *
    5. Ma in concreto, se nell’arco di un brevissimo tempo la società che conosciamo crollasse, noi, personalmente, cosa potremmo fare? Molti di noi non potrebbero fare nulla e morirebbero entro un breve periodo. Anziani, malati, incapaci di competere nella ricerca del cibo, senza medici e senza medicine avrebbero vita brevissima. Gli altri, secondo come son divisi in gruppi, si organizzerebbero in modo gerarchico e i più forti e capaci di indicare delle vie di sopravvivenza diventerebbero i leader, illuminati e/o criminali, gli altri diventerebbero loro seguaci, i collaboratori, i gregari, i servi, gli schiavi. La struttura dei gruppi sociali regredirebbe verso condizioni di minore uguaglianza e minore giustizia.
    Il male di oggi, contrariamente a quanto sembra pensare Nigro, non è la civiltà, ma l’inciviltà che sopravvive all’interno della civiltà. Se la civiltà regredisce, l’inciviltà prende il sopravvento. Non è ipotizzabile il contrario. In questo stretto convivere fra civiltà e barbarie ogni crescita della civiltà può portare a una diminuzione della barbarie; non è pensabile giungere alla fine della barbarie azzerando la civiltà.
    Il mito del “buon selvaggio” è un mito. Alle origini della storia umana non vi è il buon selvaggio, ma il cattivo selvaggio. Vi sono i piccoli gruppi umani in continua guerra fra loro, in continua espansione, in continua distruzione dei gruppi umani che incontrano nel cammino. Tutti i testi letterari più antichi che abbiamo, come la Bibbia, testimoniano un continuo stato di guerra fra tribù vicine per la conquista e il controllo di terre, di pascoli, di acque, di popoli da ridurre in servitù tributaria o addirittura in schiavitù.
    Pertanto, se il genere post apocalittico affascina in letteratura e al cinema, non affascina per niente come prospettiva reale e in ogni caso non offrirebbe nessuna opportunità per giungere a una società migliore. Già la pandemia in corso, per quanto limitata rispetto alle fantasie post apocalittiche, non ha migliorato, ma peggiorato, le condizioni di vita e quelle politiche e sociali nel complesso. A ogni effetto positivo di solidarietà o di trasformazioni delle relazioni di lavoro (ma sempre in via provvisoria, di breve durata) si possono contrapporre diversi effetti negativi (e questi di più lunga durata) a tutti i livelli.
    *
    6. Tocco per ultimo il problema del «razionalismo» partendo da un’affermazione di Ennio Abate che condivido: «difendo […] la ragione critica contro gli irrazionalismi».
    L’uso e la difesa della ragione critica sono sempre la soluzione, quando esiste una possibile soluzione e per i problemi per i quali esiste.
    Ma il termine «razionale» contiene più significati. In genere indica una logica consequenziale fra causa ed effetto. Indica cioè un rapporto necessitato dalla “ratio” implicita nei fenomeni che entrano in rapporto. Un oggetto pesante sottoposto alla gravità non può che cadere in un certo modo. Questo è razionale e l’irrazionale non è qui ammesso. Ma nel comportamento umano, dove il rapporto fra cause ed effetti non è quasi mai determinabile in modo certo, l’irrazionale è possibile, anzi, ha spesso un largo peso.
    L’irrazionale si introduce nel comportamento umano in due modi principali. Il primo è relativo agli errori della ragione, che a volte crede razionale ciò che è invece irrazionale. Il secondo è relativo al fatto che le nostre decisioni non dipendono sempre dalla ragione ma spesso dai sentimenti e dalle passioni o da stati psico-fisici che alterano la ragione.
    Quindi il comportamento razionale qualche volta si realizza come controllo critico della ragione sulle altre facoltà umane e, pertanto, come guida razionale. Questo viene esemplificato da Platone con il mito del carro e dell’auriga, nel «Fedro»: l’auriga è la ragione che guida il carro mentre i due cavalli sono, il bianco la parte dell’anima dotata di sentimento e di sostanza spirituale che si dirige verso il mondo delle idee; il nero è la parte dell’anima concupiscibile che si dirige verso il mondo sensibile.
    Nella realtà però non sempre la ragione si identifica con l’auriga. Spesso è uno dei cavalli a guidare il carro e la ragione, anziché avere una funzione di controllo delle altre facoltà, è al loro servizio e contribuisce a tirare un carro che non si dirige verso il mondo delle idee ma verso quello dei sentimenti, delle passioni, del vizio o del delitto.
    In sostanza la ragione può inibire e tenere a freno le inclinazioni eticamente riprovevoli, ma può anche mettersi al loro servizio e pianificare, nel modo più razionale possibile, dei comportamenti eticamente condannabili.
    Pertanto «la ragione critica» non solo deve combattere «contro gli irrazionalismi», ma anche contro i «razionalismi» eticamente negativi. Se dimentica di farlo, o cede un po’ su questo, viene meno al suo compito, che si realizza compiutamente solo con l’analisi critica unita alla lotta contro l’irrazionale e il cattivo razionale e unita inoltre a una opzione etica positiva e coerente, che valorizzi il razionale e non lo trasformi in cattivo razionale.
    Tanto razionalismo, politico e non politico, ha creato disastri perché non è stato unito a una buona scelta etica, ma è servito a realizzare meglio una scelta etica cattiva e distruttiva.
    Si potrebbe dire che molte cose che giudichiamo irrazionali non sono affatto irrazionali, bensì sono razionali, cioè con causa ed effetto conseguenti e coerenti, ma fondate su una errata scelta etica o su una errata visione del mondo.
    La critica dell’irrazionale come comportamento errato perché incoerente è abbastanza facile, ma quella del comportamento razionale e coerente ma fondato su scelte etiche non accettabili è più complicata.

  7. “Pertanto «la ragione critica» non solo deve combattere «contro gli irrazionalismi», ma anche contro i «razionalismi» eticamente negativi.” ( Aguzzi)

    Concordo in pieno. Ed è per questo che ho scritto a Nigro (senza astio, preciso): ” trovo quasi offensiva questa frase: “La tua fede positivistica è commovente.”
    Resterebbe da approfondire però la questione di quali siano i «razionalismi» eticamente negativi.

    P.s.
    Per rafforzare quanto ho detto contro un discorso che assolutizza o affronta in modo unilaterale il discorso sull’immaginario sociale, segnalo un mio intervento a proposito del discorso che sviluppo sull’argomento Attilio Mangano ( Cfr. qui sulla colonnina a destra : 9 dic. 2018. Sulla questione dell’immaginario; oppure a questo link:
    https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/permalink/2265118917072934/)

  8. A mio avviso questo saggio di Michele Nigro è ottimo, anche perché stimola riflessioni. Vorrei ora fare qualche considerazione, anche se non sono un cultore della materia. Ci siamo evoluti culturalmente ma non cerebralmente rispetto a migliaia di anni fa. Per creare utensili tipici degli uomini primitivi ci vogliono oggi pazienza certosina e ore di lavoro. Hanno fatto degli esperimenti con degli studenti universitari. Si pensi che non è affatto semplice accendere il fuoco senza fiammiferi, senza accendino o senza gas. Siamo come si suol dire dei nani sulle spalle dei giganti. Tutte le conquiste della nostra civiltà occidentale, ovvero tutti gli artefatti della tecnologia li diamo per scontati, eppure senza di essi non avremmo mai avuto la nostra zona di comfort, la nostra qualità della vita e la nostra attesa di vita media. Essere umani significa vivere in società e avvalersi delle competenze altrui. Tutto questo mi ricorda un racconto breve di Calvino in cui il protagonista non sa allacciarsi le scarpe ed ha bisogno di qualcuno per questo. Nessuno di noi è veramente autosufficiente. Bisognerebbe ricordarselo più spesso. Queste cose mi sembrano in genere sottovalutate o addirittura non prese in esame dagli scrittori che si immaginano scenari post-apocalittici. Gli stessi scrittori molto spesso non ci forniscono motivi plausibili per cui uno o pochissimi sono sopravvissuti ed invece il resto dell’umanità no. Mi sembrano a mio modesto avviso ipotesi illogiche, poco realistiche e oserei definirle impossibili. Qualcuno potrebbe chiamarle controfattuali. Insomma per scenario post-apocalittico si intende la fine dell’umanità meno uno o meno pochissimi: un controsenso se pensiamo a rigor di logica. Così come nei libri di questo genere gli autori non si soffermano mai sulle conseguenze psicologiche che avrebbe la deprivazione sociale del protagonista o dei protagonisti. Uno scenario post-apocalittico potrebbe avere dei risvolti positivi dal punto di vista ecologico, ma nutro dei seri dubbi che potrebbe averli dal punto di vista antropologico. Però è solo questione di punti di vista. Siamo nell’ambito dell’opinabile. Nessuno sa con certezza cosa accadrebbe e come reagirebbero i sopravvissuti. Queste sono le critiche che faccio io(non a Michele Nigro ma a questo genere di distopie). Naturalmente siamo nel genere fantascientifico che non è solo science fiction ma in cui si può conciliare l’inconciliabile, immaginare l’inimmaginabile; un genere che è contrassegnato anche dal gusto del paradosso: gusto del paradosso e capacità di provocare che conosco anche in Michele Nigro.

    1. Grazie Davide per aver letto e commentato: ne approfitto anche per ribadire un punto che non ho avuto modo di sottolineare da subito al commento di @Aguzzi. La letteratura fantascientifica, di cui il sottogenere post apocalittico fa parte, da sempre utilizza la cosiddetta “suspension of disbelief” ovvero una sospensione (momentanea, per carità!) dell’incredulità che permette al lettore, senza rimanere impantanato in dati scientifici, modelli matematici credibili, valutazioni antropologiche realistiche, per un attimo di IPOTIZZARE non per evadere (da qui l’equivoco sulla letteratura d’evasione, equivoco, da quel che leggo, non del tutto superato) ma per vedere le cose della realtà da un punto di vista assurdo ma per certi versi utile. È chiaro che se ci perdiamo nelle analisi e nel calcolo delle probabilità, forse è meglio cambiare gioco per non offendere i vari “razionalismi”.

      1. Ti ringrazio. Volevo sottolineare soltanto che di solito gli scrittori di fantascienza talvolta sono degli scienziati ma di solito hanno scarse conoscenze sociologiche, psicologiche, antropologiche. Per quel che mi riguarda sono dell’idea che la cosiddetta normalità ci sta conducendo all’estinzione della specie. I cosiddetti folli al massimo commettono qualche omicidio o suicidio: roba da niente al confronto! Per non parlare poi della cosiddetta demopatia strettamente connessa all’oligarchia patologica(ed entrambe ampiamente tollerate)! La normalità tanto sbandierata non esiste di fatto. Questo è un mondo folle e di folli. Quando c’erano i manicomi qualcuno diceva e scriveva che i pazzi erano fuori. Per il momento sono solo apocalittico.

  9. … si pensa al futuro in piu’ modi i quali sempre lasciano aperti spazi sospesi e margini di dubbio. Se si progetta o programma il futuro prossimo si tiene conto, in genere, sia del presente, delle sue peculiarità e dei suoi problemi, come del passato per evitarne gli errori. Per questo lavoro sono necessari la ragione e il suo senso critico, i valori etici, l’immaginario e la conoscenza dettagliata della realtà…Solo per fare esempio: ho saputo che nel mese di settembre a Milano si svolgerà una serie di incontri (il TEMPO delleDONNE) sul tema: rigenerazione…Dalla locandina appare chiaro che sono stati individuate due problematiche del nostro tempo ancora conflittuali per cercare nuove strade ed equilibri di intesa nei rapporti tra generi e generazioni. Misurare poi nel concreto la buona realizzazione delle idee emerse e delle iniziative sarà il passo successivo, cioè riservarsi un margine di prova…
    Quando, invece, si tratta di pensare il futuro futuro -dato che non si puo’ ricorrere a un laboratorio con esperimenti e prove- oltre al senso critico di un reale in cui, forse, esisterebbero ancora le leggi basilari della fisica e di una ipotetica società dal volto lontanamente umano, in genere scrittori e registi fanno riferimento, a largo spettro, alle proprie conscenze e all’immaginazione: come “modellare” il futuro in senso utopico o distopico, ricorrendo a tutte le risorse razionali e creative…Gli scrittori del genere fantascienza che qualche volta, suggeriti da mia figlia, ho letto possono anche essere scienziati, filosofi…molti fra loro riescono ad offrire uno sguardo interessante e insolito anche sul presente, pronosticando una evoluzione dei fatti successivi, assolutamente veritiera…quindi possibile

    1. Fermo restando che anche il più colto, e più razionale, tra gli scrittori del genere deve applicare (come ho già sottolineato in un altro commento) <> Ipotizzare e non stabilire fermamente una profezia: il fatto che in seguito molte di queste profezie si siano realizzate (romanzi su tutti i tipi di pandemie, scritti in epoche non sospette, ci piovono ancor’oggi dal cielo!) è dovuto non alla fortuna ma alla capacità di analizzare i fatti del presente in maniera esponenziale verso un ipotetico scenario futuro. È chiaro che il rischio narrativo di sintetizzare in maniera grossolana e inverosimile c’è, c’è stato e ci sarà sempre. Ma per le analisi serie abbiamo guarnigioni di “persone razionali” che per fortuna ci salvano dal ridicolo.

      1. La parte mancante tra è: “la cosiddetta “suspension of disbelief” ovvero una sospensione (momentanea, per carità!) dell’incredulità che permette al lettore, senza rimanere impantanato in dati scientifici, modelli matematici credibili, valutazioni antropologiche realistiche, per un attimo di IPOTIZZARE”

  10. Comunque io nutrirò sempre delle perplessità riguardo a questo genere. Spesso viene trattato uno scampolo di umanità sopravvissuta ad una catastrofe superficialmente dal punto di vista umano. Non è questione in questi casi di immaginare per assurdo, attività più che lecita. Anche quando si vuole descrivere un universo parallelo lo si deve però fare in modo completo e senza tralasciare elementi essenziali. Spesso nella fattispecie vengono omesse alcune qualità e caratteristiche fondamentali, imprescindibili dell’essere umano. Ammettiamo pure che tutto sia possibile(anche l’impossibile) nel futuribile, ma l’essere umano dovrebbe essere considerato ancora umano. Come scrisse Terenzio: “sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”. A mio modesto avviso i libri di questo genere non contemplano a sufficienza l’interdipendenza degli esseri umani, solo per fare un esempio. Purtroppo gli ingegneri hanno bisogno di medici, i medici hanno bisogno di ingegneri, ma anche i barbieri hanno bisogno di altri barbieri, i medici hanno bisogno di altri medici, i preti hanno bisogno di altri preti, gli psichiatri di altri psichiatri supervisori, eccetera eccetera. Qualsiasi comunità si basa sulla divisione del lavoro, che significa anche suddivisione delle competenze. Senza uno straccio di comunità il singolo individuo vivrebbe pochissimo. La cosiddetta “sospensione di incredulità” a mio avviso deve essere supportata da conoscenze scientifiche e da una ricostruzione attendibile dal punto di vista psicologico, sociologico, antropologico. Questa formula “sospensione di incredulità” può significare anche credere all’incredibile, esattamente come una religione(solo che la fantascienza fino ad ora non ha mai fatto miracoli). Qui forse non si tratta più di ragionare, criticare costruttivamente. Il vero discrimine forse è quello di credere o non credere. Più esattamente lo scrittore in questi casi immagina per assurdo e il lettore crede per assurdo. Tutti i cultori della fantascienza hanno il diritto di ragionare per assurdo. E gli altri? I miscredenti non possono ragionare in modo non dico razionale ma ragionevole? È forse da stolti ad esempio cercare l’intellegibile in questo mondo assurdo? Calvino inoltre sosteneva che la creatività fosse costituita da una fetta di pane con la marmellata: mi dispiace ma spesso trovo questo genere troppo melenso e senza adeguate infrastrutture. È vero che in caso di scenario post-apocalittico le strutture economiche e le sovrastrutture ideologiche verrebbero meno ma le infrastrutture psichiche ad esempio rimarrebbero. Bisogna considerare ciò. Altrimenti la rappresentazione è distorta e falsa. Altrimenti “l’esperimento mentale” e l’esercizio di immaginazione servono a poco. Molto probabilmente siamo tutti o quasi “polli di allevamento” come cantava Gaber. Non resisteremmo che qualche giorno ad uno scenario del genere. Molto probabilmente non sapremmo far fronte alle emergenze e ai pericoli della natura. Fanno corsi di sopravvivenza per manager, reality televisivi in cui i partecipanti vivono per qualche giorno in situazioni estreme. Però ci sono sempre tutor oppure delle troupe che li supportano. Se questi soggetti fossero lasciati soli a se stessi avrebbero vita molto breve. Se si pensa invece al genere post-apocalittico come critica all’antropocentrismo e alla società attuale a mio modesto avviso ciò può essere più utile. Ritengo anche che questo genere potrebbe far scaturire degli interrogativi di fondo interessanti: che ne sarebbe in condizioni così estreme di tutte le mutazioni antropologiche e dell’uomo postumano? Cosa succederebbe all’uomo non più inserito in una società fondata sulla creazione di falsi bisogni come scriveva Marx? Cosa sarebbe veramente necessario? Ma mi chiedo anche se abbiamo veramente bisogno di essere stimolati dalla fantascienza per porsi questi interrogativi. In fondo per riflettere sul destino del nostro pianeta basta leggere una intervista di un astronauta, che in orbita ha provato dolore per questo mondo ed ha sentito un vero legame con la Terra. Abbiamo veramente bisogno del genere post-apocalittico per meditare su una umanità veramente autentica e su una esistenza veramente autentica? Carlo Coccioli sosteneva che gli esseri umani fossero come pelle. Nello scenario post-apocalittico che cosa resta dell’uomo? Non c’è più ricambio cellulare e non rimarrà più niente della pelle morta nel corpo del pianeta.

    1. … “ma l’essere umano dovrebbe essere considerato ancora umano”…
      Scusa Davide, mi indicheresti in quale parte del mio articolo si fa riferimento a una disumanizzazione anche del singolo ipoteticamente rimasto solo?

      1. Quella frase è riferita al filone fantascientifico, ma non estrapolarla dal suo contesto. Non travisare. Quella frase viene ampiamente spiegata nelle righe successive del mio commento. Non ho mai scritto che tu parli nel tuo articolo di una disumanizzazione del protagonista rimasto solo, ma che in questo genere letterario a mio avviso non vengono prese in esame tutte le caratteristiche umane in modo veritiero. Vengono per così dire falsate. Per analizzare e descrivere la natura umana e le dinamiche sociali, anche quelle di poche persone, a mio avviso non bisogna pensare l’homo homini lupus e neanche l’homo homini deus ma semplicemente l’homo homini homo. Mi sembra che alcune problematiche dell’essere umano vengano tralasciate in certi romanzi ed in certi film. Forse lo fanno per questione di sintesi, forse rispettare i canoni della letterarietà. La casistica della vita allo stato brado non è infinita ma quasi. Forse lo fanno per esigenze di spazio o per non essere particolarmente crudi. Forse certi dettagli non interesserebbero che pochi lettori e preferiscono sorvolare. Ci sono ancora oggi popoli che vivono in tribù allo stato quasi primitivo. Forse è più educativo leggere qualcosa sui loro usi e costumi che leggere una distopia. Però naturalmente è una mia opinione, senza nulla togliere alle visioni ed alle intuizioni degli scrittori di fantascienza. È una mia opinione e come tale va rispettata. Tu fai una bella riflessione su questo genere letterario e ne hai tutto il diritto. Io ho tutto il diritto di esprimere le mie perplessità su questi libri e romanzi.

        1. Ti sei risposto da solo: infinite combinazioni di accadimenti e di reazioni, personali o di comunità, che noi da qui non possiamo né profetizzare in maniera utopica né attraverso studi “razionali” come qualche professore da tastiera ha tentato di stabilire.
          È chiaro che le “riduzioni” letterarie e cinematografiche lasciano il tempo che trovano e non possono essere prese in considerazione come metro assoluto.
          Sul rispetto della tua opinione non c’era bisogno di ribadire alcun concetto: figuriamoci se quel genere debba piacere a tutti indistintamente. 😉
          E per quanto mi riguarda questa sezione dei commenti termina qui.
          Risponderò eventualmente solo a nuovi commenti.

          1. Mi sono risposto da solo? Non giocare con le parole. Non innamorarti troppo delle parole perché queste sono amanti scellerate e non danno né mantengono al giorno d’oggi. Le parole sono una cosa seria oltre ad essere un’arma a doppio taglio. “Professore da tastiera”? Ti riferisci a me? Se fosse così ti consiglierei meno compiacimento, meno “L’arte di ottenere ragione” e più rispetto della netiquette, delle persone e delle opinioni altrui. Ti consiglierei come si dice in Toscana di crederci, però non di fissartici. Ma non so naturalmente se ti riferisci a me. Per quel che riguarda “gli studi razionali” io credo alle scienze umane. Tu credi pure alle distopie.

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