La spinta eversiva di “Fughe”

 

di Ilaria Verdi

Un altro intervento su Fughe di Velio Abati. [E. A.]

Victa iacet pietas, et Virgo caede madentes,
ultima caelestum, terras Astraea reliquit.

(Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 149-150).

Se nel mito di Astrea, l’avidità e i crimini caratterizzanti l’età del ferro, avevano causato la fuga degli Dei, nelle Fughe di Velio Abati la ritirata non è concepita: le “fughe” piuttosto si pongono come una spinta al cambiamento con lo scopo di combattere quella “ostinata immobilità che germina la disperazione” (La cartella, p.83).

Sono molti i problemi che vengono messi sul tavolo: i rapporti di dominio, il conflitto di classe, l’avvento del finanz-capitalismo, il disvalore delle cose, del lavoro e della fatica. Ciascuno di questi mali richiede una riflessione da parte del lettore così da comprenderne l’essenza e determinarne il suo superamento. Del resto, “la fruizione artistica è un’esperienza e il lettore collabora alla produzione del senso” (Lorenzo, pag.67).

Sono molte le cose che mi hanno colpito del testo a partire dalla sua strutturazione interna: una perfetta alternanza tra narrativa e saggistica, forza descrittiva e continuo interrogarsi. Questa spaccatura in due sezioni – l’una dedicata al racconto, l’altra alla riflessione – si mantiene anche sotto il profilo temporale tanto che il testo corre a due velocità diverse: dapprima (nella sezione Voci) c’è la dinamicità del reale, del racconto e in qualche modo della storia, in un secondo momento (nella sezione Discanto) il tempo rallenta e si ferma alla meditazione critica sul presente. Tuttavia la singolarità di questa struttura bipartita sta nel fatto che le sezioni seppur divise si cercano riconfermandosi da un punto di vista ideologico. Ad esempio, in molte prose Velio si scaglia contro l’ignavia: in A una giovane afferma che “nel tempo della povertà, conta l’essenziale; la pochezza non può essere alibi all’inerzia. […] Ascoltare nella vicinanza il dolore muto perché diventi grimaldello, una luce che apra la parola, la conoscenza che sfondi lo ‘schermo nero’, spalanchi il futuro” (p.114) oppure in Ai sei lettori, anzi lettrici invita “ad affinare lo sguardo e a far maturare il silenzio […] la sofferenza che allora ci stringe è la verità della nostra condizione, la spinta a ribaltarla nostra guarigione” (p. 116). Questa presa di posizione non rimane soltanto ideologica, pura riflessione intellettuale bensì la si ritrova viva nella figura di Marcello che ne restituisce una dimensione fisica e soprattutto storica. Alternando la voce corale ad una voce individuale, Velio ci rivela le crepe e le ottusità del presente tramite l’ampio sguardo da intellettuale organico gramsciano, in un’unica vera dimensione temporale che è quella del “presente” fortiniano, una dimensione d’insieme che ha in sé il passato e il futuro.

Come sostiene A. Gramsci in Quaderni dal Carcere non si può separare l’“homo faber” dall’“homo sapiens”, serve “un’intellettualità diffusa, un intellettuale di tipo nuovo non separato per mestiere e appartenenza di classe dal resto della società, ma proveniente da questa e legato alla classe lavoratrice dal compito di costruire attivamente la sua emancipazione” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp.1550-1551). Ed è questo che il nostro fa, “non appende le scarpe al chiodo” (Franamenti, p.134) anzi attualizza questa missione intellettuale tramite l’insegnamento: “Di fronte ai miei alunni so che, in forza del nome per cui parlo, posso tentare di risvegliare in chi ascolta qualche domanda di senso su di sé e sul mondo che ci circonda” (Diari, p.123).

Inoltre, emerge nel testo il valore pedagogico delle cose; Pasolini in Lettere Luterane scrive: “la prima lezione me l’ha data una tenda” (pp.567-569), una tenda che insieme ad altri oggetti rappresenta non solo la cosa in sé ma diventa un segno linguistico in grado di rievocare un mondo intero, nel suo caso quello dell’infanzia borghese. La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo, perché egli è stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo. La stessa concezione degli oggetti come segni linguistici, come simbolo di appartenenza ad una classe sociale l’ho ritrovata in Čigoč: Velio tramite gli attrezzi agricoli che l’anziana signora gli sta mostrando rievoca alcuni teneri attimi della sua infanzia.

Ecco, il significato di ritrovarsi. Io stessa, come tutta la mia generazione, se mi guardo indietro non riesco a farlo, non riesco ad afferrare con mano, a sentire la materialità di qualcosa di identitario: una realtà omologata che si dispiega indistinguibile e al tempo stesso irrefrenabilmente mutevole seppur in tempi brevi. Quelle varie culture particolari (sottoproletarie, operaie, contadine) che anche con il fascismo continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli, in quanto la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole, oggi non esistono più. Ormai l’adesione ai modelli culturali imposti dal Nuovo Potere è totale e incondizionata: “si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica è la peggiore delle repressioni della storia umana” (Acculturazione e acculturazione in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975), un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

In conclusione, riprendendo il mito di Astrea, possiamo dire di essere nell’età del ferro? Sicuramente sì, ma in modo diverso. Ci rimane la lotta, il valore e la forza della fatica, “questa è la notte in cui ci è dato di lavorare, in gran parte senza sapere e quasi scommettendo su qualche verità che ci sembra d’intravedere” (Franamenti, p.134) soprattutto perché come ci ricorda in maniera quasi paterna Velio, “con Dante si impara a riconoscere che il male, con la paura che esso genera, non è assoluto, ma ha un’origine e ha una fine” (La Cartella, p.83).

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