Un ricordo di Franco Loi

di Giuseppe Natale

Quando muore un poeta, muore un amico dell’umanità. Ci ha lasciato il poeta e critico letterario Franco Loi, che avrebbe compiuto 91 anni il prossimo 21 gennaio.

E’ sicuramente il maggiore poeta in dialetto milanese e lombardo, che ha saputo ereditare da Porta e Tessa e reinventare con straordinaria creatività e fantasia. Ha dato voce agli ultimi, a coloro che faticano per guadagnarsi il pane quotidiano, agli emarginati e ai fragili, alle persone di grande saggezza e di forti sentimenti di autentica umanità.

Dicevo che quando muore un poeta l’umanità perde un amico. Ho conosciuto Franco Loi negli anni caldi e forti del sessantotto ed è nata un’amicizia, una sintonia intellettuale e sentimentale che è durata nel tempo. L’ultima volta l’ho incontrato qualche anno fa al Teatro Officina e ci siamo salutati con affetto.

Non dimenticherò mai quando invitato nel 1990 da me, dirigente del sindacato scuola, a portare il suo saluto in un congresso programmatico e organizzativo, fece un discorso molto bello e semplice incentrato sulla bellezza e la cura dell’ambiente. Non si usava allora (e ora?…) invitare i poeti in un’assise sindacale. Il mio atto e il suo intervento furono ben accolti ed apprezzati.

Mi piace ricordare che Franco Loi è tra gli intervistati del film prodotto da ANPI Crescenzago “La memoria che resta” della regista Francesca La Mantia. E’ una testimonianza drammatica di Piazzale Loreto, dell’eccidio dei 15 martiri della libertà e della liberazione dal nazifascismo e dell’esposizione dei corpi di Mussolini, Petacci ed altri gerarchi, tremendo “contrappasso” e monito e auspicio perché la violenza e le guerre e le dittature ed ogni fascismo nazismo razzismo siano banditi dalla storia umana.

Ho scelto di sottoporre all’attenzione dei lettori la testimonianza di Franco quattordicenne che guarda i corpi massacrati dei 15 partigiani a Piazzale Loreto. E invito a leggere alcune sue poesie pubblicate da Mondadori nel 2007 nel volume ” Voci d’osteria”.

Le poesie di pochi versi sono le voci e le parole (virgolettate) di ” un coro di personaggi anonimi, uomini e donne che ci offrono una loro verità semplice: senza pudori, eppure senza eccessi o infingimenti”, come si legge nel risvolto interno di copertina. Sono pensieri, sentimenti, emozioni, stille di saggezza popolare , amarezze e frustrazioni, umori e voglie di ribellione…

In questi nostri tempi tristi e incerti, nel dramma quotidiano della pandemia e delle disuguaglianze e delle povertà in aumento vertiginoso, nei pericolosi assalti al vivere civile e alla democrazia e alla solidarietà e fratellanza ed uguaglianza, la voce di Franco Loi e dei poeti ci può confortare ed incoraggiare a continuare a resistere e a battersi per un mondo diverso e migliore.

Addio Franco! Che la terra ti sia lieve. Che riposi in pace.

Milano, 9 gennaio 2021

*

Franco Loi ( 1930 – 2021 ), poeta.

Franco Loi aveva 14 anni quando si recò a Piazzale Loreto e vide i corpi dei 15 martiri massacrati il 10 Agosto 1944 dai mitra nazifascisti.

Ecco la sua testimonianza (in G. Sicari, Milano nei passi di Franco Loi, Unicopli, 2002 ):

“ Erano tutti abitanti del rione, tra Teodosio e Loreto. Uno con le mani protese davanti alla faccia, come a proteggersi e a gridare – una faccia paonazza, gli occhi come buchi viola, i capelli impiastricciati, incollati alla fronte bassa; un altro con gli occhi stravolti, bianchi, le labbra tumide, dure; e altri ancora con le dita lunghe come rami, e certi colle gialli tra camicie gualcite, magliette spiegazzate […]

I parenti non potevano onorare i loro morti. Nessun grido, nessun pianto. I fascisti erano lì, giovani e spavaldi. In quel fotogramma della loro vita e della loro storia, sprezzanti, quasi a non dover o non poter tradire la parte che una terribile legge gli aveva assegnato.

Ogni tanto provavo a distogliere gli occhi, e vedevo quei giovani indivisa nera, che fissavano la gente e sembrava volessero provocare. Ma la gente era immobile, come inchiodata, con gli occhi bassi e le spalle pesanti. Tutto pareva far parte di una scena irreale, completamente separata dall’ampiezza del cielo e di piazzale Loreto, che sotto il sole si allontanava verso viale Monza, via Padova, via Porpora e quel Titanus imponente del comando tedesco […].”

Alcune poesie da  “ Voci d’osteria”, Mondadori, 2007.

Donn che g’àn pressia, òmen che tripila,
gent che la curr e la sa no in due andà…
El prima e ‘l dopu amìs se po’ mai dìl
Che num tarlucch sèm dent nel puff del viv
E ‘l tropp defà l’è de l’ignuransa,
‘na cursa a l’assa ne l’anfa del murì.

(“ Donne che hanno fretta, uomini che lavorano,/ gente che corre e non sa mai dove andare,,,/ Il prima e il dopo, amici, non si può mai dirlo/ ché noi balordi siamo dentro nel lampo del vivere / e il troppo darsi da fare è figlio dell’ignoranza, una corsa alla bara nell’affanno del morire. “)

“ Mì quan’ camini mai me volti indré
E se me volti l’è per tirà la vita,
chì, in due sun, in tra i brasc del temp.”

( “ Io quando cammino non mi volto mai indietro / e se mi volto è per attrarre la vita,/ qui, dove sono, tra le braccia del tempo.” )

 “ La vita, disarìa, l’è ‘na muneda
Ch’èm pèrs per strada e la càttum pu,
‘na carta che se strascia, ‘na pelanda
Che la caruga la te smangia al scur…”

(“La vita, direi, è una moneta/ che abbiamo perso per strada e non ritroviamo più,/ una carta che si straccia, una foglia di gelso / che il bruco ti rode nel buio…”).

 “L’è mèj murì de fam che de pagura,
che tutt’è du squarten el bus del venter,
ma ne la merda mòr chi g’à pagura
e g’à vergogna de varàss nel venter”.

 ( “ E’ meglio morire di fame che di paura,/ ché tutt’e due squartano il buco del ventre,/ ma nella merda muore chi ha paura/ e ha vergogna di guardarsi nel ventre”).

Me piov! ‘ne fresca la cità nel piov!
Quèl verd del camion, l’umbrèlla che camina,
la lus di tram che slissa malament
e mì che sògni el fum d’amur luntan
su ‘na quaj strada che passa rent aj ca,
là due che’l vet se streng al bèl del corp
e gh’è la luna etanti usèj nel ciel,
e un piov che nel penser vègn su dal mar,
‘n ‘unda che turnaeche te lassa el fel
d’una Milan che dorma senza gent.

 ( Come piove! come fresca la città nel piovere!/ quel verde del camion, l’ombrello che cammina,/ la luce dei tram che scivola a stento/ e io che sogno il fumo d’un amore lontano/ su una qualche strada che passa accanto alle case,/ là dove il vento si stringe alla bellezza di un corpo/ e c’è la luna e tanti uccelli nel cielo,/ e un piovere che nel pensiero viene su dal mare,/ un’onda che torna e che ti lascia il fiele/ d’una Milano che dorme senza gente ).

6 pensieri su “Un ricordo di Franco Loi

  1. Il poeta Franco Loi l’ho seguito e inseguito per 50 anni, come altri valenti scrittori dialettali, p.e. per ultima Annamaria Di Pietro volata da poco…
    mi affascinava del Loi la chiarezza e la profondità espressa in “linguaggio” milanese,
    e della seconda in dialetto napoletano…
    perché questa mia immutata stima anche per poeti dialettali del passato?
    Per invidia, non gelosia, poiché non sono capace di scrivere in nessun dialetto, quindi la mia sconfinata ammirazione…
    nessun dialetto nemmeno quello salentino, al contrario di un vecchio amico, Carmelo Bene, capace di esprimersi in diversi dialetti (vedi il suo “Mal’ dei fiori”).
    Quindi triste è la notizia, ma anche gioiosa per cui per loro mi sono inquietato fino alla armonia.
    a. s.

    1. 02 4235734 TELEFONATA A FRANCO LOI

      La vita ha artigli, fauci, balzi, lampi, boati, assalti e morti
      Io zampe corte e appiattirmi nei prati
      La vita ha infinite riserve di buio ammassato nelle botti delle sue notti
      Io solo un guscio di respiro, paura, e chiudere gli occhi.

      filippo

  2. Il dialetto di Franco Loi è ricco lessicalmente e sintatticamente, ma “prende le distanze” dal dialetto milanese in due modi. Il primo viene dal fatto che Loi impara il milanese dopo i sette anni di età, quindi come seconda o terza lingua. E per quanto viva in ambienti dove il milanese era ancora parlato come lingua colloquiale, esordisce come poeta dialettale quando è già adulto, quando il dialetto a Milano ormai lo parlano in pochi, e quando ha una cultura che certamente lo porta a una riflessione raffinata sulla lingua con cui scrive. Così abbiamo la seconda distanza che consiste in una rielaborazione del dialetto che diventa lingua completa, arricchita di invenzioni proprie e di voci di altri dialetti.
    Giuseppe Natale nomina Porta e Tessa fra i grandi poeti dialettali milanesi (ma la tradizione dialettale comprende una lista lunghissima che dal Medioevo ad oggi non si è mai interrotta). Un confronto fra la lingua del Porta e del Tessa con quella di Loi ci dà l’idea dello “scarto” di Loi, che s’inserisce nella tradizione con però elementi forti di innovazione. Ed è ciò che rende grande un poeta, in qualunque lingua scriva.
    ***
    Una curiosità: nella prima poesia riportata vi è l’espressione « òmen che tripila», resa in italiano (dallo stesso Loi, credo, non ho ora il modo di verificarlo subito) come «uomini che lavorano». Ma io che non sono di origine milanese e conosco il dialetto solo per mezzo dei libri, non trovo la voce «tripila» (verbo «tripilà») in Porta o in Tessa né nel vocabolario milanese (dove c’è «trippilà», con la doppia “l”, ma in quello comasco. Ma in entrambi i dizionari il significato non è “lavorare”: nel milanese è “guizzare, saltellare, sculettare” e in quello comasco è “battere i pedi” e, riferito a un campo coltivato, “calpestare con i piedi”. Del resto la voce deriva dal latino «tripudiare», che significa «danzare».
    Forse vi è in questa voce uno dei tanti segni di come Loi fa suo, ma a suo modo, il dialetto / lingua che usa.
    Trovo “tripila” in una poesia di Luigi Medici, che scrive qualche decennio prima di Loi e in un milanese arioso (era di Trezzo d’Adda): «Cosse l’è che ghe tripila in quell tast , / ch’el trema , el batt». Qui è chiaro che il significato non è “lavorare”, ma saltellare, danzare, battere e simili [cos’è che saltella in quel tasto, che trema, che batte].

  3. E’ proprio vero, il poeta è un amico dell’umanità. In tanti anni che sono stato a Milano, non ho mai avuto la fortuna e soprattutto la gioia di incontrarlo. Franco Loi, per me oltre ad essere un bravo poeta dialettale, aveva la capacità di osservare lo stupore del vivere. La poesia rappresentava una passione amorosa, non si può controllare e dirige i sentimenti.
    Riguardo ai fatti di piazzale Loreto consiglio di leggere la testimonianza dello stesso Loi, nella autobiografia “da bambino il cielo” edito da Garzanti. A pag, 115 Mauro Raimondi domanda: ecc. ecc.

    Penso che gli uomini quando fanno il male sono presi da passione o travolti dalle circostanze, gli eventi, emulazioni di gesta. Questo insegna la storia. Come ha scritto un bolscevico ai tempi della rivoluzione russa:

    Mi unisco nel saluto e nel grazie a Franco Loi.

  4. Con Franco Loi ci siamo inseguiti per molto tempo e conosciuti per corrispondenza, era stato molto colpito da alcuni miei racconti, io dalle sue poesie in dialetto milanese e dall’antologia poetica Il Pensiero dominante – poesia italiana 1970-2000, curata insieme a Davide Rondoni.
    Alla fine ci siamo anche incontrati nel mio paese, Figline Valdarno, dove ha abitato per un periodo il suo carissimo amico pittore, gallerista e stampatore d’arte, Vincenzo Alibrandi. Si sentiva che era un poeta autentico, nel parlare di cose quotidiane usciva fuori tutta la sua gentilezza, la sua umanità. Dava sempre l’impressione di una stretta coerenza tra la sua ricerca poetica e la voglia di dare un senso alla vita.
    Ho dei bellissimi ricordi che mi legano a te, caro Franco. Un abbraccio sincero.

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