L’attacco al Congresso americano. Conversando col mio parrucchiere

di Donato Salzarulo

1.- La mattina del 7 gennaio, alle 10, avevo un appuntamento col mio parrucchiere. Ci sono arrivato con i fotogrammi negli occhi di ciò ch’era accaduto a Washington il pomeriggio dell’Epifania. Scrivo “Washington” e penso alla buonanima dello zio Antonio che, quando pronunciava questa parola, si riempiva la bocca come fosse un luogo della Terra immacolato e irraggiungibile.

Purtroppo per lo zio, la capitale non solo era stata raggiunta da frotte fanatiche ed osannanti del popolo di Trump, ma ne era stato anche violato il suo simbolo, il Campidoglio, definito da molti cronisti “tempio della democrazia”.  Questo proprio nel giorno in cui si stava celebrando un rito fondamentale di questa “religione laica”: la proclamazione di Biden a nuovo presidente degli USA.

Ma faccio un passo indietro. La sera dell’Epifania, che per fortuna tutte le feste porta via, dopo una frugalissima cena, mi ero seduto di fronte al televisore per guardare il TG del primo canale. Insieme alle stanche e noiose notizie sul balletto governativo Renzi-Conte – francamente Renzi mi ha rotto oltremodo i cabbasìsi – , ascoltavo il triste bollettino dei contagiati e morti quotidiani per Covid -19.

Me ne stavo stravaccato, quasi distratto, quando un allarmato Giorgino, ha ridato linea e parola al corrispondente da New York. Qualcosa di grosso stava accadendo a Washington: i fan di Trump, da lui stesso deliberatamente incitati, stavano assaltando il Congresso. Notizia ghiotta. No, non mi sono sgomentato, né mi sono rallegrato. Mi sono semplicemente allarmato. Da quando Trump è diventato presidente degli USA, penso che nel paese più potente del mondo (per quanto ancora non so) sia in corso una “guerra civile” strisciante. Siccome questa guerra ha degli effetti su di me (e su tutti noi), anche volessi, non posso disinteressarmene. Allora, sono rimasto attaccato al televisore, passando da una rete all’altra, fino alle ore piccole. Conclusione: sono andato a letto con molte domande in testa e con la sensazione che negli USA non solo è possibile l’attacco (dall’esterno) alle Torri Gemelle, ma anche l’occupazione (dall’interno) degli edifici di Capitol Hill. Nella nazione che per decenni si è premurata, più a torto che a ragione, di esportare la democrazia nel mondo, un Presidente, che ha perso le elezioni, come gli hanno ripetuto vari tribunali e la Corte suprema, può organizzare con i suoi “patrioti” qualcosa che sta tra un’insurrezione e un vero e proprio colpo di stato.

2.- Non faccio in tempo a prender posto sulla poltrona che Matteo, mio parrucchiere da trent’anni, m’investe con le sue domande e considerazioni. Anche lui è rimasto sveglio fino alle ore piccole e anche lui ha visto le scene del Campidoglio trasformato in un bivacco.

«Incredibile!… Ma, dimmi, come è possibile che nel paese della CIA, della FBI, dei Servizi segreti della prima potenza mondiale, come è possibile che possano accadere eventi simili?… »

«E che ne so…Se sono accaduti, è possibile. Forse credevano che questi “patrioti”, queste persone “speciali”, come le ha definite Trump, non avrebbero mai assaltato il Campidoglio. Se al posto di questi squadristi di estrema destra, ci fossero stati in piazza dei manifestanti di sinistra o afro-americani, sicuramente ci sarebbero state sufficienti forze di polizia in tenuta antisommossa e pronti a sciogliere la manifestazione. Per gli strati dirigenti di questi apparati repressivi il pericolo (o il nemico) probabilmente non è mai a destra, ma a sinistra…»

«Si, è vero. Infatti, ho visto poliziotti che combattevano con i manifestanti ed altri che li hanno lasciati tranquillamente passare. Qualcuno, addirittura, si è fatto il selfie insieme…Pazzesco!… Siamo messi male…»

«Sicuramente. Primo, perché Trump non crede nella democrazia. Ciò che conta per lui è il potere, il potere assoluto, sciolto da ogni legge. Se può ottenerlo, attraverso le elezioni, bene; altrimenti, non si fa scrupolo di utilizzare qualsiasi altro mezzo…Del resto, cosa ha fatto in questi quattro anni?… Quanti collaboratori ha “licenziato”, come dice lui, semplicemente perché la pensavano diversamente?…»

«Hai ragione. Si è democratici, se si crede nella democrazia. Ma, se non si crede più, ci sarà qualche ragione? Trump è un miliardario, un padrone e può anche non crederci. Probabilmente si è messo in politica per acquisire ulteriori poteri e privilegi; ma quelli che gli vanno dietro e gli credono?… Cosa pensano di guadagnare?…»

«Non so, cosa pensano di guadagnare. Magari, un lavoro, una casa, meno tasse da pagare, la possibilità di affrontare la vita con un po’ più di sicurezza e libertà…Ciò che mi appare evidente è questo: se la democrazia non assicura ai propri cittadini il “minimo sindacale”, una vita decente e un certo benessere, è facile che entri in crisi. Chi perde un lavoro, chi non può pagarsi un’assicurazione sulla salute, chi non riesce a mandare i figli a scuola, non è che può riempirsi la bocca con la parola democrazia e sentirsi soddisfatto perché ogni quattro anni va a votare…In condizioni simili, è facile farsi convincere anche da proposte demagogiche come quelle di Trump o di altri. Che poi queste proposte non rappresentino delle vere alternative economiche e sociali a ciò che si fa negli USA dai tempi di Reagan, è un altro discorso…»

«È questo che non riesco a capire. Come è possibile che un discorso di merda come quello di Trump attecchisca presso tanti americani e non risulti convincente un discorso di sinistra…»

«Stiamo ai fatti. Il partito democratico ha preso quasi sette milioni di voti in più di quello repubblicano. È che esiste un sistema elettorale pazzesco e rischi di perdere anche quando hai più voti, in valore assoluti, di quelli del tuo avversario, come è successo ad Hillary Clinton…Durante la presidenza Trump si sono sviluppati movimenti sociali, tutt’altro che secondari…Il problema è che mentre la sinistra cerca di trasformare le situazioni sul terreno sociale e culturale, frange di destra ed estrema destra non temono di scendere sul terreno dello squadrismo e del “terrorismo domestico”, come l’ha chiamato Biden…Non ci sono solo fatti economici, situazioni di crisi sociale, disuguaglianze. Ci sono anche fatti culturali, ideologici, identitari: la “grande America”, il suprematismo bianco, il razzismo, il neo-fascismo, ecc… Il conflitto sociale non è mai soltanto economico…Ciò che mi appare evidente è che Trump, incitando all’occupazione del Campidoglio, è come se avesse detto agli americani: “noi siamo disposti a tutto, anche all’insurrezione e alla guerra civile”…».

«È un bel casino!…Però, adesso, dopo questa mossa, più o meno fallita, Trump non dovrebbe essere più isolato?…»

«Boh!…Certo, Pence, il suo vicepresidente, non è stato al suo gioco; non gli ha procurato illegalmente i diecimila voti che chiedeva in Georgia – anzi qui, fatto molto importante, hanno vinto le elezioni due senatori democratici -; poi è stato lui a chiamare la Guardia Nazionale, ma nel Partito Repubblicano la situazione è tutt’altro che chiara…Un fatto è certo: Trump fino al 20 gennaio è ancora presidente a tutti gli effetti e non si sa quali saranno le sue prossime mosse…»

«Hai visto come hanno reagito i nostri seguaci italiani di Trump?…Che ridere, Salvini!…Dopo aver fatto il fan con la scritta del nome del presidente americano sulla mascherina, adesso si limita a condannare “la violenza”, come se non fosse stata stimolata dallo stesso Trump…»

«E Meloni?…Se è per questo, è ancora peggio: “mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal presidente Trump”…»

«Anche qui…Come è possibile che gli italiani diano tutti questi voti a Salvini?!…Come è possibile che lo votino i meridionali dopo che per anni sono stati insultati dalla Lega?!…»

«Il problema è sempre lo stesso: ci sono fatti economici, sociali alla base dell’aumento della disoccupazione, delle disuguaglianze, delle condizioni di precarietà di migliaia e migliaia di persone appartenenti a vari strati sociali; fatti economici, prodotti da scelte politiche neo-liberiste; su questi fatti soffiano demagogicamente donne ed uomini politici di destra (o di estrema destra), facendo credere che il problema si risolva, erigendo muri contro gli immigrati, armandosi contro la piccola delinquenza, andando contro le diverse élite nazionali e sovra-nazionali, ecc. ecc…A questi strati “periferici”, “invisibili”, “dimenticati” i Democratici e la Sinistra – ammesso che in Italia ce ne sia ancora una politicamente rilevante – non riescono a rivolgere proposte capaci di riconoscimento, coinvolgimento, soddisfazione dei loro bisogni e dei loro legittimi interessi…Questa è la sostanza. Poi i discorsi economici non sono mai soltanto economici. I liberisti sostengono che la missione sociale di un’impresa è soltanto quella di pensare a realizzare il massimo profitto e a remunerare gli azionisti. Bene: se per realizzare il massimo profitto in un mercato concorrenziale occorre, quando lo si reputa opportuno e necessario, tagliare “i rami secchi”, chi fornirà i mezzi di sussistenza ai lavoratori licenziati?…La Caritas?…Ma se vengono affidati soltanto alla carità sociale delle organizzazioni religiose o para-religiose, quei lavoratori diventano persone prive di diritti…Se, invece, deve pensarci lo Stato, occorrono risorse economiche, cioè tasse.  E le tasse non possono pagarle soltanto i lavoratori dipendenti e i pensionati.

I liberisti e neo-liberisti non hanno a cuore la “religione laica” della democrazia, ma quella del capitalismo. Il primo inganno che occorre smascherare è che capitalismo vada a braccetto con democrazia. Il capitalismo può svilupparsi anche con regimi dittatoriali e autoritari.

Tornando a Trump, il problema è proprio questo: occorre capire quanti la pensano come lui. E non mi riferisco solo ai settantaquattro milioni di americani che l’hanno votato. Mi riferisco agli oligarchi come lui…Il mio timore è che questa élite non sia sola e che sia pronta a violare le regole democratiche per imporre una soluzione autoritaria alla crisi…»

«Se è così, la nostra democrazia è messa male…»

«Sì, Matteo, purtroppo è così. Se non buttiamo a mare il modo di pensare neo-liberista, continueremo a dare spazio alla destra sovranista, neo-nazionalista, neo-fascista…Non mi pare che i democratici abbiano capito questo e non mi pare che ci sia in giro la volontà e l’entusiasmo di costruire non un movimento cinque stelle, ma un bel partito del lavoro…».

3.- Ho riassunto una conversazione che è durata quasi un’ora. Matteo è un ottimo parrucchiere. Lo conosco da quando era soltanto un apprendista. È un democratico, un uomo di sinistra. Ha due figli ed è legittimamente preoccupato per il loro (e nostro) futuro.

9 gennaio 2021

20 pensieri su “L’attacco al Congresso americano. Conversando col mio parrucchiere

  1. è un anno che non vado dal parrucchiere, quindi conviene mi prepari anch’io.
    Preliminarmente con un poco di igiene semantica, che mi viene più facile non frequentando le televisioni, fonte di perpetuazione di riti obsoleti e termini linguistici illusori, ma anche praticanti di riti negromantici, in accordo con quelli che erano i grandi quotidiani e ora sono le bamboline di Elkann. Mi riferisco a termini quali sinistra, comunismo, democrazia…e i loro supposti praticanti.
    Innanzitutto sinistra: talmente indeterminato da comprendere tutto e il suo opposto, dai ‘buoni’ per auto o eterodefinizione a quelli che uccidono migliaia di donne e bambini con bombe o tiro al bersaglio (gli usa sono specialisti in questi giochini, soprattutto se sono anche democratici, da Johnson a Obama), da quelli che una volta erano comunisti e poi tiravano uranio impoverito sulla testa degli ex compagni a quelli che erano democristiani e poi si sono comprati e rivenduto un partito ‘di sinistra’….
    propongo che il termine torni al suo originario significato di collocazione degli scranni.
    Comunismo meglio lasciar stare, riesumato dalle televisioni del triste burattino della cia-mafia è rimasto solo come connotato negativo appiccicato a paesi che non avevano più idea di cosa fosse.
    Per la democrazia e i suoi templi direi che diradato il polverone della propaganda postbellica è rimasto soprattutto lo scheletro ghignante della sua esportazione armata; la sua forma rappresentativa parlamentare ha vieppiù mostrato che, come l’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tutto si compra. E gli acquirenti non sempre sono tipi che vorresti invitare a casa, come il successo della Lega in Calabria indica bene.
    ..allora, fatte un poco di pulizie di natale al linguaggio, possiamo discutere più sereni col nostro parrucchiere, spiegargli che anche in america la polizia, foss’anche del Campidoglio, non spara agli amici del padrone, raccontargli sorridendo di come sul Manifesto sia apparso un dibattito fresco fresco sulla forma partito, dove un burlone dichiara che le idee ci sono già tutte, manca solo l’involucro, e infine invitarlo ad aprire porte e finestre mentre lavora perchè il governo, per quanto il migliore possibile, si è dimenticato di dirgli che è l’unico modo per abbattere la carica virale.

    1. Caro Di Marco, “igiene semantica” è un sintagma che non apprezzo molto. Le parole di una lingua possono essere vecchie, nuove, dimenticate, riusate, prese in prestito da altre lingue, ecc. ecc. È strano poi che questa “igiene semantica” debba riguardare soltanto parole come sinistra, democrazia, comunismo… Comunque, al di là dei miei gusti, non capisco come si possa comprendere la “guerra civile strisciante” (nei suoi aspetti politici, sociali e culturali) senza utilizzare categorie come destra/sinistra, neofascismo/democrazia, squadrismo, suprematismo, neo-razzismo, ecc. ecc. In questi giorni, fino a prova contraria, la lotta politica in USA mi pare che si svolga prevalentemente fra repubblicani e democratici. Quanto all’ampiezza semantica e all’ambiguità di queste categorie, sono d’accordo. Ma il linguaggio dei gruppi e delle classi sociali in lotta non si decide in convegni scientifici.
      Per il resto, anche il mio parrucchiere conviene: “in america la polizia, foss’anche del Campidoglio, non spara agli amici del padrone”. Sebbene, ci sia qualche morto tra poliziotti e amici del padrone.

  2. Paolo Di Marco è un anno che non va dal parrucchiere. Io da più di dieci anni, da quando il mio parrucchiere storico se n’è andato in pensione e io ho scoperto che, poiché non ci tengo al look dei pochi capelli che mi restano, potevo sostituirlo da solo con l’aiuto di uno specchio, di un paio di forbici e di un rasoio (di sicurezza a lamette, e a volte elettrico).
    Così condivido gran parte delle osservazioni sul linguaggio. I termini vanno tosati in proprio, con attenzione, non sottoposti al taglio generico della moda di barbieria (che sia moda diffusa o di ristrette cerchie, è lo stesso).

    1. Caro Aguzzi, io e il mio parrucchiere usiamo termini così vecchi (sinistra, democrazia, ecc.) che tutto mi sembrano fuorché di moda. Anche il mio taglio è sempre lo stesso da più di trent’anni. Il mio è fatto in collaborazione, il tuo da solo. Io cerco un riscontro, a te basta uno specchio, un paio di forbici e un rasoio…Tosa pure i tuoi termini in proprio, purché ci aiutino a capire cosa succede negli Usa e tra di noi.

      1. @ Salzarulo
        Appunto, «purché ci aiutino a capire cosa succede».
        Ma se il «taglio è sempre lo stesso da più di trent’anni» dubito che sia capace di farci capire qualcosa, a parte le nostalgie, le idiosincrasie e i discorsi interni ai soliti addetti alla «collaborazione».
        C’è un problema di aggiornamento.

  3. “C’è un problema di aggiornamento” (Aguzzi)

    E pertanto esplorare, guardarsi attorno, segnalare, vagliare con i lumi che ci restano tutti i tentativi che sembrano suggerire uno spunto, un’avvertenza, uno spiraglio.
    Ad esempio, oggi ho trovato:

    Editoriale di “Altraparola” – numero 4, dicembre 2020

    Stralcio:

    La situazione di emergenza che stiamo vivendo non si può spiegare soltanto con la perversità dei politici che ci governano, con l’assurdità del sistema economico in cui viviamo, e neanche con le forme di governo della vita che abbiamo conosciuto fino alla fine del Novecento (benché tutto questo sia pur sempre tristemente attuale): siamo di fronte a un dissesto e a un disordine reattivo della natura, provocato dalla crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica. Qualcosa dunque di così radicale e profondo da minacciare il nostro ordine simbolico nelle sue stesse fondamenta. Come ebbe a dire Walter Benjamin in uno dei momenti più drammatici della storia del Novecento, «prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata».

    (https://www.altraparolarivista.it/2021/01/10/editoriale-altraparola-numero-4-2020/)

    1. Non concordo con Altraparola, come del resto con Salzarulo, forse per lo stesso motivo: l’uso di termini impropri per descrivere la realtà di oggi.
      Per gli USA faccio solo un esempio: un termine come sinistra, ammesso che abbia senso anche da noi, cosa che nego, è del tutto fuori luogo: ad una destra ideologica, i repubblicani, vanno i voti operai. Una sinistra ideologica, i democratici, mettono al governo BlackRock, ovvero la più potente ed emblematica società di speculazione finanziaria che gestisce 1/3 del capitale mondiale. E non uno ma tre esponenti, come per dire: che non ci siano dubbi dove stiamo. Ma inoltre manca anche nei movimenti tipo BLM qualche cenno di quella lotta di classe che un tempo connotava la sinistra.
      Altraparola dal canto suo usa i termine emergenza, radicale, profondo per evitare un’analisi concreta; anzi usa termini ulteriori come ‘crisi sistemica del capitale’ che indirizzano nel senso opposto a quello corretto.
      Per il riscaldamento globale non di crisi del capitale si tratta ma della piena realizzazione della sua logica: il profitto come unico criterio di vita e sviluppo.
      E l’ironia tragica della cosa è che non c’è in realtà nessuno al timone dell’economia e dei governi, ma solo l’astratto profitto, gestito e governato dagli amministratori di BlackRock e simili, ma che possono solo obbedire alla logica di massimizzazione del rendimento, pena l’immediata cacciata e sostituzione con altri docili servi dell’astratto e crudele padrone.

  4. @ Paolo Di Marco

    Vanno bene anche i commenti veloci e i pronunciamenti pro o contro, ma preciso che ho segnalato Altraparola come uno dei possibili esempi di gruppi di ricerca . Io ho incrociato nelle mie esplorazioni su FB o sul Web vari ricercatori o studiosi: Alessandro Visalli, Pierluigi Fagan, Carlo Forrmenti, Roberto Buffagni, Gianfranco La Grassa, Mario Pezzella, Rino Genovese, Sergio Benvenuto, eccetera, che su questa o quella questione offrono spunti interessanti, anche quando sono collocati in una cornice teorica o politica che non condivido o poco condivido. Ma spesso sono costretto a una più o meno neutra segnalazione.
    Sarebbe utile, invece, leggere e anche criticare a fondo. Ad esempio, l’intero numero monotematico di Altraparola su “Il disordine della natura. Una crisi di presenza”, scaricabile dal link indicato. Certo, se s’intravvede che qualcosa di buono in quei saggi ci sia e valga la pena di rifletterci. Lo stesso vale per saggi o articoli degli studiosi che ho indicato io o che altri indicheranno. Non sarebbe questo un modo di dare concretezza all’esigenza di aggiornamento posta da Luciano Aguzzi?

    1. @Ennio
      ben venga altraparola o altro…, quello che mi preme sottolineare è l’utilizzo di termini che sembrano ovvi ma hanno perso o cambiato significato.
      Nelle scienze si fa sempre molta attenzione ai ‘presupposti nascosti’, cioè ad assiomi che si danno per scontati e rimangono impliciti..ma non sono necessariamente veri; e spesso rendono fallace un intero ragionamento o teorema.
      Gli economisti sono maestri in questo sottaciuto, vergognandosi (i più lucidi e morali) delle fallacie su cui si basano, i sociologi hanno spesso imparato a non farci più caso.
      Per questo propongo di usare con le pinze termini comuni quali sinistra o democrazia, ed ogni volta puntigliosamente e noiosamente specificare: la destra liberista in economia, o razzista nel sociale…O saltarle a piè pari.
      E per tornare all’emergenza: già Lenin parlava dei governi quali comitati d’affari della borghesia; oggi questi affari passano sempre dall’indirizzo di BlackRock. Con molte contraddizioni e lotte interne certamente. Ma non confondiamo questi scontri intestini che increspano le acque coi movimenti profondi delle correnti che le acque trasportano.
      Anche se ci spaventa il Maelstrom che si intravede in fondo.

  5. @ Ennio
    Di «crisi sistemica» certamente si tratta, a mio parere. Ma non di crisi «del capitale e della sua concezione della tecnica», salvo che nel senso che il capitalismo rischia di implodere per troppo successo. La «crisi sistemica» è dovuta piuttosto al rapporto che esiste fra politica, potere ed economia (e quindi capitale e capitalismo, ma non solo). Le maggiori crisi politiche degli Usa, basti pensare alla guerra di Secessione dove la polarizzazione fu massima in termini di violenza, vedono un intreccio fra potere politico ed economia, dove il potere politico domina e costringe l’economia a fare passi che da sé non è propensa a fare. Questa forzatura, che è propria, dove più dove meno, di tutti gli Stati, rende sia l’economia sia il potere politico meno indipendenti e più interdipendenti fra loro. Fino al punto che fra potere politico e interessi economici vengono meno le diverse mediazioni, istituzionalizzate o no, che dovrebbero garantire la pace sociale e il contenimento della diversità entro i limiti della legalità e del reciproco rispetto (o tolleranza che sia). Oggi, un qualsiasi lavoratore dipendente o imprenditore o finanziere o operatore economico è sempre più “vitalmente” e “obbligatoriamente” interessato a ciò che fa e farà il potere politico, il che determina, o contribuisce a determinare, una polarizzazione politica fra interessi diversi che sempre meno si può conciliare, anzi si esaspera, con l’invasività della legislazione. Da qui la crisi delle stesse istituzioni e della “democrazia” americana o europea che sia.
    Gli individui vedono sempre più ristretto il campo dell’autonomia dei rapporti economici per cui devono obbligatoriamente sempre più rivolgersi ad altri mezzi di pressione, direttamente politici, e quindi agli indirizzi politici del governo. Negli Usa poi, per tradizione, i sindacati svolgono molto meno anche compiti politici, come avviene in Italia.
    Se Trump ha diviso, lo ha fatto anche Obama (e altri prima) e lo farà anche Biden, stretto fra le richieste dei radicali del partito democratico e la grande massa di moderati e di trumpisti esistente.
    Per riassumere, più che il capitalismo in sé, è il potere politico che divide e suscita anche forme violente di protesta, tanto più quando il potere politico è determinante anche sul piano della gestione dell’economia e della qualità della vita nel suo insieme.
    Del resto, in Francia nel 1789 e in Russia nel 1917 le rivoluzioni non sono scoppiate per un confronto diretto fra lavoratori dipendenti e capitalisti, o altro confronto diretto di tipo economico, ma per un confronto diretto politico su problemi radicali di gestione del “sistema” nel suo complesso. L’economia fa ovviamente parte del corpo sociale, ma non ne è quasi mai la testa. I disturbi di stomaco influenzano il cervello, ma non lo sostituiscono mai, o quasi mai.

  6. A proposito di aggiornamento cade a fagiolo questo post odierno proprio di Pierluigi Fagan…

    SEGNALAZIONE

    erluigi Fagan
    Preferiti · 7atSposns hormdedt ·
    IL DIFFICILE ADATTAMENTO TRA PENSIERO E MONDO. Limes annuncia dal prossimo aprile, l’apertura di una “scuola di geopolitica” che, nelle intenzioni di Caracciolo: “Non pretenderà di insegnare teorie perciò il nostro non sarà un approccio accademico. Cercheremo piuttosto di analizzare i fattori strutturali, di decrittare i codici culturali e negoziali, di considerare l’importanza della storia e della geografia nella distribuzione del potere. Metteremo a confronto punti di vista e interessi diversi. Insieme ai nostri analisti, testimoni e decisori, avremo americani, russi, cinesi, tedeschi, francesi e altri ancora. Fuori da ogni ideologia. Soprattutto non saremo una scuola di politica”.
    Il “ritorno” della lettura geopolitica è un portato della grande inflazione di complessità che si è abbattuta sul mondo, a partire dal dopoguerra. Tale inflazione si è generata inizialmente per via di una delle tante “rivoluzioni agricole” che costellano il corso storico. Quella degli anni ’40-’70 a guida americana, ha aumentato enormemente le rese in tutto il mondo favorendo, assieme alla diffusione dei medicinali e tecniche di cura, il mantenimento in vita degli appena nati e dei loro genitori, nonché l’allungamento dell’aspettativa di vita generale. Soprattutto fuori del mondo occidentale, questo ha significato una potente inflazione demografica che ha portato l’umanità a triplicarsi in settanta anni, quadruplicarsi se ci diamo a traguardo il 2050. Eventi, questi, mai registrati nella storia umana per intensità e brevità del tempo in cui sono accaduti. Il repentino aumento lo si legge negli individui e nelle forme di vita associata, gli Stati, triplicati anch’essi.
    Ma non sono solo aumentate le varietà umane, individuali e collettive che pure hanno cambiato radicalmente i rapporti di peso percentuale-mondo tra civiltà (gli “occidentali” hanno più che dimezzato il loro peso dai primi del Novecento). Sono molto aumentate le interrelazioni. Gli scambi economici inter-nazionali sono aumentati di sette volte solo tra gli anni ’50 ed i ’70, ben prima della “globalizzazione” stile WTO degli anni ’90. Così per i flussi turistici e di viaggio. Altresì, la forma di economia moderna prima esclusività occidentale, è stata adottata con adattamento in altre parti del mondo, a partire dall’Asia che conta il 60% circa della popolazione mondiale. Tutto ciò ha avuto, sta avendo e continuerà sempre più ad avere, forte impatto sul contenitore planetario, in termini di risorse e di problemi ambientali, di cui il “clima” è solo un aspetto. Infine, lo sviluppo delle reti di telecomunicazioni, ha interconnesso l’intero globo favorendo una rapida circolazione delle idee e delle culture, di per sé ed al seguito dell’amentata circolazione di uomini, merci, interessi.
    Il “mondo” è sempre esistito, ma un mondo così denso, con quello umano che preme con forza su i limiti di quello naturale, dove le diverse entità istituzionali in cui si ripartisce l’umanità aumentano, diminuiscono il loro grado di differenza relativa e competono sempre più intensamente, dove le culture prima o isolate e debolmente interconnesse oggi si scontrano nello stesso contesto, è il nostro mondo “nuovo”, sempre più complesso.
    Ne conseguono non poche novità a cui adattarsi, dove ricordo che il termine vale a due vie ovvero passivamente modificandosi in accordo al contesto ed attivamente modificando il contesto per favorirci l’adattamento, sia sul piano delle forme istituzionali delle forme di vita associata, sia sul piano delle mentalità o come qui spesso diciamo, delle “immagini di mondo”.
    Quelli di Limes, ad esempio, notano giustamente una diffusa carenza di conoscenza storica e geografica. Ammesso averla studiata ed in modi adeguati cosa per niente scontata, la nostra conoscenza storica distribuita è a livelli probabilmente molto bassi. Ma soprattutto è al massimo storia del nostro specifico contesto, italiano, semmai europeo, debolmente occidentale, per niente globale. Mediamente, non si sa nulla della storia islamica o cinese o asiatica, mondi coi quali oggi abbiamo obbligata relazione. A riguardo, segnalo che è da un po’ di tempo che gli studi storici hanno avuto un piccolo big bang di inquadratura, quanto al tempo (Big history, Deep history, Human history, Evolutionary history ) e quanto allo spazio ( World history, Global history). Quanto alla geografia, la situazione è anche peggiore poiché la materia è stata trattata a livello nozionistico e del tutto decorrelata dalla storia che pure su i territori si è svolta. Il che ha impatto -negativo- su altre nostre conoscenze come quella economica che è diventata una matematica astratta che si libra felice ed inconsapevole sopra gli attriti demografici, storici, di mentalità, geopolitici, geografici.
    Qualche giorno fa il quotidiano spagnolo El Pais, si domandava retoricamente se non fosse il caso di rimettersi a studiare la scienza. Sia per assumere e ridistribuire le singole conoscenze scientifiche oggi sempre più necessarie anche a livello di massa, si veda la questione sanitaria correlata al Covid-19, sia per conoscerne le tecniche (ad esempio la verificata ignoranza di massa dei principi base della statistica a proposito proprio della questione Covid-19), sia per conoscerne l’aspetto “meta” ovvero il come viene fatta, chi la finanzia, chi ne indirizza gli obiettivi, chi ne indirizza i fini ultimi. Ovviamente, vale altrettanto per l’estensione pratica applicata ovvero la “tecnica” che poi spesso ha anche una sua vita autonoma non sempre direttamente correlata a quella della scienza o non sempre da questa dipendente o subordinata. Spesso, anzi, è il contrario. Scienza poi è uno dei tre comparti della conoscenza razionale umana ed al suo interno ha un mondo che va dalla fisica alle scienze cognitive, passando per chimica, biologia, biologia molecolare, geologia e da ultimo ecologia.
    Ci sarebbe poi da domandarsi lo statuto delle conoscenze di mezzo, quelle attratte dalla gravità scientifica da una parte e da quella umanistica dall’altra, le c.d. “scienze umane”, come se dell’umano si potesse dare scienza al pari degli enti inintenzionali. Non meno per il pensiero umanistico ed i rapporti con le altre forme della conoscenza razionale, a partire dalla insopportabile separazione astiosa tra le “due culture” (Snow 1959). Per non aprire il complicato capitolo dei rapporti tra queste tre forme razionali forti e le due deboli ovvero le religioni e le arti.
    Insomma, ci sarà parecchio da fare in termini di revisione profonda delle forme della conoscenza moderna ora che siamo entrati in una nuova era, non meno anzi di più, di quanto avvenne quando si dovette passare dal trivium e quadrivium medioevale incapsulati nelle teologia che tutto dominava e determinava, al “moderno”.
    Ma oltre a questo aspetto di riforma interna delle forme di conoscenza, per altro assai impegnativo, delle sue forme teoriche ma anche di quelle pratiche tra cui l’organizzazione della trasmissione dei saperi (scuole, accademie, università, mondo della ricerca, mondo della formazione e dell’informazione), si pone anche uno specifico problema politico.
    Ci si dovrebbe domandare infatti, come fa a funzionare una convenzione politica che si dice “democratica” se i cittadini non hanno diffusi strumenti di conoscenza. Come fanno a conoscere gli eventi ed i problemi che questi portano? Come fanno ad analizzarli? Come producono giudizio? Come discutono con competenza per quanto generalista? Come possono delegare qualcuno secondo gli schemi della democrazia rappresentativa, se l’oggetto del mandato è vago, infondato, manipolato o addirittura del tutto cieco ad una serie di dati sconosciuti?
    Può esistere una democrazia degli ignoranti o non è forse l’ignoranza ciò su cui si basa l’attuale forma politica che chiamiamo “democrazia” apposta per non renderci evidente e quindi accettare passivamente che si tratta della solita forma di oligocrazia?
    [Rif. Antico Testamento, Genesi, 11, 1-9, conosciuto come “Torre di Babele”, che poi non era una “torre” ma una “città”. Lì dove le élite sacerdotali ebraiche, nella cattività babilonese, ci tenevano a far sapere al loro popolo che mettersi d’accordo su come costruire lo spazio comune, non era cosa che a Dio piacesse, ovvero che a loro piacesse, ovvio.]

    (DA https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10223120687461148)

  7. Come al solito Pierluigi Fagan scrive cose interessanti, sia quando espone idee originali sia quando riassume e divulga informazioni e tendenze delle culture e delle pratiche odierne. Dall’articolo riportato da Ennio Abate sottolineo tre grossi problemi strettamente intrecciati:
    1) Sovrappopolazione mondiale, ancora in fase di accelerazione.
    2) Questa comporta una sempre più estesa e penetrante trasformazione dell’ambiente, il che vuol dire una sempre più estesa e penetrante aggressione contro l’ambiente in cui viviamo e contro noi stessi, perché anche l’uomo è un elemento dell’ambiente che contemporaneamente aggredisce e subisce l’aggressione.
    3) L’accelerazione del cambiamento. Il cambiamento è tipico di tutti i tempi, ma negli ultimi decenni si è accelerato a tutti i livelli accrescendo la sua complessità: scienza, tecnologia, sviluppi, aggiornamenti delle diverse discipline, geopolitica ecc. ecc. Aumenta la complessità e aumenta anche la necessità di una cultura e visione interdisciplinare nel senso più ampio. Il che è un compito sempre più difficile e spesso impossibile per il tradizionale “intellettuale” e, peggio ancora, per il tradizionale “politico”, dal “militante di base” al politico con responsabilità di governo.
    La competenza tecnica diventa spesso un sostituto illusorio della politica, ma anziché arricchirla la impoverisce perché la rende sempre meno capace di prendere decisioni tipicamente politiche, non riducibile mai alla competenza tecnica, pur dovendo tenerne conto. Non sempre i consigli migliori della competenza tecnica coincidono con le decisioni migliori che la politica dovrebbe prendere, perché fra competenza tecnica e competenza politica c’è una profonda differenza di programmi, di punti di partenza e di finalità da raggiungere.

  8. Memento
    «, la lotta contro il complottismo e contro i suoi risvolti politici non può limitarsi a una lotta culturale sulla scienza e sulla verità, ma per diventare una vera lotta contro il fascismo deve essere anche una lotta politica sulle garanzie della vita.»

    SEGNALAZIONE

    Teorie del complotto, quel nemico occulto e potente
    di Nicolas Guilhot
    https://ilmanifesto.it/teorie-del-complotto-quel-nemico-occulto-e-potente/?fbclid=IwAR3V1ngumQIjGTyFyO8UcN-BnAaJi6wYEIaOl5KQUZQ7TO11lXYb–9km7Y
    1.
    contrastare le teorie del complotto diventa fondamentalmente una questione di rieducazione cognitiva, che può prendere varie forme: evitare gli effetti di «bolla informazionale» ed esporre gli individui a punti di vista alternativi, correggere le distorsioni del ragionamento rinforzando i contrappunti critici, mantenere una vigilanza epistemologica sui social network, ecc. Questa concezione sta oggi dietro le politiche pubbliche di lotta contro il complottismo, che prendono quasi tutte la forma del «debunking», cioè dell’esposizione della falsità o dell’illogicità dei discorsi complottisti – politiche che, come ormai si sa, non funzionano.
    2.
    Quello che Popper chiamò la «teoria complottistica della società» (conspiracy theory of society) rappresentava secondo lui una forma di superstizione, simile all’idea secondo la quale ciò che accade nel mondo degli uomini accade perché è stato deciso dagli dei. Nel mondo moderno, non ci sono più gli dei, ma per chi continua a vedere nelle guerre, nelle sciagure e nelle catastrofi il risultato di un’intenzione e di un disegno nascosto, il posto degli dei «era ormai occupato dai Savi di Sion, dai monopolisti, dai capitalisti, e dagli imperialisti».
    3.
    Popper non negava che i complotti esistessero, anzi: passiamo il nostro tempo a cercare di controllare, individualmente o in coordinazione con altri, la nostra realtà sociale e il comportamento degli altri. Eppure i risultati che raggiungiamo non sono mai esattamente quelli scontati. Se «niente risulta esattamente come inizialmente previsto», secondo Popper è perché la società rappresenta una realtà molto complessa, il risultato imprevedibile dall’intrecciarsi costante di miriadi di azioni individuali che non sono calcolabili e quindi sfuggono ai tentativi di controllarle.
    Il complotto è per certi versi il modello dell’agire umano, ma lo è proprio perché – come Machiavelli aveva già detto – è quasi sempre destinato a fallire. La teoria del complotto non poteva quindi essere una teoria che spiegava i fenomeni sociali. L’unica scienza sociale possibile, per Popper, si doveva limitare allo studio delle «conseguenze non intenzionali dell’azione».
    4.
    Per Hayek, l’ordine sociale era il risultato spontaneo, quasi organico, di un’infinità di azioni individuali, un ordine che per definizione era imprevedibile e quindi sfuggiva a qualsiasi tentativo di manipolazione razionale. Le ragioni per le quali i complotti di solito non hanno l’esito scontato erano le stesse ragioni per le quali la pianificazione economica era, secondo Hayek, destinata a fallire: l’imprevedibilità fondamentale di un ordine sociale basato sulla libertà individuale.
    5.
    se la teoria del complotto era inaccettabile come teoria sociologica nel mondo democratico, offriva invece una descrizione corretta delle società totalitarie, nelle quali gli avvenimenti sociali potevano essere ricondotti a un potere centrale tentacolare che sovrastava alla società e ne controllava il funzionamento
    6.
    Le considerazioni di Popper riflettevano senz’altro l’emergere di una corrente «neo»-liberale che trovò nella lotta contro il totalitarismo un cavallo di battaglia ideologico durante la Guerra Fredda. L’assimilazione del totalitarismo a una forma di complotto era già stata proposta da Alexandre Koyré in uno scritto pubblicato nel 1943 durante l’esilio a New York, che trattava di ciò che oggi chiamiamo le fake news (di complotti, Koyré s’intendeva assai: mandato a Odessa dopo la fine della prima guerra mondiale, era verosimilmente stato allo stesso tempo agente dei servizi francesi e responsabile bolscevico della commissione stampa e propaganda della città).
    Secondo Koyré, se la menzogna era uno stratagemma da sempre usato in tempo di guerra, era diventato il perno dell’organizzazione sociale dei regimi totalitari. Per un gruppo che si crede circondato da forze ostili, era naturale ricorrere alla dissimulazione. Le parole dei suoi membri e dei suoi capi servivano allora soprattutto a nascondere i loro scopi e le loro opinioni: diventavano «l’unico modo di nascondere il proprio pensiero». La verità era riservata agli insiders e diventava «esoterica». I movimenti totalitari erano quindi simili a delle «società segrete», ma la loro particolarità era che anche una volta conquistato il governo mantenevano le strutture delle società segrete: il potere di un gruppo di iniziati, il sospetto costante, l’alterazione del linguaggio fino al punto di oscurare la realtà… Koyré li definì «complotti a cielo aperto».

    7.
    La formula fu ripresa da Hannah Arendt, in Le origini del totalitarismo, libro sul quale l’articolo di Koyré ebbe un’influenza profonda. Per la Arendt, credere nei complotti determinava degli effetti organizzativi reali: «i Nazisti cominciarono con la finzione di un complotto e presero esempio, più o meno coscientemente, dalla società segreta dei Savi di Sion». Ogni complotto fittizio finisce col produrre un contro-complotto reale. Ma ciò significa paradossalmente che, in determinati casi, il rapporto tra ideologia e realtà si rovescia, e l’ideologia diventa fonte e spiegazione dei fenomeni sociali: le teorie del complotto diventano causa del fascismo o del populismo e quindi li spiegano.
    8.
    Sicuramente va accolta l’intuizione che vede nelle teorie del complotto un formidabile strumento di coordinazione ideologica e di organizzazione politica dal basso e a basso costo, che, capitalizzando sul risentimento, apre nuovi spazi politici fuori dai vecchi partiti, spostandoli completamente o, come nel caso del partito repubblicano negli Stati Uniti, prendendone il controllo. E senz’altro elementi di stampo fascista si ripropongono oggi attorno a questi discorsi.
    9.
    Ma è sufficiente denunciare il fascismo latente o esplicito delle teorie del complotto? Il rischio di ridurre una questione politica a una questione psicologica o ideologica – e quindi di offuscarla – è reale.
    10.
    lo storico Richard Hofstadter finì col dipingere una forma mentis sradicata da qualsiasi contesto storico, una specie di essenza pericolosa, da tenere a bada. Non a caso il suo famoso saggio del 1964 viene oggi riscoperto (e ripubblicato questo anno nella prestigiosissima collana «Library of America») come chiave di lettura del «populismo» contemporaneo.
    11.
    La critica epistemologica del complottismo fa presto a sostituirsi all’analisi e alla lotta politica. Se è compito degli storici e degli scienziati difendere la verità e la razionalità, richiamarsi a questi valori a sostegno di un orientamento ideologico o equipararli alla difesa dello status quo politico è rischioso. Si tratta di una vera e propria mistificazione ideologica che, lungi dall’essere efficace, non fa che confermare i peggiori sospetti dei complottisti, oltre a costituirsi anch’essa come forma di anti-politica.
    12.
    non si tratta di sottovalutare il pericolo che rappresentano le teorie del complotto. Si tratta invece di ritrovare un quadro politico entro il quale questi fenomeni si collocano. Non è solo nell’impoverimento culturale o nelle bolle informazionali dei social che ne vanno cercate le cause, bensì nell’incapacità di dare una risposta politica alla crisi che sta attraversando il neoliberalismo. Le sue politiche economiche e sociali creano delle disuguaglianze senza precedenti e rappresentano gli interessi di una parte sempre minore della popolazione. Ciò vuol dire che le forze politiche che rappresentano questi interessi possono sempre più difficilmente vincere elezioni senza assicurarsi il sostegno di chi subisce queste politiche. È in questo contesto che le teorie del complotto diventano sempre più centrali, offrendo una razionalizzazione del disagio sociale e trasformandolo in energia politica. Da Trump a Salvini, questa è ormai diventata la formula ideologica del tardo-neoliberismo, che ha rotto definitivamente con le sue vecchie radici anti-autoritarie.
    13.
    Paradossalmente, è nella psicologia che si possono trovare gli strumenti per andare oltre la patologizzazione del complottismo e costruire una prospettiva storica e politica, e in particolare nella corrente della psicologia esistenziale che ha cercato di porre il problema della paranoia in termini di rapporto dell’individuo con il mondo. Il giovane Lacan o Binswanger, per esempio, hanno concepito questa condizione non come il sintomo di una personalità morbosa o di una patologia individuale, ma come un fenomeno relazionale legato al collasso del rapporto dell’individuo con la società e con il mondo, che può verificarsi in certe situazioni di crisi. Il sentirsi in balìa di potenze invisibili e oggetto di manipolazioni, la perdita del senso dell’agire e il vanificarsi del mondo come realtà agibile e ospitale, riflette un’ansia esistenziale – ciò che Ernesto De Martino definì «la paura di non esserci più». Come aveva intuito, le teorie del complotto danno una forma a questi sentimenti. In una situazione di precarietà economica sempre più diffusa, di rischio ambientale generalizzato e di pandemia globale, questa paura di non esserci sta diventando la condizione antropologica del nostro tempo. In questo contesto, la lotta contro il complottismo e contro i suoi risvolti politici non può limitarsi a una lotta culturale sulla scienza e sulla verità, ma per diventare una vera lotta contro il fascismo deve essere anche una lotta politica sulle garanzie della vita.

  9. Ricapitoliamo. Nell’oretta di conversazione col mio parrucchiere abbiamo usato termini come destra, sinistra, democrazia, ecc. Paolo De Marco li contesta perché “impropri” e non descriverebbero, a suo parere, la realtà di oggi e tanto meno degli USA e propone “un’igiene semantica”. Luciano Aguzzi è d’accordo con lui e, dopo una schermaglia su tosature solitarie o in compagnia, ritiene che il sottoscritto abbia bisogno di aggiornarsi.
    Il mio amico Abate coglie la palla al balzo e salta sulla giostra degli aggiornamenti e delle segnalazioni. Vengo così a sapere che per “altraparolarivista” «siamo di fronte a un dissesto e a un disordine reattivo della natura, provocato dalla crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica. Qualcosa dunque di così radicale e profondo da minacciare il nostro ordine simbolico nelle sue stesse fondamenta.» Benissimo. Sicuramente questa “crisi sistemica” avrà a che vedere con l’attacco squadristico a Capitol Hill delle avanguardie politiche militarizzate del popolo trumpiano, ma, perdonatemi, se non riesco a cogliere subito il nesso. Dubito che possa riuscirci il mio parrucchiere.
    Anche l’espressione “crisi sistemica del capitale” s’attira gli strali di De Marco che vigila sul linguaggio come un vecchio professore dei miei tempi. La sua opinione è che «per il riscaldamento globale non di crisi del capitale si tratta ma della piena realizzazione della sua logica: il profitto come unico criterio di vita e sviluppo. E l’ironia tragica della cosa è che non c’è in realtà nessuno al timone dell’economia e dei governi, ma solo l’astratto profitto, gestito e governato dagli amministratori di BlackRock e simili, ma che possono solo obbedire alla logica di massimizzazione del rendimento, pena l’immediata cacciata e sostituzione con altri docili servi dell’astratto e crudele padrone.»
    Quindi, per De Marco i nostri attuali sistemi sociali sarebbero, per così dire, unidimensionali, dominati in tutto e per tutto dall’”astratto profitto”, nostro “astratto e crudele padrone”. Non ho dubbi che anche il mio parrucchiere sarebbe d’accordo con la tesi che l’economia capitalistica nelle nostre società la fa da padrona, ma preciserebbe che i capitalisti, da quelli manifatturieri a quelli della finanza, non si accontentano di astratti profitti. Vogliono realizzarli e quasi toccarli con mano. Quando non riescono entrano in crisi…Può accadere.
    Aguzzi non è d’accordo con De Marco. Per lui la “crisi sistemica” «è dovuta piuttosto al rapporto che esiste fra politica, potere ed economia (e quindi capitale e capitalismo, ma non solo)». Già va meglio. Nei nostri sistemi sociali non c’è soltanto l’economia capitalistica, ma anche la politica e il potere…Ho fiducia. Prima o poi arriveremo non dico alla “struttura” e “sovrastruttura” di Marx (troppo ottocentesca per degli aggiornatori) o alla società come “totalità complessa strutturata a dominante” di Althusser, almeno ad “Economia e società” di Weber…
    Comunque, dalla “crisi sistemica” Aguzzi si sposta sulle “crisi politiche” e ci regala questo pensiero: «Oggi, un qualsiasi lavoratore dipendente o imprenditore o finanziere o operatore economico è sempre più “vitalmente” e “obbligatoriamente” interessato a ciò che fa e farà il potere politico, il che determina, o contribuisce a determinare, una polarizzazione politica fra interessi diversi che sempre meno si può conciliare, anzi si esaspera, con l’invasività della legislazione. Da qui la crisi delle stesse istituzioni e della “democrazia” americana o europea che sia.»
    Non è una grande novità. Mi sembra che classi, gruppi, ceti e strati sociali siano interessati alla politica e al potere di Stato, proprio perché è quel potere che legittima e redistribuisce ricchezza oltre che garantire “ordine economico e sociale”… Che negli USA (e non solo) sia in corso una crisi politica e democratica lo capisce anche un bambino.
    Abate, intanto, ha continuato ad aggiornarci e il 12 gennaio riporta un post di Pierluigi Fagan: « IL DIFFICILE ADATTAMENTO TRA PENSIERO E MONDO.» Lo leggo volentieri.
    Sul mondo si è abbattuta una “grande inflazione di complessità” – effettivamente il mondo è diventato complesso, anche il mio parrucchiere è d’accordo -. Insieme alla “complessità” dobbiamo fronteggiare «una potente inflazione demografica che ha portato l’umanità a triplicarsi in settanta anni». Sono anche molto aumentate le interrelazioni fra i vari stati e relative società: gli scambi economici internazionali, i flussi turistici e di viaggio, ecc. . «Tutto ciò ha avuto, sta avendo e continuerà sempre più ad avere, forte impatto sul contenitore planetario, in termini di risorse e di problemi ambientali, di cui il “clima” è solo un aspetto. Infine, lo sviluppo delle reti di telecomunicazioni, ha interconnesso l’intero globo favorendo una rapida circolazione delle idee e delle culture, di per sé ed al seguito dell’amentata circolazione di uomini, merci, interessi.»
    L’invito è ovvio: dobbiamo adattarci (passivamente e attivamente) ad un mondo diventato più denso. Da qui la necessità, data la diffusa ignoranza, di maggiori conoscenze storiche, geografiche, scientifiche, tecniche, umanistiche, ecc..
    La rivista Limes annuncia dal prossimo aprile, l’apertura di una “scuola di geopolitica” , ma secondo Fagan «ci sarà parecchio da fare in termini di revisione profonda delle forme della conoscenza moderna ora che siamo entrati in una nuova era, non meno anzi di più, di quanto avvenne quando si dovette passare dal trivium e quadrivium medioevale incapsulati nelle teologia che tutto dominava e determinava, al “moderno”.»
    Ma oltre a questo si pone anche uno specifico problema politico:
    «Ci si dovrebbe domandare infatti, come fa a funzionare una convenzione politica che si dice “democratica” se i cittadini non hanno diffusi strumenti di conoscenza. Come fanno a conoscere gli eventi ed i problemi che questi portano? Come fanno ad analizzarli? Come producono giudizio? Come discutono con competenza per quanto generalista? Come possono delegare qualcuno secondo gli schemi della democrazia rappresentativa, se l’oggetto del mandato è vago, infondato, manipolato o addirittura del tutto cieco ad una serie di dati sconosciuti?
    Può esistere una democrazia degli ignoranti o non è forse l’ignoranza ciò su cui si basa l’attuale forma politica che chiamiamo “democrazia” apposta per non renderci evidente e quindi accettare passivamente che si tratta della solita forma di oligocrazia?»

    Pure questa non mi sembra una novità. Il problema del rapporto fra democrazia e istruzione (conoscenza) è vecchio quanto la democrazia. Anche il problema democrazia-informazione. Qui forse Fagan avrebbe dovuto, per lo meno accennare alle attuali forme di disinformazione e di ignoranza intenzionalmente prodotta da agenzie comunicative e mass-mediologiche varie. Uno dei problemi più importanti dell’attuale stato degli Usa e forse del mondo non sono le notizie false, le bufale?…In fondo la stragrande maggioranza degli elettori di Trump crede che la vittoria di Biden sia una frode. È stato questo uno dei motivi principali dell’attacco al Congresso.
    Luciano Aguzzi ritiene positivo il post di Fagan e aggiunge un’osservazione interessante sul rapporto competenza tecnica-competenza politica: «La competenza tecnica diventa spesso un sostituto illusorio della politica, ma anziché arricchirla la impoverisce perché la rende sempre meno capace di prendere decisioni tipicamente politiche, non riducibile mai alla competenza tecnica, pur dovendo tenerne conto. Non sempre i consigli migliori della competenza tecnica coincidono con le decisioni migliori che la politica dovrebbe prendere, perché fra competenza tecnica e competenza politica c’è una profonda differenza di programmi, di punti di partenza e di finalità da raggiungere.» Vero. Trump infatti usa la sua “competenza politica” per attaccare la democrazia liberale americana e subordina tutto a questo obiettivo…È così?…Oppure Trump non ha una grande “competenza politica” ed è semplicemente un “narciso maligno” come diagnostica il fior fiore di psicologi e psichiatri…
    Abate non si ferma e il 13 gennaio, sempre per aggiornarci, segnala «Teorie del complotto, quel nemico occulto e potente» di Nicolas Guilhot. Mi sembra un ottimo articolo che arricchisce per alcuni aspetti decisivi la conversazione col mio parrucchiere.
    Sappiamo quanto avanguardie e masse trumpiane siano nutrite da teorie complottiste. Come contrastarle è perciò un problema serio. L’autore non ritiene sufficiente una rieducazione cognitiva. Non basta «esporre gli individui a punti di vista alternativi, correggere le distorsioni del ragionamento rinforzando i contrappunti critici, mantenere una vigilanza epistemologica sui social network». A questo punto, Guilhot utilizzando proprio le teorie sociali, di due autori liberali come Popper e Hayek, caratterizza il complottismo come una forma di superstizione sociale, tipica proprio di società totalitarie.
    L’assimilazione del totalitarismo a una forma di complotto era già stata proposta da Alexandre Koyré. Infatti, la menzogna, stratagemma da sempre usato in tempo di guerra, era diventato, secondo Koyré «il perno dell’organizzazione sociale dei regimi totalitari. Per un gruppo che si crede circondato da forze ostili, era naturale ricorrere alla dissimulazione. Le parole dei suoi membri e dei suoi capi servivano allora soprattutto a nascondere i loro scopi e le loro opinioni». I movimenti totalitari erano quindi simili a delle «società segrete», le cui strutture venivano mantenute in vita una volta conquistato il governo.
    L’analisi di Koyré viene ripresa da Hannah Arendt. Per lei credere nei complotti determinava degli effetti organizzativi reali: «i Nazisti cominciarono con la finzione di un complotto e presero esempio, più o meno coscientemente, dalla società segreta dei Savi di Sion». «Ogni complotto fittizio finisce col produrre un contro-complotto reale. Ma ciò significa paradossalmente che, in determinati casi, il rapporto tra ideologia e realtà si rovescia, e l’ideologia diventa fonte e spiegazione dei fenomeni sociali: le teorie del complotto diventano causa del fascismo o del populismo e quindi li spiegano.»
    Guilhot ritiene che vada sicuramente accolta «l’intuizione che vede nelle teorie del complotto un formidabile strumento di coordinazione ideologica e di organizzazione politica dal basso e a basso costo, che, capitalizzando sul risentimento, apre nuovi spazi politici fuori dai vecchi partiti, spostandoli completamente o, come nel caso del partito repubblicano negli Stati Uniti, prendendone il controllo. E senz’altro elementi di stampo fascista si ripropongono oggi attorno a questi discorsi.
    Ma è sufficiente denunciare il fascismo latente o esplicito delle teorie del complotto? Il rischio di ridurre una questione politica a una questione psicologica o ideologica – e quindi di offuscarla – è reale.»
    Quindi, in barba a chi ritiene che non si possa parlare per le posizioni politiche trumpiane (e non solo) di fascismo latente, totalitarismo, complottismo e conseguente negazione della democrazia liberale, Guilhot, proprio grazie ad autori come Popper ed Hayek, accoglie queste tesi. Certo, non si può ridurre tutto ad una questione psicologica o ideologica. Allora l’autore, per non correre questo rischio, sottolinea giustamente che occorre ritrovare «un quadro politico entro il quale questi fenomeni si collocano. Non è solo nell’impoverimento culturale o nelle bolle informazionali dei social che ne vanno cercate le cause, bensì nell’incapacità di dare una risposta politica alla crisi che sta attraversando il neoliberalismo. Le sue politiche economiche e sociali creano delle disuguaglianze senza precedenti e rappresentano gli interessi di una parte sempre minore della popolazione. Ciò vuol dire che le forze politiche che rappresentano questi interessi possono sempre più difficilmente vincere elezioni senza assicurarsi il sostegno di chi subisce queste politiche. È in questo contesto che le teorie del complotto diventano sempre più centrali, offrendo una razionalizzazione del disagio sociale e trasformandolo in energia politica. Da Trump a Salvini, questa è ormai diventata la formula ideologica del tardo-neoliberismo, che ha rotto definitivamente con le sue vecchie radici anti-autoritarie.»
    Perfetto. Pensieri che il mio parrucchiere sottoscriverebbe. È su questi punti che il campo della sinistra, in tutti i suoi vari settori, deve concentrarsi per dare una risposta alla crisi della democrazia liberale.

    Conclusione: per la psicologia esistenziale la paranoia non è il sintomo di una personalità morbosa o di una patologia individuale, ma «un fenomeno relazionale legato al collasso del rapporto dell’individuo con la società e con il mondo, che può verificarsi in certe situazioni di crisi» da “fine del mondo”. Le teorie complottiste danno forma ai sentimenti d’ansia e alla “paura di non esserci più”. «In una situazione di precarietà economica sempre più diffusa, di rischio ambientale generalizzato e di pandemia globale, questa paura di non esserci sta diventando la condizione antropologica del nostro tempo. In questo contesto, la lotta contro il complottismo e contro i suoi risvolti politici non può limitarsi a una lotta culturale sulla scienza e sulla verità, ma per diventare una vera lotta contro il fascismo deve essere anche una lotta politica sulle garanzie della vita.»
    Non so se questi termini siano adeguati o no. A me sembrano giusti per indicare un orientamento, una direzione politico-culturale. Ringrazio Abate per queste segnalazioni e ringrazio anche De Marco e Aguzzi per i loro interventi. Mi sono un po’ aggiornato.

  10. Arridaie!
    Ma nessuno che prima di laurearsi passi dalla porta dove c’è scritto:
    LA STRADA DELL’INFERNO E’ LASTRICATA DI CATTIVE GENERALIZZAZIONI
    Così in tanto armano cannoni rempiendoli di varia erudizione..e li rivolgono contro se stessi.
    Infatti se andiamo su Wikipedia un ragionamento del tutto sovrapponibile arriva a condannare.. i critici delle tesi ufficiali su Kennedy e le Torri gemelle. Cioè si cerca di tacitare le voci critiche che si basano sulla scienza (non cito il pezzo sui complotti che ho qui postato poco tempo fa) lasciando nel loro brodo i vari Qanonisti, Resettisti, Antivaxisti et similia.
    Quello che mi chiedo è se è solo superficialità e mancanza di rigor logico o voluta malafede. Se ripenso a come furon trattati i complotti nostrani da piazza Fontana alle bombe della Tratrtativa propendo per il secondo caso.

  11. Faticosissimo confrontarsi sui temi (destra, sinistra, democrazia, ecc.). Se non sono termini “impropri” non hanno però, come ben si vede, più un significato non dico univoco ma “trattabile” neppure tra noi che pur abbiamo qualcosa di comune nelle nostre storie personali.

    Non credo accada per malafede ( o solo per la malafede di un singolo o di precisi gruppi sociali) e farei il possibile per non personalizzare il confronto. A pensarla, infatti, in modi abbastanza contrapposti o incomunicanti come Di Marco e Aguzzi da una parte e Salzarulo dall’altra sono in tanti.

    Quanto a me, ho l’esigenza di aggiornamento. Forse mi affanno inutilmente ad esplorare o a segnalare anche posizioni che condivido solo in parte ma che mi paiono aprire dei varchi per una riflessione più in profondità, ma è perché non condivido né la rassicurante distinzione destra/sinistra né l’oltrepassamento astratto di essa. Sono troppo amletico, incerto? Può darsi, ma preferisco questa posizione aperta (certo anch’essa astrattamente) al possibile e a quel che ignoro alle posizioni nette o che pretendono di essere più nette. E da questa collocazione mi sento di fare alcuni appunti a voi che state commentando:

    1.
    Certo che non c’è il nesso (o un nesso immediato ed evidente) tra la « crisi sistemica del capitale e della sua concezione della tecnica» o la minaccia al «nostro ordine simbolico» (di cui parla Altraparola) e l’evento Capitol Hill. Ma va cercato. Forse ci può essere, ma non lo vediamo ancora. E perciò non mi sento di liquidare semplicemente quei fatti come fa Donato incasellandoli al posto giusto in base alle categorie destra/sinistra intatte o quasi. Si tratterebbe solo di un «attacco squadristico… delle avanguardie politiche militarizzate del popolo trumpiano» (di Destra) contro la democrazia (di Sinistra, di Biden)? Sarebbe tranquillizzante. Ma non riesco a tranquillizzarmi.

    Condivido (e perciò le ho segnalate) le preoccupazioni angosciate di Sandro Portelli («E invece c’è un cuore di tenebra in America. Ne vediamo i contorni, ma non riusciamo a vedere che cosa c’è dentro. Se ci sono oggi settanta e più milioni di cittadini americani che votano Trump, e migliaia di loro (anche dentro la polizia) pronti a prendere le armi in suo nome, dobbiamo domandarci in che modo noi, colti progressisti e liberali, abbiamo contribuito a rendere possibile questa realtà. Perciò si tratta di entrare dentro questo cuore di tenebra e cercare di capire, non per dargli ragione ma per riconoscere le cause e cercare di affrontarle e risolverle.» https://ilmanifesto.it/dentro-il-cuore-di-tenebra/?fbclid=IwAR0IoARbbnUkLQQnxlW0mZBDq48bfJ_r7-8Hp81Pb4mXOAqR9rDnGG4ebO8) e le distinzioni da storico di Brunello Mantelli («perfettamente assurdo servirsi del termine “fascismo” per definire il movimento trumpiano. Il fascismo storico è un fenomeno che ha avuto il suo ciclo tra il 1921 ed il 1945, poi è finito, sia pure con gli strascichi periferici di Spagna e Portogallo. Che poi abbia fornito un bagaglio di simboli utilizzabile anche da altri è ovvio, come tentarono di fare, con scarso successo, i colonnelli greci. Trasformare la categoria “fascismo” in un passe-par-tout la rende del tutto inutilizzabile per capire. Che poi qualcuno si senta ringalluzzito nel proprio “antifascismo” attiene più alla patologia che all’analisi della realta. Meglio rifarsi alla grande lezione dell’irascibile barbone renano che, quando si trovò di fronte Napoleone il piccolo cercò di capire un fenomeno che non rientrava nelle sue categorie, invece di trasformarle in un letto di Procuste. , https://www.facebook.com/brunello.mantelli/posts/4138174489544144) .

    2. Anche la posizione di Paolo Di Marco («non di crisi del capitale si tratta ma della piena realizzazione della sua logica: il profitto come unico criterio di vita e sviluppo») non mi convince. La mia preoccupazione è che il suo atteggiamento, che mira con una certa unilateralità ad una chiarificazione illuministica e scientifica di fatti concreti (uccisione di Kennedy, Torri gemelle) non basti: non raggiunge le menti spoliticizzate e i cuori delusi dalla politica neoliberista dell’attuale o a volte sedicente Sinistra, che vengono invece raggiunte dalla propaganda emotiva dei Trump e dei Salvini (attuale o sedicente Destra). In altre parole dalla crisi indubbia della democrazia (recuperabile, irrecuperabile?) non si esce senza una proposta che sia al contempo illuministica (fondata su conoscenze reali) ma anche capace di smuovere l’immaginario o i “pregiudizi” o le “superstizioni” delle “masse”, dei “popoli”, delle “moltitudini” che occulterebbero (o avrebbero sostituito) le marxiane “classi sociali”.

    3.
    Il pensiero della complessità sviluppato da Pierluigi Fagan è una cosa da discutere seriamente. Ha, secondo me, anche i suoi rischi ( una complessità chiama altra complessità in un gioco teorico all’infinito che non si fa mai proposta politica) ma le obiezioni che gli muove Donato («L’invito è ovvio: dobbiamo adattarci (passivamente e attivamente) ad un mondo diventato più denso»; « Il problema del rapporto fra democrazia e istruzione (conoscenza) è vecchio quanto la democrazia»; «forse Fagan avrebbe dovuto, per lo meno accennare alle attuali forme di disinformazione e di ignoranza intenzionalmente prodotta da agenzie comunicative e mass-mediologiche varie» ) in buona parte sono state respinte o chiarite in modi argomentati dallo stesso Fagan sul suo blog e sulla sua pagina FB. E anche sul piano della divulgazione politica lui e i suoi collaboratori si stanno muovendo (Cfr. https://www.lafionda.org/)

  12. SEGNALAZIONE

    Il vero golpe di Trump
    – di Slavoj Žižek –
    https://francosenia.blogspot.com/2021/01/la-cosa-giusta.html?spref=fb&fbclid=IwAR1aFBD2t8B5X_s2Z9RiCYO5AR6TNM2gqyqyJa2jMrgBQAkc766KRql8nNc

    Stralcio:

    Tuttavia, contrariamente al vecchio populismo autoritario (come il fascismo), che è disposto ad abolire la democrazia formale rappresentativa e a prendere realmente il potere per imporre un nuovo ordine, il populismo di oggi non ha una visione complessiva di alcun nuovo ordine. Il contenuto positivo della sua ideologia e della sua politica è fatto di un bricolage incoerente di misure per finanziare «i nostri» poveri, per ridurre le tasse ai ricchi, per concentrare l’odio su figure come quelle degli immigrati, delle minoranze e della nostra «élite corrotta che sta mandando fuori dal paese i nostri posti di lavoro», e così via… È per questo che i populisti di oggi non vogliono davvero liberarsi della democrazia rappresentativa consolidata ed assumere totalmente il potere: liberarsi dalle «manette» dell’ordine liberale contro cui finge di lottare, per la nuova destra vorrebbe dire fare davvero qualcosa di reale, e questo metterebbe in evidenza il vuoto del suo programma. I populisti di oggi possono funzionare solamente a partire dal rinvio indefinito dei loro obiettivi, poiché essi possono funzionare solo come opposizione allo «Stato profondo» dell’establishment liberale: «La nuova destra non cerca, almeno in questo momento, di instaurare un valore supremo – per esempio, la nazione o il leader – che esprimerebbe pienamente la volontà del popolo, e permetterebbe quindi perfino di arrivare ad esigere l’abolizione dei meccanismi di rappresentanza.»

    Tutto questo significa che le vere vittime di Trump sono i suoi stessi sostenitori comuni che prendono sul serio le sue chiacchiere contro le élite corporative liberale e le grandi banche. È lui il traditore della sua stessa causa populista. I suoi critici liberali lo accusano di fingere di contenere i suoi sostenitori più radicali, i quali sarebbero disposti a lottare violentemente in suo nome, mentre in realtà egli sarebbe al loro fianco, incitandoli alla violenza. Ma la verità è che in realtà egli non sta dalla loro parte. La mattina del 6 gennaio, davanti alla Casa Bianca, Trump si è rivolto al raduno di Elipse: «Marciamo sul Campidoglio. Andiamo ad applaudire i nostri coraggiosi senatori, senatrici e congressisti. E probabilmente per alcuni di loro non ci resteremo così tanto, poiché il nostro paese non rinasce con la debolezza. Dove mostrare forza, si deve essere forti». Tuttavia, quando la folla lo ha fatto e si è avvicinata al Campidoglio, Trump si è ritirato dentro la Casa Bianca per assistere alla violenza in televisione.

  13. Credo senza volerlo Ennio mette ancora il dito nella piaga: l’ha già fatto col complottismo, dove un’analisi pur pregevole arrivava a spararsi sui piedi grazie alla generalizzazione indebita del termine stesso. (Uso peraltro già iniziato da tempo dai sicofanti di mestiere). Ha continuato con un altro pregevole intervento, per quanto omnicomprensivo e quindi forse eccessivo, di Fagan, dove l’uso del termine complessità lascia il tempo che trova: piovoso. Infatti è un inizio, un invito a usare strumenti particolari e adeguati, non una spiegazione. Qui col populismo siamo nella stessa padella, dato che l’ambiguità del termine (volutamente ripescato negli ultimi anni per accomunare in condanne analoghe ‘destre’ e ‘sinistre’) non spiega alcunchè. Potrei dire esattamente l’opposto di Žižek e nessuno potrebbe confutarmi.
    Non so se perchè oggi nelle Università l’eclettismo ha sostituito il materialismo, o perchè i politologi sono dilettanti tuttofare, ma credo che questo rinforzi l’appunto che facevo, con Aguzzi, all’inizio del tutto: fermiamoci a riflettere sui termini che usiamo, evitiamo un utilizzo acritico di concetti non adatti alla realtà di cui parliamo.
    Magari prendiamone uno solo, per esempio ‘sinistra’, e chiediamoci cosa vuol dire oggi. Dallo scioglimento del PCI in poi si è dato troppo spesso per scontato che non si potesse più parlare in termini di conflitti di classe, di socialismo e simili. E siamo arrivati a parlare in termini equivalenti a buoni e cattivi, noi e loro.
    E’ ancora una chiesa ma non c’è più la bibbia. Una situazione imbarazzante.

  14. @ Paolo Di Marco

    Convengo che la situazione sia babelica. Ma con le mie segnalazioni io mi limito a dare qualche prova di un dibattito pubblico febbricitante o a volte delirante. Non mi sento in grado, dopo vari tentativi falliti che ho fatto di rilanciare una discussione collettiva su Marx, il comunismo, la militanza possibile oggi, di parlare se non nella forma del resoconto personale (i miei frammenti di Riordinadiario, ecc.). Questo non impedisce – anzi l’ho spesso sollecitati – interventi su un tema preciso, come tu proponi.
    Ben vengano.

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