Aspettare e non venire

di Rita Simonitto

                                    “Aspettare e non venire,  
                                     stare a letto e non dormire,
                                     ben servire e non gradire,
                                     son tre cose da morire.”
 
                     (da La serva padrona – Intermezzo di G.B. Pergolesi)              

La spiaggia, ovvero quel fazzoletto di spiaggia, era incassata tra due propaggini di costa alta che scivolavano giù al mare e la cui vegetazione era variegata,frammista di rocce aguzze, ginestre, lentischi e corbezzoli e, più in alto, a svettare disordinate, piante di orniello dalle tremule foglie.

Ci si arrivava attraverso un accidentato sentiero, ombroso al punto giusto per non far demordere il viaggiatore nel suo tragitto verso la caletta.

Diomede frequentava quel posto a giorni alterni, alternanza dettata esclusivamente dal fatto che, quando non ci andava, la giornata era dedicata alla spesa domestica e ad inviare al suo giornale degli stanchi elzeviri su argomenti a carattere letterario e questo gli permetteva di integrare la sua pensione di giornalista alla quale aveva avuto accesso alla prima finestra che si era aperta in tale direzione, pur rimettendoci economicamente.

Tutto ciò gli aveva comunque fatto realizzare il sogno di ritirarsi in quel borgo di quattro anime sulla costa adriatica, luogo che aveva frequentato ai tempi delle sue ricerche storiche sulla presenza degli Achei, l’introduzione che lì c’era stata della cultura del cavallo, le tecniche di addomesticamento e allevamento di quegli animali di cui fu artefice in particolare Diomede, eroe greco, passato dall’ essere campione della guerra al divenire diffusore della civiltà ellenica. Proprio “quel” Diomede della guerra di Troia. D’altronde “nomen, omen”, aveva pensato il ricercatore, ridendo fra sé, se lui si chiamava Diomede!

Giuda, il suo gatto siamese, lo accompagnava fino all’inizio del sentiero scosceso e poi se ne tornava a casa, aspettandolo al fresco, scegliendo il davanzale più idoneo seguendo il girare del sole. Mica stupida, la bestiola!

Lui sì che invece si sentiva stupido, nel senso che faceva resistenza ad adattarsi agli eventi. In passato si era sforzato di reprimere i suoi istinti belluini per sostituirli con altri di natura più tollerante e comprensiva. Solo che adesso, di fronte a quel cataclisma che aveva sovvertito il valore della tolleranza scambiandola per dabbenaggine, sbuffava e lanciava improperi al vento; salvo poi, giocoforza, dover chinare la testa ed accettare la stupidità degli eventi che mai come in quel dannatissimo periodo permeava la società e soprattutto la cultura la quale, svilita, si era trasformata in una serva che pensava di essere padrona.

Lì, davanti a quel mare che aveva conosciuto momenti gloriosi, Diomede sapeva che era del tutto inutile che se ne stesse ad aspettare che dalle spume affiorasse Afrodite eupleaa preannunciare una buona navigazione. Nella vita, si intende.

Perché i movimenti che via via vedeva nella società erano fasulli. Così come i movimenti dell’onda. Le onde in movimento infattinon erano altro che apparenza, perché era il vento a produrre quei brividi in superficie, uniti a volte ad energie cinetiche che per propagazione si producevano negli strati profondi. Pure essendo affascinato da questo interagire tra movimenti di superficie e movimenti legati a dinamiche più interne, Diomede manteneva una parte fanciullina che univa il fantasticare alla speranza di mutamenti significativi. Dettati da una qualche necessità ‘interna’… della Storia, forse? A prescindere dai desiderata di chicchessia.

Una mattina, appena raggiunto il piccolo arenile, intravide poco lontano la sagoma di una donna riversa bocconi. Avvicinatosi e lasciando da parte ogni interrogativo, da dove provenisse e perché, cercò di portarle i primi soccorsi, ma quella vomitò solo un po’ d’acqua ma non si riprese. Non c’era tempo da perdere: con il cellulare chiamò con urgenza l’elisoccorso che, fortunatamente, fu lesto ad arrivare. Gli addetti intuirono che i tempi erano stretti, non si persero in domande se non chiedergli il suo nome, il suo recapito, pregandolo di rendersi disponibile e rapidamente portarono la donna all’ospedale di Ancona.

Diomede non se la sentì di rimanere ancora in spiaggia e ritornò a casa.

Giuda lo guardò sospettoso per quell’arrivo anticipato; ciò nonostante gli si strusciò sulle gambe, come un tacito messaggio “Sono qua, amico”.

Quel ‘tenersi a disposizione’ non gli suonava molto bene soprattutto per il fatto che avrebbe dovuto interrompere quel rituale che lo portava, a giorni alterni, giù alla spiaggetta. Per la sua dimestichezza con una formazione positivista – anche se poi integrata con l’interesse per le forme di pensiero antico e il Mito -, non voleva soccombere all’idea di una qualche sorte ostile che si stava accanendo contro quella che lui aveva concepito come l’organizzazione migliore del suo finale iter terreno. Eppure non gli era facile evitare di chiedersi: quale disegno veniva a turbare il suo ordine previsto? Chi era questa sconosciuta che improvvisamente (e improvvidamente) lo costringeva a cambiare i suoi programmi?

Passarono così alcuni giorni di inedia: unico sfogo, una specie di giardinetto in cui spiccava il tentativo dell’ex padrone di casa di creare una composizione rocciosa con fiori e piante grasse e a cui Diomede ogni tanto dedicava qualche attenzione. C’era anche un piccolo prato dove Giuda si sbizzarriva in salti, agguati a lucertole e piroette a seguire suoi fantasmi. C’era anche un angolo di piantine aromatiche per dare un po’ di appetibilità ai suoi pasti morigerati.

Il tardo pomeriggio di uno di quei giorni di isolamento sua moglie (pur vivendo ognuno per conto suo – lei a Londra per seguire quell’indirizzo di ricerca sulle biodiversità ambientali, orientamento verso il quale lui stesso l’aveva incoraggiata e appoggiata-e, pur non trovando più niente da dirsi, non si erano ufficialmente separati), lo chiamò:

“Cicci” (ora che il nome di Diomede non le fosse mai piaciuto era notorio fin dagli inizi, ma “cicci”, era forse qualitativamente migliore, anche come vezzeggiativo?), non ti ho sentito in questi giorni, è successo qualche cosa?

Poi, non aspettando risposta, come al suo solito. subito parti al motivo della chiamata:

“Eli verrebbe in Italia a trovare i nonni. Vorrebbe fare tappa da te perché le farebbe piacere rivederti dopo tutto questo tempo. La puoi ospitare?”

Diomede annusò il vero motivo di quel passaggio: odore di soldi altro che affetti! Sua figlia, ormai diciannovenne, aveva bisogno di soldi e la mucca da mungere era sempre stato lui! Idealmente si morse la lingua, anzi, no, il pensiero, per aver dato spazio a quel sospetto! Ma le esperienze avute in passato, purtroppo, deponevano per quella ipotesi.

Lui cercò di articolare il suo diniego in modo sbrigativo raccontando a Marta, la moglie, che non poteva prendersi impegni di sorta in quanto… e succintamente le spiegò che doveva tenersi a disposizione per le indagini sulla donna che aveva trovato moribonda in quella spiaggetta. Ritenne doveroso farle questa segnalazione anche perché, con ogni probabilità, sarebbe venuta a saperla dalla stampa anche se quella, pur tra le notiziole locali, aveva titolato “un professore salva in spiaggia…”.

Ma che professore e professore! O forse faceva più scoop il titolo di prof. che quello di giornalista?

Espresse dunque un no inequivocabile a cui seguì la raccomandazione di Marta “Non farti abbindolare come al tuo solito!”

Chissà se la consorte (che di quel “con” era stata soltanto beneficiaria ma non partecipante) si ricordava del fatto che lui l’aveva sposata, lei ragazza madre, di nove anni più giovane di lui, la quale gli aveva portato in dote una bambina (Elisabetta, appunto). Così lui si era trovato a 32 anni, da poco laureato in Lettere, a farsi carico in un colpo solo, con la alterna guida emotiva dell’amore che muove il mondo e i nostri sensi, della giovinezza spavalda e tumultuosa della moglie e della tenera età della bambina.

No, non intendeva certo recriminare – anche se gli tornava alla mente, dell’Intermezzo di G. B. Pergolesi, il versetto “ben servire e non gradire” –, ma farsi dare dello sciocco che si fa abbindolare “come al suo solito” gli rinnovava dentro un dolore mai sopito.

Perché Marta, con la scusa che a Londra Eli si sarebbe meglio perfezionata nella lingua, se l’era portata con sé, ritenendo il marito incapace di poterla seguire adeguatamente.

Quindi, anche forte di questi pensieri, si sentì sicuro del suo fermo“no” a quel preannunciato arrivo.

Il giorno successivo a quella telefonata gli giunse comunicazione di presentarsi al comando di Polizia di Ancona perché, essendo lui il solo testimone di quanto era accaduto a quella donna trovata in spiaggia -il suo nome era Elena …vattelapesca…,il cognome non se lo ricordava -, stava per essere dimessa dall’Ospedale, ma dalle ricostruzioni fatte dalla stessa molti aspetti non quadravano. Sosteneva infatti di aver noleggiato una barca da un pescatore della zona – poi risultato inesistente –; di aver cercato di doppiare uno dei piccoli promontori per accedere a quella spiaggetta – come facesse a sapere che lì avrebbe trovato una spiaggetta non fu chiaro –; di essere andata ad infrangersi su quegli scogli – ma nessun relitto di barca era stato trovato –;e infine di essersi messa a nuotare per poi venire travolta dalla corrente fino ad arenarsi nel luogo dove era stata trovata.

Giuda intuì che il suo padrone si sarebbe assentato quando lo vide trafficare con quelle ciotole particolari che utilizzava quando doveva stare via per più tempo: quella che erogava a orari determinati le crocchette e la fontanella zampillante per garantirgli l’acqua in continuità.

Si piazzò dunque davanti all’uscio, si produsse in miagolii strazianti cercando di intrufolarsi fra le gambe per farlo barcollare ed eventualmente cadere: meglio caduto che lontano.

Diomede lo tranquillizzò, per quanto sia possibile tranquillizzare un gatto, e uscì.

Elena era ancora in Ospedale, sotto tutela di uno psichiatra che la stava seguendo avendo appunto percepito le incongruenze di quella ricostruzione dei fatti (supponeva si trattasse di un tentativo di suicidio anziché di un incidente di navigazione, anche se molti punti rimanevano tutt’ora oscuri), e lì si recò Diomede accompagnato da due tutori della Legge per continuare le indagini alla presenza di lui come testimone.

Diomede, pur essendo un giornalista, e quindi aduso a queste prassi, pur tuttavia mai si era trovato implicato in prima persona.

Elena non dimostrava affatto i 34 anni che aveva dichiarato alle autorità, sembrava molto più giovane, ma non aveva documenti con sé al momento del suo ritrovamento e non si era riusciti a ricostruire i suoi passaggi immediatamente precedenti al fattaccio. Era una donna di piacevoli forme, armoniose e dal sorriso comunicativo.

Portava i biondi capelli corti, ma con un taglio particolare il che produceva lo strano effetto che fossero sempre bagnati e appiccicati al capo.

Diomede non si stupì nell’associarla alla testa di una scultura greca.

“Ecco qui il mio salvatore!”, esclamò tendendogli la mano quando lui le venne presentato. Ma quel tono di voce aveva una nota falsa che era come contraddire quanto era stato appena affermato.

La sottotraccia stava a significare che invece quell’intervento salvifico non era stato per niente gradito.

Comunque, in presenza della Legge, ambedue (Elena e Diomede) dichiararono di non conoscersi affatto e che quell’incontro in Ospedale era il primo (a parte il ritrovamento in spiaggia) in cui si vedevano, e questa era probabilmente l’unica affermazione di verità tra tutte quelle che la donna aveva fatto.

Ma, una volta appurato questo, e cioè che il giornalista (non già più professore!), pur essendo un habituè di quell’angolo segreto di costa, ci andava a giorni alterni e pertanto non era possibile (a meno che non fossero state registrate le sue abitudini) sapere se quel particolare giorno lui vi si sarebbe recato o no, presupponendo l’eventuale ipotesi di un probabile salvataggio in extremis, nessun altro elemento utile all’indagine poteva venire dalla persona di Diomede.

Il quale chiese se, in previsione di suoi impegni fuori Regione, potesse assentarsi, e gli venne risposto affermativamente: era libero.

In verità, no, non aveva da andare da nessuna parte ma era un modo indiretto per capire se era ancora sottoposto a vincoli oppure no.

Solo che la libertà appartiene anche a un vissuto interiore, quello che ci permette di spaziare con il pensiero senza timore davanti alla eventualità di incontrare ostacoli indesiderati. Mentre invece l’episodio successogli era andato a smuovere in lui molti sassi, anche di una certa dimensione, che adesso gli vagavano nella mente alla rinfusa, non più trattenuti da alcun picchetto.

Ovviamente non li voleva ricondurre ad una specie di bilancio di una vita, ma comunque erano interrogativi che nell’insieme andavano a toccare quella sua modalità particolaredi aver abbandonato ogni tendenza belligerante per adottare la linea della comprensione e della cosiddetta ‘pazienza’ che assomigliava purtroppo alla arrendevolezza.

Ma quel giorno in Ospedale aveva scoperto che, pur percependo la pietas per questa giovane donna che si trovava così allo sbaraglio nella vita, non poteva che rabbrividire (e anche un po’ arrabbiarsi!) davanti alla sua sfrontatezza, incurante non solo dei destini di altri che stava implicando nella sua storia, ma anche di ciò che di rischioso poteva rovinarle addosso e pertanto la poca protezione che dava a se stessa!

Quali mutazioni sociali erano intervenute per produrre questa drammatica realtà? Un rovesciamento culturale?

Con amarezza si stava rendendo conto che la coscienza e la cultura (che viaggiano a braccetto) non possono essere un cibo che viene soltanto propinato, bensì ricercato e anche con fatica. E che la lotta di una pseudo-cultura usa-e-getta, utilizzabile nel qui ed ora e poi bruciata dal rincorrersi degli eventi, era diventata una lotta impari versus una cultura vera, più meditata, più complessa. Il nome del vincitore lo si conosceva già. D’altronde la Legge di T. Gresham (XVI secolo) per cui la moneta cattiva scaccia quella buona, non era applicabile soltanto all’economia ma anche alle relazioni!

E poi da Elena, giocoforza, passò ad Elisabetta pensando a quanto (e se) lui era stato un buon padre. O se, nella gestione di Eli, si fosse fatto prendere la mano da Marta la quale riteneva di essere la sola a poter capire le esigenze di sua figlia.

L’idea di queste giovani vite “a perdere” lo angustiava soprattutto per l’impotenza a fare qualche cosa se loro stesse, vittime inconsapevoli (e quanto inconsapevoli?), non si facevano aiutare.

Sì, pensava a sua figlia Eli. Perché aveva così bisogno di soldi? E se non li avesse avuti, che cosa avrebbe fatto per procurarseli? Forse lui aveva sbagliato nel non farla venire. Forse avrebbe potuto parlare un po’ con lei e cercare di capire… Ma le esperienze precedenti di altri tentativi erano naufragate non solo nel vuoto ma anche nell’insulto gratuito (“Ma chi ti credi di essere? Mio padre?”)

Tornato a casa, dunque, i pensieri non lo lasciavano tranquillo e le notti erano diventate uno “stare a letto e non dormire”: notti perse, oltre che dietro le sue elucubrazioni alla ricerca di un qualche senso che inquadrasse almeno piccoli sprazzi di reale, anche dietro l’osservazione del geco appostato sul soffitto della camera, il quale, in paziente immobilismo, aspettava che qualche incauto insetto gli venisse a tiro. Solo che Diomede aveva la strana sensazione che non si potesse aspettare più. Che ciò che attendiamo non può lasciarci lì, come il geco, in attesa dell’appalesamento. Urgeva l’esigenza di fare qualche cosa anche se non era ancora chiaro il che cosa. Altrimenti non restava altro che il morire, “aspettare e non venire… è una cosa da morire”.

Durante il giorno le cose andavano un po’ meglio anche perché cercava di ammortizzare quei suoi pensieri frequentando più del solito i suoi vicini di casa vuoi per un caffè (e ne aveva certo bisogno!) o per una chiacchierata. Vicini che, oltretutto, erano gli ex padroni della sua abitazione.

La sua casa, infatti, faceva parte di un complesso di tre nuclei famigliari: uno era quello di nonno Attilio, ex assessore ai LL.PP nel vicino centro di San Severo; a questo si aggiunse poi quello edificato quasi in contiguità e destinato al figlio Giovanni; e un altro ancora, separato dai primi due da una piccola corte, destinato al figlio Arcangelo. Quest’ultimo aveva poi deciso di rinunciarvi e di lasciarne la proprietà al primogenito in quanto intenzionato ad andare ad abitare nella Casa di Dio, in un monastero a Giulianova dove ben presto divenne Priore.

Così quell’abitazione per molti anni venne data in affitto stagionale e presto Diomede ne diventò un ospite fisso fintantoche non si decise ad acquistarla con soddisfazione di tutti.

Giovanni aveva in paese un piccolo negozio di generi alimentari in cui prestava la sua opera anche la moglie Dina che alternava a quell’impegno la sua passione di merlettaia. In quella manifattura si produceva tutta la sua creatività, duramente ferita dalla perdita prematura di un bambino di soli due anni. Poi Giovanni cedette il negozio e si ritirò in quella grande casa, ormai annessa a quella paterna (Attilio e consorte erano passati nel mondo dei più) e passava il suo tempo a fare intagli nel legno di corbezzolo scolpendo pipe, qualche testina nonché ornamenti vari che, assieme ai pizzi e merletti di Dina, facevano bella mostra di sé nella casa di Arcangelo, ora di Diomede.

Giovanni e Dina davano una mano, ovviamente retribuiti, alla gestione casalinga del loro comproprietario: lui mantenendo pulito il giardino e lei facendo il grosso delle pulizie di casa due volte alla settimana.

Accadde anche che durante quei quattro/cinque giorni di isolamento dal mondo, Diomede, andando a rovistare in una cassapanca per trovare una tovaglia di ricambio, dato che le ultime avevano ricevuto molte attenzioni dalle unghie di Giuda, trovò avvolta in un panno e religiosamente allocata in una scatola protettiva, la sua tromba con tutti gli annessi e connessi. Non se ne ricordava affatto, ovvero, era come se ne avesse rimosso la memoria: c’era stato, sì, un tempo (infinitamente lontano, o così gli pareva) in cui l’aveva suonata sia per suo piacere e sia per allietare qualche festicciola con compagni e amici.

Che triste declino, erano partiti per suonare ed erano stati suonati! Amaramente era accaduto come con El Deguello, il suo cavallo di battaglia, l’assolo finale gli riusciva così bene da scatenare gli applausi. Dal trionfalismo per la battaglia alla afflizione per la sconfitta!

Così, altrettanto amaramente, la riavvolse e la lasciò lì a dormire i suoi sonni gloriosi!

Ma erano i suoi, di sonni, a non essere né tranquilli né, tantomeno, gloriosi. Lo turbava il destino di Elena, i suoi enigmi, che cosa stava nascondendo?

Avrebbe voluto andare ad Ancona per chiedere ulteriori informazioni, forte anche del fatto che poteva sempre avvalersi della sua professione di giornalista. Certamente, però, lo psichiatra non si sarebbe esposto. Quindi si limitò a telefonare al comando di Polizia. Fortunatamente trovò proprio il Comandante che era venuto con lui in Ospedale. Gli riferì che la donna era stata dimessa, si era appurato che aveva una dimora presso amici a Roma e quindi non c’erano gli elementi per trattenerla. Però poi era misteriosamente scomparsa. L’ipotesi che comunque si erano fatta era che la donna fosse entrata in un giro di spaccio di droga e di prostituzione, un giro mafioso che in quella zona aveva un centro importante, e che lei avesse cercato di uscirne. Ciò che non era chiaro riguardava la dinamica di quella mattina: aveva cercato lei di buttarsi in mare oppure era stata drogata e buttata in acqua dai suoi aguzzini? Infatti all’esame tossicologico era risultata positiva.

Ciò gettò Diomede in sofferenza e gli fece capire il senso del tono sarcastico con cui Elena aveva pronunciato la fatidica frase: “Ecco qui il mio salvatore!”.

Un mattino qualsiasi, aveva deciso di riprendere, anche se ancora di controvoglia, a scendere alla caletta.

L’episodio di Elena continuava ad intorcolarsi dentro la sua mente con pensieri legati al concetto di fine vita (si può scegliere di dare fine ai propri giorni? E perché?); oppure pensieri legati alla ‘libertà’ di optare per una “non vita”, quale che essa sia?

Le memorie letterarie non potevano non richiamarlo alle Operette morali di Leopardi, al dialogo tra Malambruno e Farfarello circa l’infelicità come appannaggio della natura umana. Ragion per cui, a volte, si preferisce il non vivere piuttosto che vivere infelici in quanto, così afferma Farfarello, “la privazione dell’infelicità è sempre meglio dell’infelicità”.

Ma, e poi?

Come era accaduto che la giovane donna fosse incappata nel giro malavitoso? Domande senza risposta né una qualche verità a cui fare riferimento.

Ma forse no. Una verità c’era e aveva a che fare con la progressiva perdita della capacità di ascolto dei problemi pensando onnipotentemente che tutto fosse possibile e realizzabile. “Si può, si può!”

E però, poi, chi sarebbe stato disposto ad ascoltare quella verità che avrebbe implicato sforzi e rettifiche nel proprio modo di pensare?

Non da trascurare gli Dei – o chi per loro, nella trasposizione terrena, lo sapeva bene -, che sono vendicativi nei confronti di coloro che osano alzare i veli?

Dunque quella mattina il sole era ancora obliquo all’orizzonte e, una volta accomodatosi sulla sdraio – che solitamente tenev ariparata in un anfratto di roccia -, Diomede vi si appisolò.

Fantasmi continuavano a muoversi nella sua mente, mescolando aspetti del passato a quelli del presente.

Il risveglio fu brusco.

“Ehi, tu!”. Aprì gli occhi, turbato dal permanere della mescolanza di sogno e realtà.

Davanti a lui due persone, due uomini dalle facce poco raccomandabili – gli parve che uno fosse di colore ma era in controluce e non ne era sicuro – un gozzo cabinato era ancorato vicino alla spiaggia.

“Dov’è la ragazza?”

“Eh?” chiese stupefatto.

Fu sollevato di peso da quello più nerboruto e la domanda venne ripetuta a più riprese nel mentre quello lo stava stramenando e stringendolo al collo.

Senza dubbio Diomede intuì che per lui non c’era più scampo, qualsiasi fosse stata la risposta.

Allora, come in un delirio onirico, accompagnato da una musica assordante che gli martellava dentro la testa, vide la vendicativa Pallade Atena far uscire dal mare Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini, che si avvinghiavano al corpo di Laocoonte e a quello dei suoi due figli, perché l’indovino aveva osato vedere e dire la verità, sola ed unicaprerogativa della Dea.

Diomede qualche cosa aveva pur “visto” e così era perduto.

Poi tutto in lui si annebbiò e non percepì più nulla.

Verso le due di quel pomeriggio, Giovanni si trovò Giuda davanti alla finestra di casa sua, aveva il pelo alzato e miagolava lamentosamente.

Che cosa lo avesse portato a scavalcare il cancelletto che divideva le due proprietà non era chiaro. Giovanni ripercorse il cammino inverso con Giuda dietro che smiagolava più sommessamente, quasi un gemito.

La casa del vicino era a posto, ma ad un tratto il gatto fece un balzo e riprendendo quel miagolio disperato si buttò fuori in strada correndo fino all’imbocco del sentiero che portava alla spiaggetta. Giovanni intuì il peggio e corse giù, a tratti ruzzolando in quel percorso accidentato.

Giuda non lo seguì, né ritornò verso casa come faceva al suo solito ma si accucciò con un cupo brontolio che sembrava venire dalle viscere della terra.

Diomede stava là.

Il suo corpo prono, inerte sulla rena, le braccia stese in avanti come un ultimo tentativo di afferrare qualche cosa.

Giovanni corse, lo rigirò. Non respirava più.

E poi Giovanni singhiozzando si guardò attorno. Nessuno.

Inutile la corsa all’Ospedale.

Conegliano, 06.08.2020

2 pensieri su “Aspettare e non venire

  1. Come si costruisce la suspense (perchè c’è suspense durante la lettura): scadenze e abitudini, la noia del post-, post-lavoro e matrimonio concluso, isolamento, tempo aperto e vuoto. Poi l’imprevisto, una ragazza svenuta e ferita nel luogo solitamente riservato e sicuro, e compare una incertezza: “si tenga a disposizione”, l’inquietudine si profila.
    Deviazione narrativa che approfondisce i tratti già delineati: la figlia, adottiva/estranea, rappresenta incomprensibili bisogni finanziari.
    Secondo segnale di inquietudine: il sarcasmo della ragazza sul suo salvatore. Poi la storia si scioglie e anche la sparizione della ragazza salvata è lasciata cadere come insignificante.
    La conclusione, con una scrittura breve e definitiva, rinforza in fondo la piattezza del decorso narrativo.
    Ma io davvero ho letto con l’ansia di arrivare in fondo.

  2. …la narrazione di Rita Simonitto in questo racconto a tratti appare lenta e pedante, ma perfettamente in linea con il personaggio che vuole descrivere, Diomede, nonostante il nome eroico, un uomo “morigerato” e metodico. Sempre in attesa che qualcosa giunga da fuori a distrarlo dal suo torpore, ma nelle stesso tempo timoroso che qualcosa venga a turbare la sua situazione…In realtà una persona anaffettiva e incapace di concepire entusiasmo per una qualsiasi causa che non ruoti strettamente intorno alla sua persona, alle sue meschine proccupazioni finanziarie…Non si spreca piu’ di quel tanto nella sua professione, non ha conservato nessun forte legame, ignora i problemi degli altri, che sia la figlia e la ragazza trovata morente sulla spiaggia…Solo casualmente gli tocca una fine apparentemente eroica…Diomede non mi sembra un ingenuo o, tantomeno, un idealista che perde la vita per una scelta coraggiosa…Forse ha amato solo il gatto Giuda ed è, infatti, da questi ricambiato…Giuda si’ con tutta la sua convinzione

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