Un percorso collettivo di scrittura

Una volta l’esperienza passava di bocca in bocca  e i narratori, quelli che mettevano per iscritto le storie, attingevano a questo immenso serbatoio. E ora?  Malgrado  il predominio nella nostra epoca del romanzo e dell’informazione, ancora si scrivono racconti. In questi “spontanei” che la regia attenta e partecipe di Dario Borso ha strappato a un circuito strettamente amicale e all’oblio opaco in cui viene mantenuta colpevolmente la cosiddetta “scrittura di massa”,  i temi sono quelli di una quotidianità   penetrata dalla  sofferenza  fisica e psichica. Eppure gli scriventi hanno saputo modellarli in forme che  riecheggiano  gli schemi nobili  della fiaba, della novella, della leggenda. Per far conoscere questa bella esperienza, pubblico la premessa di Dario Borso e uno dei nove  racconti.  Il PDF che li raccoglie tutti sarà presto a disposizione  per cura della neonata Biblioteca Inclusiva della Fondazione Bertini Malgarini di via Caroli 12  a Milano.  [E. A.]

Premessa di Dario Borso

Muro viene dal latino, e ha la stessa radice di moenia, le mura della città: munire, fortificare a difesa, riparare (da cui proviene parete), proteggere, che in origine equivaleva a coprire con tegmina-tegole-tetto. Così, in poche parole, abbiamo costruito una casa, termine ancora latino per luogo coperto. La sua radice sanscrita ska– rimanda al fare ombra: troppa luce accieca, troppo caldo asfissia. Questione di quantità dunque, di equilibrio: e a ciò è delegata la finestra. Radice sanscrita di finestra è phan-, da cui deriva il greco phàino = splendo, illumino. La finestra consente, oltre che di respirare, di vedere affacciandosi, e faccia infatti, come face-fiaccola, ha la stessa radice.

L’erezione dei primi muri, una cui vaga traccia risale a 20.000 anni fa, fu un passo fondamentale dell’homo abilis che così s’incamminò verso la storia lasciandosi alle spalle l’età della pietra. Ma la storia produce non di rado paradossi; tanto ad esempio ha moltiplicato i muri, da confinarne gli artefici all’isolamento: muratori che si murano, per un destino già racchiuso nella radice sanscrita mu– che richiama il chiudere, ché se a chiudersi è la bocca, abbiamo mu-to. Le esperienze svoltesi quest’anno con il supporto del MiBACT alla neonata Biblioteca Inclusiva della Fondazione Bertini Malgarini di via Caroli 12 Milano tendono tutte, nel loro piccolo, a superare questo paradosso aprendo vani-luce nel muro spesso dell’esistenza singola e collettiva. Per quanto riguarda più specificatamente il laboratorio di scrittura, si è fatto tesoro del lavoro collettivo già svolto al Museo del Novecento (documentato in In opera, Armando Editore, Roma 2018). Il coinvolgimento dei tre partner di allora (Museo, Fondazione Empatia Milano, Cooperativa Lotta contro l’Emarginazione) e della Fondazione Pino Cova all’interno del progetto Biblioteca Inclusiva ha indotto novità importanti, così riassumibili: partecipazione, oltre che di persone con esperienza di disagio mentale, di abitanti del quartiere e di professionisti della scrittura in ambiti diversi dalla narrativa; passaggio (anche a causa dell’emergenza Covid) dal sistema di incontri bisettimanali più scambio di email allo streaming settimanale supportato da una pagina facebook sempre aperta; discussione ed editing degli elaborati singoli da parte di tutti i partecipanti. Principi guida: eguaglianza e collaborazione. L’esperienza è durata un quadrimestre abbondante, coinvolgendo stabilmente una trentina di partecipanti. Qui presentiamo una selezione, senza dimenticare che altri racconti compiuti (segnatamente quelli di Sofia Brandinali, Anna Maria Carpi, Pierpaolo Casarin, Francesco Cataluccio, Enzo d’Antonio, Alberto Massari e Alessandra Scudella) attendono solo un’occasione per farsi leggere.

Il laboratorio si è svolto in parallelo con quello di lettura condotto da Gianfranco Massa e in collegamento stretto con l’Archivio delle Identità, dove persone con esperienza di disagio mentale elaborano singolarmente i loro profili biografici. Tutto poi ha trovato coronamento nel Muro delle Pagine allestito all’interno della Biblioteca Inclusiva il 10 ottobre scorso, giornata mondiale della salute mentale, con la collaborazione, oltreché degli enti succitati, dei redattori di “Fuori di Milano”, magazine prodotto dall’Associazione La Salute in Testa. Perciò il Muro sta qui in copertina, oltre che stabilmente in Biblioteca.

“Paesaggio in prestito” chiamano i giapponesi ciò che si vede da una finestra senza essere proprietà della casa, oltre quindi il muro di cinta. È un paesaggio largo, tendenzialmente infinito, ricco di sorprese. Come questi “quadri”, come questi “racconti”.

*

IN CAMMINO
di Cristina Frangi

                                      Solo la scissione e il contrasto 
                                     rendono ricca e fiorente una vita. 
                                                        Hermann Hesse

In questa serata di inizio estate, quando il caldo incomincia a farsi sentire e gli abiti sulla pelle a dar noia, Luisa sorseggia il suo bicchiere di acqua e menta distesa sull’ormai logoro divano, facendo attenzione a non sbagliare nulla di quella che è ormai diventata la sua routine serale: acqua fresca con due cucchiai di menta Fabbri, musica per pianoforte in sottofondo e qualche classico che, anche se riletto, non finisce di piacere. Questa sera siamo al quinto capitolo di Narciso e Boccadoro. Questi rituali Luisa se li è guadagnati in tanti anni: agli inizi li temeva, perché erano visti come portatori di subita solitudine; ora sa che senza di essi la sua vita non avrebbe senso, non avrebbe ossigeno: per farla breve, Luisa senza di loro non potrebbe ritrovare se stessa. È una donna adulta, Luisa, ma con un’anima e con uno spirito ancora giovane. Sua figlia maggiore ha partorito da pochi mesi un 19 bel maschietto e per lei non è così facile e immediato calarsi nel ruolo di nonna: il piccolo glielo sta insegnando, facendo breccia nel suo cuore giorno dopo giorno. Questo cuore ha bisogno di aprirsi nuovamente all’amore, dopo essere stato così a lungo maltrattato e umiliato.

Da quando è nata, Luisa ha sentito ripetere da tutta la sua famiglia che l’evento è stato proprio inaspettato. Non è bello per una creatura essere accompagnata da questo leitmotiv. Ma i fatti hanno dimostrato che poggiava su solide basi. Ultima di quattro figli, molto calore avrebbe poi gradito la ragazzina quando, costretta dalla madre a far visita al fratello in carcere, si ritrovava la sera nel suo letto sola ed insonne. Il tempo scorre, le tensioni in casa aumentano e Luisa decide di scappare da quell’ambiente. E qual è il miglior modo per scappare secondo il suo punto di vista ma soprattutto secondo i canoni appresi in famiglia? Sposarsi! E così avviene. A ventitré anni Luisa ancora non sa che la sua anima anela a trovare in se stessa l’altra metà della mela. Quello che segnerà l’iniziazione, dovrà giungerle tramite molte sofferenze parecchi anni dopo. Per qualche anno, complice la nascita di due figlie, l’anima di Luisa è in pace o, meglio, anestetizzata. Non c’è tempo di pensare al Dentro: tutto è rivolto al Là Fuori.

Per qualche anno. Le bimbe crescono, quel marito è sempre più distante e la coscienza di Luisa ricomincia a farsi sentire, in modo sempre più insistente. “Ma perché ho sempre questo vuoto dentro?” si chiede la donna quando si guarda allo specchio. Pochi anni e proprio in concomitanza col secondo ritorno di Saturno, la trentaseienne Luisa avrà il capovolgimento totale: in pratica uno svuotamento di tutto il suo modo di vedere, di vivere, di credere, di amare.

Per quello che di solito si attribuisce al semplice “caso”, ma che in realtà un caso non è mai, Luisa incontra un terapeuta. Il terapeuta. I colloqui sono completati dall’accettazione della donna di intraprendere una terapia farmacologica. Passano mesi, due anni. Il terapeuta vede Luisa, Luisa e il marito e il marito da solo. I confini si allentano. Arriva la separazione dal marito e successivamente quella che sarà, comunicata a Luisa tra le righe, la separazione del terapeuta dalla moglie. È un amore vero, travolgente, karmico senza dubbio. Poco dopo l’uomo rinuncia a tutto ciò, dando priorità al suo lavoro e lasciando Luisa incredula e sola con le bambine da crescere.

La salute mentale subisce un brutto contraccolpo: incominciano i ricoveri, le terapie da cambiare spesso, l’assoluto Dentro di Testa. In quel Dentro di Testa Luisa si sente ancora legata a quell’uomo che la tormenta, la assilla in ogni ora del giorno e della notte, togliendole buona parte del sonno. Così non si può andare avanti. Luisa vuole tornare a respirare, vuole ritornare ad essere libera. È questa consapevolezza che quel pomeriggio di fine estate la porta a casa del suo grande amore che quando apre la porta capisce dal suo sguardo che il peggio sta per succedere. Un coltello, Luisa piena di rabbia, una lotta che ha per risultato solo pochi graffi… ma lui è a terra: e allora pedate e grida che Luisa non riesce a controllare. Poi, improvvisamente, la quiete. La donna, di spalle, si mette in un angolino del pianerottolo. Lui chiama ambulanza e carabinieri. La prima settimana in ospedale, piantonata. In seguito tre giorni e tre notti in carcere. Solo dopo, in piena notte e in fretta e furia, la destinazione a quello che Luisa scoprirà in seguito essere l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Mantova. La mente è già libera, il legame spezzato. Le figlie, l’unico e costante pensiero.

Dopo la prima settimana in cui Luisa man mano riesce a realizzare dove si trova, la vita in OPG comincia a scorrere. Lenta, cadenzata da quella che è una routine di cui la donna ora necessita. Le conoscenze con le compagne, chi più chi meno instabile. Ogni forma di reato commesso dalle donne. Ma qui siamo tutte uguali: è vietato giudicare. Con il rito abbreviato Luisa dovrà passare cinque anni in quel posto. Cinque anni sono un’infinità per l’emotività della donna che è scossa dalle giornate in cui nei reparti si sentono solo urla e litigi. Ora però la mente si è calmata, il trauma del reato un ricordo: Luisa ricorre alla scrittura e alla lettura come valvole di sfogo. Altre attività manuali non sono permesse in reparto. Trascorre il primo anno. La donna conta i giorni delle settimane perché a sabati alterni le due figlie vengono a colloquio. In quell’ora e mezza la Vita trionfa. In occasione del secondo anniversario in struttura, Luisa riceve una splendida notizia: il magistrato di sorveglianza, a fronte del suo comportamento esemplare ed in seguito alla perfetta “compensazione” dei sintomi, decide di farla inserire in una comunità terapeutica vicino alla sua abitazione. La donna è incredula e nello stesso tempo al massimo dell’euforia: avrà di nuovo a disposizione un telefono per dialogare con il mondo esterno, potrà vedere la figlia, almeno quella che abita in zona, spessissimo! Neanche il tempo di realizzare e una mattina il trasferimento. “Scrivimi!” “Teniamoci in contatto!” – gridano le compagne – ma Luisa sa che con quel mondo avrà bisogno di tagliare completamente i ponti.

In comunità gli spazi sono molto più aperti: anche questo un impatto da superare notevole per la donna. Dopo poche ore dall’accoglienza, Luisa rivede sua figlia. È sempre lei, sempre la stessa bella e matura ragazza, ma la donna sperimenta per la prima volta la sensazione della gratitudine per poterla incontrare in uno spazio diverso, migliore del precedente, e questo stato di grazia la rende ai suoi occhi ancora più bella. Trascorrono i giorni, i mesi. Il percorso di cura prosegue senza problemi e pian piano iniziano le licenze. Dapprima una notte a casa, in seguito sono due. Tra le mura di casa sua Luisa ringrazia per ogni cosa: per un tetto che ha sopra la testa, per il letto in cui può dormire, per un bicchiere d’acqua che beve. Dio, la Vita, che la donna aveva solo imparato a conoscere in famiglia nella sua versione più punitiva, incomincia a farsi strada nel suo cuore assetato. Poi avviene che il giudice conceda la revoca della libertà vigilata. Per la legge la donna può lasciare la comunità. Ci vogliono due mesi affinché il medico della struttura firmi le dimissioni definitive. Due mesi in cui Luisa spera, prega, ma anche si mette nei panni di chi l’ha in cura. Per Natale le porte della comunità  si chiudono e si apre una nuova fase di vita. I primi tempi sono strani: in casa Luisa si guarda in giro, in strada osserva ogni minimo particolare. Ritrova il piacere di cucinare e di mangiare bene e sano. Chi le voleva bene si rifà vivo. Tutti gli altri, Luisa si dirà in seguito, evidentemente di bene non gliene volevano abbastanza. Il percorso di cura prosegue a tutt’oggi e quando, come stasera che Luisa è sdraiata sul divano con la sua acqua e menta Fabbri, le domande esistenziali si affacciano alla sua coscienza, lei sa che le risposte arriveranno.

2 pensieri su “Un percorso collettivo di scrittura

  1. La scrittura può essere quel filo sottile che ti tiene legato alla vita: che adoperi come uno scandaglio verso te stesso, col quale disegni una rete fra te e il mondo esterno, o che ti consente di guardarlo come un osservatore. Anche a un primo livello, quello dell’io, nella sua auto-referenzialità, diventa, tuttavia, una testimonianza.
    In questo racconto, espresso in termini di essenzialità, l’esperienza oscilla fra un vissuto personale, interiorizzato, e uno sguardo esteriore. Questi due catalizzatori tracciano un percorso, una via d’uscita che consente uno spazio autentico, anche se molto sofferto, di vita.
    Il rilievo alla narrazione, a mio parere, è dato anche dal fatto che l’ autrice non esprime giudizi, mantenendosi in una sfera di puro accadimento, che accentua i temi della narrazione. Alla fine prevalgono le aspirazioni personali e i legami affettivi più veri. Ma ciò non accade spesso nella realtà, purtroppo.
    Situazioni come quella descritta in questo breve ma condensato racconto risultano sempre più frequenti, di un profondo disagio esistenziale che connota l’attuale società e che sfocia fatalmente nella violenza, con tutte le conseguenze del caso.

  2. …molto bella l’esperienza di scrittura collettiva ed autobiografica portata avanti dagli operatori della Biblioteca inclusiva…Raccontare e raccontarsi la storia del proprio disagio significa già averlo in qualche modo accettato e rielaborato, trovando soluzioni e momenti di approdo, come Cristina che, distesa sul divano, sorseggia una bibita alla menta, mentre ascolta musica e legge un libro già letto e riletto…Tutto il resto è solo passato…ora ci sono le figlie, un nipotino, i fedeli vecchi amici…Il cammino puo’ ben proseguire, le basi sono buone…Tanti complimenti ed auguri a Cristina e al suo gruppo di scrittura

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