Tre prose da “Fughe”

 

di Velio Abati

 

Invito

Le prose qui raccolte lambiscono la gestazione del romanzo Domani e si dispiegano nel  secondo decennio, concluso dallo squarcio di verità di una sconosciuta frattaglia di men che vita. Con soffio leggerissimo ha traversato ogni confine biologico, nonché umano, a rammentare soprattutto a noi della parte di mondo che conta, i civili padroni, l’ordine delle cose, che nessuno può disfarsi della propria ombra, che la notte, mentre il giorno ancora affatica il sonno, alta nel cielo canta l’allodola.

Se scritti morali si uniscono ad altri narrativi fino a includere passi in versi che incrociano Questa notte, non è per sprezzo dei generi, perché anzi riconoscono il valore risignificante e la forza interdittiva di cui storicamente ciascuno si è incarnato, ma a imporlo è stato proprio il medesimo amore di verità.

Allo stesso modo, alla dispersione pulviscolare degli eventi dell’esistenza da cui le prose muovono, tenta di contrapporsi la spinta a un orizzonte di senso che genera sull’insieme effetti d’eco.

Giudicherà chi legge, se all’intento corrisponde il risultato, o se l’oscurità dei tempi ha meglio messo a nudo la mia debolezza.

 

Marcello

Marcello una notte decise il suicidio. Parlatore fervido, aveva costruito molto più di me, o comunque ben più a lungo, differenti imprese comuni che a quel tempo davano sangue e nerbo al vivere sociale. Io lo incontrai che già lavoravo i silenzi delle mie stanze, tentavo il muro dei giorni. Marcello mi raccontava dei suoi scontri e delle ragioni comuni.

Di solito, veniva lui a trovarmi. Discutevamo a lungo. Principiava subito, senza preamboli, argomentava le critiche con voce penetrante. Ammiravo, in quei suoi fervori, la radicalità esperta nel denudare i tanti inganni e le pigrizie emotive, prima ancora che mentali. Pigrizie, che a ben vedere derivano da un nitido tornaconto, anche se forse esse l’hanno dimenticato, trasferendo automaticamente questo nel regno del naturale e del dovuto. Capisco solo ora la ragione della rapidità dei nostri discorsi, oggi che l’intesa tra due qualunque che si parlino è divenuta tanto difficile, da costringermi spesso o al silenzio o a giri interminabili di spiegazioni, chiarimenti, sillogismi: era la nostra esperienza condivisa, più che semplicemente comune.

Veniva a trovarmi perché – anche se non me lo disse mai, neppure con lo sguardo – sapeva del mio tracollo notturno, del mio cammino rasente il silenzio. Ne ammiravo, dicevo, l’energia di mischiare l’irriverenza lucida con la soda concretezza di chi non si fa mettere da parte, di chi ha il fiato di scommettere un fare diverso in mezzo a chi il fare lo comanda. Ascoltavo Marcello già lì, nell’aia, senza neppure metterci a sedere, mentre il vento del mare distante soffiava a ondate brevi, nell’aria pallida dei meriggi. Parlava aggiustandosi ogni tanto con le mani gli occhiali e le parole. La sua risata, breve come un graffio, irrompeva a intervalli.

Marcello faceva parte di un piccolo gruppo di amici che dai luoghi degli studi, terminati questi, erano tornati, come succede, alla famiglia d’origine. Non compresi subito che se altri, dopo una breve sosta, era presto ripartito per sempre, verso importanti luoghi e incarichi, mentre lui no, non era per la causa maggiore del bisogno. La proiezione di me stesso m’impedì di vedere la ragione più profonda e da lui non detta, come per le ovvietà. Marcello coltivava una passione tenace per la nostra terra. Eppure dovevano avvertirmi prima la scelta degli studi, poi le sue ricerche, il suo fervore intellettuale. Ora che, ripensando a quella stagione, guardo più addentro a lui, a noi, mi accorgo che quell’amore non era estraneo alla necessità da cui, al tempo della sua formazione, era stato spinto a una certa scelta intellettuale e dalla quale si alimentava la sua spiccata passione per l’impegno fattivo.

Marcello, quando capitava, non si accorgeva del grido breve della quaglia, acquattata nei campi dietro la vigna, né io gli parlavo delle mie poesie. In quel giro stretto d’anni si rivoltò il mondo e non parve. Ho nella mente l’arroganza insopportabile di chi credé d’aver vinto, dal quale, l’attimo prima d’esser travolto per sempre, nel telegiornale di maggior ascolto sentii intimare a chi certamente aveva perso: «il passo compiuto non basta». Non basta, no, gridò sconvolto un mio amico tirandosi giù i calzoni.

Marcello m’indicava il varco aperto, m’incoraggiava, portava a riprova il suo esempio. Ne seguivo ammirato il cammino, lo sostenevo in quella scommessa rischiosissima di un buon uso delle macerie, in cui si riduceva, anche per scelte autonome, la storia quasi secolare di mezzo mondo, la vita d’intere generazioni. Mi raccontava di persone che aveva visto piangere di pentimento per le proprie convinzioni d’una vita e gioire per la fortuna di non aver mai vinto. Ne parlava sgomento, pensieroso del retroscena cupo a guardare, a comprendere.

Ebbe ragione. Lo seguivo da terra. La sua frenesia, allora, trovava appagamento e nuova fiamma in cento imprese. Scalava i gradini.

Non arrivò più, nei pomeriggi ventosi. Ma ci s’incontrava ancora, di corsa, nelle piazzette della nostra città. Avvertivo, nelle increspature della sua voce, una febbre sottile. Mi veniva subito incontro, quando mi scorgeva da lontano, e si soffermava a parlarmi. Eppure il tono e le parole erano dell’impazienza. Mi sembrava di avvertirvi la critica, forse lo sprezzo verso chi si tiene pulite le mani perché non le usa. Anzi, un giorno me lo disse proprio, con il suo riso secco: te ne stai lì, sulla tua sponda elitaria.

Nella concitazione di certi nostri scontri, arrivavo solo a vedere, con stizza crescente, la sua furia ortodossa. Nei momenti che riuscivamo a concederci ascoltavo stupefatto che aveva scelto con cura un vecchio barbiere noto per le sue idee da sempre contrarie alle nostre, il racconto della pazienza metodica con cui si sottoponeva alle sue chiacchiere benpensanti. Un giorno, lui che non dico avesse praticato uno sport, ma che mai se ne fosse in qualche modo interessato, mi mostrò con un sorriso orgoglioso – mi sembrava felice – l’abbonamento a uno sport che nella nostra cittadina aveva una certa storia. Ne stava diligentemente imparando le regole complicate. Bisogna uscire, diceva, dai nostri steccati distanti, bisogna andare tra le persone in carne e ossa, ascoltarle, frequentarle. Si era messo al servizio di questa convinzione con modestia totale, con la volontà autentica di conoscere ciò che fino ad allora aveva ignorato e peggio respinto con fastidio.

Nelle discussioni pubbliche, arrivò a stuzzicarmi, a sollecitare direttamente la mia opinione, sempre intelligente, diceva, per farne vedere la minorità. Mi sentivo usato, ci teneva a mostrarsi democratico. Scappavo via.

L’ira mi accecava le orecchie. Non vedevo la vertigine nelle sue parole.

Io e i suoi amici più vicini accogliemmo con sollievo la notizia che una ragazza, presa a frequentare negli esercizi del suo nuovo apprendistato, stava per diventare sua moglie. Fu un matrimonio come si deve. La cerimonia in chiesa, con la messa cantata in latino e il lungo pranzo in un podere della collina, tra i primi a inaugurare la nuova moda degli agriturismi.

La notizia arrivò come un baleno. La mattina presto, dopo che la moglie e i famigliari l’avevano cercato per tutta la notte, un passante, mentre andava a lavoro, trovò il corpo sotto il ponte più alto della regione.

 

 

Livia

 Chi ha conosciuto Livia? Compagna di banco, no. A quel tempo nessuno di noi poteva averne, obbligate com’erano a indossare ancora grembiuli neri. Qualcuna, più orgogliosa, lo lasciava all’attaccapanni, per indossarlo in fretta appena entrata.

Rotondetta, con una voce esile e lunga coda castana, la sentivo sorridere tutta la mattina. Nella pausa della ricreazione, poi, si esaltava. Si girava spesso, in particolare verso uno di noi diventato, per questo, bersaglio nel nostro piccolo gruppo. Ma amiche non rammento che ne avesse. Mi accorgo di scriverne per la prima volta il nome. Nome solenne. La nostra terra appartata ha coltivato a lungo la passione per nomi imponenti, portati però con naturale trascuratezza e che, solo con fatica, ho potuto in seguito riconoscere: impronte, talvolta appena velate, delle ere antichissime. Non saprei dire se quel costume era un moto inconsapevole di rivalsa, oppure se è da leggervi la persistenza di un altro tempo. Enos, credo dicano lettere sbilenche giù, nella casa degli avi, enos lases iuvate. Molto tardi, ho dovuto apprendere che il tempo non è l’esattezza degli orologi, ma, come lo spazio, il dominio, fattosi carne e respiro, di chi, nelle varie epoche, decide la vita e la morte.

A essere sincero, non so neppure se Livia abbia concluso con noi il corso di studi. Quelli erano tuttavia per me giorni affannosi, appena ricordo le levate nelle ore buie. Mio padre veniva lieve dietro la porta, mi chiamava sottovoce. Certe volte, già sveglio, attendevo fino al richiamo. Poi la persi di vista, come il volo corto della potazzina fra le siepi di novembre.

Talvolta mi sono trovato a considerare, e immagino che sia una riflessione diffusa, come capiti di vivere condizioni che mai avrei immaginato mie. Nella parabola di una curva non puoi né rallentare, né deviare a tuo arbitrio, pena essere travolto. In quei momenti, quando ti volgi indietro, cerchi il punto d’inizio e l’origine delle incidenze, ti dici che avresti dovuto, ti spieghi con il caso. Ma la nausea, che presto puntualmente ti dà quel tentativo, ti ammaestra sulla presenza, per quanto invisibile, di padroni della vita e della morte, che lasciano te senza occhi e senza orecchi. Ho poi imparato che quello spossessamento non è immutabile, ma varia il suo grado da una generazione all’altra, da un luogo all’altro. Potente si è fatta negli ultimi tempi la sua spinta. Così mi guadagnavo a quel tempo il pane vagando di luogo in luogo, ogni volta cambiando volti e sguardi, che m’imparavo poi la sera, prima d’addormentarmi.

Ogni tanto ti sorprende il falso riconoscimento di qualcuno, per corrispondenze indefinite di espressioni o gesti, coincidenze che ti mettono alla prova e ti rassicurano. Mi salutò, infatti, un volto tra gli altri. Dopo qualche giorno incontrai lo stesso breve sorriso. Allora, per prudenza, chiesi a chi già meglio conoscevo, a più d’uno, senza esito, finché nella mia discreta inchiesta ricomparve un nome, Livia.

Nella donna che in mezzo alla corrente camminava vicino la parete, solo la pelle chiara del volto e delle mani, riuscivo a riconoscere. E forse gli occhi. Nello sguardo pacato, ma non severo, nel movimento della testa non fervido, ma di un’intima confidenza preclusa agli altri, che poteva apparire rassegnazione, intravedevo la Livia d’altri tempi.

Dovetti imparare come ogni discorso, con lei, presto diventasse franto. Restio, sembrava. Forse per timore di sentirsi impropriamente in mezzo alla scena, o semplicemente per disinteresse; non saprei dire. Negl’impegni comuni che capitarono, la osservavo starsene silenziosa e paziente. Non si tirava mai indietro da qualunque dovere le fosse presentato, con la medesima naturalezza. Poiché non mancò chi se ne approfittasse, una volta non potei non dirglielo con calore. Sollevò lo sguardo dal suo libro appena sorpresa. Mi sorrise, non so se di gratitudine o per consolarmene.

Qualcosa, lo vedo ora, di quel suo modo risuonava dentro di me. Sempre, nella mia vita, mi ha accompagnato un istinto di lontananza da quello che i cristiani chiamano «mondo», il desiderio della meditazione profonda, del profumo dei boschi. Epperò, come una spina, m’assale il conoscere di quanto sudore e strazio sia quel profumo di terra e foglie. So, ed è stato per sempre, che nel condursi semplice della vita ogni meditazione è negata, perché qui si è costretti a renderla possibile per pochi altri. Così ho compreso l’impasto crudele e a tratti feroce in cui, in questo tempo buio, è chi vuole che quella moltitudine anonima si prenda i suoi diritti, ma per farlo deve trarsene fuori. Scrivo e vi scopro lo sgambetto dell’ottimismo. Me ne risveglia la truce morte per acqua e di sabbia – invisibile, anzi invocata -, la dolente umanità abbandonata sulle nostre scale. Me ne rammenta la beffarda condizione nelle nostre stanze: l’odierna liberazione del tempo si capovolge nel legame servile di chi cerca lavoro e dei pochi aggiogati a ritmi disumani. Radice terragna questa della celeste ricchezza di pochissimi, cime dove essa risale sempre più rigogliosa dalle mille contrade della terra.

Nulla potei chiedere a Livia di sé, se avesse famiglia, con chi e dove vivesse, né da altri, cui ogni tanto domandavo, seppi. Il giorno del suo congedo, fu altra persona ad annunciarlo. Livia, che sempre aveva voluto esserci il meno possibile, era rimasta altrove.

Nessuno se ne era accorto.

 

 

Politéia

Càpita, nel condurre l’adolescente alla lettura, di scontrarsi in un incaglio. Non parlo dell’ostinazione alla non lettura, fatto non infrequente però superato dalla forza intrinseca all’istituzione in cui l’azione avviene. Dico invece dell’afasia sul sé, dura come la rimozione, di fronte a quanto è stato letto. Lo impegni in un diario di lettura e ti ritrovi con un resoconto succinto della fabula o poco più. Ti sforzi in esempi, raccomandi apertura d’animo e di mente, per poi ricevere pagine più estese di dettagli gelidi come referti anatomici: la scena interiore rimane una notte deserta. Non vale qui alcun dovere, né alcun consiglio, scorgi che la radice è al di là del tuo gesto.

«Interpretare», forse da «pretium», quindi «valore», ma certamente da «inter» che indica appunto la messa in relazione. C’è un motivo se la riflessione ermeneutica in Occidente prende avvio dalla pratica dei testi religiosi e poi dalle leggi. È palese la condivisione, del testo religioso e del testo giuridico, di due elementi costitutivi: entrambi assumono carattere fisso e universale; entrambi sono prescrittivi, pretendendo la consequenzialità pratica del loro lettore. Il motivo per il quale anche l’opera d’arte si trova alle prese con il processo ermeneutico è propriamente nella sua intrinseca natura illocutoria. L’uomo di fede, l’uomo soggetto alla legge e l’uomo che gode di un’opera d’arte sono determinazioni diverse di una medesima funzione sociale.

Se il testo con cui fa i conti si pretende universale, l’interprete è costretto – pena la demenza della comprensione e la follia dell’azione – restituirne la storicità, per distinguere il loglio della contingenza dei tempi, dal grano di ciò che è da ritenere ancor valido. Il rapporto, come si diceva, è con un testo per dir così eterno, in cui il posto dell’autore con il suo alito vitale è rimasto vuoto, per questo ogni testo chiuso è non diverso dai cadaveri; ma diversamente da questi la carne, il sangue e la ragione del lettore – se ha avuto il coraggio di portarli con sé – danno ogni volta ad esso la sua carne e la sua ragione, rianimando al contempo la scena dell’autore e del suo tempo.

Anche quella dell’opera d’arte forse dovrebbe dirsi «chiamata», perché all’ingiunzione del pater unisce la commozione dell’animo, che convince ad abbassare le difese, a svellerla dalla sua fissità e a portarla dentro di noi. Io sono della generazione formatasi sulle note teatrali di Brecht per un teatro epico, contro quello catartico. Oggi capisco meglio le sue buone ragioni, perché comprendo che la sua non era, come mi appariva, la negazione dell’identificazione, ma un’identificazione di secondo grado. Era, diciamo meglio, l’esposizione didattica e in un campo particolare di un processo fondativo generale: non si dà, in senso stretto, comprensione se non ci si abbandona all’opera, se non si diventa l’opera; d’altra parte, non si è in grado di parlare, di riprendere la nostra voce se a un certo punto non si mette alla porta l’opera. In mancanza di questo passaggio, essa è la Medusa che pietrifica chiunque la guardi. Le figure allora possibili sono non il critico ma l’erudito, non il cittadino ma l’idiota o l’aguzzino, non il timorato ma il fariseo o l’integralista.

Tale rapporto duale, generato dallo strappo della determinatezza storico-sociale, non prende solo la forma della desertificazione del soggetto, ma si manifesta anche nell’opposta cancellazione dell’oggetto. In questo caso all’afasia subentra un’esuberanza critica pseudocreativa che riempie il fantasma dell’opera. È questo il campo della libertà paranoica. Ridotte l’opera d’arte, la legge, la religione a fantasma del sé, il soggetto istituisce se stesso a mondo e insieme a suo legislatore, indossando, di volta in volta, i panni del rivoltoso sacrificale, dell’urlatore egotico, o del sadico.

Come sempre accade nei fatti storico-sociali umani, certi fenomeni specifici – qui la relazione tra un prodotto chiuso nella sua fissità e il fruitore preso nella δύναμις della propria vita – hanno una più ampia validità generale, nel caso di cui si tratta la comune relazione tra gli uomini. Per esempio, è dalla necessità di storicizzazione propria del processo interpretativo che prende senso il salutare caveat all’ascolto, «chi ci parla?». Vero inizio della comprensione di quanto ci viene detto. Certi studi recenti di fisiologia umana sembrano asserire la relazione tra autismo e assenza o difettività dei neuroni a specchio: la forma estrema di assenza di relazione troverebbe la sua eziologia nell’impossibilità funzionale a mettersi nei panni dell’altro. L’evidenza patologica confermerebbe dunque la fondatezza antropologica delle caratteristiche e della dinamica della relazione interpretativa.

Rientrando al di qua dell’estremo patologico, che come tale si colloca ai margini ultimi, se non esterni, della socialità storica, oggi misuriamo le vaste desertificazioni del tessuto sociale che spingono l’individuo alle molteplici espressioni delle due intransitività relazionali. Si pensi alle solitudini impotenti che presto si fanno rassegnato silenzio, oppure esplodono in astio gridato o freddamente agito fino al sangue proprio e altrui. Si pensi alle domande senza risposta che in breve si tramutano in asserzioni dell’identico. Non raramente, le socialità si costruiscono in recinti nei quali i componenti, mentre credono di parlare a tutti, si convincono della verità per il fatto che risuonano della medesima asserzione. Capisci allora che la difficoltà del tuo adolescente nell’interpretazione non origina da un difetto personale – caratteriale o culturale – sebbene ne assuma la veste, comprendi cioè che la possibilità di quella è prima di tutto una relazione sociale, dalla quale il tuo potere di docente è, costituzionalmente, in gran parte escluso.

 

 

Velio Abati, Fughe, Manni Editori 2020

[Quarta di copertina]

La scrittura di Velio Abati nasce dall’allarme del presente, dando vita a racconti, figure, meditazioni. Ogni fuga rinnova la sua energia contro le ottusità, le violenze, gli smarrimenti dell’oggi, in vista di un orizzonte di senso del sé e del mondo da riconquistare, ,sempre muovendo dalla concretezza dura dell’esistenza. In primo piano sono le amicizie, l’impegno civile e intellettuale, l’insegnamento, l’amata letteratura, la comunicazione, il paesaggio, il lavoro manuale. La forma dell’opera e lo stile invitano alla riflessione filosofica, morale, linguistica, estetica.

 

Velio Abati è nato a Roccalbegna, in provincia di Grosseto, nel 1953. Ha insegnato per molti anni Letteratura italiana a Grosseto. Ha dato vita alla Fondazione Luciano Bianciardi e l’ha diretta fino al 2006. Dal 2012 organizza la rassegna culturale Colloqui del Tonale. Collabora con varie riviste letterarie e ha pubblicato volumi di poesia, narrativa, teatro, saggistica. Con Manni il romanzo Domani (2013) e il canzoniere poetico Questa notte (2018).

 

1 pensiero su “Tre prose da “Fughe”

  1. SEGNALAZIONE

    Dalla rivista “Odissea”

    Angelo Gaccione

    Il nuovo libro di Abati

    Fughe, di Velio Abati, è un libro composito. È diviso in due parti: Voci e Discanto. Voci, che è la sezione più corposa, raccoglie una serie di prose narrative; Discanto, invece, ha un taglio preminentemente saggistico e raccoglie testi che molto probabilmente sono stati in precedenza pubblicati su organi di stampa cartacei o in Rete, a giudicare dal taglio di alcuni di essi che dialogano con lettori e lettrici su questioni di bruciante attualità, anche se l’autore non ce ne indica la fonte. C’è in questo nuovo libro di Abati, il narratore (non si dimentichi che egli è anche autore di un romanzo), c’è la sensibilità del poeta (è autore di varie raccolte di versi) e in queste prose la poesia emerge evidente non solo in certe descrizioni del paesaggio e degli elementi naturali resi vividi e fortemente visivi, ma anche per come ce ne giungono gli echi, il sottofondo di una certa dolorosa nostalgia, il riscatto di un mondo fatto di cose minute, povere, ma rese straordinariamente umane. E poi le tracce di biografie, di volti, di memorie, di radicamenti ad un mondo, a dei luoghi, divenuti parte consustanziale del proprio vissuto e del proprio percorso, della propria coscienza e della propria consapevolezza. E c’è il saggista con la sua intelligenza riflessiva, con il suo interrogarsi, la sua capacità critica, il suo sguardo partigiano sulla realtà. Abati da questo punto di vista non bleffa: mette subito le carte in tavola e vi dice chiaramente come si è situato rispetto ai rapporti di dominio, rispetto alla fatica (che è molto di più del semplice lavoro), al conflitto di classe, all’empietà del finanz-capitalismo come efficacemente lo definisce, che ci sta scavando la fossa fra dissesto ambientale, armi di sterminio e mercificazione di un mondo che diviene sempre più invivibile. Abati, insomma, non dimentica mai che le idee dominanti sono in ogni tempo quelle delle classi dominanti.

    La sezione narrativa è concentrata fondamentalmente su figure che la memoria dello scrittore ci restituisce e ce ne rivela, appunto, le “voci”; attraverso brandelli di vita, descrizioni fisiche, episodi non memorabili, ma che hanno un senso umano profondo. In prevalenza sono racconti descrittivi e in cui il dialogo è poco presente. I personaggi appartengono alla vita dello scrittore o hanno fatto parte del suo “sguardo”, a partire dall’infanzia, dalla scuola, dall’ambiente familiare, dal suo percorso politico-culturale, da una stagione di esaltante generosa utopia di cui tanti di noi sono stati parte attiva, fino al ripiegamento, alla delusione, alla deriva. I titoli si aprono con i nomi dei protagonisti messi in scena: Giacinto, Giulio, Livia, Marusca, Lorenzo, Marcello, Raffaela, Gabrio… con i loro piccoli lacerti di vita e dentro un paesaggio amato e poetico insieme. È una sezione in cui aspetti autobiografici ed elementi sociali, oggettivi, si mescolano. Ed è uno sguardo che si allarga ai luoghi del mondo dove l’ingiustizia, la guerra, la morte, i muri, sono di casa (si veda Yalla! con i suoi protagonisti). Perché tutto ciò che ci è offerto come narrativa, non è mai scevro da uno sguardo sociale o morale. Come quella sorta di favola moderna dal titolo C’era una volta una piccola città, e che vede contrapposti gli Alti e i Bassi. Racconto in cui non si fa sconto né al potere economico, né a quello amministrativo.
    Ripeto, in queste narrazioni c’è la fatica, il lavoro, la fuga, la condivisione, il sacrificio per mutare la propria condizione e quella dei propri figli; c’è la fedeltà alla memoria come nelle pagine dedicate al poeta fiorentino Franco Fortini, nel testo dal titolo La cartella; e ci sono Dante, Gramsci, Brecht, come ci sono la scuola e la letteratura. Sono temi che la seconda parte del libro riprende e lega come in un filo continuo, anche se questa volta in maniera più riflessiva, filosofica, critica, perché non vi è cesura fra gli scorci di una natura colta poeticamente e una natura ferita, violata, saccheggiata. Il sentimento è lo stesso, sia che si tratti di adesione amorosa, sia che si tratti di indignazione civile per come l’abbiamo ridotta. Il grido d’allarme ha la medesima efficacia, si tratti di scrittura letteraria o di scrittura saggistica. La varietà dei temi affrontati e messi davanti alla riflessione è tale, che ognuno di essi merita un confronto, un approfondimento ulteriore. Cosa che, sono sicuro, il lettore attento non mancherà di fare.

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