Coscienza (di Zeno) e malafede



Su Sandro Briosi, “Commento a La coscienza di Zeno. A cura di Marco Gaetani”, Carocci 2020)

di Elena Grammann

“ – Resterò con lui! – risposi con aspetto rassegnato. Ada dovette credere che quel mio aspetto di rassegnazione significasse il sacrificio ch’io consentivo di farle. Invece io stavo rassegnandomi a ritornare ad una vita molto ma molto comune, visto ch’essa non ci pensava di seguirmi in quella d’eccezione ch’io avevo sognata.”

Siamo verso la fine del romanzo; nel dedalo di biforcazioni che non portano da nessuna parte e men che meno a uno sviluppo, è la prima volta che Zeno parla di una “vita d’eccezione”. Chissà come la immagina, nei brevi istanti che separano il contatto con la mano di Ada, che gli pare intimo e apre la prospettiva della “vita d’eccezione”, dalla richiesta di aiuto della stessa per Guido, che quella prospettiva chiude inequivocabilmente.

L’idea di una vita eccezionale, avventurosa e fuori dalla norma è ripresa qualche pagina più in là, in occasione di un’ennesima (definitiva?) prova che Ada non lo ama:

“Era forse bene che Ada finalmente m’apparisse quale una mia sorella e null’altro. Essa non prometteva e non minacciava amore. Per varii giorni corsi la città inquieto e squilibrato. Non arrivavo a intendermi. Perché mi sentivo come se Carla m’avesse lasciato in quell’istante? Non m’era avvenuto niente di nuovo. Sinceramente credo ch’io abbia avuto sempre bisogno dell’avventura o di qualche complicazione che le somigli. I miei rapporti con Ada non erano ormai più complicati affatto.”

Bisogno dell’avventura in questo borghese amante della vita comoda? Zeno non è il solo a non intendere se stesso; anche il lettore, francamente, fatica a raccapezzarsi in un personaggio che non ci è mai offerto intero ma per spicchi o facce che rimandano di volta in volta un solo colore; e non in uno svolgimento cronologico, bensì sezionato in tagli tematici che tutti insieme non fanno una figura intera. Certamente il romanzo e il personaggio sono molto lodati – se non altro perché grazie a loro possiamo infilarci nella serie prestigiosa Proust, Joyce, Musil, Broch, Svevo, Kafka. Molto lodati ma poco amati – e per rendersene conto basta osservare quante volte nelle tesine (percorsi, approfondimenti …) dei maturandi compaia Pirandello e quanto poche, pochissime volte invece Svevo. È vero che a salvare lo studente liceale dalle eccessive complicazioni interviene la categoria dell’inetto, che facendo seguito agli umili e ai vinti completa la triade dell’italica vocazione all’inerzia. Ma tanto per incominciare quella di Zeno è un’inettitudine relativa, e anche quando compare – esagerata, clownesca, teatrale (stupisce quanto spesso Zeno e gli altri personaggi urlino) – non spiega Zeno, bensì deve essere essa stessa spiegata.

Giunge dunque assai opportuna la pubblicazione del commento di Sandro Briosi: un commento puntuale che accompagna il testo, ne illumina e interpreta i minimi snodi, consegnandoci una chiave di lettura che non solo rende conto delle novità e “bizzarrerie” del personaggio, ma scopre nei movimenti della sua coscienza l’analisi fenomenologica e la rappresentazione di quello che sarà il funzionamento generale della coscienza per tutto il Novecento e oltre.

Come ci spiega il curatore Marco Gaetani nella Premessa (v. su questo sito: Sandro Briosi/Italo Svevo: sei stralci dalla Premessa qui), il testo di Briosi era pronto per le stampe già nel 1993: doveva uscire per De Agostini in una collana di classici commentati per le scuole – pubblicazione che poi non si fece per un cambiamento nei piani editoriali. La prematura scomparsa dell’autore condannò in seguito il manoscritto a rimanere a lungo inedito. Ora, grazie alle cure dell’allievo Marco Gaetani, vede la luce per l’editore Carocci, non solo o non tanto forse come classico commentato per le scuole (il commento, pur sempre “didattico” e piano, è a un livello alto), ma come ausilio di lettura a chiunque voglia approfondire la comprensione del romanzo più moderno, ma anche dei meno facili, del Novecento italiano.

 

Dicevo più sopra del funzionamento generale della coscienza per tutto il Novecento e oltre. Intendo con questo il rapporto dialettico, nel singolo, fra una supposta identità autentica e un’identità assunta, teatrale, un’identità di personaggio. Naturalmente non si può, parlando di Novecento, utilizzare il termine “personaggio” senza specificare in che rapporti ci si trovi con Pirandello. Sandro Briosi lo chiarisce nella ricca e ottimamente strutturata Introduzione:

“In comune essi [Pirandello e Svevo NdR] hanno una rappresentazione della realtà che mette a nudo le contraddizioni che si celano dietro l’apparenza, dietro le ‘forme’ in cui si presenta, senza potersi ridurre ad esse, la ‘vita’. Ma la contraddizione, in Pirandello, tende sempre ad assumere la forma del conflitto tragico, e resta abitata dalla nostalgia di una verità assoluta. In Svevo, il conflitto prende invece la forma, più che del dramma, dell’ironia; più che dello scontro insolubile fra forze e valori assoluti, dell’incontro degli opposti elementi dentro un’esperienza psicologica che si presenta essa stessa come ‘la’ verità della vita. Tra i due grandi autori italiani della ‘crisi’, possiamo senz’altro dire oggi che Svevo è il più ‘moderno’.”

“Dentro un’esperienza psicologica”: come Briosi sottolinea a più riprese sia nell’Introduzione che nelle note di commento al testo, oggetto del romanzo di Svevo non è un evento o una serie di eventi (già la destrutturazione cronologica lo renderebbe impossibile) e nemmeno a ben guardare un personaggio, ma il funzionamento di una coscienza. D’altra parte, ciò è apertamente dichiarato (e contemporaneamente negato, ma vedremo in che senso) in limine al romanzo: in quella Prefazione a firma del dottor S. che ci presenta il testo come uno scritto autobiografico redatto a scopo psicoterapeutico: massima oggettivazione della coscienza onde estirparne i malfunzionamenti che sono all’origine di fenomeni morbosi e quindi, in diversi sensi, dolorosi. Coscienza in senso freudiano di psicologia del profondo – talmente del profondo che senza l’ausilio dell’analista sarebbe impossibile sondarne gli abissi.

Ma sappiamo che nello “scritto autobiografico” il soggetto dell’analisi, Zeno, esprime a diverse riprese il suo scetticismo relativamente a anamnesi, diagnosi e terapia. E soprattutto nel capitolo 8 (Psico-analisi) ci dice la sua riguardo ai “reperti” che l’analisi avrebbe promosso alla luce dallo strato profondo e irraggiungibile della coscienza: non “reperti”, cose trovate, ma “creazioni”, “invenzioni”, suggerite dall’analista e prodotte dal paziente, in ultima analisi, per accontentarlo.

Quello che Zeno mette in discussione (quello che nega) è la profondità abissale della coscienza: che ci sia cioè in essa un livello di profondità tale (l’inconscio) che ci rimarrebbe inappellabilmente precluso senza l’intervento di un tecnico competente ed esterno – appunto l’analista. La psico-analisi ha portato sì Zeno a una conoscenza tendenzialmente esaustiva della sua psiche o coscienza, ma questa conoscenza conclusiva consiste appunto nella consapevolezza che di essa, della coscienza, si può giungere autonomamente a sapere tutto ciò che c’è da sapere. Che la psiche non affonda le sue radici nell’oscuro, profondo, abissale e irraggiungibile, ma è al contrario, con un po’ di esercizio e per se stessi, trasparente.

 

Naturalmente il lettore può scegliere a chi credere: al dottor S., che spiega così bene, dall’interno della sua teoria, le reazioni di Zeno, o a Zeno stesso che nel capitolo 8 smaschera le velate imposture del dottor S. Possiamo scegliere – e non dimentichiamo che sono entrambi i personaggi di un romanzo.

Sandro Briosi sceglie la lettura non-psicoanalitica, la lettura fenomenologica – una lettura cioè in cui le cause della “malattia” di Zeno, della sua nevrosi, non sono da ricercarsi, come propone il dottor S., nell’ipotetico e latente rimosso di un Edipo non risolto, bensì nelle contraddizioni patenti del suo comportamento manifesto, quale appare agli occhi di tutti e in primo luogo al “malato” stesso. In questa analisi puntuale e instancabilmente condotta sul filo del testo, Briosi si fa guidare da un concetto che, pur elaborato nella sua dimensione propriamente filosofica vent’anni più tardi in Francia, costituisce secondo il critico la vera intuizione moderna, anzi modernissima, di Svevo. Stiamo parlando del concetto sartriano di malafede.

Per Sartre la malafede è inseparabile dalla coscienza, in quanto “la coscienza, nel suo essere e contemporaneamente, è ciò che non è, e non è ciò che è”. Si ha “malafede” ogni volta che ci si identifica, che ci si fissa su un’identità che assumiamo per nostra, perché così facendo attribuiamo a noi stessi, cioè alla nostra coscienza, lo statuto di una cosa: ci reifichiamo. D’altra parte, è innegabile, e inevitabile, che noi siamo questo e quello, senza tuttavia poterlo essere fino in fondo, e da questa contraddizione si origina il fastidio, la gêne, che ci accompagna come un rumore di fondo e che, letterariamente amplificata, non è altro che la malattia di Zeno – il quale ostinatamente, e attraverso sottili astuzie, rifiuta proprio di essere questo o quello.

Coloro che non hanno nessun problema a identificarsi senza residui, che non sospettano nemmeno che si possa mettere in discussione l’identità che indossano e in cui stanno comodi, che non percepiscono il rumore di fondo perché ci sono dentro fino al collo, sono, nel romanzo, i sani.

Che la contraddizione insanabile da cui si origina la malafede, se correttamente percepita, impedisca di fissarsi – di questo Zeno ha un’intuizione non concettuale ma, se così si può dire, esistenziale. Vuol essere prima giurista, poi chimico, e finisce per non essere nessuno dei due; non è nemmeno commerciante, dal momento che i suoi affari li gestisce l’Olivi; ama suo padre (perché non dovremmo credergli? se ogni sentimento, come vedremo, è in realtà la convinzione di provare quel sentimento), ma non è in grado di fare nulla per lui, talché si direbbe quasi che lo detesti; vuole sposare Ada, e finisce col diventare il marito (felice) dell’unica ragazza Malfenti che non gli piaceva proprio; e anche con Ada: quando la malattia e le delusioni coniugali sembrano lasciar intravedere in lei un affetto meno fraterno per Zeno, la reazione del nostro è come al solito ambivalente: attrazione e terrore (“Essa non prometteva e non minacciava amore”).

L’istintivo permanere nella contraddizione della malafede – via via giustificato, come puntualmente rimarca Briosi, nei modi più fantasiosi e strampalati, vere astuzie volte a convincere non si sa se il dottor S. o se stesso – se da un lato fa di Zeno un eroe pienamente moderno, dall’altro, poiché non dispone delle difese della consapevolezza che raggiungerà solo alla fine del romanzo, lo espone all’irrequietezza, al continuo fastidio, a un malessere dell’anima che i sani non avvertono e che si manifesta attraverso ostinati dolori psicosomatici. Prima di capire, nell’ultimo capitolo, che la sua non è una malattia ma lo stato corretto della coscienza, Zeno passerà buona parte della vita a invidiare le identità granitiche e tranquille dei sani, nei quali la malafede è così completa da avere estinto fino al dubbio di se stessa e la contraddizione dalla quale si origina.

Naturalmente egli intraprende numerosissimi tentativi, che si premura egli stesso di sabotare in partenza (un esempio per tutti, e dei più folli, la manovra di finta seduzione dell’infermiera che deve tenerlo sotto chiave per impedirgli di fumare), per avere il suo posto nella società dei sani. Ma, come ci mostra Briosi, il solo frutto dei suoi sforzi sarà la scoperta, sua e soprattutto del lettore, della rappresentazione o teatralità come modalità fondamentale della coscienza, dell’inconsistenza del sentimento – che non ha nulla di autentico, ma, anch’esso, si finge, è di volta in volta funzione della figura di malafede che “occupa” in quel momento la coscienza – e del cinismo come conseguenza dell’impossibilità di raggiungere un livello sincero o autentico del sé in cui sinceramente e spontaneamente sia di casa la bontà intesa come il superamento dei confini del sé.

 

“Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!». Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.”

“È appunto l’’atteggiamento’ – commenta Briosi – che interessa Zeno; non l’azione. Il tempo ‘ritorna’ perché in realtà non si mette mai in moto, non si distende mai realmente verso il futuro”

Ma “assumere atteggiamenti” è la figura fondamentale della malafede, proprio perché l’atteggiamento deve mascherare il “vuoto” della coscienza. Ed ecco che Zeno, questo personaggio che esperisce e esemplifica la malafede al suo nascere, ogni volta che dovrebbe agire trova il modo di sostituire l’azione con gli atteggiamenti, precipitando in un loop temporale che non prevede progressi e dal quale lo smuove soltanto, facendo in effetti progredire l’azione, l’intervento di un altro personaggio. Esemplare a questo proposito è il corteggiamento di Ada, che Zeno ha deciso di sposare. Nel salotto Malfenti Zeno non fa che recitare, assumere atteggiamenti sopra le righe, spostare l’azione dalla realtà che si muove e avanza alla teatralità ineffettuale. E del tutto in effettuale rimane il suo corteggiamento e progetto di matrimonio finché la signora Malfenti non lo fa progredire – francamente non nella direzione prevista – appioppandogli il famoso buffetto.

Un corollario alla “teatralità” di Zeno e al suo talento per la recitazione (“Sappiamo bene – nota a un certo punto Briosi – che la simulazione in generale è una delle cose che a Zeno costano meno fatica”) è la distanza che si instaura, di necessità, nella sua coscienza: fra il ruolo che egli di volta in volta assume e la coscienza, per quanto oscura, che si tratta di un ruolo. L’ironia di Zeno è l’espressione di questa distanza – un’ironia che fa totalmente difetto ai sani, la cui coscienza è (vuole essere) interamente occupata dal ruolo, dalla positività del ruolo, per cui nessun margine è lasciato a quella negatività da cui scaturirebbe l’ironia. Ada, la seria, per la quale ogni cosa ha un significato univoco, è totalmente sprovvista di senso dell’umorismo.

 

Chiediamoci ora che fine fa l’amore per Ada quando Zeno, cinque minuti dopo essere stato rifiutato da questa (e in rapida successione pure da Alberta), chiede a Augusta di sposarlo. In altre parole: dove affondano le radici i sentimenti di Zeno, e quanto sono lunghe queste radici? Lunghe, pochissimo – e per forza, perché i sentimenti di Zeno sono di volta in volta relativi agli atteggiamenti, cioè alle figure di malafede che egli via via assume: marito in spe, marito reale (di un’altra), cognato, amante ecc., e sono presenti per il tempo e nella misura in cui la relativa figura è presente – prima che l’oscura coscienza della malafede la annulli e la sostituisca con una figura diversa o opposta, salvo resuscitarla a tempo e luogo.

Il resto, quello che potrebbe esserci di spontaneo, non è che una schiumetta erotica: i capelli abbondanti e dal ricco colore di Ada vs. la chioma rada e scialba di Augusta, le folte trecce che nascondono il collo di Carla. Che poi la schiumetta erotica (impressionante l’occorrenza di stivaletti laccati), probabilmente perché è l’unico livello di spontaneità, rivesta una grande importanza per Zeno, questo è un altro paio di maniche.

 

Le oscillazioni del sentimento, in quanto dipendono dalla configurazione della scena sulla quale le diverse figure di malafede via via agiscono, o meglio recitano, sono particolarmente evidenti nel capitolo 7: Storia di un’associazione commerciale, nei rapporti del protagonista con Guido. Zeno ha voluto bene a Guido, come protesta con veemenza fino alla fine del romanzo, oppure, se proprio non lo ha ammazzato, almeno non ha fatto nulla per trattenerlo sull’orlo dell’abisso, dove lo ha guardato precipitare con inconfessata (e inconfessabile) soddisfazione? Il dottor S: non avrebbe dubbi: lo Zeno narratore mente per coprire lo Zeno coinvolto nei fatti di allora, perché il suo Io non può tollerare di aver nutrito per il cognato sentimenti così bassi e addirittura di aver collaborato, attraverso piccole e meno piccole azioni di contorno, alla sua rovina (una su tutte, e veramente incredibile, la “disattenzione” di Zeno a proposito del veronal puro e del veronal al sodio).

A differenza del dottor S., Sandro Briosi crede alla bontà più volte affermata da Zeno narratore. (Questa potrebbe essere, en passant, la differenza fra l’analista e il critico letterario: quest’ultimo ha a che fare con qualcosa di totalmente manifesto: il testo; a quello deve attenersi e non può permettersi, ove non sia chiaramente richiesto, di ricorrere a una generica psiche umana, così o così conformata, che si trova, essa, fuori dal testo). Briosi crede alla bontà più volte affermata di Zeno, ma sa che questa bontà non occupa mai totalmente la sua coscienza, e che nel margine lasciato libero c’è spazio per altro. A proposito di una battuta ironica piuttosto feroce dello Zeno narratore a proposito di Guido, il critico commenta:

“La battuta ironica è pesante e rivela l’atteggiamento freddo, quasi crudele, del narratore che registra le tappe dell’inesorabile avanzare della catastrofe di Guido. In altri momenti, come sappiamo, lo stesso narratore fa invece propria la ‘bontà’ e la generosità del personaggio. Il racconto procede attraverso queste tipiche oscillazioni, che corrispondono a quelle della coscienza di Zeno: il quale, quando si dichiara dedito generosamente ad aiutare Guido, è, effettivamente, ‘buono’: ma il suo sentimento è accompagnato da un fondo di riserva mentale che gli permette sempre di mantenersi libero di fronte al sentimento stesso; di fare, per così dire, un passo indietro vedendo l’intera situazione come dal di fuori, e rovesciando allora l’importanza relativa degli elementi che la costituiscono.”

Zeno è dunque entrambe le cose: buono e rancoroso, desidera aiutare Guido ma desidera anche la sua rovina, perché la figura di malafede del “cognato buono” non arriverà mai a occupare interamente la sua coscienza.

 

Il metodo fenomenologico di Briosi si rivela efficace anche applicato al carattere più “antipatico” di Zeno, quello che più rischia di alienargli la simpatia del lettore: il tranquillo cinismo. Nel corso del romanzo Zeno ci appare spesso cinico, soprattutto (ma non solo) nei confronti di persone che gli sono socialmente inferiori e che meriterebbero maggiore rispetto anche semplicemente per la vita grama che gli tocca – ad esempio la madre di Carla o l’infermiera della casa di cura. Il lettore può chiedersi, a mio avviso legittimamente, se la mancanza di riguardi e il cinismo siano da ricondurre a certi automatismi di pensiero “classisti” dell’epoca o addirittura dell’autore. Ma questo sarebbe di nuovo cercare una ragione fuori dal romanzo, mentre ce n’è una al suo interno molto più sicura e che vale anche per i personaggi che appartengono al ceto del protagonista, come il povero Copler. Per Zeno la realtà piena spetta soltanto agli esseri che si muovono nella sua coscienza, nella misura in cui si muovono nella sua coscienza e la fanno muovere – la fanno oscillare nell’eterno movimento che va dal desiderio dell’identità positiva, fissa e circoscritta, al rifiuto di quella stessa identità; dalla ricerca di una posizione “protetta” all’autoaffermazione di una libertà caparbia e distruttiva, che avrà ben presto nostalgia dei muri che ha distrutto. Ciò che non rientra in questa dinamica vivacchia stentatamente ai bordi della percezione e, fatto salvo un minimo di usi sociali, non ha più importanza per Zeno di un’erbaccia lungo il cammino – un’erbaccia che magari, sorprendentemente, ha uso di parola.

E con questo avremmo toccato i confini della coscienza fenomenologica. Quei confini che sono: gli altri.

 

 

 

 

 

1 pensiero su “Coscienza (di Zeno) e malafede

  1. Interessante e significativa questa proposta di lettura critica, di un autore che resta, a distanza di un secolo, uno snodo fondamentale della narrativa italiana. Al di là di questa analisi psicologica e fenomenologica della realtà umana di Zeno (della sua ‘malafede’), alla luce di una cultura di attualità possiamo considerare, secondo un mio personale parere, Italo Svevo come un antesignano del ‘pensiero debole’, nel suo atteggiamento di negazione; posizione che lo carica ideologicamente contro l’assunzione di un ruolo, e contro lo schiacciante primato e il condizionamento di una società post-industriale gerarchicamente strutturata sul piano socio-economico, della quale egli avverte il crepuscolo. Zeno è un personaggio sospeso fra due mondi, un passato sulla via del tramonto e un futuro non ancora decifrabile; sul quale, tuttavia, cala la scure del pessimismo dello scrittore.
    Se devo pensare a un autore rappresentativo della Trieste mitteleuropea la logica mi porta a Italo Svevo; ma il sentimento mi fa scegliere Umberto Saba, che nella sua poesia parla del dolore universale e aspira alla ricerca dell’umana saggezza e serenità; dove, con un solo verso, sembra sciogliere le nevrosi di Zeno: “esser uomo fra gli umani/ no, non v’è più dolce cosa”.
    Tempo fa, in questo sito, ho accostato ‘La coscienza di Zeno’ alle ‘Memorie del sottosuolo’ di Dostoevskij; orbene, questo grande interprete della profonda anima russa, che affonda lo scandaglio della ricerca negli abissi dell’umana sofferenza, si pone degli interrogativi, e nel contempo li pone al lettore, pur non sapendo darsi una risposta (uno fra i tanti: perché Dio permette la violenza sui bambini, nonostante la condanna senza appello del Vangelo?).
    Svevo tace, mostrando solo la nudità di una patita esperienza esistenziale.

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