Molti passi alla volta

La dialettica agli operai

di Ezio Partesana

                                   A mia sorella Enrica, per la sua tenacia.

Una premessa.

Questo scritto è la risposta al rimprovero che gli amici mi hanno spesso fatto durante gli anni e che suonava più o meno così: Possibile che non si riesca a spiegare che cosa sia la Dialettica Negativa senza usare termini astrusi e scrivere un libro di seicento pagine?

Ci ho provato, il risultato è quello che trovate scritto qui sotto. Fare in modo che il testo fosse leggibile da chiunque conosca la lingua italiana ha comportato alcune rinunce e imprecisioni, delle quali però il responsabile sono solo io; la peggiore, credo di poter dire, è che non troverete una definizione della Dialettica Negativa, ma solo un esempio di come proceda. L’invito sarebbe a prendere una cosa qualsiasi della vostra vita e a rifare lo stesso percorso.

Sono seduto a un tavolo e ho sete. Davanti a me c’è un bicchiere di vetro con dentro dell’acqua. Lo afferro con la mano destra, lo porto alla bocca e bevo. È una certezza: avevo sete e ho bevuto, questo è stato il bicchiere e questa l’acqua.

Il bicchiere adesso vuoto rassomiglia molto a quello che prima era pieno, ma non è proprio identico. Non posso più dissetarmi con esso, per esempio, ma potrei chiedere all’oste che ci metta del vino questa volta. Oppure potrei alzarmi e andare via, soddisfatta la sete, e il bicchiere di vetro resterebbe lì, inutile sino a quando non arrivi un altro a chiedere da bere.

Quel semplice bicchiere è uno, ma fa la sua parte, per così dire, molte volte e l’esperienza che ne abbiamo cambia a ogni recita, come se la nostra presenza contasse qualcosa nella sua essenza. Ma allora, alla fine, quale dei due è il bicchiere vero? Quello che ho adoperato io per dissetarmi o quello che, dopo essere stato lavato, verrà servito a un nuovo avventore? Tutti e due sono certi, come migliaia di altri bicchieri e assetati al mondo, ma è una certezza un po’ povera: ero lì, ho bevuto, il bicchiere è stato utile (questo è il suo scopo, del resto) e poco altro.

Qualche piccola differenza con tutti gli altri bicchieri del mondo ci sarà pur stata; la forma, per dirne una, o il fatto che il fondo fosse un poco rovinato. E poi esso era lì, in quel momento, mentre tutti gli altri bicchieri no. L’ho incontrato per un attimo, l’ho usato e per questo lo conosco, per quel che serve. Ma in realtà avrei potuto bere da qualunque altro bicchiere, perché sono tutti uguali e non c’è nessuna sostanziale differenza tra di loro; un poco più belli o un poco più brutti, uno vale l’altro.

Torno a casa dopo il lavoro, preparo la cena e mi siedo al tavolo, sopra c’è un altro bicchiere, naturalmente, ma questo ha una qualità che l’altro, in osteria, non aveva, questo è stato comprato. Come l’altro serve a contenere del liquido, ma a differenza dell’altro ho speso dei soldi per averlo. È certo e concreto come l’altro, ma al tempo stesso il fatto che stia di fronte a me presuppone una serie di cose alle quali non avevo pensato. Qualcuno, da qualche parte del mondo, ha lavorato per produrre quel bicchiere e io ho lavorato per avere i soldi per comprarlo. Quell’oggetto è un bicchiere e insieme il prodotto di un lavoro, contiene l’acqua ma anche il tempo impiegato per farlo così come è adesso. Ha due nature, insomma, delle quali l’una è utile e l’altra sembra non servire a nulla. Però non è una mela che si possa cogliere dall’albero; chi l’ha fatto si alzava la mattina, andava in fabbrica e aveva un contratto di lavoro da rispettare. Ora, il fatto che una cosa sia stata prodotta non è un buco sul fondo, non ne esce fuori l’acqua, ma ti fa capire che quell’oggetto, il nostro povero bicchiere, del quale ero così certo da potermi dissetare, semplicemente non esisterebbe se nessuno avesse un lavoro dove viene pagato per produrre bicchieri.

E così le mie certezze diventano due: il bicchiere dell’osteria e il lavoro che serve a farlo. Però se guardo indietro a questa mattina, quando mi sono dissetato, io vedo solo il recipiente per l’acqua, mentre il lavoro non lo vedo da nessuna parte, il lavoro non serve a bere dal bicchiere.

Il giorno dopo torno all’osteria e il bicchiere è ancora lì; forse lo stesso, forse un altro, non li distinguo più bene. Ordino e mi viene riempito; guardo l’oste che aspetta i miei soldi e lo pago. Poi guardo il bicchiere e mi rendo conto che serve solo perché l’oste vende quello che c’è dentro e io ho delle monete che posso usare, per convenzione, per pagare il suo servizio. Guardo il bicchiere e ci vedo entro il vino – questo volta vino, non acqua – ma anche l’oste, chi l’ha prodotto quel pezzo di vetro, e i miei soldi, che sono buoni per una intesa sociale; chi mai mi darebbe del vino, se così non fosse, in cambio di due pezzetti di metallo?

Come fosse una medaglia il bicchiere ha due facce: di una sono certo, e si vede bene, dell’altra ignoro quasi tutto. Guardo sotto e c’è scritto: “Fabbricato in Cile” e mi domando se in Cile facciano i bicchieri come li facciamo noi. Il processo sarà grosso modo lo stesso, penso, non è che ci siano tanti modi per fare un bicchiere, ma forse non sono uguali la paga, i ritmi, le assicurazioni in caso di infortunio. E anche il vino cambia sapore, per me, perché mi pare che per versarlo ci siano volute un sacco di cose, non solo un barista e un avventore. L’oggetto che guardo è diventato un enigma e io non so rispondere.

Forse è colpa mia: un bicchiere è un bicchiere, che cosa c’entra dove è stato fatto e come? Se è colpa mia, però, un terzo attore è entrato in scena: oltre al bicchiere che è lì e se ne sta fermo senza fare nulla, e a quell’altro che invece è frutto del lavoro umano, ci sono anche io, un soggetto che guarda e che, di volta in volta, dovrebbe in teoria decidere se è più importante l’oggetto che serve per bere o quello che ha il lavoro dietro di sé, l’uso o il valore, perché stanno tutti e due dentro la stessa cosa e sembra che solo io, un soggetto, possa separarli l’uno dall’altro e farli apparire con chiarezza.

Quando si moltiplicano gli enti la confusione cresce, più sono le cose da controllare meno si sa da quale parte cominciare. Avevo sete e ho bevuto dal bicchiere. In quel momento, passato, era esso a determinare come stessi io, in arsura o abbeverato, non viceversa. E chi ha portato l’acqua, chi ha fatto il vetro, erano ugualmente indispensabili. Forse il bicchiere come oggetto semplice e tranquillo era in realtà quello meno importante di tutti, in fondo si può bere anche dalla coppa delle mani, no? Ma se la conclusione è che avrei anche potuto fare a meno del bicchiere, alla fine tutta la conoscenza che ho di quell’oggetto è che avrei potuto farne a meno. Di nuovo sono io – un io qualsiasi, un soggetto qualsiasi – a stabilire cos’è quell’oggetto che mi sta di fronte e che pare non volersi arrendere perché da qualunque parte lo guardi, rimanda sempre e solo a me stesso.

Ci sono due ostacoli, però, alla scomparsa del bicchiere, a che diventi tutto solo un’immagine dentro la mia testa: il primo è che, indubitabilmente, il bicchiere non è solo nella mia testa; se io morissi non lo butterebbero via bensì qualcun altro se ne servirebbe, più o meno per lo stesso scopo. Il secondo è che il lavoro che ha prodotto quel bicchiere non è svanito nel nulla, ma è lì, dentro al bicchiere, cristallizzato, basta guardarlo dal lato giusto, non sopra o sotto ma dentro; la sabbia, il fuoco, il contratto di lavoro, la paga, persino i rischi corsi per fare tutto questo non sono diventati niente, ma a guardare non appare quasi nulla.

Dunque che cosa sia il bicchiere non dipende da me in particolare, ma da un qualsiasi “me” che lo usi o lo produca o lo pensi. Il soggetto, che sembrava così cruciale nel determinare quale fosse il vero bicchiere, diventa un soggetto qualsiasi, esattamente come un oggetto è un oggetto qualsiasi. Hanno entrambi due facce, due nature, quella semplice dell’essere lì e basta, e un’altra, più complessa, dell’essere il prodotto di un processo; ma tutti e due sono vaghi, quel che si può dire di uno si può dire di tutti, e quel che sappiamo di uno lo sappiamo di tutti.

Una cosa che sembrava essere concreta quanto mai altre – questo bicchiere qui, che uso per bere – diventa un qualsiasi bicchiere; e un altra che pareva determinare tutto – io che scelgo come considerare il bicchiere – svanisce perché chiunque, letteralmente, può essere quell’Io che stabilisce come guardare il bicchiere.

È così che i topi scappano da tutte le parti; non solo il bicchiere, l’essenza del bicchiere, dipende dall’intenzione di chi lo guarda o lo usa, ma anche una definizione precisa di cosa sia un bicchiere pare essere tutta dentro la nostra testa. Eppure l’oggetto bicchiere è là, immobile, e non c’è forza al mondo che possa cancellarlo, farlo smettere di essere un bicchiere prodotto chissà dove e quando, ma pur sempre prodotto, e che serve per bere. È a portata di mano, ma se cerco di afferrarlo mi ritrovo solo, con un bicchiere per la testa e una storia della quale non so nulla. È indispensabile che un bicchiere serva per bere ma non lo sono meno le condizioni sotto le quali è stato lavorato – dalla sabbia al vetro – e portato sopra la mia tavola. C’è un modo per tenere insieme le due cose e contemporaneamente togliere di torno il saccente soggetto che decide ogni volta cosa una cosa sia o non sia?

Dunque siamo vicinissimi al bicchiere – lo produciamo e lo usiamo – ma se cerchiamo di sapere che cosa sia in sé e per sé, rotola sul pavimento e non riusciamo più a trovarlo. Qualcosa nell’oggetto che sta di fronte a noi fa resistenza: ce ne serviamo, naturalmente, ma quando cerchiamo di capire, di formulare un concetto sopra cosa sia quella cosa di vetro immobile, esso scivola da tutte le parti, come se avesse un nucleo duro che non può essere riassunto in pensieri e parole, lo possiamo ben afferrare con le mani, ma con il pensiero ce ne troviamo due, apparentemente identici e sostanzialmente diversi, come lo è il bruco dalla farfalla.

Ci sono, dunque, il regno del soggetto, che decide come guardare l’oggetto e a cosa dare importanza, e contemporaneamente la mera esistenza dell’oggetto, che non muta a nostro desiderio: io posso anche pensare al bicchiere come al risultato di una organizzazione sociale del lavoro, ma se me lo tirano in testa la sua realtà è immediata, letteralmente non mediata dalla sua storia. Siamo uno accanto all’altro ma quando ci tocchiamo l’essenziale sembra vada perso: Io continuo a percepire il bicchiere ora come una cosa ora come un’altra, esso rimane immobile, a fare da oggetto alle mie riflessioni e a ricordarmi però, nel frattempo, che non sono affatto io a decidere della sua esistenza e delle sue qualità.

Non è possibile arrivare a una sintesi e dire che il bicchiere è sia quello che usiamo per bere sia un oggetto socialmente prodotto, e che noi siamo a volte gente che beve dal bicchiere e altre curiosi che ragionano su cosa sia davvero un bicchiere? Non ci sarebbe nulla di male nel riassumere quel che un oggetto è dicendo che dipende da come lo si guarda, né nel constatare che anche noi siamo una cosa o l’altra a seconda del punto di vista. Avremmo allora quattro entità, diciamo così, che si scambiano di posto a seconda del momento; nessuna è mai pienamente se stessa ma ci sono momenti nei quali l’essenza sembra cristallizzarsi in una cosa semplice e chiara: il bicchiere dal quale bevo, quello prodotto in una fabbrica dell’Est Europa, il dissetarmi e il pensiero di tutto quel che è servito affinché ci fosse dell’acqua in quel pezzo di vetro. Noi siamo sia il re che il servitore del bicchiere, ed esso è sia il servo del bere che il signore del lavoro.

Ma non finisce qui. Cosa dà al nostro benamato bicchiere la forza di essere due cose in una, un semplice oggetto che si usa e insieme il prodotto di un lavoro sociale con le sue cento catene che ricordano dove, come e quando, come se in ogni bicchiere fosse incisa, con microscopici caratteri, tutta la storia degli uomini che lo hanno fatto? Potrebbe essere un tavolo, una sveglia o un grembiule da cucina e la domanda non cambierebbe: Se non ci fosse un uomo che lo usa o lo produce, che cosa ne sarebbe del bicchiere?

Nulla, ovviamente. Probabilmente non esisterebbe neppure e al posto suo ci sarebbero le mani messe a conca o il guscio di un frutto a forma di tazza. La sintesi del bicchiere, insomma, ritorna tutta dentro la nostra testa, ma esso, testardo, continua a esistere anche fuori di noi. Perché è sì stato fatto, ma adesso è come qualunque altra cosa che ci si pari davanti. I due bicchieri sono così, adesso, un bicchiere al passato e un bicchiere presente, indissolubili eppure diversi, come se per essere quel bel pezzo di vetro dal quale bevo il vino il bicchiere abbia dovuto prima essere il risultato di una divisione del lavoro, di un contratto di apprendistato, di una paga oraria, della casa dove abita il garzone, della concessione sulla cava di sabbia, di una fornace, e di chi sa ancora quante altre cose.

Questo povero bicchiere, che è qui e adesso, sarebbe quindi una fusione di passato e presente, due epoche che si lasciano cogliere solo se non le pensiamo insieme ma una prima, appunto, e l’altra dopo. Questo povero bicchiere è un calendario che ricorda i giorni dell’Avvento solo se ci prendiamo cura di strappare i foglietti ogni giorno. Vale a dire che è uno solo finché riposa sullo scaffale in cucina e nessuno se ne cura, ma non appena qualcuno lo prende in mano si trasforma in un utile oggetto, in uno strumento per poter vendere vino e acqua, nel prodotto di un lavoro che assicura salario e in una cosa che dentro la mia testa posso girare a piacere, sino a quando non confessi di non essere solo dentro la mia testa.

La tecnologia ci permette di descrivere il bicchiere in ogni sua fibra, probabilmente, lo volessimo, fino a fissare ogni singola molecola. La coscienza ci fa sapere la storia, se lo volessimo, fino al salario che trasforma, magicamente, un mucchietto di sabbia in un vetro a forma di bicchiere, ma il bicchiere non sa nulla di queste sottigliezze, non ha desideri né volontà, è lì, imperterrito e esiste e basta, riassume in sé il passato e il presente senza neanche saperlo, non prova piacere se lo usiamo né provava dolore quando è stato fuso. A guardarlo non sappiamo neppure se è stato il frutto avvelenato di un lavoro ingiusto o il passatempo di un bravo artigiano che voleva fare un regalo alla sua famiglia. Dopo averci girato intorno per così tanto tempo il bicchiere ci è sconosciuto quasi come prima.

Due cose però sono certe: quell’oggetto che ho di fronte, che è per puro caso un bicchiere ma potrebbe essere qualunque altra cosa, ha due anime, ognuna indifferente all’altra. Al pezzo di vetro che uso per bere infatti non importa nulla del prodotto dell’umano ingegno e lavoro, e viceversa; quel che li tiene insieme sono Io, non ci fossi non se ne accorgerebbero neppure. Ogni volta che uso un bicchiere per bere mi viene in mente che è anche un prodotto sociale, e ogni volta che guardo al bicchiere come a una merce tra tutte le altre, mi viene in mente che serve per bere. Però tutto quel che mi viene in mente dipende dal bicchiere, dalla sua doppia anima, non da me. È l’oggetto che ho di fronte, con la sua ambigua esistenza, a farmi pensare, non sono io il responsabile del suo essere due bicchieri contemporaneamente, ma solo lo spettatore.

Ma “spettatore” e “erede” sono, a volte, due termini sostituibili. Se non ho fatto io il bicchiere allora sono l’erede di un processo già accaduto, prendo per buono quel che mi dànno senza far domande sopra l’origine e la fine di quell’oggetto. Ma se l’artefice sono io, quel che mi importa è proprio la parte del bicchiere che non si vede, l’idea, il lavoro, il consesso sociale. E non c’è modo di mettere insieme le due parti: se mi sforzo di fare astrazione da me stesso, il bicchiere resta una banale cosa tra le altre, non diverso da un paio di scarpe o da un passaggio a livello; se do retta alla mia coscienza, il bicchiere diventa una storia che è scritta ma illeggibile, a meno di perdersi tra i meandri della filosofia. Qual è dunque il bicchiere reale, quello passato, frutto del lavoro, che io penso nella mia testa, o quello presente, appoggiato sul tavolo davanti al quale sono seduto?

Che le due parti del bicchiere, quella prodotta e quella che uso per bere, stiano insieme non dipende da me, anzi io non c’entro proprio nulla. Fosse su Marte, quel pezzo di vetro, o annegato nel fondo degli oceani, non cambierebbe nulla. Le due parti del bicchiere sono lì, dentro quell’oggetto, ne costituiscono l’essenza, nel bene e nel male, ma io, o un altro Io qualsiasi, non c’entriamo nulla. Eppure per sapere che sono due le parti e non una sola serve che io le guardi e ci pensi, da sole restano nascoste. Il sapere dipende dalla riflessione, l’esistenza del bicchiere no, quella dipende dal lavoro che è stato fatto prima che quell’oggetto fosse lì. Solo per noi l’una e l’altra cosa, il passato e il presente del bicchiere, sono diverse, solo per noi quell’oggetto può essere due cose distinte, un bicchiere, appunto, e una merce.

Le due diverse nature del bicchiere sono indifferenti l’una all’altra e solo per noi si pone il problema di capire come possano stare insieme e quale sia quella vera. Se ho tempo da perdere e voglio conoscere a fondo un bicchiere, cosa devo fare? Levarmi di torno e lasciare che quell’oggetto, così semplice, stia lì, con tutte le sue caratteristiche, oppure mettermi al centro di tutto e constatare che quel bicchiere e lì solo perché uno come me, in tutto simile, è andato al lavoro, una mattina, e quel bicchiere l’ha fatto?

C’è una distanza tra me e il bicchiere che non si riesce a colmare: se lo lascio in pace resta lì, come una cosa morta, ma se ci penso posso risalire sino alle origini della società umana per capire come è stato possibile sia lì a far da bicchiere. È tutto dentro la mia testa, ma c’è una parte della mia testa che non è a mia disposizione, il passato non è a mia disposizione, né quello del bicchiere né il mio proprio. Non posso fare sì, per dire un’assurdità, che quel bicchiere sia nato da un albero né pretendere che l’operaio che l’ha fatto sia stato ripagato del suo lavoro o sia stato contento d’averlo fatto. Quel bicchiere è come un nonno che ti è estraneo perché in vita non l’hai mai visto e adesso, al suo funerale, insieme agli altri, guardi una bara che non ha alcun senso per te, eppure sai che senza quel corpo, un tempo in vita, tu non saresti esistito.

L’oste ti porta il bicchiere, ringrazi, bevi, paghi e te ne vai. Tu e l’oste lo avete usato senza farvi troppe domande su cosa sia quel bicchiere, o un bicchiere in generale. Per saperne di più è necessario che almeno uno dei due si fermi e pensi all’indietro, cioè al bicchiere non come un semplicissimo oggetto d’uso comune ma piuttosto come al risultato di una storia, lunga e complessa. L’esperienza del bicchiere che alzo e sorseggio non è sufficiente a compiere questo cammino, la mia immediata esperienza del bicchiere non mi porta da nessuna parte che non sia il tavolo dell’osteria. È tutta lì la storia di quell’oggetto, dalle origini ai tempi nostri come si suol dire, ma non si vede. E non si vede perché la mia esperienza di quella cosa, nel momento in cui la uso, me la nasconde. Non solo la mia esperienza di cliente dell’osteria è radicalmente diversa da quella dell’operaio che produce il bicchiere; letteralmente incontriamo due oggetti diversi, in uno io vedo il vino, nell’altro l’operaio vede il salario.

Se io e l’operaio fossimo una persona sola, il che può ben accadere, allora il segreto del bicchiere sarebbe a portata di mano, purché io riesca a essere un bevitore e un lavoratore allo stesso tempo. Ma non posso farlo, è necessario che in un modo o nell’altro l’una cosa sia al presente e l’altra al passato. Riesco a bere quando non lavoro, insomma, o a lavorare quando non bevo, le due cose insieme sono impossibili. E allora come è che il bicchiere le sopporta così bene?

È evidente che il bicchiere nella mia testa, quello che mi fa pensare a chi l’ha costruito e come, il bicchiere nel passato, che è stato prodotto socialmente e venduto e usato, e infine il bicchiere che l’oste mi porta e dal quale io bevo, sono tre e uno allo stesso tempo. Le differenze possono essere da me colte se ci penso, ma non smetterebbero di esistere se io non ci facessi caso affatto.

E dunque quando è che conosco meglio il bicchiere, quando ci bevo dentro o quando penso alla sua storia? Il vetro, reale, solido, che mi sta di fronte è certo, non ho alcun dubbio su di esso. Tutti i fili del processo che hanno portato a produrre quella cosa, invece, svaniscono nel nulla se appena smetto di pensarci, ma svaniscono nel nulla nella mia testa, non nel bicchiere che esiste proprio perché qualcuno l’ha prodotto.

La natura del bicchiere sembra essere un po’ nella mia mente e un po’ fuori: nel modo di produzione, nei rapporti sociali, nel carattere dell’oste, nel prezzo all’ingrosso, nella tecnica di fusione del vetro, nel tacito accordo del soldo che lascio sul bancone e, a ben guardare, persino nella leggenda di Noè che, appena sbarcato dall’Arca, piantò una vigna e si ubriacò di gran gusto. La base appena scheggiata, il segno sul fondo, il cartone dentro al quale mi è stato consegnato insieme ad altri cinque suoi simili, persino le schegge cristalline se cade dal tavolo e si rompe, mi fanno sapere che quel bicchiere non è solo quello che vedo, ma molte altre cose assieme.

Se vado dietro alle mie impressioni quell’oggetto è ora un semplice oggetto, ora il risultato di una storia complessa; ma se non mi assumo la mia responsabilità di soggetto, se non rifletto sulle cose, il bicchiere diventa impenetrabile, della sua storia non si sa nulla, nonostante esso sia il risultato di quella storia e di nessun’altra. Io servo, la mia conoscenza serve, a rivelare quel che il bicchiere è, ma se non ci fossi io non per questo il bicchiere smetterebbe di essere quel che è.

Come uscire dalla contraddizione? Ci sono due strade: possiamo pensare che tutto quel che diciamo, o abbiamo detto, sopra il bicchiere siano solo un gioco della nostra mente, che non cambia una virgola della realtà, oppure ritenere che quell’oggetto, con così tante qualità diverse tra di loro, sia davvero solo il risultato dei miei pensieri e che al di fuori di essi non ci sia nulla che io possa sapere o raggiungere.

Il problema è che entrambe le versioni hanno valide ragioni a loro sostegno, ma una esclude, evidentemente, l’altra. Insomma, se della mia esperienza e conoscenza, e dell’esistenza del bicchiere, voglio fare una cosa sola, non ci riesco, ma vengo invece continuamente rimandato da un aspetto all’altro, e quel che è peggio è che questa contraddizione che pare irresolubile esiste solo per me, il mondo intero non ne sa nulla e va avanti come prima. Ma in realtà neanche questo è, a rigor di termini, vero: un bicchiere è una merce, un oggetto utile, una cosa alla quale posso pensare, il risultato di un lavoro, e tutte queste qualità, insieme alle altre, resterebbero anche se io non fossi mai esistito e non mi fossi mai fatto domande sopra quel bicchiere.

Se cerco di mettere insieme tutto in un solo concetto sbatto la testa contro la natura ambigua dell’oggetto che ho di fronte, metà cosa tra le cose, metà risultato del lavoro sociale, o per meglio dire tutte e due le cose contemporaneamente, ma se mi levo di torno e lascio che del bicchiere si occupino solo l’oste e gli avventori, non saprò mai da dove viene e com’è che da lì è venuto.

Questa mattina ho rotto un bicchiere; colpa mia, ero soprappensiero e anziché appoggiarlo sopra la mensola l’ho lasciato cadere per terra. Naturalmente non c’è modo di mettere insieme i cocci e posso solo passare la scopa e buttare via tutto. Il bicchiere è stato distrutto e non c’è modo per farlo tornare in vita, eppure quel che era, per così dire, solidificato dentro a quel bicchiere non se ne è andato insieme ai cocci nella spazzatura. Quello che verrà buttato via, perché rotto e non più adoperabile, rimane pur sempre il risultato di un lavoro, seppure un risultato che non serve più a niente. Adesso quel bicchiere non è più nulla: non è un oggetto che serve per bere, non è più una merce, non è neanche il ricordo di un regalo che mi fece mia madre prima di morire, scegliendolo tra i migliori della sua collezione. Dove è scomparso tutto? La paga del lavoratore, il ricordo di mia madre, e tutte le altre cento cose, sono ancora lì, ma l’oggetto che le reggeva, che le conteneva in sé, non c’è più. L’ho distrutto e me ne pento, ma mi chiedo anche dove siano adesso tutte quelle qualità che me lo rendevano caro, utile, interessante; le prendo una per una, queste caratteristiche, e non le trovo più: sono scomparse insieme all’oggetto. Erano mie esperienze, miei pensieri, certo, ma non posso più averli se non c’è più il bicchiere, posso solo ricordare quello che sapevo, e sperare di avere buona memoria.

Il bicchiere frantumato dimostra, a modo suo, che l’impressione avuta di essere io, un qualunque Io, il responsabile di tutte le sue caratteristiche era falsa. Mi sono fidato, insomma, troppo di quel che percepivo e sentivo, senza tener conto che l’àmbito di produzione delle merci o la struttura chimica del silicio, la fisica elementare dei liquidi e dei solidi o la fisiologia della sete, non dipendono da me. Sono un estraneo che si può avvicinare e guardare, non il creatore o il padrone di quel che incontro, vedo e penso.

Adesso se mi sembra di essere tornato al punto di partenza, ho ragione. E torto, naturalmente. Del bicchiere non è cambiato nulla, non è neppure vero che io l’abbia rotto, è sempre lì, sul tavolo o sopra gli scaffali dell’osteria dove mi ero fermato, anche se oramai sono a centinaia di chilometri di distanza. Anche il modo di produzione delle merci è rimasto lo stesso, gli stessi i materiali e i medesimi, grosso modo, i contratti che regolano lo scambio tra una certa quantità di ore di lavoro e la paga dovuta.

L’unica cosa che è cambiata sono io perché, dopo questo apparentemente inutile girotondo, il modo con il quale guardo a un bicchiere, la mia esperienza di esso, non è più la stessa. Ho corretto impressioni che mi parevano certe, tanto erano semplici, e escluso che il bicchiere, o meglio la parte più importante del bicchiere, fosse solo dentro di me. So che posso pensare a un oggetto semplicemente, come a una cosa che mi serve oppure no, ma anche sapere che è stato prodotto in un modo, in un tempo e in un luogo determinati. Ho capito che se l’oggetto al quale sto pensando scompare, perché si è rotto per esempio, quello che penso diventa più debole, diciamo così, sino quasi a non essere più nulla, e che quindi per pensare ho bisogno che ci sia un oggetto fuori di me e che non dipenda da quel che io sento o non sento. Riconosco adesso che al posto di quel bicchiere ce ne potrebbero essere cento altri, ma anche al mio posto, al posto del Soggetto, ce ne potrebbero essere cento altri senza che la sostanza della questione cambi di un virgola. E via dicendo.

L’ultima domanda che resta è cosa rimanga al bicchiere di tutto questo trambusto. Non è più trasparente o più fragile di prima, non perde, come non perdeva quando me lo hanno servito, non ha smesso di passare di mano in mano. Nessuna caratteristica, nessuna qualità, del bicchiere è venuta meno, e non ne ha prese altre che non avesse prima, anche se io non le vedevo. Sì, il bicchiere è rimasto lo stesso, ero io che non sapevo fosse il medesimo in tutte le forme che ha assunto da quando ho cominciato a riflettere su cosa fosse e su come definirlo compiutamente.

Tutto quello che potevo sapere di quell’oggetto era, certo in modi diversi, già dentro l’oggetto che avevo davanti, non lo vedevo bene finché pretendevo di farne una cosa sola, senza passato né futuro, un bicchiere, una merce, un’immagine mentale, uno strumento, il prodotto di una tecnologia raffinata, un pezzo di vetro con la base scheggiata dall’uso. Non appena ho smesso di cercare l’essenza unica del bicchiere, invece, ho scoperto così tante cose di quella semplice cosa che ci vorrebbero ore a raccontarle, e ancora non sarebbero sufficienti. In un certo qual modo è quando ho detto al bicchiere: Non sei una cosa che serve per bere, non sei il salario di un operaio, non sei sabbia bruciata, non sei la mano dell’oste che ti riempie e ti porta sui tavoli, non sei il tuo passato, che ho cominciato a capire cosa fosse quel bicchiere. Ho dovuto prendere le sue qualità, una a una, e riconoscere che non erano quel tutto che mi sarebbe piaciuto fossero, bensì che l’una rimandava all’altra per poter esistere e che non ce n’era una che non fosse falsa quando la prendevo da sola.

Sono io che sono cambiato, non il bicchiere, Nel processo della conoscenza è sempre così: Il soggetto non è più lo stesso soggetto che non sapeva le cose che adesso sa. Cosa altro significa conoscenza se non questo?

Al bicchiere di tutto questo trambusto non resta niente. Perché siamo noi che cerchiamo di conoscere il bicchiere, non lui noi. Il bicchiere rimane quello che è, fuori di me nello spazio e lontano da me nel tempo, e contemporaneamente dentro la medesima storia della quale anche io faccio parte, anche noi facciamo parte. Sarebbe stato più semplice dare un bel concetto a quel bicchiere, sostanza e attributi, e chiuderla lì, ma chi ha detto che la verità debba essere semplice?

5 pensieri su “Molti passi alla volta

  1. Complimenti: articolo non solo esaustivo nei vari passaggi di contenuto (entrando nel merito dei processi di conoscenza, del nostro rapporto con la cosiddetta ‘realtà’, le dinamiche di reciprocità relativa tra soggetto percipiente e oggetto percepito) ma anche splendido nella forma, avvincente come un romanzo che lascia, però, il finale aperto (così come è giusto che sia). Emozionante. Al momento non mi viene da dire nient’altro (anche se la ricchezza degli spunti permetterebbe molte ulteriori aperture) perchè sarebbe come turbare l’armonia di questo quadro che Ezio Partesana ha magistralmente dipinto. Quindi, al momento, mi lascio prendere dalla ‘contemplazione’!
    Grazie.

  2. Per possibili analogie (o differenze?) dal saggio di Ezio….

    SEGNALAZIONE
    Iconografia. Jean-Luc Nancy e il pensiero figurativo
    13/09/202013/09/2020
    di FEDERICO FERRARI

    https://antinomie.it/index.php/2020/09/13/iconografia-jean-luc-nancy-e-il-pensiero-figurativo/?fbclid=IwAR24l_QybtHwRv0Cag7g_jkUgsPsU3awgSwebfLRHtj-DkX-yVsqI0YSol8

    Stralcio:

    L’immagine è dunque l’esperienza di una alterità alterata e alterante che porta lo sguardo a percepire se stesso, a percepirsi, come in uno specchio, in quanto sguardo di qualcuno che guarda l’estraneità del mondo, la sua presenza evidente, sempre alla mano e sempre sfuggente. L’immagine è in sé asignificante, funge da puro medio, da superficie riflettente per altro, per tutto quell’altro che lo sguardo, infine consapevole di sé, è capace di contenere. È proprio per la sua proprietà riflettente, per questa sua particolare specularità, che l’immagine è anche un luogo del pensiero, della speculazione. In un certo senso, è proprio nell’immagine che il pensiero assume una realtà. “Non si tratta della fascinazione dell’immagine: si tratta dell’immagine in quanto apre sul reale e in quanto essa soltanto apre sul reale. La realtà dell’immagine è l’accesso al reale stesso.”[12] Si potrebbe arrivare a dire che l’immagine indica il luogo dell’eterogenesi del pensiero. Il pensiero non si forma nell’interiorità di una mente, non dipende da una autodeterminazione dell’intelletto, ma nasce nell’esteriorità dell’immagine. È lì, nello stagliarsi dell’immagine sull’orizzonte o sul fondo della vista, che il pensiero assume una fisionomia e passa da sua condizione di pura possibilità a pensiero determinato e formato. Nell’immagine si colma lo iato tra potenza e attualità. L’immagine è il vettore che sospinge la potenza verso la realtà. Nell’immagine il pensiero trova un mondo determinato, trova l’oggetto su cui pensare o la cosa stessa del pensiero. Se il pensiero, infatti, è la potenza assoluta e indeterminata, ciò che è perennemente in stato di potenza ed è quindi aperto alla possibilità di pensare ogni sorta di alterità, è però solo attraverso l’immagine che il pensiero assume realtà, passa all’atto determinandosi in un’idea. La realtà del pensiero, il movimento del suo farsi reale, va dunque ben oltre quella di un piccolo ego pensante, ma ha piuttosto a che fare con la proliferazione anonima delle immagini, con un movimento di apparizione a scomparsa che più che a una gnoseologia rinvia a una ontologia, a un sapere dell’essere o del reale. Il problema del soggetto conoscente o di quello che noi qui chiamiamo lo “sguardo” è solo il riflesso di un pensiero anonimo e indeterminato che si specchia nell’ostacolo reale dell’immagine. Pensare significa porsi all’altezza di uno sguardo, di uno sguardo capace di comprendere, di prendere-con-sé, la realtà opaca dell’immagine: “portare uno sguardo all’intensità di un’evidenza e di un’esattezza (justesse)”.[13] È solo quando lo sguardo è capace di far propria l’evidenza dell’immagine che l’uomo compie l’esperienza di uno sguardo, di uno sguardo pensante. Ed è nell’immagine che il pensiero si fa forma, non nella soggettività di una mente o nell’intelletto singolare. Essere un Io pensante significa fare esperienza dell’ostacolo dell’immagine, di una esteriorità che annebbia la vista.

  3. …questa composizione di Ezio Partesana partecipi a molte nature: poetica, filosofica, drammaturgica, persino scientifica in quanto, come suggerisce l’autore, potrebbe essere un modello “matematico” della ricerca conoscitiva intorno a “qualsiasi cosa della vostra vita”…Una ricerca che, partendo dall’immagine di un oggetto qualsiasi, permete di entrare nella materia viva dell’intero universo, passato e presente…Emozionante…
    L’immagine del bicchiere con l’acqua infatti si dilata e diventa simile a un poliedro dalle facce cosi’ innumerevoli, ora accese, ora spente, da avvicinarsi ad una sfera baluginante: un sortilegio.
    Cosi’ che la conoscenza si estende e si riduce, man mano che si avvicina al centro, senza mai peraltro raggiungerlo…Era la sensazione del caos cosmico che, a tratti e senza preparazione, provavamo da bambini…Piu’ difficile da adulti con le nostre certezze…grazie

  4. Ringrazio per i complimenti, ma vorrei si sapesse che vanno rivolti a Ennio Abate che, con pazienza e gentilezza, mi ha aiutato a correggere molti errori della prima stesura.

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