Percorsi comunisti. Mario Tronti

a cura di Ennio Abate

Inizio – per ora senza  un progetto definito – una serie di esplorazioni delle esperienze comuniste – di singoli o di gruppi –  che ho incrociato nelle mie letture o in incontri con persone reali. Qui la selezione di  alcuni passi, per me più interessanti, di una recente intervista a Mario Tronti curata da Giulia Dettori per la rivista “Filosofia Italiana” sul numero 2 del 2020. Da lì copio anche la scheda biobibliografica  sull’autore [E. A.]

Stralci:

1.

Insomma, ci accorgemmo che c’era qualcos’altro oltre al marxismo italiano. Allo stesso tempo ci mettemmo a studiare Marx da capo perché ritenevamo che il Marx della tradizione italiana fosse soprattutto il Marx degli scritti giovanili, dei Manoscritti economico-filosofici, umanista e generico. Noi invece andammo a scoprire il Marx del Capitale. Ci mettemmo a studiare il Capitale ‘a brutto muso’. Lo leggemmo tutto, parola per parola. Fu una lettura sovversiva, perché in Italia non si era abituati a studiare quel Marx, il Marx che, ad esempio, analizzava i rapporti di produzione.

2.

 Panzieri segnò il punto di partenza dell’esperienza operaista. Era una grande personalità sia politica che umana. Era un politico socialista che però aveva rotto con il socialismo di Nenni e con quello di Lombardi. Era uscito dal partito e si era trasferito a Torino per lavorare presso la casa editrice Einaudi. Lì conobbe un gruppo di sociologi torinesi che facevano già ricerca in fabbrica. Quando noi lo incontrammo qui a Roma fu una vera e propria scoperta perché noi del gruppo romano non conoscevamo la grande classe operaia del nord. L’andammo a conoscere. Eravamo io, Asor Rosa, Coldagelli, Di Leo, Accornero. Partivamo insieme e andavamo lassù davanti alle fabbriche per capire che cos’era questa nuova classe operaia. Soprattutto avviammo quel tipo di ricerca che consisteva nel rapporto diretto con gli operai della fabbrica, attraverso l’inchiesta operaia, che era un modo per guardare la fabbrica dal di dentro, attraverso gli occhi degli operai stessi e non da fuori come facevano gli altri intellettuali. Fu un’invenzione molto utile per noi. Ovviamente ci si scontrava con il sindacato e con il partito. Molti di noi si staccarono dal Pci. Io rimasi invece sempre legato al partito, senza mai uscirne. Ecco, «Quaderni rossi», la prima rivista operaista, fu l’esperienza dell’incontro tra il gruppo di sociologi torinesi e quello romano formato da intellettuali umanisti, di cui facevo parte anche io, e ai quali si unì successivamente il gruppo veneto di Porto Marghera con Negri.

3.

Molti dei post operaisti, soprattutto quelli che hanno seguito Negri, si sono trasferiti dall’Italia in Francia e lì hanno subîto molto l’influenza del pensiero francese. Noi del gruppo romano invece non l’abbiamo subîta. Per loro l’operaismo è ancora di stretta attualità, mentre almeno per me è un’esperienza chiusa negli anni Sessanta, in una fase molto particolare. C’era il boom capitalistico, c’era il neocapitalismo, c’era per la prima volta l’ipotesi di una rivoluzione della classe operaia quantitativamente forte, organizzata e concentrata nelle fabbriche. Tutte condizioni che oggi non esistono più. È inutile quindi per me continuare a parlare di operaismo in questi termini. Invece il gruppo legato a Negri ha continuato a sviluppare le tematiche dell’operaismo passando per l’operaio sociale e arrivando fino al concetto di moltitudine.

4.

Nel nostro ritorno ai testi di Marx, e in particolare al Capitale, trovammo il concetto di forza lavoro, di capitale variabile, il fatto che la classe operaia fosse una contraddizione interna al capitale e, in quanto sua contraddizione interna, ancora più pericolosa di tutte le altre contraddizioni. E quando scoprimmo i Grundrisse e li facemmo tradurre (ci fu la traduzione di Enzo Grillo per la Nuova Italia) trovammo il concetto di General Intellect che Marx attribuiva soprattutto al capitale: il capitale è un cervello, anch’esso collettivo che esprime addirittura per conto suo una sorta di scienza. Invece noi cominciammo a pensare che ci fosse anche un General Intellect della classe operaia. Era quello che bisognava andare a cercare. Un cervello collettivo della classe operaia che si munisse anch’esso di una scienza che noi chiamammo, forse ingenuamente allora, “scienza operaia”. Questo scandalizzava molto, perché non si riteneva possibile che la scienza potesse essere operaia o capitalistica, si pensava invece che la scienza dovesse essere qualcosa di oggettivo, che valesse per tutti. La scoperta fondamentale dell’operaismo, invece, è la scienza operaia legata al punto di vista di parte operaia. Per me la sopravvivenza dell’operaismo oggi non consiste quindi nel continuare a sostenere che ci sia una classe operaia, perché questa non c’è più, ma consiste nel fatto di mantenere quel punto di vista di parte, che non è più di parte operaia, ma rimane comunque di parte. Punto di vista di parte vuol dire punto di vista alternativo, antagonista al capitalismo. Chi ha attraversato l’esperienza dell’operaismo rimane, secondo me, con questo solido risultato. Chi è stato operaista, in altre parole, resta sempre un pensatore di parte. Non elabora una scienza o una teoria che valgano per tutti, ma elabora una scienza o una teoria per la propria parte contro l’altra parte.

5.

Oggi, invece, risulta molto difficile individuare la parte. Sicuramente va approfondito il tema del lavoro perché il lavoro oggi non è più un luogo compatto come era quando c’era il primato, l’egemonia della classe operaia. È un lavoro esteso orizzontalmente, frantumato. Ci sono tantissimi tipi di lavoro diversi: c’è un lavoro dipendente, ma anche un lavoro indipendente. Il lavoro autonomo a mio giudizio non va considerato come un non-lavoro, qualcosa che fuoriesce dalla sfera del lavoro, perché ha una sua forma specifica di dipendenza. Quindi anche il lavoro autonomo è un lavoro sfruttato, come il lavoro dipendente. Il lavoratore autonomo sfrutta infatti se stesso. Chi, per esempio, ha la partita Iva e pensa di non avere padrone, in realtà si sbaglia, perché è diventato padrone di se stesso. Insomma, questa platea di lavoro diffuso è ancora secondo me la parte, ma una parte che andrebbe riunificata, sindacalmente prima, politicamente poi. È l’operazione che dovrebbe fare quella che si chiama ‘Sinistra’, un nome generico che non dice molto, ma che dovrebbe avere la funzione di riunificare questo mondo scomposto per farne una forza di parte che metta in discussione gli assetti sociali generali, la forma di sistema che c’è oggi. Il capitalismo infatti continua a esistere, il capitale stesso si è modificato perché c’è stata la fine di quella grande epoca che è stata il capitalismo industriale. C’è stata una mutazione genetica del capitale, oggi molto più finanziarizzato. Però è sempre capitale è c’è sempre rapporto di capitale nel lavoro.

6.

«classe operaia» fu davvero una straordinaria esperienza. I «Quaderni rossi» sono stati sì importanti, ma erano una rivista che gravitava ancora attorno a un gruppo di intellettuali, di ricercatori, che tentavano un approccio pratico, ma con l’idea che il loro contributo dovesse essere soprattutto un contributo di analisi. La rottura che porterà a «classe operaia» derivava da questo, dal fatto che per noi bisognava passare a un intervento nelle lotte – cosa che Panzieri e i suoi amici sociologi non appoggiavano. Allora facemmo questa esperienza molto bella: si creò un gruppo di persone straordinarie e furono anni di grande vigore teorico oltre che pratico. Venivano fuori tantissime idee: come, ad esempio, quella di intervenire con gli operai nelle lotte, non solo per conoscerli, ma anche per creare contraddizioni all’interno del sistema capitalistico. Poi ci siamo dispersi. Alcuni hanno continuato in altri gruppi famosi, come Potere operaio, Lotta continua, Autonomia operaia, che negli anni Settanta ebbe una grossa presenza e che poi è degenerata. «classe operaia» fu insomma importante perché ci fece capire molte cose, soprattutto come si sta nella politica. Io però non ho mai aderito ai successivi raggruppamenti.

Fui io a sciogliere in ogni caso «classe operaia» e a dire che questa esperienza era conclusa, quando mi accorsi che molti all’interno del gruppo, in particolare Negri, tendevano a chiudersi e ad avere un rapporto eccessivamente polemico con i sindacati, con il Pci. A un certo punto mi accorsi che erano più anticomunisti che anticapitalisti. Questo per me non andava bene. Io sono nato nel Pci e sono rimasto sempre iscritto al partito.

7.

Per me l’esperienza operaista si conclude con la fine di «classe operaia» e con la pubblicazione di Operai e capitale. In quel libro ho depositato quello che avevo capito di quel periodo, degli anni Sessanta, le scoperte teoriche fatte osservando la fabbrica e la classe operaia nelle lotte salariali. Dopo di che sono andato oltre, con l’autonomia del politico, che fu scandalosa per l’epoca e che derivò dal fatto che avevo capito che, passando solo per le lotte operaie, non si sfondava.

8.

Ritengo che un pensatore compia un cammino, attraversi delle fasi e poi le superi, ma che allo stesso tempo resti una continuità nella sua persona. Quindi rottura e continuità nella vita personale non sono alternative, ma ci sono tutte e due. Si rompe, ma dentro una linea. Questo è molto difficile da far capire, perché dopo l’autonomia del politico sono subentrate altre ricerche, come quella sulla teologia politica, e altri interessi, come quelli per l’antropologia e la psicologia politica. Il mondo storico umano è complicato. Quando eravamo giovani avevamo un’idea più semplice di questo mondo e allora vi era pure un conflitto più evidente in atto. Ora che invece il conflitto non è più così frontale bisogna saper manovrare la politica. In questo senso ho studiato Machiavelli, che considero il mio maestro di politica, e ho scoperto la tradizione del realismo politico. La realtà è dura e cruda e va capita per quello che è senza troppe ideologie, dietro le quali troppo spesso i partiti di sinistra si nascondono.

 

 

Nota biobibliografica di Mario Tronti


Mario Tronti è un filosofo e politico italiano, fondatore, insieme a Raniero Panzieri, dell’operaismo, corrente eterodossa del marxismo teorico in Italia attraverso cui, negli anni Sessanta, sulla scia degli eventi generati dal 1956, intraprende una ricerca teorica che mira a creare un rapporto diretto tra intellettuali e classe operaia, senza la mediazione dei partiti.

La fase operaista porta Tronti a collaborare con le riviste «Quaderni rossi» (1961-1964) e «classe operaia» (1963-1967), di cui è stato anche direttore, e a raccogliere nell’opera Operai e capitale (1966) le elaborazioni più importanti di questo periodo. È la chiusura di «classe operaia» a segnare per lui la fine dell’esperienza operaista, nonché l’accettazione della sconfitta del modello delle lotte salariali in fabbrica.

Da questo momento si dedica alla carriera accademica, insegnando filosofia morale e filosofia politica all’Università di Siena, e inaugura una nuova fase del suo pensiero: quella della teorizzazione dell’autonomia del politico, nella convinzione che sia arrivato il momento di portare le lotte sui salari ad un più alto livello di scontro, all’interno delle istituzioni e dello Stato. Sono di questo periodo le opere Hegel politico (1975), Sull’autonomia del politico (1977), Soggetti, crisi, potere (1980), Il tempo della politica (1980). Nel 1981 fonda, inoltre, «Laboratorio politico», rivista bimestrale di intervento politico.

Alla fine degli anni Settanta Tronti intraprende un ulteriore e differente approfondimento del suo pensiero politico, legato a una sempre più chiara disillusione intorno alla possibilità di riaprire una fase di lotta e al tramonto, insieme a quella che egli definisce la «storia del grande Novecento», del movimento operaio, considerato la forma massima con cui si è espresso il conflitto della politica moderna contro la storia.

La nuova ricerca teorica si caratterizza per una critica alla politica come immanenza totale, per un interesse sempre maggiore verso la teologia politica e verso il binomio realismo politico-trascendenza. In questo periodo, egli  pubblica: Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico (1992), La politica al tramonto (1998), Dall’estremo possibile (2011), Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (2015), Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica (2015). Oltre a queste opere vanno ricordate anche Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015 (2018) e Il popolo perduto. Per una critica della sinistra (2019), testo legato alla sua esperienza politica, come senatore nel Pds e poi nel Pd.

 

43 pensieri su “Percorsi comunisti. Mario Tronti

  1. Nell’ambito della Provincia di Pesaro, dove allora operavo politicamente, e in particolare a Fano, dove ero segretario della sezione del Psiup, i «Quaderni rossi» arrivarono in ritardo, quando la rivista aveva cessato di uscire e ne comprai la raccolta in blocco e lessi i fascicoli come volumi. Era il 1965. Qualcosa di quella lettura utilizzai in una mia relazione polemica al congresso provinciale della Federazione giovanile del Psiup nel 1967 (mi pare in autunno), quando ormai era vicino il ’68 e la vita politica era, da qualche anno, piena di fermenti nuovi e, fra i giovani, si stavano sciogliendo i confini fra i maggiori partiti politici della sinistra: il Pci, il Psi e il Psiup.
    Ripetei in gran parte quella relazione, poco dopo, al congresso nazionale, dove vidi per la prima volta Mauro Rostagno che vi svolse una lunga relazione generale (un paio d’ore). Rostagno militava allora nel Psiup e mancavano un paio d’anni al suo passaggio a Lotta Continua. Al tavolo della presidenza sedeva, in rappresentanza del Psiup, Lucio Libertini, che tenne una sua relazione. Rostagno e Libertini erano, in modi diversi, due rappresentanti di un marxismo eterodosso che cercava di superare i vecchi schemi. Proseguirono poi l’attività politica in modi molto diversi.
    Rostagno era, in quel periodo, un marxista libertario, non violento e contrario alla lotta armata. Mario Tronti era invece tutt’altra cosa e quel che di buono e di errato elaborò negli anni Sessanta lo portarono, io direi inevitabilmente, a diventare un accademico, anzi un “barone”, sia pure di nuova generazione (come Alberto Asor Rosa e tanti altri), e poi anche senatore del partito erede del Pci. Una carriera, mi pare, apparentemente in contrasto con i fervori e furori giovanili (ma poi nemmeno tanto giovanili perché Tronti, negli anni Sessanta, era fra i 30 e i 40 anni).
    In contrasto apparente, perché l’esperienza degli anni Sessanta, dell’operaismo, dell’autonomia operaia, conteneva un errore di fondo che poteva portare solo, in alternativa, o all’abbandono della politica o ad una politica che, con qualche variante e aggiornamento, rientrasse nella tradizione politica partitica e parlamentare. Tronti, in qualche modo, seguì entrambe queste vie, perché da attivo militante politico diventò uno studioso della politica, ma distaccato dalla militanza vera e propria, e poi da studioso tornò a una militanza di partito e di attività parlamentare.
    L’errore di fondo, a mio parere, consisteva nel perseguire una falsa autonomia operaia. Falsa perché poi quasi tutti quei militanti operaisti non erano operai e conoscevano il mondo operaio da politici e da sociologi, non da operai. Non avevano in testa e nel cuore idee, ambizioni e sentimenti da operaio e nella dimensione dell’immaginario e del quotidiano esistenziale vi era un abisso fra gli operai di fabbrica e quegli intellettuali.
    Ma ancora più falsa perché si trattava della teorizzazione di una autonomia che non era autonoma, ma subordinata a un progetto rivoluzionario che, comunque, riportava a un problema di organizzazione che faceva entrare dalla finestra ciò che si credeva di avere scacciato dalla porta. Il problema dell’organizzazione, fra l’altro non risolto, riportava alla forma partito e alla forma Stato, che sono entrambe negazione dell’autonomia operaia come di qualsiasi autonomia di qualunque componente sociale. La “scienza operaia” si rivelava così ideologia, di parte e sovrapposta agli interessi operai. Costruzione intellettuale che non aveva nulla di scientifico. E se, a livello di analisi delle situazioni di fabbrica e delle lotte, qualcosa di interessante è stato detto, è perché si è ricorso ad una “scienza” né operaia né borghese, ma coerente con metodi scientifici veri, come fece, ad esempio, Aris Accornero (1931-2018), che divenne docente di Sociologia industriale all’università La Sapienza di Roma e pubblicò importanti opere scientifiche in questo campo. Non per nulla, detto fra parentesi, Accornero era nato da famiglia povera ed aveva alle spalle una vera esperienza di fabbrica come operaio specializzato e sindacalista di base.
    Anziché cercare l’autonomia operaia nell’organizzazione di fabbrica, nella produzione, nella forma alternativa della cooperativa dove gli operai sono anche i padroni, la si ipotizzava entro la ragnatela di un marxismo di cui era stato sviluppato non il lato libertario, del comunismo come realtà da costruire subito in forma comunitaria ad adesione volontaria, ma il lato del comunismo come movimento e dottrina che sviluppa una strategia di organizzazione e di conquista del potere nella sua forma di Stato, che è poi, di fatto, la negazione del comunismo.
    In questo contesto, la vera autonomia operaia, cooperativa e sindacale, non poteva che essere subordinata alla prospettiva rivoluzionaria, cioè, in altre parole, non poteva che essere mera “cinghia di trasmissione” alla Lenin, che è somma negazione di ogni autonomia operaia.
    Questo errore di fondo che è proprio di tutti i movimenti di sinistra, almeno, in Italia, dal 1892 in poi, non poteva che portare alla sconfitta. E la sconfitta ha due facce. Quella della rivoluzione mancata, per la sinistra radicale; e quella dell’ascesa al potere su posizioni blandamente socialdemocratiche, per la sinistra non radicale, ormai allineata alla “politica borghese” un tempo criticata.

  2. @ Luciano Aguzzi

    Negli anni ’60-‘70 del Novecento di gente che cercava di superare i vecchi schemi del marxismo e del cattolicesimo (le “due Chiese”) ce n’è stata tanta: il «marxista libertario, non violento e contrario alla lotta armata» alla Rostagno, Tronti che era «tutt’altra cosa», i trotzkisti di Milano che poi fondarono i CUB e Avanguardia Operaia, quelli di Potere Operaio poi di Lotta Continua, i futuri brigatisti rossi e più tardi gli Autonomi.
    La festa e la tragedia di quegli anni è alle nostre spalle. È bene per noi (vecchi) – coinvolti o sfiorati dall’una o dall’altra di quelle esperienze – riflettere su quei percorsi vari, contraddittori, pieni di errori (minori o maggiori a seconda del peso politico che vi ebbero i singoli o i gruppi o i partiti) – ripensarla. Ma come? Alla tua lettura dell’intervista a Tronti farei le seguenti obiezioni:

    1. «Mario Tronti era invece [rispetto al modello positivo di Mauro Rostagno] tutt’altra cosa». Ma che cosa? Lo si capisce dopo, quando parli della «forma partito» o della «forma Stato». Lasci intendere che essendo (in assoluto?) Partito e Stato «negazione dell’autonomia operaia come di qualsiasi autonomia di qualunque componente sociale», cercare di costruire un partito, come si tentò di fare, o porsi l’obiettivo di “conquistare” lo Stato siano di per sé vie fallimentari e mai più percorribili. Può darsi ma a me restano troppi dubbi.

    2. L’operaismo conteneva un errore di fondo? Certo, era facile ed è facile squalificarlo. Come fai tu adesso, affermando che «poteva portare solo, in alternativa, o all’abbandono della politica o ad una politica che, con qualche variante e aggiornamento, rientrasse nella tradizione politica partitica e parlamentare». O, come hanno fatto altri, richiamandosi alla teoria di Lenin sulla classe operaia per forza di cose “tradunionista” e bisognosa della guida di un partito di “rivoluzionari di professione”.
    Eppure, in quel momento della storia italiana, l’operaismo era un inizio, una scossa; ed ebbe la capacità di sintonizzarsi ben più del PCI o del PSI sui fermenti sociali che percorsero le fabbriche e il mondo studentesco; e alimentò, pur con molti errori e presunzioni, non un’astratta autonomia ma quella che una parte degli operai più attivi e consapevoli esprimevano. E avrebbe potuto – anche, forse – permettere un rinnovamento della “forma partito” tradizionale e, chissà, della ”forma Stato”. [1]

    3. Perché queste due questioni – forma partito, forma Stato – permangono come problemi aperti e irrisolti nella vita reale delle società e nella teoria che cerca di pensarli. Parlare di « falsa autonomia operaia» perché «poi quasi tutti quei militanti operaisti non erano operai e conoscevano il mondo operaio da politici e da sociologi, non da operai» significa non solo banalizzare la proposta dell’operaismo ma liquidare la questione che fu sollevata. Marx non era operaio, non lo erano Bordiga, Gramsci e tanti altri. E cosa ha in mente l’operaio “in carne ed ossa” non lo si sa. Allora si cercò almeno di capirlo con l’inchiesta (Quaderni Rossi) o elaborando filosoficamente il concetto di classe operaia. (Qui Tronti sottolinea per me giustamente il tentativo: « Soprattutto avviammo quel tipo di ricerca che consisteva nel rapporto diretto con gli operai della fabbrica, attraverso l’inchiesta operaia, che era un modo per guardare la fabbrica dal di dentro, attraverso gli occhi degli operai stessi e non da fuori come facevano gli altri intellettuali.»).
    Malgrado le buone intenzioni, se ne sarà capito ancora poco e certamente «vi era un abisso fra gli operai di fabbrica e quegli intellettuali», ma prima l’abisso era ancora più pauroso e vasto; e poi non vedo quali altre vie, migliori della cosiddetta «conricerca», ci fossero per capire cosa « avevano in testa e nel cuore» gli operai di quegli anni.

    4. Scrivere che «si trattava della teorizzazione di una autonomia che non era autonoma, ma subordinata a un progetto rivoluzionario» mi pare un’affermazione di un idealismo assoluto. Non esiste un’autonomia che non abbia dei connotati storici. Quel tanto di autonomia che si manifestò nei fatti con le lotte operaie soprattutto a partire dal ’69, non c’era prima e ci fu, invece, allora. Non certo come emanazione delle teorie operaiste, ma di sicuro in sintonia con gli sviluppi di un pensiero operaista che prima, appunto, anch’esso non c’era o non era stato elaborato con la forza anche “estremista” di «Operai e Capitale».

    5. Quando, al posto dell’«autonomia operaia nell’organizzazione di fabbrica, nella produzione», suggerisci di cercarla «nella forma alternativa della cooperativa dove gli operai sono anche i padroni» non fai che contrapporre un tipo di autonomia fondata sul concetto della cooperazione con il Capitale (gli “operai-padroni” delle cooperative) al concetto marxista che vede il conflitto insanabile tra Lavoro e Capitale. Si tratta di due modi storici (contrapposti) di pensare l’autonomia. Quale dei due è il migliore? La questione è aperta.

    6. «La “scienza operaia” si rivelava così ideologia, di parte e sovrapposta agli interessi operai»? Solo in parte. E del resto ideologica lo è spesso anche la scienza- scienza, tanto che si parla di scientismo. Sostenere che fu soltanto una «costruzione intellettuale che non aveva nulla di scientifico» è una semplificazione ostile e preconcetta. (E tu stesso, citando il lavoro di Accornero e sottolineando che «era nato da famiglia povera ed aveva alle spalle una vera esperienza di fabbrica come operaio specializzato e sindacalista di base», finisci per dare ragione a Tronti: un’esperienza “di parte” – famiglia povera, esperienza di fabbrica e, dunque, di parte – ha giovato ad Accornero, rendendolo scienziato meno neutrale di tanti che pretendono di esserlo).

    7. Il concetto di «classe operaia» aiutò comunque a individuare un possibile soggetto sociale e politico e a confermare una contrapposizione (marxiana) tra Lavoro e Capitale. E non mi pare cosa di poco conto. Poi gli eventi sono andati in altra direzione e hanno oggi reso inservibili quegli strumenti di lettura della realtà (come sostiene Tronti e non Negri).

    8. Non capisco perché, se la realtà è complessa ed ha il suo «lato libertario» ma anche quello non libertario ed il marxismo (almeno non quello dogmatico) cerca di fare i conti con entrambi questi lati, sia condannabile. L’esperienza storica del 1917 di «conquista del potere nella sua forma di Stato» ha portato alla «negazione del comunismo» e della “libertà”. Ma non riesco a convincermi che sia avvenuto «inevitabilmente».

    Nota

    [1]
    Cfr. “Cento anni di Pci. Riflessioni aperte” di Roberto Fineschi
    https://www.sinistrainrete.info/marxismo/19536-roberto-fineschi-cento-anni-di-pci-riflessioni-aperte.html?fbclid=IwAR2b3L2fdPnv_V4Dl7O15j_xxj3PRdPGBCcBe4WInNQUs7MjHLlSy3SyYg4

    Stralcio:
    Ci sarebbe ovviamente una terza questione, quella delle forme della lotta; la forma partito tradizionale è stata capace di successi ineguagliati, ma ha portato con sé anche problematiche di gestione e di partecipazione, sollevate con veemenza dall’ondata libertaria del Sessantotto, nei confronti della quale il partito si è trovato del tutto impreparato e sostanzialmente estraneo. La mediazione delle istanze organizzative e spontaneiste è una questione vecchia quanto il movimento dei lavoratori e anche qui non sembra semplice trovare una sintesi. L’incapacità del Pci di comprendere e dialogare con queste esigenze “individualistiche” contemporanee è sicuramente stato un problema di rilievo, che però, a mio parere, non costituisce la causa fondamentale della sua crisi. Infatti il Pci è stato capace di resistere alla suddetta estraneità al Sessantotto, agli attacchi del terrorismo sia di destra che di sinistra negli anni Settanta, all’“atlantismo” palese e sotterraneo, alla palude degli anni del pentapartito in cui è stato marginalizzato e costretto all’impotenza politica. Ha resistito numericamente anche come Pds, Ds e pure adesso il Partito Democratico gode, con sommo demerito, di quella eredità storica con numeri ragguardevoli. Questo non per dire che andava bene così com’era, ma solo che non è questa la causa della sua involuzione. Credo che le ragioni principali siano invece le due che indicavo, vale a dire che, non cogliendo le trasformazioni storiche del capitalismo crepuscolare [3], non è stato in grado di aggiornare la propria identità e strategia politica, e individuare soggetti storici e dinamiche di fondo del processo, quindi, alla fine, le forme della trasformazione.

  3. SEGNALAZIONE/ANTENATI/ SU ANTONIO LABRIOLA

    Antonio Labriola, “In memoria del manifesto dei comunisti”, 1895, I.
    di Alessandro Visalli
    https://tempofertile.blogspot.com/2021/01/antonio-labriola-in-memoria-del.html?fbclid=IwAR1un1AwDyBOS7r1nrnCTYeqNVA7pgB6xiOpHeP5KTMJrgFsLC0iZBLtWvU

    Stralcio:

    Coerentemente con quanto scritto sopra, sottolinea Labriola, Marx era uscito dall’arena politica perché le condizioni della, pur necessaria, rivoluzione, non erano più. La reazione aveva battuto qualunque forma di opposizione sociale dopo il 1848, sia essa patriottica, liberale, democratica. Lo stesso era accaduto in Inghilterra con mezzi diversi. Come scrive, “le condizioni indispensabili allo sviluppo del movimento democratico e proletario vennero ad un tratto a mancare. La schiera, non certo molto numerosa, dei comunisti del Manifesto, che s’era mescolata alla rivoluzione, e poi dopo partecipò a tutti gli atti di resistenza, vide da ultimo troncata la sua attività col memorabile processo di Colonia. I sopravvissuti del movimento tentarono di ricominciare a Londra; ma a breve andare Marx ed Engels ed altri volsero le spalle ai rivoluzionari di professione, e si ritrassero dall’azione prossima. La crisi era passata. Una lunga pausa sopraggiungeva”[28]. Dunque, si dedicarono a “intendere la reazione” perché il punto è che il “comunismo critico” non “fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse”. Non segue neppure la generosa posizione di George Sorel. È una sola cosa con il movimento proletario, ma non è una sorta di seminario che ne formi gli stati maggiori, opera come “coscienza della rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze, come coscienza delle sue difficoltà”[29]. Per questo, espulso nel 1849 dal Belgio e poi lasciata Parigi, e riparato a Londra, Marx prima tenta di riavviare la rivista “Neue Rehinischhe Zeitung”, e poi di ricostruire la “Lega dei Comunisti”. Ma le frazioni che si determinano continuamente, la litigiosità tra gli emigrati[30], e le condizioni generali ormai del tutto sfavorevoli, in particolare dopo il colpo di stato bonapartista del 1851, determinano sia il ritiro di Engels a Manchester (resteranno separati per venti anni), sia la concentrazione di Marx nel solo lavoro scientifico. Si tratta per loro, appunto, ora di capire che cosa sia successo.

    Sviluppando questa impostazione Labriola resta convinto che se lo sfruttamento e la creazione del proletariato (inoltre la sua estensione ed intensificazione) restano necessità proprie della forma capitalista, e quindi insuperabili per quanto la borghesia tenti di ammorbidirlo con legislazioni “sociali”[31], tuttavia nessun colpo di mano può accelerare “lo sviluppo delle cose”. La strada è quella della progressiva istruzione della massa, per cui, al di là della episodica e velleitaria presa di un Hotel de Ville[32], “la dittatura del proletariato non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e sarà il risultato dei proletarii stessi, che siano, già in sé, e per lungo esercizio, una organizzazione politica”[33].

  4. SEGNALAZIONE/PERCORSI COMUNISTI/ EMANUELE MACALUSO (MORTO OGGI)

    Emanuele Macaluso è stato sempre un combattente, anche quando certificava lucidamente la fine della sinistra. Aveva a cuore “la battaglia politico-culturale”, la battaglia delle idee, senza di che la sinistra muore. Sapeva rispondere a chi gli chiedesse in che cosa concretamente sostanziarla, la battaglia delle idee, ricordarsi della questione sociale, capire la portata della migrazione, rinnovare l’impegno personale dell’adesione a una parte, a un partito: ma il vero centro della sua “battaglia delle idee” stava nel legame con la storia e con la memoria. Nel privilegio e nella necessità di avere un passato. Personale, la memoria, e collettivo, la storia. E su quello, da una distanza di sicurezza capace di compensare la passione, investire. Non si conosce il nuovo e il futuro che annuncia senza riconoscervi quello che è stato e l’ha preparato: se no, si soccomberà al cattivo vecchio o al cattivo nuovo o a tutt’e due.
    Emanuele ha avuto tante date in cui scrivere la propria autobiografia, e riscriverla a ogni ulteriore tempo supplementare – “Io tutti i giorni scrivo qualcosa”, del resto. Ha potuto rivendicare di non esser mancato a nessuno dei funerali di coraggiosi combattenti uccisi dalla mafia dopo il primo anniversario di Portella della Ginestra, 1947. Ho appena riascoltato il suo discorso del 1° maggio 2019: “Compagni che siete morti qui, non vi abbiamo dimenticati”. Ha raccontato di sé poco più che ventenne, col peso della responsabilità della Cgil per l’intera Sicilia, quando gli operai occupavano il Cantiere di Palermo per 40 giorni e avevano di fronte la mafia delle assunzioni, quando gli zolfatari scioperavano per 60 giorni e i piccoli commercianti dei paesi facevano loro credito, e ha chiesto: come credete che potessi dormire in quelle notti? In quelle lotte in cui “si diventava uomini”, e questo resta, resta attraverso e oltre tutto quello che mi è successo dopo, la segreteria del Pci con Togliatti, deputato, senatore, direttore di giornali… “Questo resta”: nella vita di ciascuno resta, accanto al suo proprio passato, quello dei suoi simili e delle sue madri e dei suoi padri, quello che di loro ha scelto per sé, per fargli luce lungo la strada.
    Caduti, grazie al cielo, i muri, c’è stata una corsa a farsi tutti nuovi. A sentire imbarazzo o fastidio per il passato. A trovare grossolana la distinzione politica fra sinistra e destra – la differenza pratica imperversava. A dire Vaffanculo, “ed ebbe il premio”. Emanuele è stato del Pci, è stato esemplare di un modo di essere comunista – ci furono modi pessimi, infatti. E’ stato libero, cordiale, nemico del bigottismo, è andato in galera per quello, e per amore. Ha amato la giustizia, odiato l’iniquità, anche quella che usurpa il nome di giustizia. E’ stato leale e fedele all’amicizia, e generoso con gli avversari. E’ morto due giorni prima del centenario del Congresso di Livorno da cui nacque il PCd’I, poco da celebrare, se non per le conseguenze allora imprevedibili cui anche lui appartenne. Ha avuto tanti veri amici, sono stato per tanto tempo uno di loro, è stato bello. Avevo una consuetudine con la piazza di Testaccio in cui abitava una bambina cara al mio cuore e abitava lui, come in un paese di vecchi e bambini, giornalaio, una libreria, mamme, bottegai. Lo scorso marzo, per il suo compleanno, 96 anni, scrissi dei pini domestici, gli ippocastani e i lecci della piazza. Uno di quei lecci, sopra il chiosco del fioraio, sporge la sua chioma rigogliosa fino ad attraversare la strada, così in alto da passare inosservata al traffico di sotto, e sfiorare i balconcini dei piani alti, dove abitava Emanuele. “Sono forse coetanei, il grande albero e lui. Due querce quasi centenarie, che si salutano in questa strana primavera”. Una se n’è andata, in questo strano inverno.

    (DA Conversazione con Adriano Sofri https: “Emanuele Macaluso, la memoria e la storia”
    //www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=254134682743521&id=100044409730182)

  5. @ Ennio
    Mi accorgo dalla tua lettura del mio commento che le sfumature di grigio che mi sembrava di averci messo non sono risultate chiare. Ad esempio, constatavo la differenza sostanziale fra Rostagno e Tronti, ma non mi sembrava di aver dato un particolare giudizio positivo su Rostagno. Se tu invece ce lo leggi, il fatto non mi disturba, ma la mia intenzione era solo quella di notare una differenza. Del resto quella stagione di marxismo libertario di Rostagno è durata poco perché questo personaggio, che sicuramente ha avuto diversi meriti, è stato anche zigzagante fra esperienze molto diverse che vanno dal marxismo, alle suggestioni filosofiche e religiose orientali, alla lotta giornalistica di impegno democratico contro la mafia, ma senza particolari contenuti “marxisti”.
    Non do un giudizio negativo complessivo su Tronti come militante e come studioso, ci mancherebbe altro. E nemmeno sulle esperienze e le ricerche sull’autonomia operaia, ma osservo che c’era alla base un errore di fondo che “inevitabilmente” (sì, per me era inevitabile, anche se allora non me n’ero ancora accorto) avrebbe portato alle conseguenze che ho accennato: sconfitta e ritorno all’interno della politica tradizionale che allora era criticata come “borghese”. Se oggi gli eredi del Pci, sia il Pd sia i partiti parlamentari a “sinistra” del Pd, sono alleati con il M5S e appoggiano, come capo del governo, un politico improvvisato, “cinico e baro” come Giuseppe Conte, ha pure un qualche significato, a cento anni dalla scissione di Livorno.
    Il caso di Emanuele Macaluso, fra i tantissimi nomi di militanti e dirigenti del Pci di cui si potrebbe fare un elenco in più volumi, è esemplare. Persona e politico degno di rispetto, di stima e di lode per tanti motivi, ma anche, ed è una sua stessa conclusione autobiografica, in definitiva perdente. Vincente solo su un piano “borghese”: aver contribuito, con il Pci togliattiano, all’allargamento della democrazia in Italia, ma di una “democrazia” che metterei fra virgolette, perché la “democrazia” del Pd e di Giuseppe Conte ne è l’erede. Anche in questo caso, luci ed ombre di una lunghissima vita di militante, con più luci a favore dell’impegno personale e più ombre sull’efficacia e correttezza politica di quell’impegno in senso “rivoluzionario” o comunque innovativo.
    Si poteva fare altro e di meglio? Forse no e forse sì. Mi limito ad osservare che, storicamente, la linea Marx-Engels-Lenin-Stalin- Mao ha avuto, fin dal suo inizio, fin da prima e dopo il 1848, delle alternative che il marxismo ha rigettato e che oggi, alla luce di 170 anni di storia del marxismo, sarebbero invece da considerare. Negli anni Sessanta e Settanta in Italia l’alternativa ha avuto qualche voce nell’ambito delle correnti libertarie del Psi e del Partito radicale, aspramente criticate dal Pci e dalla sinistra “extraparlamentare” (su posizioni, a mio parere, di pura conservazione e di chiusura a un autentico dibattito di rifondazione della sinistra). Tali correnti sono rimaste presto soffocate dalle critiche di sinistra e dalla strumentalizzazione craxiana (ad esempio, ricordo le polemiche sulla contrapposizione di P.J. Proudhon a Marx). In sostanza, in quegli anni, nessuno ha preso in seria considerazione le proposte alternative sia alla “democrazia borghese” sia alla “rivoluzione proletaria”, eppure quelle proposte hanno radici lunghissime che partono dai primi movimenti operai di fine Settecento e una storia che non si è mai confusa con il pensiero e le prassi del marxismo. E che, più del marxismo, ha dato un grosso contributo non alla propria realizzazione, cioè alla realizzazione del socialismo e/o del comunismo, ma alla realizzazione di una “democrazia borghese” un po’ più democratica ed egualitaria, sfociando (e perdendosi) nella socialdemocrazia dei Paesi del Nord Europa.
    Significativo è anche il caso di Antonio Labriola, che tu sollevi con una tua segnalazione. Uno dei tanti marxisti della generazione successiva a quella di Marx che hanno preso atto che due pretese del marxismo erano in realtà errate o comunque incerte: che il marxismo fosse una scienza e che la rivoluzione fosse una conseguenza determinata, e deterministica, dello sviluppo del capitalismo. Passando attraverso Hegel ed Herbart Labriola arriva al marxismo inteso come filosofia generale capace di spiegare molti fatti sociali, fra cui i rapporti fra economia come struttura e il resto come sovrastruttura. Ma a differenza del Marx del 1859 e più in sintonia con l’Engels del 1890 (e con diversi marxisti tedeschi) ritiene che il rapporto fra struttura e sovrastruttura non è deterministico, ma da prendere solo come uno dei criteri di interpretazione storica. Ma cadendo (in seguito al complesso di critiche elaborate da vari punti di vista su concetti e dottrine fondamentali del marxismo, come il valore-lavoro, le leggi sul profitto, quelle sulla formazione dei prezzi ecc.) il preteso fondamento scientifico della rivoluzione, questa torna ad essere, e fondarsi, come istanza morale, istanza politica, atto della volontà organizzatrice e riformatrice. Non più necessità storica determinata dai fatti. In ciò Labriola è un anello di passaggio, in Italia, fra il marxismo ortodosso e deterministico da un lato e lo pseudo marxismo di economisti e teorici come Achille Loria, e il marxismo di Gramsci, che risente maggiormente dell’idealismo hegeliano e del volontarismo di gran parte del marxismo della Seconda Internazionale, ma però attenendosi alla lezione di rigoroso studio teorico e politico di Labriola, che così riscattava il marxismo dalle chiacchiere pseudomarxiste di tanti socialisti del suo tempo.
    Con Lenin e con la ripresa di Lenin da parte della sinistra radicale degli anni Settanta si ritorna invece al Marx ortodosso, ma questa è naturalmente una pretesa filologicamente infondata perché Lenin, o Curcio o Tronti o Negri o chiunque altro, non sono affatto marxisti ortodossi, ma tornano a Marx per fondare una dottrina della rivoluzione che contiene una serie di elementi che il marxismo della Seconda Internazionale aveva già superato. Un ritorno “innovativo” che era in realtà “conservativo”, errato e destinato al fallimento, come in genere sono errati i ritorni alle origini, si tratti di politica o di religione o di scienza o di filosofia. Anziché andare oltre Marx, in senso letterale ed effettivo, si torna a Marx per darne nuove interpretazioni che sono varianti delle vecchie. Operazioni lecite sul piano degli studi esegetici, storici e interpretativi, ma fallimentari sul piano della strategia politica.
    Non posso rispondere una a una alle molte osservazioni che fai al mio commento, perché richiederebbe troppo tempo e troppo spazio. Il lettore che conosce l’argomento è comunque in grado di capire da solo il senso delle mie e delle tue posizioni.
    Mi limito a rilevare e discutere una sola frase, quella dove si afferma il «concetto marxista che vede il conflitto insanabile tra Lavoro e Capitale», ripetuta poi in quella che afferma la «contrapposizione (marxiana) tra Lavoro e Capitale».
    Ma c’è davvero una contrapposizione fra “Lavoro e Capitale” (scritti con la maiuscola)? O non piuttosto una contrapposizione fra rapporti giuridici e sociali fra gruppi di persone e fra diversi modi di gestione politica dei rapporti fra “lavoro e capitale”?
    Non è la stessa cosa. Se si pone la nozione (filosofica e antropologica più che economica e politica) di contrapposizione fra “lavoro e capitale” si arriva, come in effetti alcuni marxisti sono arrivati, a considerare valida la contrapposizione anche quando il lavoro e il capitale risiedono nella stessa persona, ad esempio un artigiano proprietario dei suoi mezzi di produzione. In questo caso si arriva all’assurdo di dire che l’artigiano come capitalista è lo sfruttatore di se stesso come operaio. Può andar bene come cavillo filosofico in un linguaggio pseudo hegeliano, ma non certo sul piano economico, sociale e politico.
    L’artigiano può essere, sì, sfruttato, ma quando lo è, e capita spesso, lo è più per ragioni politiche che economiche, ragioni politiche che determinano anche rapporti di forza fra i gruppi sociali (gruppi, più che classi, perché “gruppo” è un concetto descrittivo, sociologico, mentre “classe” in senso marxiano è un concetto valutativo, filosofico).
    L’affermazione «il conflitto insanabile tra Lavoro e Capitale» porta ad una politica “anticapitalistica”, che è ben difficile capire di che si tratta visto che i suoi teorici non sono mai scesi in particolari e che non ne abbiamo nessun esempio pratico, ma anzi abbiamo numerosi esempi del contrario, cioè di “anticapitalisti” che, una volta andati al potere, si sono ben guardati dall’abolire il capitalismo, cosa del resto impossibile salvo che non si voglia tornare alle società primitive di mero autoconsumo e stretta sopravvivenza.
    Nella realtà tutte le politiche “anticapitaliste” hanno prodotto programmi di riforma del “capitalismo”, cioè di riforma delle forme di gestione politica dell’economia capitalistica, che spaziano da quelle della privatizzazione più ampia, dove imprenditori e operai, datori di lavoro e dipendenti, sono privati e il rapporto è regolato dal codice civile, a quelle della statalizzazione più ampia, dove “imprenditori” (manager, dirigenti) e operai sono dipendenti dello Stato e lo Stato è l’unico vero imprenditore e datore di lavoro e i rapporti economici diventano materia del diritto pubblico e amministrativo. Ma fra capitalismo privato e capitalismo di Stato c’è una bella differenza, ma non c’è affatto la soppressione del capitale. E l’esperienza storica ci mostra che raramente il capitalismo di Stato garantisce condizioni di vita migliori, sia in termini economici e di possibilità e varietà di risorse, sia in termini di libertà e di diritti personali e politici.
    Il punto di vista che pone l’attenzione non sull’«anticapitalismo», ma sulla riforma del “capitalismo”, porta invece a strategie politiche più attente alla realtà effettiva, sia nella versione “borghese” e “democratica” di “sinistra” (ad esempio quella del radicale Ernesto Rossi), che sa distinguere fra imprenditori che producono ricchezza e benessere per la collettività e imprenditori che agiscono in modo speculativo e predatorio, sottraendo ricchezza e benessere alla collettività. Insomma, sanno distinguere fra un Adriano Olivetti e un finanziere d’assalto qualunque. Mentre i “rivoluzionari” leninisti considerano comunque negativo, comunque nemico, anche un Olivetti (che, detto fra parentesi, è stato anche il teorico di un comunismo federativo alternativo al comunismo marxista).
    Sia – continuando – nella versione del comunismo libertario, basato sull’auto organizzazione cooperativistica della produzione dove i mezzi di produzione restano privati ma di proprietà comune indivisibile, non di proprietà individuale.
    L’istituto giuridico della proprietà comune indivisibile è del resto antico e qualche traccia si è mantenuta ancora oggi, sebbene le estese proprietà comuni (le “universitas” di natura economica), soprattutto nel settore della gestione di boschi e pascoli e di terreni agricoli (com’è naturale, riferendosi a società preindustriali) siano state progressivamente smantellate, prima trasformandole in proprietà demaniali (statali o comunali) e poi svendendole a singoli privati speculatori, nel periodo giacobino e via via in quelli dei vari regimi che si sono succeduti, comprese le giunte del Pci in vari comuni, negli anni Sessanta e Settanta, che hanno svenduto e privatizzato i beni comuni (soprattutto fondi agrari e proprietà immobiliari) di varie istituzioni di beneficenza di antica origine. Ecco un esempio (il Pci di quegli anni, di quelle giunte comunali, di quelle privatizzazioni, di quelle riforme agrarie) di politica in teoria “anticapitalista” e in pratica di promozione del capitalismo privato e spesso speculativo.
    Problemi, questi, di cui la sinistra extraparlamentare non si è mai davvero interessata considerando comunque le battaglie per la cooperazione delle battaglie di retroguardia. Ma purtroppo le “battaglie di avanguardia” non ci hanno portati più avanti e la sinistra delle “battaglie di avanguardia” ha via via spostato la soglia che divide l’avanguardia dalla retroguardia ed è arrivata, oggi, ad avere posizioni che cinquant’anni fa definiva di “marcia, conservatrice e reazionaria politica borghese”, mentre il capitalismo, privato o di Stato (e in Italia ce n’è tanto di capitalismo di Stato, oltre il 50% complessivo delle attività economiche), è diventato sempre più un capitalismo parassitario e predatorio e sempre meno un capitalismo virtuoso di produzione e distribuzione di ricchezza.

  6. Noi rispetto alle macerie comuniste?

    AL VOLO/SUGGESTIONI DA UN ARTICOLO SULLA POESIA DI PAUL CELAN

    Stralcio:

    D’altronde, le macerie urbane sono rimaste esposte nelle città di mezza Europa per molti anni dopo la guerra (come si nota vedendole non solo sovraesposte in Germania anno zero di Rossellini, del 1948, ma anche nelle scene di The Third Man di Carol Reed, del 1949) e in alcuni casi durano tutt’ora, per non spezzare il filo del ricordo (come a Oradour-sur-Glane, o nella Frauenkirche di Dresda); queste macerie sono state e risultano tuttora tracce difficili da smaltire e impossibili da occultare. Pertanto, la lingua che dice la realtà – quella di Celan è, difatti, una poesia wirklichkeitbezüglich, referenziale alla realtà – non può che essere una lingua “rovinata” dopo il 1945, irta di quelle macerie che la guerra ha provocato ma che nessun altro, al di fuori del poeta, avrebbe potuto o ha voluto ricomporre: «Sulle proprie macerie sta e spera la poesia [Auf den eigenen Trümmern steth und hofft das Gedicht]», aveva scritto Celan nel 1961. Ecco la sua poesia, ecco il suo gesto.

    ( da Il testimone barbaro. Paul Paulus Celan e le parole per l’assemblea di TOMMASO GENNARO
    https://antinomie.it/index.php/2021/01/16/il-testimone-barbaro-paul-paulus-celan-e-le-parole-per-lassemblea/)

  7. Prendendo lo spunto dal pensiero di questo teorico del comunismo scrivo una paginetta di prosa come contraltare.
    Verso i trent’anni d’età accettai di fare da segretario all’Accademia Pugilistica ‘Vita’ (dal nome del suo fondatore Vita Balilla, romano), dietro richiesta di un amico ex-pugile, che me lo domandò come un favore. Dopo dieci anni che praticavo judo mi ero fratturato, per una brutta caduta, un dito medio, e non potevo più tenere stretto l’avversario nella lotta a terra. Così accettai, in cambio della frequentazione gratuita della palestra. Fui bene accolto, e feci amicizia con pugili dilettanti, più o meno giovani, coi quali ben presto imparai a incrociare i guanti (ma fisicamente ero ben attrezzato perché, vivendo in una città attraversata da un fiume e vicina a un grande lago praticavo, oltre al judo, canoa e vela; esperienza quest’ultima che raccontai nel romanzo ‘Fragili i colori della vita’, edito da Cierre Edizioni nel 2010).
    Gli atleti erano studenti e, per la maggior parte, giovani operai (alcuni delle Officine Meccaniche Galtarossa, o ferrovieri), o di altri mestieri. Essendoci attorno all’attività della palestra una certa vita sociale ebbi modo di conoscere la situazione di questi lavoratori (io ero insegnante precario iscritto alla CGIL). Cosa chiedevano questi operai, anch’essi iscritti per la maggior parte alla CGIL? Dai loro discorsi appresi che lottavano per una riduzione dell’orario di lavoro, principalmente in relazione alla pesantezza e alle conseguenze usuranti di certe attività (in specie quelli che lavoravano agli altiforni); maggiori garanzie riguardo alla sicurezza sul lavoro e nella prospettiva di future malattie professionali; inevitabilmente, un aumento di salario e varie richieste accessorie. Mi sentivo un privilegiato nei loro confronti ed evitavo di parlare del mio lavoro per non scavare un solco fra di noi. Non guardavano nemmeno di buon occhio gli attivisti comunisti che spesso andavano a fare volantinaggio davanti alla fabbrica. In fondo, il posto di lavoro era una garanzia di vita e gli permetteva di cercarsi una ragazza per progettare un futuro (nella prima metà del Novecento, invece, tanti operai avevano aderito al socialismo rivoluzionario, vedi il biennio rosso, guidati da attivisti idealisti; ma adesso i tempi erano cambiati).
    La società dei consumi accentuò il divario fra di loro, parte di questi rivoluzionari comunisti confluì nella lotta armata; altri, più borghesemente, divennero ‘accademici’, vale a dire che si dedicarono a rigirare la frittata della teoria marxista. Ma anche tanti operai si evolsero, diventando dapprima piccoli imprenditori (con imprese familiari) e poi medi, costruendo quel tessuto economico-sociale che tanta ricchezza creò nel nord-est, assieme al settore primario (anch’ esso imprenditoriale ), dei servizi, del turismo ecc.
    Oggi, cosa è rimasto di tutto questo, dopo una forte crisi economica per cui l’Italia da quinta potenza industriale è diventata fanalino di coda dell’Europa, e con l’attuale aggravante della pandemia? La situazione è sotto gli occhi di tutti, e rischia di andare peggiorando. Al presente, al di là degli arcinoti problemi endemici del paese (burocrazia, giustizia, mafia ecc.), una politica strabica non sostiene adeguatamente le imprese, a tutti i livelli, che sono quelle che creano la ricchezza, così come i cantieri delle grandi opere, privilegiando una politica assistenziale che sarebbe condivisibile, perché necessaria, solo a determinate condizioni.
    A livello sociale, la stessa politica non tutela economicamente e strutturalmente la famiglia, che ne è il tessuto connettivo e di sostegno, il futuro delle nuove generazioni.
    Il dilettantismo unito all’opportunismo sta facendo il resto…

    1. “Oggi, cosa è rimasto di tutto questo, dopo una forte crisi economica per cui l’Italia da quinta potenza industriale è diventata fanalino di coda dell’Europa, e con l’attuale aggravante della pandemia? La situazione è sotto gli occhi di tutti, e rischia di andare peggiorando. Al presente, al di là degli arcinoti problemi endemici del paese (burocrazia, giustizia, mafia ecc.), una politica strabica non sostiene adeguatamente le imprese, a tutti i livelli, che sono quelle che creano la ricchezza, così come i cantieri delle grandi opere, privilegiando una politica assistenziale che sarebbe condivisibile, perché necessaria, solo a determinate condizioni.
      A livello sociale, la stessa politica non tutela economicamente e strutturalmente la famiglia, che ne è il tessuto connettivo e di sostegno, il futuro delle nuove generazioni.
      Il dilettantismo unito all’opportunismo sta facendo il resto…” ( Casati)

      D’accordo. Ma il problema è: come se ne esce? che fare? che possiamo fare “noi”?
      Guardiamoci dentro, guardiamoci attorno e proponiamo qualcosa ( a noi stessi, singolarmente intesi, o ad altri, da definire socialmente e politicamente).

  8. SEGNALAZIONE/ UNA CRITICA AL LIBRO DI MARIO TRONTI, IL POPOLO PERDUTO (2019)

    Mario Tronti, “Il popolo perduto” di Alessandro Visalli
    http://tempofertile.blogspot.com/2019/08/mario-tronti-il-popolo-perduto.html

    Stralci:

    1.
    il libro non intende affatto combattere il ‘sovranismo’, ma assumerlo. Non vuole dissolvere la “nazione”, ma potenziarla. Certo vede un rischio nelle nazioni che ci sono, e vede un rischio nel sovranismo che c’è. Ma Tronti è un vecchio comunista (assai pervertito) e si colloca ancora nella parte “eurocomunista” della barricata e quindi ritiene che hegelianamente il potere debba costituirsi in un punto, che lo Stato sia questo punto, e che senza ciò non ci sia.

    2.
    Una simile concezione, insieme alla svalutazione delle forme democratiche “non rappresentative” (tacciate, così, semplicemente di “reazionarismo”), conduce a pensare che solo uno Stato europeo possa incarnare l’ideale. In modo assolutamente controfattuale, anzi, gli ‘piace pensare’ che questo sia lo scopo del progetto europeo, girato in dominio dell’economico solo per difetto di pensiero (quando è invece per concretezza di forze e di obiettivi, che non sono mai stati e non sono tuttora, ed affatto, statuali).

    3.
    Tronti è, insomma, prigioniero dei suoi sogni. E vede il progetto europeo per quel che non è, e non può né vuole essere: un progetto incompleto verso un superstato imperialmente dominante. Il progetto europeo è piuttosto una strana, ma concreta, struttura multiobiettivo egemonizzata dalle forze concrete del grande capitale, prima industriale e poi finanziario, europeo e statunitense. Viene montato, un pezzo alla volta, a furia di compromessi faticosi, per garantire il dominio di questo sulle forze che gli resistono, quelle popolari in primis. Esso è colonizzato dalle volontà di potenza imperiali e fatto strumento del dominio dei paesi più forti, ovvero delle coalizioni sociali dirette al controllo esterno e connesse con il capitale capace di proiezione e la sua logica (proteggere i propri investimenti, garantire i crediti, occupare i mercati, acquisire il controllo dei concorrenti).

    4.
    Coalizioni sociali che sono trasversalmente connesse internazionalmente, si pensano con esercizio di falsa coscienza come ‘cosmopolite’, e dominano attraverso una rete di agenti che per questo si costituiscono ovunque in ‘borghesia’ (‘compradora’). Il progetto europeo realmente esistente, che è quanto più lontano si possa immaginare dai sogni della sinistra, alla quale Mario Tronti dimostra di appartenere in pieno, non vuole e non può diventare uno Stato, perché se lo facesse dovrebbe assumersi la responsabilità e pagare il prezzo dei costi di protezione. Esso è perfetto in sé e concluso, può al massimo estendere ancora il controllo senza responsabilità. Ovvero, in termini gramsciani il dominio senza direzione.

    5.
    Il comando politico dei processi, di cui parla Tronti, attrarrà dunque pure l’odio dei popoli, ma non per “spezzare il particolarismi e le singolarità”, come avrebbe fatto Richelieu secondo Hegel, bensì proprio per affermarlo. Qui c’è il centro dell’equivoco nel quale cade il nostro, la trappola nella quale decenni fa cadde la sinistra, catturata dal suo illuminismo nel sogno di un processo di asservimento fantasmaticamente visto come liberazione. Una cosa dall’insondabile profondità onirica (probabilmente effetto del trauma della sconfitta e del vuoto conseguente).

    6.
    Resta il fatto che sulla base di questa decisione, di opporre “ai sovranisti nazionali anti europei un sovranismo europeo” il cerchio si chiude. Il senatore Tronti può, a questo punto, rubricare tutto ciò che si oppone a questa prospettiva, ogni segmentazione (persino dove sarebbe l’esempio di Stato-continente per antonomasia) come arretramento, come indietreggiamento. Come nazionalismo, isolazionismo, razzismo. Come cose “sporche”.
    Su questa base, anzi, viene ripreso tutto l’armamentario dell’imperialismo più vieto. Si può arrivare all’inaudito di scrivere cose come: “l’elezione di Trump è stata un passaggio traumatico per la ragione del mondo che viene dall’occidente”. Tanto si perdona ai vecchi, ma la ragione del mondo che viene dall’occidente gronda sangue e urla delle vittime, se l’occidente ha come unico destino di pensarsi come Ragione dell’intero mondo e per questo deve unificarsi, allo scopo di imporla, tenendo aperte le linee, travolgendo le resistenze, costringendo chi ne ha un’altra, meno ragionevole, evidentemente, allora è bene tramonti.

    7.
    Io ho ben altra idea dell’occidente, e di ben altre ragioni è ricco il mondo per me.

    Sarà magari perché sono “sovranista” (anche se non so cosa questa parola significhi), senza per questo essere meno “internazionalista” (non si può, ed affatto, essere internazionalista, mi spiace per Tronti, se si persegue un progetto imperiale di potenza, si può esserlo solo se si riconosce la pluralità delle ragioni e delle forme di vita e gli si attribuisce pari rispetto e diritto alla autodeterminazione, se per questa autodeterminazione si è disponibili a combattere, e se si è disponibili a fermarsi).

    8.
    Certo, la mia Heimat culturale non è nella mitteleuropa (p.46) e non sono, proprio per nulla, “un teorico della forza” (p.118), mio padre non aveva il ritratto di Stalin e mia madre non aveva quello del Sacro Cuore di Gesù, non ho neppure novanta anni. Probabilmente per questo vedo ‘ragioni’ dove lui vede ‘La Ragione’, vedo ‘stati sovrani e nazioni’, dove lui vede ‘un solo potere’ fatto per dominare, vedo molte cose “sporche”, ma le vedo altrove (non del tutto, naturalmente, lo vedo anche nel nazionalismo, ma esso non promana necessariamente dalla nazione sovrana e democratica).

    9.
    Tronti vede la necessità “oggettiva” di superare la struttura storica statuale e vede Stati-continente (non so in che pianeta) entrare in campo. E quindi vede che l’Europa deve salire a questa “altezza di presenza nel mondo”. Per farlo dovrebbe aprirsi ad oriente, alla Russia ed alla Cina, contro gli Usa, beninteso (un discorso manifestamente folle, ma del resto commentato con l’esergo di La Rouchefoucauld: “Chi vive senza follia non è così saggio come crede”, p.50).

    10.
    Quando gli storici delle idee, tra un secolo, rileggeranno questa letteratura si interrogheranno sullo scontato che emerge, potente, da questi letterali “non veri”. Cioè questo sapere tacito che fa scambiare l’estensione di una rete di accordi commerciali (il Nafta, l’Ansean, …) per forme statuali, o per il loro fantasma. E le translitterazioni che portano, sullo sfondo di un destino morale autoattribuito, a postulare processi, fondandoli su una evidenza essa stessa fantasmatica.

    11.
    C’è poi l’interessante capitolo che legge la situazione italiana, contrastando la demonizzazione della prima Repubblica e segnalando nel caso italiano la fuga del popolo della sinistra, la distruzione della classe operaia, l’errore della “questione morale” (p.57), il ’68 che fu un moto positivo di liberazione inficiato da un’eccessiva declinazione libertaria, incapace di distinguere tra potere e autorità. E quindi l’inoculazione dell’antipolitica.
    Cenni biografici allo sforzo personale per liberarsi (ma credo non abbastanza) dell’oggettivismo della tradizione marxista e la critica del ceto politico post-comunista almeno a partire dalla morte di Berlinguer (anche se tutto si può retrodatare, personalmente risalirei almeno al compromesso storico). Sta di fatto che ormai riconosce essere giunti ad “una sinistra di benestanti e una destra di nullatenenti” (p.72), al centro che vota sinistra e le periferie destra (p.76). Questa costatazione è un “dramma”, ma non sufficiente a ridurre i miti di una vita (pur avendo allineato, in effetti, tutte le ragioni per farlo, ma sconnesse). Anche se è meritoriamente sufficiente a riconoscere che “sul banco degli imputati va messa la sinistra dei diritti, o meglio, dei soli diritti”.

    12.
    Di fatto l’autore mostra subito, in questa stessa costatazione, il suo profondo elitismo nel momento in cui sa solo dire che “la rilegittimazione della politica passa attraverso la restaurazione di un rapporto di fiducia tra il basso e l’alto, tra popolo ed élite”. Io direi che la politica, casomai, può rilegittimarsi quando sapesse essere basso, essere popolo, e da questo fare l’alto, da questo le élite. Quando non dalle due gambe del conflitto e della mediazione partisse, ma dal primo (certo al fine arrivando anche alla seconda, ma partire dalla seconda conduce necessariamente al “compromesso storico”, che poi è semplicemente alla dipendenza).

    13.
    Ma il problema vero è, come scrive verso la fine, che c’è ormai solo una minoranza, in Italia 25 milioni su 60, che opera davvero nel mercato del lavoro. Questa “Prima società”, garantita e talvolta ad alto reddito, interconnessa direttamente o indirettamente con i flussi vincenti, vede giustapporsi una “Seconda società” del rischio, parzialmente sovrapposta, formata dai lavoratori più esposti perché subiscono forme contrattuali senza garanzie, o lavorano per aziende senza garanzia di sopravvivenza, esposte al mercato interno e senza possibilità di accedere alle innovazioni ed alle condizioni per affacciarsi sui mercati esteri, di stare in campo in essi godendo del dinamismo della corsa nei prati del capitalismo di predazione. Con le due “società” si addensa, in fondo una “Terza”, degli esclusi, degli invisibili, del nero, dei giovani, dei Neet, quasi un terzo degli italiani.

    14.
    Se questo è vero bisogna essere “sul posto”. Dove c’è stato “un arretramento politico di popolo. Lucidamente, occorre arretrare insieme ad esso, nella sensibilità ai bisogni e nella proposta dei rimedi. […] un passo indietro, due avanti. […] salire con il pensiero e scendere con l’azione […] nello specifico: sapere dove sta il popolo, e andare lì a riprenderlo da dove sta per farlo avanzare. Indicando quale è il nemico da combattere.” (p.109) Bisogna praticare la capacità di “pensare estremo ed agire accorto”.

    15.
    Allora che fare?
    All’avvio dell’ultimo paragrafo l’intervistatore chiede come mai non sia stato ancora evocato il “pensiero e la pratica in sé capaci di scardinare l’ordine costituito”, l’onnipresente, nei discorsi della sinistra, pensiero femminista della differenza. A questa provocazione Tronti risponde che nutre dubbi su questa capacità, ma che si tratta di un tema essenziale. Quello “della differenza”, con il suo lessico specifico e le sue regole è un pensiero “aggressivo” e radicale che parte negli anni settanta ed ottanta (ovvero quando la sinistra socialista declina), ma ha una matrice nel ’68. In questa accezione dichiara di essersene innamorato nella frequentazione della “Libreria delle donne” di Milano e di “Diotima” di Verona, giovandosi del confronto con Ida Dominijanni, con il superamento dell’emancipazionismo in favore della differenza. Del “due” al posto dell’ “uno”. Si tratta di un pensiero forte che dichiara il superamento della dialettica, restano “tesi” ed “antitesi” (Carla Lonzi).
    Dopo questo omaggio rituale ricorda però come il suo ‘pensiero della forza’ ha finito per andare in linea di conflitto con la ricerca femminista di “un nuovo modo di fare politica” come relazione, ed ha finito per sembrare ai loro orecchi come “maschile”. Il maschile identificato come delirio di onnipotenza (cosa che non è).
    Qui il dialogo si è interrotto.

    16.
    Poi c’è da valutare il movimento ambientalista, ma qui non c’è innamoramento. Al Tronti, che confessa di essere un pensatore “intuitivo” di avere un “modo di pensare intuitivo”, che si fonda sul cuore ed il corpo, oltre la ragione, e che cerca di mettere in concetto intuizioni, resta una convinzione: “che si è ambientalisti, tanto più radicalmente ambientalisti, da un certo reddito in su”. Non è una intuizione infondata (anche perché è una osservazione), come quella sullo Stato-continente, chi sta lottando non ha tempo per queste cose. Dunque seguire queste istanze, necessarie, è compito della decisionalità politica, del comando, non dei movimenti, che sono sempre volatili, non garantiscono la continuità, la durata, non si radicali nella realtà di popolo. I movimenti, dice, sono “come un lavoro precario che deve essere stabilizzato”, e per farlo ci vuole la forma organizzata del Partito.

    17.
    Questa, vista dal lato di un “teorico della forza”, è una classica discussione del movimento operaio, quella tra spontaneismo e organizzazione. Ma una polarità, quella tra il ‘vero popolo’ e le ‘vere élite’, che si deve prendere ‘dall’alto’, cominciando dal rifare Stato e Partito. Ovvero partendo dalla necessità di sconfiggere la pulsione del rapporto diretto tra “massa” e “capo”, e dunque ricostruendo i corpi intermedi, che promuovano soggettività capaci di azione. Solo in questo modo, alla fine, sarà possibile rifare il popolo.

    Tante cose andrebbero però superate, per riuscirci, ed una è quella pulsione ignorante della sinistra a mettere in campo qualsiasi contraddizione, purché non sia “di sistema”. Purché sia di fase e a condizione che sia sullo stesso piano, “ora l’una ora l’altra, a seconda del momento”, una sommata all’altra. La tentazione comoda di dimenticare che “invece c’è una contraddizione centrale, di fondo, a cui tutte le altre devono in qualche modo sempre riferirsi: ed è la centralità del conflitto di lavoro” (p.131). Lo stesso “popolo” in effetti si costituisce se si connette al lavoro (siamo abbastanza lontani da Laclau).

    18.
    Poi il nostro “teorico della forza” chiude spiegando che personalmente è sempre stato dentro il corpaccione grande del Partito (Comunista prima, e poi Democratico della Sinistra, PD infine) perché è vaccinato dalla “malattia minoritaria”. Se, infatti, l’importante è la forza, l’esercito che puoi manovrare nella guerra, allora deve recedere la politica come testimonianza, convinzione di essere nel giusto, che alla fine il bene prevarrà sull’ingiusto male.

    E’ questo, per Tronti, che ha portato la sinistra a perdere se stessa: l’incapacità di sentirsi ancora parte di una collettività nella quale si supera se stessi e nella quale ci si emancipa dal senso comune, dalla tiranna del presente, si impara lo spirito critico ed il “civile sovversivismo”. Una collettività che non si deve, a sua volta, separare, ma che deve tornare capace, nella politica, di “reincarnarsi nel vivere quotidiano delle persone semplici”.

    Di fare finalmente i conti con la sua caduta, dalle speranze evocate nella sua storia, e la superi.

    Ma ci vorrebbe ben altro, e più coraggio.

  9. SEGNALAZIONE/ ALTRE PROPOSTE (NON COMUNISTE MA AMBIENTALISTE) DI “CHE FARE”/ LATOUR

    Dinanzi a tale concorso di colpe, tuttavia, come anche notano i suoi detrattori, l’attenzione di Latour non si accentra sugli interessi e le scelte di chi promuove l’omogeneità multiscala del globale e del locale. L’urgenza che egli sottolinea, piuttosto, è quella di un rapido e deciso riorientamento verso la Terra. Di nuovo, egli torna sul perverso isolamento della natura come l’ambito dei fatti bruti. A suo avviso, occorre riportare l’attenzione dalla “natura” al Terrestre tramite una riarticolazione della vita umana sulla Terra, che parta dall’analisi dei “sistemi generativi” e non dei “sistemi produttivi”. L’analisi dei sistemi generativi non esalta la libertà, ma la dipendenza, e lo fa in modo da favorire una redistribuzione dell’agency che dislochi l’umano – non più centro né cardine della vita terrestre. Il sistema generativo di cui parla Latour ricomprende la congerie di attori esaltata nella sua metafisica e di cui al contempo si rifiuta di fornire una lista predefinita. Il Nuovo Regime Climatico priva una volta per tutte l’umano della sua (autoassegnata) centralità e getta una nuova luce sulle composizioni e le configurazioni cui l’umano dà luogo insieme al non-umano.

    In questo movimento verso la Terra, l’umano trova un nuovo orientamento: bisogna capire quali siano i rapporti di dipendenza che consentono la vita terrestre e quindi possano correggere la rotta verso il disastro. Non c’è nessuna ricetta globale, ma solo sperimentazioni locali, che aprano a concatenamenti più ampi e meno autocentrati. Nessuna globalità né località assolute, ma solo l’embricazione di nodi, ottenuta attraverso una nuova attitudine alla ricerca degli enti che compongono il mondo: “È esattamente ciò di cui c’è bisogno: una sperimentazione locale di ciò che significa abitare una terra dopo la modernizzazione, insieme a coloro che la modernizzazione ha definitivamente spostato”[12].

    Come si accennava sopra, anche nel caso di Tracciare la rotta le indicazioni pratiche sono distribuite sotto forma dei consueti tropi, mentre l’analisi dei “responsabili” della crisi climatica viene affidata alla ricorrente messa al bando della modernità. Eppure, ad avviso di chi scrive, è proprio questa la forza del pensiero di Latour, i cui passaggi meno esaltanti sono piuttosto i timidi eccessi di critica presenti negli ultimi lavori. L’impianto teorico di Latour, infatti, si presta male alla critica (qui intesa nel suo senso più tradizionale di diagnosi e denuncia delle forme meno consapevoli di adesione a certe convinzioni e a certe condotte) e si rivela assai più felice quando chiama alla ricostruzione dei legami che conferiscono identità alle cose. La (giusta e sensata) denuncia di un futuro compromesso dall’adesione scellerata a modi di vita, che non fanno certo l’interesse di chi li adotta, in Latour, cede il passo all’attitudine compositiva, cioè alla ricerca delle connessioni generative – quelle che consentono il massimo della pluralità e garantiscono il minimo dell’esclusione.

    In questa ottica compositiva, di recente Latour ha offerto indicazioni che, sebbene poco definite, non sono affatto prive di rilevanza per un concreto ripensamento della politica contemporanea – di cui la questione climatica non è che una delle articolazioni, benché importante. La sperimentazione locale, infatti, è l’unica che possa “ricomporre” la politica odierna “pezzo per pezzo”[13]. Si dovrà però ripartire da modi nuovi di fare il collettivo, che si calino in formazioni locali, capaci di offrire fermenti innovatori che andranno raccolti in nuovi “cahiers de doléances” – cioè quei registri della Francia prerivoluzionaria in cui, per ciascuno dei tre ordini (clero, nobiltà e terzo stato), si raccoglievano le lamentele e le proposte da presentare al Re. Si dovrà passare attraverso i vari coaguli del sociale cui la politica rappresentativa tradizionale non dà voce, includere la loro prospettiva e desistere dalla pretesa di voler rappresentare un’inconsistente omogeneità del corpo pubblico. Nello scenario attuale, infatti, “non c’è più alcun collettivo stabile capace di assemblarsi da sé per redigere un cahier comune votato all’unanimità”[14]. Si dovrà tornare a una politica deliberatamente frammentata, che della frammentazione sappia fare una virtù, pronta a disfarsi delle astrazioni artificiali della politica tardo-moderna. Tale rinnovato orientamento al locale – che, come l’ontologia latouriana coglie con efficacia, è pur sempre in continuità con le realtà limitrofe e via via con livelli più comprensivi – dovrà guardare ai collettivi ad hoc che si agglutinano attorno a problemi circostanziali e generano normatività allorché producono le risorse per risolverli.

    ( DA Gaia. Sul pensiero di Bruno Latour
    http://www.leparoleelecose.it/?p=40557)

  10. Una volta si diceva “turiamoci il naso e votiamo DC”. Potrebbe valere anche per il centro-destra, senza farsi soverchie illusioni, solo puntando a un temporaneo sollievo, come quello di un corpo malato che si gira sull’altro fianco. Ma capisco che, quanti si collocano a sinistra del PD, data la loro impostazione e coerenza politica, non si rassegnano ad ammettere che possa esserci qualcosa di buono anche a destra, come alternativa.
    Qui le strade divergono, i valori culturali fondanti e quelli politici sono troppo distanti fra loro, e a ciascuno non resta che decidere in libertà, nell’ambito di un sistema democratico, in sofferenza.

    1. @ Casati

      Ammesso che sia una scelta, non dico giusta, ma efficace (quali i risultati in passato?), prima di turarsi il naso si tratta di: 1. analizzare il tipo di puzzo; 2. dimostrare che emani solo dai partiti (per cui il voto potrebbe valere qualcosa) e non da interi pezzi della società (per cui, anche se voti tizio o caio o “destra” o “sinistra”, l’eventuale “buono”. che in teoria ci potrebbe essere o a “destra” o a “sinistra”) non equivale a smuovere, spurgare, bonificare i pezzi di società puzzolenti.

      P.s.

      Proprio ieri leggevo su DOPPIO ZERO un fiacco articolo di Barenghi sul secondo volume di Scurati su Mussolini (https://www.doppiozero.com/materiali/antonio-scurati-m-luomo-della-provvidenza). Una cosa ho trovato che va a pallino per quanto dico:

      L’acme del ventennio non è arrivata ancora, ma già si addensano ombre. Qualcosa più di un presagio è la diversa presenza di Gabriele d’Annunzio, ormai sottrattosi alla politica, e dedito a celebrare sulle rive del lago di Garda le esequie del suo mito personale, fastose e lunghissime. Ma anche Mussolini comincia a essere insidiato dai dubbi. Il 28 ottobre 1929 il Duce, spostata a Palazzo Venezia la sede del governo, è solo nell’immensa Sala del Mappamondo; mentre sceglie il posto dove dovrà essere collocata la sua scrivania è colto dall’umor nero. Il suo presente non potrebbe essere più fulgido, ma il futuro gli appare incerto. Della nazione su cui è arrivato ad imporre un assoluto dominio ha un giudizio negativo.

      «Che puoi farci, domani, con questo scadente materiale umano? Con questo popolo di adulatori e di mugugnatori, di delatori accaniti, diviso tra calunniatori esaltati e calunniati avviliti, con gli avidi faccendieri, con questi famelici servi, con questi infoiati precari del presente assoluto che consumano ogni giorno come se fosse il primo degli ultimi. In vista del domani, servirebbe innanzi tutto una classe dirigente ma, per crearla, bisognerebbe fidarsi degli uomini. E tu non ti fidi. […] Nelle masse hai smesso di credere da anni, ora tocca prepararsi alla delusione delle élite». Dalle pagine di Scurati non mi pare risulti chiaro se si tratta di un moto di estemporanea tetraggine o di un’intima e profonda convinzione, più o meno consapevolmente occultata: o meglio, repressa dalla frenesia attivistica che da sempre infiamma il personaggio, dalla sua sovreccitata, testosteronica brama di comando. Ma al lettore attento non dovrebbe sfuggire che qui Mussolini – o il Mussolini di Scurati, non importa – aveva ragione da vendere. Non c’è come una dittatura per far emergere gli istinti peggiori, negli individui e nei popoli.

  11. Se davvero fosse così, come si afferma in questo brano di letteratura (non di storia e nemmeno di sociologia), che fare?
    «Che puoi farci, domani, con questo scadente materiale umano? Con questo popolo di adulatori e di mugugnatori, di delatori accaniti, diviso tra calunniatori esaltati e calunniati avviliti, con gli avidi faccendieri, con questi famelici servi, con questi infoiati precari del presente assoluto che consumano ogni giorno come se fosse il primo degli ultimi. In vista del domani, servirebbe innanzi tutto una classe dirigente ma, per crearla, bisognerebbe fidarsi degli uomini».
    L’unica cosa che si può fare è elevare la qualità del materiale umano scadente e l’unico modo che nell’esperienza storica abbia funzionato è quello di far emergere il meglio e di suscitare un’emulazione virtuosa in modo che tutti risentano dell’emersione del meglio, secondo le qualità di ognuno. I mezzi per riuscirci sono un profondo cambio di impostazione culturale e quindi di orientamento ideale del “regime” (inteso, questo, nel senso tecnico di conformazione complessiva del Paese determinata dalla sua storia, cultura, ordinamento giuridico e organizzazione politica). Agire su un solo fronte (solo politica, solo economia, solo cultura ecc.) non è sufficiente.
    Ma come investire il «materiale umano» nel suo insieme? Togliendo tutta una serie di mediazioni e distorsioni fra ciò che l’individuo è per le sue qualità e ciò che è per la sua posizione giuridica. In altri termini, eliminare il più possibile l’assistenzialismo parassitario (di basso, di alto e di altissimo livello), mettere ognuno di fronte alle proprie responsabilità non solo in senso etico e politico ma in senso effettivo: chi sbaglia paga (togliendo coperture giuridiche agli errori di negligenza e cattiva volontà e soprattutto eliminando la criminalità di ogni tipo; non devono esistere più persone con a carico fino a cento denunce per furti e truffe e relative condanne eppure fuori dal carcere, per i più svariati motivi, attenuanti ecc., liberi di rubare e truffare ancora).
    Ognuno, di fronte alla responsabilità personale della propria condizione, sarà costretto a mettercela tutta per migliorare. Ciò dev’essere accompagnato da una cultura capace di riconosce il merito e il contributo di ciascuno al miglioramento sociale, lasciando perdere le mitologie egualitarie.
    L’uguaglianza, per quanto è possibile, come l’assistenza ai più poveri, ai malati ecc. ecc., va recuperata non in forma di diritti assistenziali slegati da ogni forma di merito, ma in forma di solidarietà libera e volontaria, favorita dall’ordinamento giuridico e dalla cultura del Paese, ma non obbligatoria e soprattutto non affidata a un sistema fiscale da rapina che soffoca e punisce i più capaci e i più produttivi per premiare gli incapaci e gli improduttivi (e favorire la corruzione e i favoritismi clientelari).
    Insomma, il contrario di ciò che i governi italiani hanno sempre fatto.
    È possibile farlo? E che conseguenze ne deriverebbero? Credo che non sia possibile, anche perché la maggior parte degli italiani non lo vuole, realizzare un obiettivo simile nelle condizioni politiche attuali. Se lo Stato tenta di farlo, con il tagliare le spese assistenziali e lasciare più libertà all’iniziativa privata, potrebbe conseguirne un inasprimento della “guerra sociale”. Ma se lo Stato comincia a restringere i suoi poteri restituendoli in parte agli enti territoriali e in gran parte ai cittadini, applicando il principio di sussidiarietà oggi completamente ignorato, nonostante che sia sbandierato ipocritamente, il problema della riorganizzazione sociale su basi culturali diverse passerebbe alla base e la base saprebbe meglio gestire e conciliare merito e assistenza, libertà e solidarietà, e ci sarebbe quel rifiorire di iniziative dal basso che oggi sono soffocate perché comunque non incidono nella realtà che è determinata dal centralismo statalistico. La libertà di creare un’associazione per distribuire cento pasti ai più bisognosi è oggi quasi il massimo che si può fare. Ma se l’associazionismo di base fosse libero di gestire molto di più, ad esempio attività economiche, scuole, ospedali ecc., il «materiale umano» da «scadente» diventerebbe certamente migliore.
    ***
    L’altra alternativa, per chi ha paura della libertà e delle disuguaglianze che la libertà potrebbe comportare (ma mentre le diseguaglianze dell’oppressione sono viziose quelle della libertà sono virtuose, perché creano emulazione e crescita e miglioramento complessivo della società, quindi anche dei meno favoriti), è un regime ancora più autoritario, diciamo pure dittatoriale, alla cinese, con però non un Mussolini o un caudillo latinoamericano qualunque, ma con una classe dirigente a suo modo “illuminata” (sebbene il potere assoluto sia una ben triste illuminazione) e che obblighi i cittadini alla virtù, a costo di condannarne a morte centinaia e centinaia all’anno anche per reati che oggi in Italia non sono nemmeno perseguiti.
    ***
    Due alternative molto diverse, entrambe “spietate”, per molti. Ma io preferisco la prima.
    Il “comunismo reale” ha dappertutto provato ad accompagnare una situazione sociale di maggiore eguaglianza con il riconoscimento del merito tramite “premi” morali. Sulla cosiddetta “emulazione socialista” è stato scritto molto, sia in teoria, prima e durante le esperienze concrete, sia dopo per valutarle. E la valutazione che ne emerge è che l’emulazione solo morale non funziona. Il merito dev’essere premiato in forme concrete. L’Urss, Cuba e tutti i Paese del socialismo reale sono ripiegati nella premiazione concreta sotto forma di maggiore accesso a beni di consumo. Ciò non è stato, e non è, sufficiente. Il merito va premiato soprattutto nel riconoscergli maggiore libertà nel promuovere un agire virtuoso, quindi riconoscendogli la libertà di organizzarsi e di agire in forme non già fissate dallo Stato, ma in forme innovative, aperte anche alla sperimentazione. E nella libertà di trarre da ciò anche dei benefici che migliorino la qualità della vita in proporzione, almeno, al contributo dato al miglioramento della società.
    Certi teorici sociali considerano scandaloso un divario di reddito da un minimo di dieci a un massimo di cento (troppa differenza, troppa disuguaglianza, dicono), ma dimenticano di considerare un paio di cose.
    1) A volte il minimo è dieci perché il massimo è cento. Cioè chi è a cento ruba parte del suo reddito a chi è a dieci ed eliminando lo sfruttamento e il furto sociale la disuguaglianza diminuirebbe. In tutti i casi in cui ciò avviene, in cui ci sono individui a cento senza merito, siamo di fronte a un’ingiustizia che dev’essere eliminata.
    2) Ma ci sono dei casi in cui il minimo è dieci, ma avrebbe potuto essere anche cinque tenendo conto solo del contributo dato, mentre il cento avrebbe potuto essere anche centodieci, facendo lo stesso calcolo. In questo caso il cento è meritevole di avere permesso al cinque di elevarsi a dieci e trattarlo alla pari del cento speculatore e parassita fa sì che tutta la società arretri, che il dieci anziché salire a quindici ridiscenda a cinque.
    3) Il merito andrebbe sempre premiato in forme efficaci. Chi nega questo, non riuscirà mai a costruire una società in cui il materiale umano sia libero e virtuoso. Fatto questo, dovrebbe poi premiare il merito in forme tali da stimolarne la solidarietà e l’interesse al benessere sociale il più largo possibile. La sola premiazione economica non basta; la sola morale non basta. Occorre che la cultura del Paese, il sentire comune, abbracci il merito e lo indirizzi alle forme virtuose. Se questa cultura è invece improntata all’invidia, alla volontà di punizione del merito considerato una specie di peccato o di tara originaria, e predica un’astratta eguaglianza che, a livello di politica, diventa rapina fiscale nei confronti di chi produce di più e persino diffidenza e disprezzo, allora questo Paese non ha prospettive di salvezza.
    ***
    Il mitico Far West, come le dottrine sulla sopravvivenza del più forte, esasperano una tendenza negativa propria dell’uomo e ne misconoscono una positiva. L’immagine che il cinema, i romanzi e i fumetti danno del West è largamente falsa. Nella realtà la violenza era meno frequente e anche dove non era ancora arrivata la legge organizzata le comunità si auto governavano e nel caso di crimini si dava la caccia ai criminali in forma volontaria e gratuita, come dovere di tutti. L’empatia sociale era più sviluppata di oggi e molte cose si facevano come dovere sociale, gratuitamente. E in quanto alle teorie sulla sopravvivenza del più forte, hanno sicuramente una base di verità, però gli studi di antropologia applicati alla preistoria ci dicono che già decenni di millenni fa nelle tribù dei cacciatori e raccoglitori di prodotti vegetali spontanei, nei gruppi dei “cavernicoli”, ci si prendeva cura anche degli ammalati, dei vecchi e dei disabili. Non è vero che fosse esteso a tutti l’uso di lasciar morire, o uccidere, chi non fosse capace di contribuire al benessere della tribù. Sembra anzi che questo uso barbaro fosse relativamente poco esteso, e applicato più ai bambini nati deformi e inadatti alla vita che agli adulti disabili (per incidente di caccia o per altro) e ai vecchi. Forme diverse di empatia hanno sempre, fin dai tempi più antichi, alimentato forme di assistenza e di solidarietà libere e volontarie (ma indotte dalla cultura comune, che vuol dire dalla cultura della comunità. Ma se non c’è comunità, se gli individui sono cellule separate che si ignorano, non può esserci nemmeno solidarietà).
    Lo Stato, usurpando via via ogni terreno di azione prima riservato ai cittadini, uccide anche la cultura e lo spirito d i comunità e con esso la solidarietà libera. Trasformata in solidarietà obbligatoria con il prelievo fiscale, diventa tutt’altra cosa e suscita tutt’altra cultura e agire fra i cittadini.

  12. Strepitoso, questo ultimo commento di Luciano Aguzzi! In cui ci sarebbero solo o pigri approfittatori o meritevoli impegnati. Si tratterebbe quindi di trovare un sistema sociale che reprima i primi e premi i secondi. Non appare il lavoro come brutale e necessaria costrizione che, se uno può, non ci si applica. Mica tutti possono lavorare con piacere e creatività!
    Il sistema sociale quindi contempera, per la propria necessità, la distribuzione… casuale? o classista?… dei diversi impegni, e oggi perfino degli involontari disimpegni.
    Più che nel Far West l’empatia nasce nei rapporti originari, madre-figli, amore di coppia. E’ abbastanza forte, come circuito emozionale, da sopravvivere fuori, nei rapporti sociali di parità e/subordinazione. Anche nei momenti più laceranti della storia di un paese il circuito emotivo sopravvive tra i com-pagni (quelli che mangiano insieme il pane). Non tra tutti, perchè le disparità producono rabbia e perfino odio. L’alternativa “spietata” di regimi autoritari si serve di recinti ideologici fin che bastano (per esempio il confucianesimo) e poi del bastone.
    L’altra alternativa, quella di “una società in cui il materiale umano sia libero e virtuoso”, richiede opportunità e moderazione delle differenze. Si è, dopo i 30 gloriosi, tentato di sostituirla con l’eguaglianza dei “diritti”.
    Ma pare che “la democrazia occidentale” sia in grave crisi, no?

  13. @ Cristiana Fischer
    Che la democrazia occidentale sia in grave crisi non ci piove. In quanto al resto del discorso, non l’ho capito bene. Non ho capito bene in che misura e modo sia in contrasto o in accordo con quanto ho detto io e in che senso va interpretato lo “strepitoso” iniziale.
    Ad ogni modo, osservo:
    *
    1) La democrazia occidentale è in crisi a tal punto da essere una ideologia che in pratica non è mai esistita. O meglio. Non è mai esistita una democrazia come sinonimo di libertà e come obiettivo massimo di un regime sociale, ma sono esistite ed esistono tante forme di democrazia di due tipi diversi. Uno, che la intende come insieme di regole per selezionare, senza ammazzarsi ma in forme legalizzate, la classe politica di governo. È la cosiddetta democrazia formale che può avere tante varianti, da quelle più a quelle meno “liberaldemocratiche”. Altro modo è intendere la democrazia come insieme di regole che difendono i ceti più deboli, anche a costo di una formale dittatura. Per questo motivo la storia ci mostra, dai tempi dell’antica Grecia a oggi, delle “democrazie” organizzate in forma di tirannie. Tirannie democratiche, democrazie popolari, democrazia sostanziale e altre denominazioni.
    Le prime, alcuni studiosi dicono, ma vi sono diverse “eccezioni” che non stanno nello schema, sono più propense alla libertà e meno all’uguaglianza, le seconde, viceversa, si occupano di più dell’uguaglianza e meno della libertà. Una via di mezzo, in parte liberaldemocrazia e in parte democrazia sostanziale, è la democrazia nell’ambito di uno stato etico, e la misura dei due caratteri fondamentali sta nel modo di intendere il termine “etico”. Più è forte la concezione “etica” dello Stato e più debole sarà il suo carattere liberaldemocratico, mentre più forte il suo carattere di dittatura democratica. Viceversa, meno forte è la concezione etica dello Stato e più forte sarà la varietà e libertà etica dei cittadini, più forte il carattere liberaldemocratico e meno forte quello di democrazia sostanziale (e quindi, in genere, più ampie le differenze).
    Non esiste un sapere tecnico che può guidare nella scelta, che è tutta politica e tutta umana. Ma la scelta deve confrontarsi con la dura necessità della logica con cui si svolgono le vicende umane: se si vuole una migliore qualità della vita (in senso materiale) si deve produrre di più e a costi minori, il che comporta la valorizzazione del merito e la tolleranza delle differenze, almeno di quelle che a mio parere sono virtuose e che recano benefici anche a chi, nella scala sociale, sta in basso. Se invece si vuole una maggiore uguaglianza, o addirittura una impossibile uguaglianza di tutti, e quindi una presunta e non misurabile migliore qualità della vita in senso “spirituale” (politico, psicologico ecc.), si produrrà di meno e a costi maggiori, la disponibilità di beni per il consumo sarà minore, il merito sarà meno valutato e premiato (o sarà addirittura represso), così anche la libertà sarà tenuta in minor conto. Tutto col rischio che l’uguaglianza, da felice aspirazione, si trasformi nell’incubo di una omogeneizzazione al ribasso che peggiori anche la qualità della vita in senso “spirituale”.
    *
    2) La “logica naturale” (per quanto della natura umana, quindi a suo modo storica, di lungo periodo, e suscettibile di lenti cambiamenti) può conciliare merito e uguaglianza solo per mezzo dei meccanismi psicologici dell’empatia e di quelli non psicologici dell’etica. Questi meccanismi possono avere confini stretti o più larghi e solo in pochi casi (in pochi tipi umani) si estendono a una filantropia generale, mondiale. In genere la filantropia, empatica ed etica che sia e un misto delle due, ha confini più ristretti: si amano i familiari, gli amici, i membri della propria comunità, della propria patria, della nazione, del mondo, in proporzioni via via in diminuzione. E man mano che diminuisce questo amore filantropico, con l’allargarsi e allontanarsi del confine, diminuisce la disponibilità a sacrificarsi per gli altri, a dare agli altri ciò che riteniamo sia nostro, a riconoscere agli altri uguali diritti, indipendentemente dal merito e dal principio di reciprocità. Insomma, via via, il rapporto, da familiare, basato sull’amore, sul dono e sulla disponibilità al sacrifico, si trasforma in rapporto contrattuale basato sulla reciprocità del “do ut des” e del “do ut facias”.
    Hanno detto bene alcuni filosofi affermando che fra egoismo e altruismo vi è solo una differenza di confini relativi all’amore. Il massimo di egoismo è amare solo se stessi (essere altruisti solo con se stessi), mentre il minimo di egoismo (e massimo altruismo) è amare tutti. In genere i singoli individui si collocano in una posizione intermedia, più o meno vicina all’uno o all’altro polo.
    *
    3) Il livello del discorso e dell’agire sociale pertanto si colloca sempre su due piani. Quello della necessità e dell’opportunità secondo la logica “di natura” (intesa con il limite detto sopra), e quello dell’amore e altruismo per empatia e per scelta etica. Non è affatto dimostrato che una maggiore uguaglianza sostanziale mantenuta con la forza, contro la logica naturale, sviluppi più uguaglianza “elettiva”, cioè il sentimento di uguaglianza spontaneo basato su empatia ed etica. Sembra anzi il contrario, almeno a studiare i meccanismi anche psicologici dei rapporti interni in regimi come quello passato sovietico.
    *
    4) In genere gli individui che stanno più in basso nella scala sociale sviluppano simpatia, o antipatia, verso chi sta più in alto, determinata da particolari circostanze e non dalla disuguaglianza in sé. Ad esempio un operaio può sviluppare simpatia o antipatia verso il proprio datore di lavoro, il proprio capitalista, a secondo che si senta trattato giustamente o ingiustamente, che veda il proprio datore di lavoro impegnato o non impegnato a sviluppare al meglio l’azienda anche a beneficio dei dipendenti, e soprattutto che veda nel datore di lavoro un esempio positivo che lui stesso aspira a imitare, diventando a sua volta datore di lavoro. Nelle vecchie fabbriche, soprattutto in quelle di media e piccola dimensione, vi era spesso una buona intesa fra padroni ed operai, accomunati dall’amore e dall’orgoglio per il buon lavoro, per il prodotto ben fatto. E i migliori operai facevano carriera, diventavano dirigenti o si mettevano in proprio creando una propria azienda. Questo sentimento di amore e orgoglio per il lavoro è oggi assai meno frequente e i luoghi di lavoro assai più freddi, competitivi, ostili e stressanti. C’è stato un cambiamento in rapporto ad un cambiamento di cultura, non certo, o in misura minore, a un cambiamento di uguaglianza e disuguaglianza.
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    5) Da ragazzo, come apprendista e operaio, ho lavorato in piccole fabbriche della mia città di origine, Fano (nelle Marche) per un periodo complessivo di circa tre anni, fra i 14 e i 17 anni. Per me non è mai stato un problema quanto guadagnasse il padrone: se due o dieci o cento volte più di me; non m’interessava. Mi interessava invece che io fossi trattato giustamente per quello che facevo (secondo ciò che per giusto si intendeva comunemente fra noi operai); che non fossi costretto a fare un lavoro a modo loro se era possibile fare meglio e io ne individuavo il modo, cioè se mi era concessa una certa libertà per lavorare a modo mio purché producessi alla pari o meglio; che l’ambiente di lavoro fosse buono, con un buon affiatamento e reciproco aiuto fra operai, senza rivalità, senza dispetti, senza bullismi di nessuna maniera; che ci fosse rispetto per gli operai e un trattamento di buoni rapporti, sia all’interno della fabbrica (esistenza di bagni adeguati, di prevenzione per gli infortuni ecc.), sia per altri aspetti: d esempio che non si lesinasse un giorno di permesso in caso di necessità, che il datore di lavoro non avesse atteggiamenti tirannici e caratteriali antipatici, scorretti e ingiusti. Tutto questo e, naturalmente, la possibilità, lavorando bene, di guadagnare di più, e in prospettiva di potersi mettere in proprio, era ciò che interessava agli operai.
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    6) Il peso della disuguaglianza dipende soprattutto dalla convinzione che si basi su fondamenta ingiuste, su un ingiusto sfruttamento. Oggi spesso non è così, perché il sentimento della disuguaglianza non è più riferito alla condizione di lavoro ma a una considerazione più generale, di tipo ideologico, slegata del tutto dai concreti rapporti fra gli individui, ma basata sui rapporti sociali complessivi. Ad esempio ci si lamenta che un giocatore di calcio o un attore possa guadagnare cento o mille volte di più di un impiegato, di un operaio, di un insegnante. O casi simili. Non vi è nessun rapporto diretto fra chi si lamento e quello di cui si lamenta, come invece vi era, un rapporto diretto, fra operaio e padrone della fabbrica. La disuguaglianza intesa in questo senso generale e ideologico genera in molti casi invidia e odio sociale, in altri casi ammirazione e fa dei fortunati delle star. Ma il peggio si ha quando la fortuna di qualcuno è avvertita come fondata sul proprio danno, e ciò capita nel caso dei ricchi emolumenti, soprattutto se al limite della legalità, di politici, di burocrati, di chi esercita una professione la cui utilità non appare alla gente di rilievo e comunque non di tanto rilievo da meritare altissimi guadagni. Sono i guadagni speculativi, a danno e non a beneficio della gente comune, che più suscitano avversione e odio.
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    7) E ora facciamo un esempio teorico che può dirci qualcosa sull’uguaglianza. Prendiamo il caso di un pullman turistico con cento persone a bordo, di sesso, età, condizioni fisiche, psichiche e culturali diverse, prese a caso come avviene nei viaggi turistici organizzati. Il pullman sta attraversando un deserto e a un tratto si rompe, non va più. Si rompe la radio di bordo, i cellulari non hanno campo (poniamo d’essere in pieno Sahara meridionale). Non c’è modo di chiedere aiuto. Il caldo è terribile. Che fare? Entro due giorni i più deboli e meno forniti di acqua e cibo potrebbero morire se non aiutati dagli altri. Alcuni si rifiuteranno di condividere le proprie scorte, altri invece lo faranno. Ma man mano che la situazione si aggrava con il passare dei giorni le scorte finiscono comunque e sopravvivranno i più dotati, i più forti, i più addestrati a resistere a condizioni estreme, non solo per resistenza fisica ma anche per resistenza psicologica e per risorse culturali che permettono di razionalizzare i comportamenti.
    Andando avanti così, alcuni, per capacità propria, possono sopravvivere anche un mese e più (e ci sono casi reali che lo dimostrano), altri morirebbero in due giorni, ma poniamo, che siano aiutati da altri e quindi vivano, non per capacità propria ma per aiuto altrui, cinque o dieci giorni. In nessun caso l’aiuto altrui può fare in modo che tutti sopravvivano alla pari lo stesso numero di giorni. Così via via ogni giorno qualcuno cede e quando, dopo un mese, arrivano finalmente i soccorsi se ne trovano vivi una diecina. La “logica naturale” ha compiuto una drastica selezione che non poteva in nessun caso essere contrastata dalla buona volontà dei più capaci di aiutare gli altri. L’aiuto ha allungato i tempi di sopravvivenza ma non ha potuto pareggiarli e salvare tutti. E nemmeno perdere tutti alla pari, salvo che i più capaci non si fossero suicidati per morire insieme agli altri.
    Questo esempio estremo insegna alcune dinamiche “naturali” che avvengono anche nella vita di tutti i giorni e nelle normali condizioni sociali. Ci sono individui che da soli non sono capaci di sopravvivere e che per forza hanno bisogno dell’aiuto di altri, e non mi riferisco solo alla sopravvivenza fisica ma anche a quella economica. Alcuni non sono in grado di produrre abbastanza da essere autonomi. Altri hanno la capacità di produrre molto di più di ciò che è necessario per un individuo e così possono aiutare gli altri. L’aiuto può essere privato e diretto o può essere lo Stato che assume per sé questo compito, prelevando con il sistema fiscale una parte del guadagno di chi è più capace e distribuendolo a chi è meno capace. Per via privata o per via statale o per qualsiasi altra via ciò è sempre avvenuto e avviene normalmente. Il problema riguarda i limiti, l’estensione che vogliamo dare all’aiuto. Vogliamo che chi ha la capacità di produrre per dieci mantenga, oltre a sé, altre nove persone, tutte dieci perfettamente ugualizzate, o gli riconosciamo il diritto di avere qualcosa di più, e quindi gli togliamo solo una parte, magari quanto basta per mantenere sei persone, lasciando a lui quattro parti delle dieci che produce? La scelta estrema della ugualizzazione perfetta sarebbe accettata solo da pochi, mentre negli altri susciterebbe la mala voglia di produrre di meno, o magari nulla, visto che tanto a produrre dieci non ha nessun beneficio. E alla fine ci si accorgerebbe che tutti stanno peggio e non meglio perché il meccanismo della perfetta ugualizzazione ha depresso il merito e la voglia di usare al meglio le proprie capacità. Che solo pochi individua manterrebbero, e sarebbero i “santi”, motivati da una forte spinta etica e da una prepotente empatia che può avere origine religiosa o politica o di altro tipo.
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    8) La soluzione migliore sta nel conciliare la libertà con l’uguaglianza. Tanta libertà, quanta ne basta per evitare situazioni di disuguaglianza tali che diventerebbero un problema non solo sociale ma di ordine pubblico in senso stretto. Tanta uguaglianza, quanta è possibile senza togliere la libertà e la volontà ai più capaci di lavorare al meglio delle proprie possibilità. La soluzione è difficile e non è solo di natura politica ed economica ma, a mio parere, soprattutto di natura culturale. Di una cultura che incentivi l’aiuto reciproco, l’applicazione di un ideale etico alto, ma come volontaria e libera scelta, come cosa naturale, così come nella maggior parte delle famiglie è naturale che i genitori aiutino i figli e che il fratello che guadagna di più aiuti quello che, senza colpa, guadagna di meno o non guadagna nulla perché impossibilitato a farlo. È questa cultura che va sviluppata. E a questa cultura andrebbe anche improntata, adeguata, l’organizzazione politica e quella economica, con l’autogoverno e la cooperazione.
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    9) Il fatto che lo Stato riservi a sé la maggior parte dell’attività di aiuto ai meno favoriti è una realtà recente. Fino alla metà dell’Ottocento, cioè fino a meno di due secoli fa, quasi nessuno Stato se ne occupava. L’organizzazione della beneficienza era compito dei singoli Comuni, cioè delle comunità politiche e amministrative di base, che agivano in proprio, con le proprie risorse, e per mezzo dei privati, favorendo la creazione di enti di beneficienza dei più vari tipi. La Chiesa, a sua volta, aveva proprie iniziative e soprattutto alimentava la cultura della carità e della beneficienza ed era diffusa la convinzione che almeno una decima parte del proprio guadagno doveva darsi agli altri come aiuto, sia in vita sia in morte, in sede testamentaria. Era la cosiddetta “parte dell’anima” (da non confondere con la “decima” intesa come tassa obbligatoria a favore del clero, che nel corso dell’Ottocento viene abolita in quasi tutti i Paesi europei). Per i ricchi, nobili o borghesi che fossero, non c’era un obbligo legale di donare, ma c’era però un obbligo sociale, che veniva dalla cultura comune. Gli avari erano bollati come tali e non godevano di buona fama.
    Nei piccoli comuni ciò era più evidente perché tutti conoscevano tutti e si creavano rapporti ai quale non era possibile sottrarsi. Nelle grandi città era più facile essere avari, volendo. Però anche nelle grandi città vi era una viva emulazione nel donare, nell’acquisire buoni titoli in questo modo e alcune città, come Milano, avevano un complesso di istituzioni “caritative” notevole che non aveva nulla da invidiare, considerate le differenti condizioni del tempo, al welfare di oggi.
    Attualmente, la cultura della “carità privata” è più scoraggiata che incentivata. L’ingente prelievo fiscale dello Stato, in gran parte motivato proprio da ragioni di solidarietà, toglie la possibilità e la voglia a molti di donare anche privatamente, dopo aver “donato” obbligatoriamente fino, in qualche caso, il 70/90% del proprio reddito e quasi mai meno del 50%. Il diminuito ruolo e credito della Chiesa come fonte di cultura, iniziative e spinte nel senso della carità; il cambiamento sociale e culturale complessivo sempre più improntato a un individualismo sciolto da legami comunitari, visto che le comunità di base e di appartenenza tendono a scomparire, hanno fatto sì che le iniziative di carità siano diminuite. Ciononostante molte città dimostrano ancora oggi una insospettata vitalità nel dare vita a iniziative di solidarietà, e se non ci fossero tanti lacci e ostacoli burocratici e fiscali potrebbero sicuramente aumentare di parecchio.
    Sarebbero necessario rivedere la legislazione nel senso di favorire le iniziative di beneficienza, ma la cultura statalista e i partiti di sinistra in particolare diffidano delle iniziative di beneficienza perché le ritengono soprattutto un terreno di forza della Chiesa e sono restii ad adeguare la legislazione. Tuttavia, nonostante lacciuoli burocratici e fiscali e controlli di vario tipo, non riesce a evitare che anche in questo campo si sviluppi la speculazione, la corruzione e l’illecito profitto di false organizzazioni di beneficienza, in particolare nel settore privato e nel campo di intervento che si intreccia con i compiti dello Stato. Insomma, anche in questo settore, lo Stato riesce ad essere contemporaneamente un ostacolo alle buone iniziative e un incentivo alle cattive, come tanti scandali degli ultimi anni hanno dimostrato.
    Per questo, e per altro, a mio parere tutto il settore dovrebbe essere di competenza dei Comuni: fissare le regole, dare le autorizzazioni, esercitare il controllo, denunciare alla magistratura gli eventuali reati. Compito dello Stato, se proprio ne volesse avere uno, sarebbe solo quello di fissare i principi generali quadro, ma poi non intromettersi nella loro applicazione.

  14. Rispondo ancora al suo commento del 22 gennaio alle ore 16.15.
    Nell’insieme mi è parsa una trattazione -di un problema che lei stesso ha classificato nell’ambito della letteratura e non della sociologia, e del quale tuttavia si impegna a fornire una complessiva trattazione- singolarmente astratta, composta da “frasi” che non si riferiscono a condizioni effettivamente riscontrabili.
    Per questo, in modo ironico, ho usato il termine “strepitoso”, nel senso di “straordinario” o anche “incredibile”.
    Faccio un paio di esempi. Per “elevare la qualità del materiale umano scadente” l’unico modo che lei prospetta è “far emergere il meglio” e “suscitare un’emulazione virtuosa”. Con questo lei si riferisce al “materiale umano nel suo insieme”, ma occorre, perché il meglio emerga, eliminare delle “mediazioni E distorsioni” (tutte le mediazioni, vivaddio, non sono distorsioni!) che tuttavia si condensano nell’ “eliminare il più possibile l’assistenzialismo parassitario (di basso, di alto e di altissimo livello)” sotto la minaccia che “chi sbaglia paga”.
    Le sembra, questo approccio, una prospettiva realisticamente conforme alle condizioni reali del lavoro nella nostra situazione?
    L’emulazione virtuosa riesce lei a calarla nel lavoro scadente, precario, insufficiente a sbarcare il lunario? A me sembra che la frase riassuntiva: “Ognuno, di fronte alla responsabilità personale della propria condizione, sarà costretto a mettercela tutta per migliorare”, sia una presa in giro per larga parte di giovani e meno giovani in vaste regioni del nostro paese, e per condizioni lavorative che non offrono nessuna possibilità di evoluzione!
    Quanto poi alla “solidarietà libera e volontaria” che potrebbe fornire “assistenza ai più poveri, ai malati ecc. ecc.” essa nascerebbe da (riassumo molto) “disuguaglianze che la libertà potrebbe comportare” in quanto le disuguaglianze della libertà sono “virtuose”. Lei ritorna così a quella concorrenza tra presunti uguali in condizioni di parità da cui emergerebbe il meglio suscitato da una emulazione virtuosa.
    Sono belle frasi, prive di radici in un paese attraversato da impoverimento per mancanza di lavoro, un depauperamento continuato per tre decenni dai tagli a sanità, istruzione, cura del territorio. Non essendo il nostro paese né quello egemone in Ue, né parte dell’impero Usa, le differenze sociali crescono e producono più conflitti che concorrenza destinata a comporsi nel mercato. Quelle “mediazioni”, che non sono solo distorsioni, sono allora necessarie per mantenere la coesione sociale, perchè la crisi dei regimi democratici, tutti, – crisi “recente” per una persona vecchia come sono io, innestata da fatti precisi dei decenni ’70-’80, e giustificata dal neoliberismo, si legga per esempio Dipendenza, di Alessandro Visalli- non deflagri… o imploda… non so quale esito sia il peggiore.

  15. Per quel che capisco della proposta Aguzzi, mi sembra riassumibile nel noto slogan “Più società, meno stato”. In particolare riguardo al trasferimento del welfare alla buona volontà dei privati, ricordo che circa 35 anni fa, spiegando in una quinta i partiti politici nella BRD, esponevo precisamente questa teoria, allora per me piuttosto nuova, che era quella della CDU, chiamiamola destra illuminata. Il motivo era, ora come allora, che il welfare di stato costa troppo, da cui le tasse ecc. (Bisogna poi aggiungere che fino almeno a metà degli anni ’80 la BRD ha avuto un welfare che noi non ce lo siamo mai sognati neanche nei nostri più rosei sogni.)
    Sull’organizzazione e gli effetti della carità privata e confessionale nel Sette- e Ottocento, e in generale, mi pare che Aguzzi idealizzi un bel po’ – e in ogni caso l’idea che c’è sotto è che certe cose (anche primarie) non sono un diritto dell’individuo, ma una gentile concessione dei ricchi, che generalmente sono ricchi perché in diversa e in parte forse inevitabile misura sfruttano i poveri.
    Quanto a lasciare più ampio spazio alla Chiesa, mi pare che in un paese in cui la piena separazione fra chiesa e stato non è mai avvenuta e in cui, fatta eccezione forse per l’America meridionale e la Polonia, la Chiesa mantiene un potere politico unico in Occidente, mi sembra che meno spazio le si lascia meglio è. (Oltretutto è recente la scoperta – di cui a torto ci si meraviglia – di quanto accadeva nei ricoveri confessionali per ragazze madri in Irlanda – e non nell’Ottocento, nella prima metà del secolo scorso).
    E’ chiaro che una gestione statale del welfare è più dispersiva e lascia più spazio alle truffe (che sono peraltro un’abitudine nazionale e non scomparirebbero con la bacchetta magica del “meno stato”), ma mi pare che offra altre garanzie rispetto alla soluzione prospettata da Aguzzi (con parecchia fiducia nell’essere umano).

  16. Non sono un politologo come Luciano Aguzzi, ma in comune con lui ho l’età avanzata. Ho già avuto modo di dichiarare che, essendo cresciuto sotto il regime democristiano, presi presto le distanze dalla politica e, in particolare, dai politici.Mi sono rassegnato a considerarla come un male necessario e non mi sono mai fatto dare del ‘tu’ dalla politica; la mia posizione sociale e culturale la devo a me stesso (di modesto narratore, che per sopravvivere ha fatto l’insegnante, e ancora più modesto critico d’arte), senza alcun appoggio politico.
    Arrivato alla mia età, ho più di 70 anni, a volte mi ritrovo a pensare, guardando al mio paese che tanto amo, che l’Italia, dopo il secondo dopoguerra, è una nazione che è riuscita a sopravvivere nonostante la sua classe politica, per merito delle persone che lavorano, a tutti i livelli, e che hanno saputo creare con passione, intelligenza, competenza, impegno, creatività e senso di responsabilità quella ricchezza nella quale i politici hanno affondato e affondano a piene mani. Si dirà che è troppo facile parlar male della politica, che è un trito luogo comune…Per carità, non voglio fare di ogni erba un fascio, anche perché è più corretto parlare di politici che di politica, e tanti vanno salvati (di ogni appartenenza).
    Dicevo della ricchezza creata dai lavoratori e del contributo che hanno dato a tenere in piedi quelle strutture che fanno di una società un paese civile, lavoratori dipendenti, modesti impiegati ecc. Nell’intervento-denuncia di Luciano Aguzzi, per quanto la mia modesta preparazione nello specifico mi abbia consentito di cogliere, si evidenziano dei ‘valori’ che appartengono più al passato che al presente, che hanno contribuito a un effettivo progresso e che poi, una cattiva politica e una distorta cultura hanno messo al bando.
    E’ sotto gli occhi di tutti il triste e preoccupante fenomeno dei giovani laureati che vanno all’estero per trovare una collocazione dignitosa e valoriale. Se uno Stato non sa incentivare la propria gioventù non ha futuro. Ma le tematiche per le quali la politica vigente scalda i motori sono invece ‘i diritti’ legati al consumo della droga, al sesso ecc.
    Poi ci sono ‘i valori’ , quelli dell’accoglienza, tanto per dirne uno, che hanno la priorità su tutto e su tutti, visto che ci si può speculare a dovere. E ancora c’è il pericolo del fascismo, del sovranismo, ecc. che incombe sul giovane laureato disoccupato o su quelli che abbandonano gli studi. Come rileva Luciano Aguzzi, inoltre, il reato non viene punito a dovere, ma io penso soprattutto a quello legato allo spaccio di droga, dove impera un lassismo da paura, e che viene gestito da italiani e da clandestini.
    Non voglio parlare, tornando alla politica, dello spettacolo che sta dando questa maggioranza al Governo, in questo gravissimo contesto di crisi pandemica, che sembra riassumere tutto il peggio dellla tradizionale politica, ma semmai spendere qualche parola per quei valori etici e di solidarietà che auspicava Luciano Aguzzi.
    A Verona, dove vivo, città che per avere attualmente una amministrazione di centro-destra (nonostante una forte presenza del PD), viene tacciata di essere fascista, xenofoba e altro, da quelle forze politiche abituate a demonizzare l’avversario quando non sanno fare di meglio, dimostrando una immaturità democratica di fondo; a Verona, dicevo, operano diecine e diecine di associazioni di volontariato, dipendenti dal Comune, dalle Parrocchie, o sorte per iniziativa di privati. Un pasto caldo e un letto sono a disposizione di tutti. In questa città, che è stata da poco collocata al sesto posto in Italia per qualità di vita, dove funziona al meglio la sanità, i trasporti, la raccolta dei rifiuti, i servizi ecc. (resta il problema non da poco dell’inquinamento come per il resto della Pianura Padana), certe parole e certi atteggiamenti legati a un mitico passato funzionano ancora. Etica ispirata a una visione culturale, carità a valori cristiani e umanitari, empatia e collaborazione mirate a un innalzamento della qualità di vita, accoglienza vera (con un tasso di immigrati residenti stabilmente superiore al dieci per cento), ai quali garantisce un lavoro e un’occupazione. C’è una piccola frangia di estremisti, rumorosa più del dovuto, in particolar modo legata al mondo del calcio, ma non mi sembra che manchino a Milano o a Roma o altrove.
    Capacità personale e impegno professionali legati all’utile, in un tessuto economico dove si intrecciano agricoltura (molto legata alla viticoltura), industria (piccola e media), commercio, servizi e turismo (di primaria importanza anche perché legato al lago di Garda). Insomma, vocazione imprenditoriale.
    Detto ciò, non voglio fare un discorso campanilistico, amo altrettanto Firenze e Napoli, ma sottolineare che quelle ‘autonomie’ auspicate ancora da Luciano Aguzzi, il Veneto ha il diritto e il dovere di chiederle, cosa che inutilmente si fa da anni, dietro continua sollecitazione del Presidente Luca Zaia, in contrasto con una politica accentratrice e di sfruttamento.

  17. @ Casati, @Fischer, @ Grammann
    Ringrazio Casati dei punti d’accordo sostenuti.
    A Fischer e Grammann devo alcune risposte. Non riprenderò tutti i punti su cui è possibile, e magari anche utile, la discussione, sia perché ci vorrebbe troppo tempo e troppo spazio, sia perché in gran parte le risposte sono già implicite in quanto ho scritto nei miei commenti precedenti. Mi limito a un’osservazione generale e a discutere alcune affermazioni particolari.
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    1) In generale osservo che, mentre io mi sforzo, bene o male, in modo corretto o sbagliando, di attenermi ai fatti e solo dai fatti trarre una valutazione e una opinione, Fischer e Grammann spesso mescolano fatti e opinioni scivolando sul piano delle valutazioni ideologiche, dove smentite e conferme non sono più possibili con gli strumenti razionali ma solo con quelli delle personali idee.
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    2) Fischer: «Sono belle frasi, prive di radici in un paese attraversato da impoverimento per mancanza di lavoro». L’analisi dei fatti non è mai una “bella frase”: o è corretta o è sbagliata ed è questo il piano della discussione e dell’argomentazione. Ma a proposito dell’«impoverimento per mancanza di lavoro» si può aggiungere molto di più, sempre attenendoci ai fatti e non ai sentimenti. La «mancanza di lavoro» ha due aspetti: uno soggettivo e relativo e uno oggettivo. Quello oggettivo dipende molto dal primo, piuttosto che il contrario, cioè che il primo dipenda dal secondo. Se studiamo i fatti vediamo che il lavoro è in continua trasformazione, che negli ultimi decenni la trasformazione si è notevolmente accelerata. Ciò comporta, dalla notte dei tempi ad oggi, con le accelerazioni odierne, che continuamente ci sono lavoratori che escono dal mercato del lavoro perché hanno una capacità (il che vuol dire una possibilità di utilizzarli economicamente in modo produttivo e non assistenziale in perdita) obsoleta, non più richiesta, altri, in genere più giovani, che entrano nel mercato del lavoro dotati delle capacità richieste. Dei primi che escono dal mercato del lavoro, una parte, per età e per capacità, non è più recuperata e diventano disoccupati cronici e poi pensionati; un’altra parte è capace di aggiornarsi e rientrare nel mercato del lavoro con nuovi profili professionali. Una società che è capace, per le politiche del lavoro che attua e per gli strumenti che si è data, di innovazione produttiva e di accompagnamento dei lavoratori all’aggiornamento professionale, è una società che crea continuamente nuovi posti di lavoro che sostituiscono quelli che si perdono e che riduce al minimo la «mancanza del lavoro».
    Detto in altre parole, il lavoro non è qualcosa che si trova sugli alberi, è qualcosa che si crea e di ricrea continuamente. Ciò vale per la società nel suo complesso come per i singoli individui. Ci sono singoli individui incapaci di aggiornarsi (non si tratta solo di aggiornamento in senso tecnico, ma anche in senso psicologico e relazionale), o che, se giovani, che non hanno mai acquisito le giuste capacità richieste dal mercato del lavoro. Questi si muovono in zone del mercato del lavoro dove il lavoro si perde, diminuisce; quindi non trovano lavoro. Altri individui si sono aggiornati, o hanno acquisito capacità aggiornate, si muovono in zone di mercato dove c’è lavoro e quindi trovano lavoro. Altri ancora, sono individui creativi e innovativi e creano il lavoro, per sé e spesso anche per altri fondando aziende nuove che assumono dipendenti.
    Dove la scuola e la cultura sociale nel suo complesso favorisce l’innovazione, la mancanza di lavoro, anche nei periodi di crisi, sarà di gran lunga minore rispetto a quella delle società stagnanti, non innovative.
    L’impoverimento italiano non dipende da cause metafisiche, ma da cattive politiche, da cattive idee politiche e culturali, dal degrado della scuola, dal soffocamento burocratico e fiscali delle aziende innovative, dai troppi giovani d’ingegno costretti ad emigrare per trovare spazio dove realizzare le proprie idee; dal troppo ed errato, mal diretto, assistenzialismo che incentiva fenomeni come il parassitismo, il mammismo, il familismo.
    A me piace tenere d’occhio i miei ex studenti liceali, lo trovo un esercizio di sociologia ricco di insegnamenti. Molti, naturalmente, li ho persi di vista, ma di alcune decine ho potuto seguire a grandi linee la carriera. E siccome i miei studenti più anziani hanno ormai sessant’anni, l’arco storico è significativo.
    Posso dire che i migliori non hanno mai avuto il problema di trovare lavoro. Spesso è il lavoro che ha cercato loro. Che cosa intendo dicendo “i migliori”? Non intendo i più intelligenti, i più dotati di capacità intellettuali, quelli che si sono laureati brillantemente in ingegneria o informatica o matematica o medicina. Ma quelli dotati di un insieme di qualità di cui l’intelligenza è solo una parte. Schematizzando direi che i “migliori” presentano queste caratteristiche:
    1) Intelligenza e preparazione al ruolo che occupano. E ciò presenta una varietà notevole che va dall’ex studente che fa il magazziniere in un supermercato, a quello che è dirigente di una grande azienda a livello internazionale, a quello che ha creato una propria azienda innovativa e ha assunto personale, a quelli che sono liberi professionisti (medici, avvocati, ingegneri).
    2) Passione per il proprio lavoro. Tutti quelli che in diversi livelli hanno avuto successo, hanno un atteggiamento positivo nei confronti del loro lavoro. Hanno passione, interesse, costanza, curiosità, impegno, ambizione di migliorare ecc. Alcuni anche con impegno politico e sociale, che non contrasta con una buona integrazione nel mondo del lavoro. È l’atteggiamento da pessimisti, da eterni scontenti di tutto, da «chi me lo fa fare, tanto…», da arrabbiature e polemiche distruttive e autodistruttive, che allontanano da una buona integrazione nel mondo del lavoro.
    3) Capacità di buone ed equilibrate relazioni con i propri interlocutori, siano colleghi, dirigenti o dipendenti, o, nelle scuole, genitori e studenti; e per i liberi professionisti: i clienti, i pazienti, i committenti ecc. E, ovviamente, buone relazioni anche con se stessi: i nevrotici e i depressi possono avere successo solo se hanno particolari tratti di ingegno o di genio, molto meno nelle situazioni più comuni.
    4) Disciplina. Non intesa come obbediente servilismo, ma soprattutto come autodisciplina, affidabilità, responsabilità.
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    Potrei fare decine di esempi in positivo e in negativo, raccontando mini-biografie di singole persone. Certamente chi nasce da buona famiglia, o da famiglia ricca e potente, è molto agevolato. Ma il mio discorso vale per tutti. Conosco figli di famiglie ricche che si sono dispersi (atteggiamenti negativi, ribellismo nichilista, droga ecc.); e figli di famiglie poverissime e sbandate che si sono “costruiti” una vita esemplare; ed anche giovani che, dopo un iniziale sbandamento (droga, piccoli furti, carcere), hanno saputo mettere a frutto le capacità e le passioni che avevano (uno per la musica, uno per l’elettronica e l’informatica) e, nonostante un pessimo curriculum scolastico complessivo, hanno dato una svolta alla loro vita, si sono rimessi sul giusto binario (che poi è sempre quello di trovare o ritrovare se stessi e valorizzare capacità e vocazione), sono giunti a risultati di autosoddisfazione e di stima sociale che sembravano prima impensabili, date le condizioni di partenza.
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    Se scuola e società nel suo complesso (non è a scuola, ma nella vita sociale che avviene almeno l’80% della formazione dei giovani dalla nascita ai 25 anni) incentivano le qualità 1-4 sopra descritte, il Paese saprebbe reagire a tutte le crisi ed evitare «l’impoverimento per mancanza di lavoro».
    Non belle frasi, ma studio delle situazioni, proposte, programmi, attente ed efficienti realizzazioni. È questo che ci serve. Mentre provvedimenti come il reddito di cittadinanza e i milioni spesi per i “navigator” (circa 2.700 persone per un costo, in 18 mesi, di quasi 150 milioni) incentivano una mentalità diversa e contraria e negativa, soprattutto perché il nullismo grillino non è riuscito a far funzionare quello che poteva esserci di buono in queste iniziative. Ha funzionato solo, e solo in parte, l’aspetto puramente assistenziale di diminuzione della povertà. Non quello promozionale di accompagnamento al lavoro.
    *
    3) Grammann pensa di poter riassumere la mia posizione nello slogan: «Più società, meno stato». Potrebbe anche essere vero, se si precisasse di che società e di che Stato si sta parlando. Io parlo di uno Stato ridotto alle funzioni minime e di una società basata sul principio di sussidiarietà applicato fino in fondo, il che oggi non avviene da nessuna parte. L’art. 118 della Costituzione italiana, dopo la riforma del 2001, afferma: «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza». Il principio, mutuato da leggi dell’Unione Europea, è contemplato in Italia anche da leggi ordinarie in applicazione della Costituzione. Ma si tratta di un’applicazione limitatissima e solo nei rapporti fra gli enti politici maggiori. Non si estende ai Comuni e tanto meno arriva alle famiglie e ai singoli cittadini. Si tratta pertanto di una falsa applicazione, limitatissima a livello verticale e a livello orizzontale. Da ciò ne viene che in Italia lo Stato sia un ente centralistico, autoritario, in parecchie materie del tutto dispotico, peggio dell’assolutismo settecentesco (il modello napoleonico, infatti, è un assolutismo rafforzato e perfezionato sul piano degli strumenti politici e burocratici), e sempre troppo invasivo rispetto ai poteri che dovrebbero essere riconosciuti agli enti inferiori: Regioni, Province, Comuni e, soprattutto, associazioni private, famiglie, singoli cittadini. A uno Stato di questo tipo (Salvemini, negli anni Cinquanta, parlava di regime fascista senza Mussolini) corrisponde una società estremamente povera di contenuti e poteri e, quel che è peggio, una società che per vivere deve rivolgersi allo Stato, trovare compromessi, piegarsi, ubbidire, intrigare, corrompersi.
    Quindi, dico: più società, ma più società libera, il che non è possibile se lo Stato è troppo invasivo e arriva addirittura, come attualmente in caso di emergenza, a limitare drasticamente i diritti costituzionali con semplici decreti ministeriali e a combattere la pandemia basandosi pressoché unicamente su misure repressive, trascurando quasi del tutto le tante misure alternative possibili. Con uno Stato, che è insieme dispotico e sfasciato nella sua funzionalità, la repressione diventa l’unica risposta di cui il potere politico è capace.
    Fra le migliaia di esempi che si potrebbero fare per mettere in luce l’enorme differenza fra una società dispotica e una società libera, con il principio di sussidiarietà applicato fino in fondo, mi limito a uno, tanto per dare comunque un elemento di concretezza a chi non avesse un’idea adeguata del significato politico, giuridico, economico e sociale del discorso che sto facendo.
    Prendiamo il sistema pensionistico, che lo Stato, con successive leggi a partire dall’Unità d’Italia ad oggi ha centralizzato, eliminando tutte le forme private di prevenzione e previdenza (mutue e pensioni delle organizzazioni professionali, di comparti industriali ecc.), appropriandosi in modo criminale dei fondi pensione privati. Il risultato è un ente mostruoso come l’Inps e una gestione dei fondi pensione che mal distingue fra gli usi propri, erogazioni di pensione, e gli usi assistenziali che dovrebbero essere a carico della fiscalità generale, e usi impropri di supporto come la cassa integrazione guadagni. Inoltre, le erogazioni pensionistiche non sono strettamente commisurate ai contributi versati, ma vigono regimi diversi: contributivo e retributivo; e trattamenti diversi fra diversi settori, per cui ci sono lavoratori che hanno pensioni privilegiate, superiori a ciò che corrisponderebbe alla loro contribuzione, e altri che invece ce l’hanno inferiore. In sostanza la gestione delle pensioni è largamente clientelare, subordinata a giochi politici e sindacali, a favoritismi, e persino a forme di corruzione più o meno legalizzate.
    Inoltre, i fondi pensione costituiscono una massa finanziaria in parte investita, e anche in questi investimenti il peso politico e sindacale non gioca a favore dei lavoratori in attesa di pensione. Ad esempio, a garanzia del proprio patrimonio, l’Inps aveva un tempo investito nella costruzione e acquisizione di beni immobiliari dai quali avrebbe dovuto ritrarre un reddito per alimentare i fondi pensione stessi. Ma l’allocazione clientelare degli appartamenti e altri beni immobili, con affitti bassi, inferiori di molto a quelli di mercato, hanno portato al fatto che il patrimonio immobiliare anziché dare un risultato attivo costituiva un peso negativo, un passivo, nel bilancio dell’ente. Infatti c’erano politici, sindacalisti, amici degli amici, clienti di vario tipo che abitavano in appartamenti dell’ente, anche di lusso e al centro delle maggiori città, ad affitti insignificanti. Scoppiato lo scandalo, gran parte del patrimonio immobiliare è stato dismesso, cioè svenduto agli stessi che li abitavano, dando ai “clientes” un ulteriore vantaggio a danno della capacità dell’ente di far fronte ai suoi compiti istituzionali, cioè a danno dei lavoratori che hanno pagato i contributi. Masse enormi di denaro semplicemente rubato con trucchetti legalizzati.
    Ma cosa sono le pensioni? Sono, in senso economico e giuridico proprio, una forma di risparmio accantonato per provvedere (da qui “previdenza”) al sostentamento dei lavoratori quando, per età o per invalidità, lasciano il lavoro. La pensione, quindi, sostituisce lo stipendio o salario del dipendente.
    Il risparmio è tratto dal salario, è “salario differito”. Sono soldi del lavoratore che anziché essere messi in busta paga mese per mese vengono, di forza, prelevati dallo Stato, sulla base di criteri da lui fissati senza che i lavoratori possano dire nulla, gestiti dallo Stato a suo arbitrio, trasformati, ma solo in parte, in pensioni sempre secondo il suo criterio.
    In una società libera e applicando il principio di sussidiarietà un mostro come l’Inps dovrebbe essere abolito, i contributi dovrebbero tornare in busta paga e nelle tasche dei lavoratori e questi dovrebbero essere liberi di utilizzarli come vogliono e organizzare liberamente i propri fondi pensione. Se così avvenisse, stando ai dati di oggi, le pensioni privilegiate scomparirebbero ma molti lavoratori potrebbero avere pensioni superiori. In proposito basti notare due fatti: a) Mentre il singolo cittadino che si costituisse una propria provvidenza finanziaria investendo il proprio denaro ne avrebbe i frutti secondo l’andamento del mercato mantenendo contemporaneamente la proprietà del capitale investito in beni mobili o immobili, lo Stato paga solo i frutti in una percentuale da lui fissata che per tutti gli anni 1950-2010 è stata inferiore al rendimento di mercato, spesso anche di sei-sette volte inferiore, appropriandosi del capitale. b) In caso di morte prima del pensionamento o agli inizi del pensionamento, lo Stato si appropria comunque di tutto il capitale accumulato con i contributi del lavoratore defunto, mentre per il lavoratore che fosse libero di investire a suo modo il proprio risparmio, in caso di morte, il capitale passerebbe agli eredi.
    Dal punto di vista economico e della corretta ed onesta gestione il meccanismo del sistema pensionistico italiano è tale che è impossibile che si realizzi una mancanza di fondi per il pagamento delle pensioni, salvo che i pensionati precoci per invalidità non diventino una dimensione statistica del tutto imprevedibile e abnorme. Tuttavia, dal 1994 ad oggi, la questione delle pensioni è una delle principali questioni e il trattamento pensionistico è peggiorato perché, si dice, altrimenti costerebbe troppo. Si è innalzata l’età necessaria per andare in pensione ed anche il rendimento pensionistico è diminuito. Ma ciò è frutto delle distorsioni e degli autentici furti dovuti alla gestione statale.
    Quando io sono andato in pensione, pur godendo, come preside di liceo, di una pensione superiore alla media delle pensioni erogate dallo Stato, ho calcolato quanto avrei potuto avere di capitale se tutti i miei contributi fossero stati investiti in BTP (Buoni Poliennali del Tesoro) e rivalutati alle quotazioni di mercato. Mi riferisco ai BTP perché sono un titolo obbligazionario dello Stato, ma nel mercato delle obbligazioni private o, volendo, in quello azionario, il rendimento avrebbe potuto anche essere decisamente superiore. Ebbene, con il capitale che risulta da questo calcolo e all’interesse medio di mercato avrei potuto avere un rendimento superiore alla pensione datami mantenendo la piena disponibilità (proprietà) del capitale.
    Quali enormi distorsioni negative, in termini di libertà, di educazione dei cittadini alla responsabilità e all’autogoverno, di incremento economico e di partecipazione dei cittadini alle sorti del Paese, derivano da questo solo esempio? E la maggior parte dei cittadini non se ne accorge nemmeno, abituata oramai a pensare alla pensione come a una erogazione dello Stato e a un diritto oggetto di vertenze politiche e sindacali e non invece come frutto di un proprio capitale che gli è stato mese per mese prelevato dal salario. Ecco un esempio di servitù non più avvertito come tale, per troppa abitudine.
    *
    4) Grammann scrive, attribuendomi: «l’idea che c’è sotto è che certe cose (anche primarie) non sono un diritto dell’individuo, ma una gentile concessione dei ricchi».
    Ciò è falso. Non parlo di concessione dei più ricchi, nemmeno quando parlo di beneficienza privata e volontaria. Ma di cultura che incentiva l’uso sociale della ricchezza, che porta a considerare tale uso un dovere. Si potrebbe dire in un’ottica protestante, se la tesi di Max Weber non fosse stata ampiamente falsificata e se non si fosse dimostrato che anche in seno al cattolicesimo, fin dal Medioevo (e in forme diverse fin dal “comunismo evangelico” del primo secolo del cristianesimo), vi sono state dottrine e iniziative che hanno incentivato la carità pubblica che, a partire da Nicola Spedalieri e dal suo libro «Dei diritti dell’uomo» del 1791, si è via via trasformata da dovere morale in obbligo legale, in “carità legale”, secondo la terminologia di filantropi e riformatori della prima metà dell’Ottocento. Ed è sempre nell’ambito del cristianesimo, per iniziativa soprattutto dell’ordine religioso dei francescani, che sono nate e si sono sviluppate istituzioni come i Monti di pegno (Monti di pietà), esercizio bancario rivolto soprattutto ai più poveri e dai quali, nel corso di oltre quattro secoli, sono poi nate le casse di risparmio, banche popolari di risparmio e di prestito. Monti di pietà e banche popolari più volte rapinate dallo Stato che, con leggi di nazionalizzazione, si è impadronito dei fondi privati. A partire dal mega criminale Napoleone Bonaparte imitato dai Savoia e via via da tutti i fautori della forza dello Stato.
    E tanto meno parlo di «concessione dei ricchi» quando dico che gli individui sono diversi: alcuni non sono capaci di mantenere se stessi, altri sono capaci di mantenere se stessi e di aiutare molte altre persone. Questo è un dato di fatto, ed è compito di una buona organizzazione sociale e della sua buona cultura armonizzare le diverse capacità e qualità e incentivare i creativi in modo che sia un fatto naturale e di comune convenienza che l’ottimo lavoro di alcuni si traduca anche in migliori possibilità di lavoro e di vita dei meno capaci.
    Se venti giovani sono disoccupati, e uno di questi ha l’idea e la capacità di creare una start-up, partendo da zero, acquisendo capitali in prestito sulla base di progetti presentati, e la nuova azienda si espande ed assume gli altri diciannove disoccupati, il maggior benessere di tutti non è una «concessione dei ricchi», ma un uso virtuoso delle possibilità e delle opportunità offerte dalla vita. Così come il lavoro dei dipendenti di questa start-up non è una «concessione dei poveri» al più ricco fondatore e proprietario dell’azienda. Si tratta di una reciproca e necessaria collaborazione senza la quale non esiste società (e tanto meno solidarietà, uguaglianza o qualsiasi altra cosa si voglia).
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    5) Grammann scrive, sempre attribuendomi ciò che dice: «Quanto a lasciare più ampio spazio alla Chiesa, mi pare che in un paese in cui la piena separazione fra chiesa e stato non è mai avvenuta e in cui, fatta eccezione forse per l’America meridionale e la Polonia, la Chiesa mantiene un potere politico unico in Occidente, mi sembra che meno spazio le si lascia meglio è».
    Non ho scritto né penso questo. Ho detto che il minore spazio che oggi ha la religione e la Chiesa nell’ambito sociale ha portato a una diminuzione delle iniziative di beneficienza verso i poveri, cioè di “stato sociale” privato. È una costatazione storica da cui non deriva che la Chiesa debba avere più spazio, ma deriva che la società debba avere più spazio per sostituire con altre idee e cultura l’operato della Chiesa. Se queste nuove idee, nuova cultura, mancano, il danno si sente.
    Io, personalmente, mi ritengo laico al cento per cento, non solo nei confronti della Chiesa cattolica, ma di tutte le chiese, comprese le ideologie e compresa quella strana “religione civile” che molti laici spacciano come necessaria e che dovrebbe fondarsi sullo spirito della Costituzione, quasi che la Costituzione fosse il testo sacro di una nuova religione. Io parlo piuttosto di “cultura civile”, di “cultura politica”, di conoscenza dei problemi, compresi i tanti aspetti negativi della nostra Costituzione che non è affatto «la più bella del mondo», ma che è frutto di compromessi fra ideologie e interessi contrastanti e che ha da sempre, oggi tanto più, costituito un freno e non una spinta allo sviluppo del Paese.
    Penso persino (ma che eresia!) che dovrebbe essere abolito il regime concordatario fra Stato e Chiesa e abolito il matrimonio civile, da trasformare in contratto privato fra i coniugi, mentre il matrimonio religioso dovrebbe avere solo valore religioso, senza conseguenze per l’ordinamento giuridico statale, se non come eventuale fatto e testimonianza in alcune particolari fattispecie giuridiche, in caso di vertenze giudiziarie.
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    6) In quanto al «diritto dell’individuo», contrapposto alla «gentile concessione dei ricchi», dopo aver precisato quanto sopra sulla «concessione dei ricchi», resta da dire che la teorica dei diritti individuali è alquanto problematica. Nel corso del Novecento sono stati abbandonati i riferimenti ai diritti derivanti dalla rivelazione divina e i riferimenti ai diritti naturali, cioè dovuti all’uomo per il semplice fatto d’essere nato. Quindi, tutta la legislazione si basa sul diritto positivo, sebbene poi, per vie traverse, cioè per vie ideologiche, si tende ad inserirvi dei pretesi diritti che non esistono, perché se esistessero dovrebbero avere un fondamento religioso o naturalistico.
    Dire, però, che tutta una serie di diritti non esistono in quanto tali, non vuol dire che non possano esistere come frutto di una scelta politica e giuridica, cioè come diritti positivi. Pertanto possono esistere, ma non hanno il carattere di assolutezza che avrebbero se fossero fondati su istanze religiose o naturali. E ciò vale per i massimi e fondamentali diritti come per i minimi e non essenziali. Ad esempio, il diritto divino e quello naturale affermano che il primo e fondamentale diritto è il diritto alla vita, ma la storia ci dice che il diritto positivo lo garantisce solo in una certa misura: non ha impedito l’uso e l’abuso di condanne a morte, anche a livello di genocidio; di morti accidentali (incidenti stradali, ferroviari, aerei, nel lavoro), di omicidi, di morti per malattia che avrebbero potuto essere evitate. Non ha impedito il ricorso alla guerra. Quindi, il diritto alla vita è garantito dal diritto positivo entro certi limiti determinati dalle circostanze storiche e diverse da Paese a Paese. Ciò a maggior ragione vale per i diritti minori e di mera opportunità sociale, ma non di stretta necessità. Ad esempio, tornando al problema delle pensioni, possiamo dire che chi non paga contributi o, in assenza di un sistema obbligatorio di contribuzione, non risparmia una parte del proprio reddito e non investe in un personale fondo pensione, non ha diritto a nessuna pensione. O viceversa, ma sempre sulla base di una scelta politica, possiamo dire che è comunque opportuno che si provveda a chi è privo di qualunque reddito assegnandogli una “pensione sociale”, di assistenza. Non si tratterebbe di un astratto diritto fondato chissà dove, ma di una scelta politica che la società, per uno o più motivi, pensa di dover prendere e attuare trasformando una riconosciuta esigenza (e presumibilmente domanda politica sostenuta da qualche forza politica e sindacale) in diritto positivo, cioè in legge dello Stato. E scelta politica sarebbe anche il come e in che misura attuare il provvedimento, cioè a che età erogarlo e di che importo.
    Dunque, non diritto contrapposto alla concessione dei ricchi, ma scelta sociale commisurata alle condizioni esistenti, alla cultura prevalente, alla sensibilità politica e sociale ecc. che portano alla decisione politica. I ricchi potrebbero essere anche contrari, non sarebbero loro in quanto ricchi a decidere, ma parteciperebbero alla decisione in quanto cittadini. E come tali, probabilmente, come le cronache quotidiane ci documentano, si dividerebbero fra chi fa una proposta e chi ne fa un’altra, come avverrebbe ai cittadini meno ricchi.
    Lo stesso discorso vale per qualunque altro diritto. Discorso diverso è se, anziché parlare di diritti, parliamo di giustizia. Il concetto di diritto non è identico e parallelo a quello di giustizia. Possono esserci idee ingiuste trasformate in diritto e idee giuste lasciate perdere, non recepite come diritto positivo. Il sentimento che è alla base delle concezioni di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, e quindi delle teorie filosofiche e giuridiche sul giusto e l’ingiusto, dipende, molto più del diritto, dalle concezioni religiose, filosofiche, ideologiche in genere. Ed è un groviglio non districabile in modo univoco valido per tutti. Perciò il riferimento va al diritto positivo e non a quello naturale, che è una particolare concezione filosofica sulla giustizia, e meno ancora a quello di origine religiosa, dove la giustizia è riportata alla rivelazione divina e ai testi sacri che la testimonierebbero, con il risultato che abbiamo religioni e testi sacri che affermano cose diverse e non conciliabili.
    Pertanto, parlando di diritti, torniamo a parlare di cultura civile, di scelte politiche, di decisioni prese sulla base della realtà esistente, di riforme opportune e/o necessarie. È auspicabile che i “diritti” si amplino e approfondiscano, ma è anche auspicabile che si attengano alla realtà e che se ne prevedano le conseguenze. Mentre i “diritti” affermati per motivi ideologici e non coerenti e adeguati alla realtà, se trasformati in legge, qualunque sia la motivazione ideale, fanno più danno che bene. Solo in qualche particolare caso possono diventare un elemento positivo di spinta e trasformazione sociale. Più spesso sono una mescolanza di elementi positivi di principio e negativi di fatto che impiegano anni o decenni o addirittura secoli prima di diventare positivi in tutti i sensi, o di essere smentiti e cancellati dalla legislazione. E intanto alimentano conflitti, sofferenze, sangue che sarebbe stato meglio risparmiare.
    *
    7) Mi piacerebbe che si rispondesse alle mie idee in modo concreto, dicendo dove e perché sarebbero sbagliate e quali sarebbero le alternative. In questo caso si vedrebbe che le alternative, se ci sono, portano a dei programmi diversi di riforme sociali fra i quali siamo chiamati a scegliere, argomentando le proprie scelte. E le scelte comporterebbero diverse strategie politiche, diverse scelte elettorali ecc.

  18. Mi limito a un’osservazione generale, a un fatto, e a una reazione.

    1) L’osservazione generale:
    Quando leggo un commento vorrei leggere un commento e non un trattato. Mi pare che per un trattato, un saggio, un articolo si siano altre, più idonee sedi. In linea generale, il trattatello di Aguzzi mi interessa poco, perché a ognuno dei suoi argomenti / proposte si potrebbe naturalmente controbattere, se solo si avesse la competenza necessaria. Io non l’ho, d’altra parte non vorrei nemmeno accogliere alla cieca le tesi / proposte di Aguzzi, non è prudente, soprattutto quando le tesi non consonano con l’esperienza personale. Su altri punti (tutto il discorso sui diritti dell’individuo), non mi pare il caso di iniziare qui un dibattito filosofico.
    Quindi non mi resta che confermare l’impressione espressa nel mio primo commento, e lo faccio. Con la precisazione che per welfare non intendo il reddito di cittadinanza. Quella è una porcata targata 5Stelle.

    2) Il fatto:
    Scrive Aguzzi: “Ci sono singoli individui incapaci di aggiornarsi (non si tratta solo di aggiornamento in senso tecnico, ma anche in senso psicologico e relazionale), o che, se giovani, che non hanno mai acquisito le giuste capacità richieste dal mercato del lavoro. Questi si muovono in zone del mercato del lavoro dove il lavoro si perde, diminuisce; quindi non trovano lavoro. Altri individui si sono aggiornati, o hanno acquisito capacità aggiornate, si muovono in zone di mercato dove c’è lavoro e quindi trovano lavoro.”
    Mio figlio è un singolo individuo capace di aggiornarsi, con competenze diversificate e dotato di notevole duttilità. Infatti ha trovato lavoro. A 550 euro al mese. Dove era prima avrebbe guadagnato molto di più, sfruttando e prendendo a pesci in faccia gli immigrati che si rivolgevano a un sindacato e patronato (non confederato). Poiché mio figlio ha una coscienza, se ne è andato. Peraltro, diversamente da me, lui è un convinto sostenitore del sistema capitalistico spinto, quindi per il momento gli va bene così. Felice lui, felice io, siamo tutti felici e contenti.

    3) La reazione:
    Parlando dei suoi ex-alunni (esperienza personale) Aguzzi dice: “Posso dire che i migliori non hanno mai avuto il problema di trovare lavoro.”
    E’ una frase che mi fa venire il voltastomaco.

    1. Non mi pare che il voltastomaco sia un argomento valido. È una reazione emotiva, tipo chiudere gli occhi o le orecchie anziché ascoltare e rispondere a tono.
      Abbreviano il discorso, ma sicuramente non portano a corrette conclusioni.

      1. 1)Infatti era rubricato come reazione – ma non emotiva: morale.

        2)Quindi non è come chiudere gli occhi o le orecchie. Non c’entrano gli occhi o le orecchie, c’entra la coscienza.

        3)La frase in sé grida vendetta. Ma sull’argomento globale (i migliori che si piazzano e trainano il resto della collettività) non c’è bisogno di ascoltare di nuovo: ha già detto tutto Thatcher quaranta e passa anni fa. Abbiamo già ascoltato, grazie.

        4) Saper essere brevi è una grande qualità. Purtroppo non di tutti.

        1. Se è per questo, ha detto tutto anche Lenin, teorizzando e organizzando il partito delle avanguardie, non degli uguali o dei meno capaci. E prima ancora l’hanno detto sempre e tutti, compreso Gesù Cristo che ha scelto gli apostoli con un criterio selettivo e gli utopisti classici che hanno messo a capo della società i più meritevoli. Altro discorso è se il merito debba comportare anche dei privilegi oppure no. Ma che ci siano differenze e che i migliori siano gli elementi trainanti mi pare che ci sia un comune consenso da migliaia di anni e sotto tutti i cieli e i regimi.

          1. Faremo sapere a Lenin e a Gesù Cristo che la pensavano come Thatcher, ma soprattutto – e questo li lusingherà – come Luciano Aguzzi. Il quale, pur di brillare lui, fa di migliaia di anni e di di tutti i cieli e i regimi la notte in cui tutti i gatti sono grigi.
            Salvo la precisazioncina in corner: ” Altro discorso è se il merito debba comportare anche dei privilegi oppure no”. Perché – uno che trova lavoro quando altri, “peggiori”, non lo trovano, non gode già di un privilegio?
            Sa come sia chiamano quelli che lei fa nel suo ultimo commento? Si chiamano sofismi. E a buon mercato anche.

  19. Quelli che Aguzzi chiama fatti, per me restano solo frasi: si tratta di principi enunciati e ribaditi, ma ai suoi fatti posso rivolgere l’appunto che un ex-studente di sessantanni ora non è comparabile con uno studente appena diplomato nel centro-sud: quaranta anni fa c’era più lavoro, anche io ho figli e studenti e so benissimo i fatti di allora e quelli di ora. Per di più vivo in un paesino del centro Italia, e le assicuro che la buona volontà (così si chiamava ma lei specifica: “Intelligenza e preparazione al ruolo che occupano”, se lo occupano, no?; “Passione per il proprio lavoro” se lo hanno, no?; epperò se uno fa il rider avendo perso il lavoro precedente, e magari ha 50 anni, tanta passione per lui è difficile coltivarla… Eccetera.) non basta a trovare lavoro che NON C’E’.
    Ho vissuto a Milano 40 anni e so che qualche lavoro si trova sempre, ma a una latitudine inferiore non è così. Ci saranno le colpe politiche che lei individua, anche se stranamente lei non individua tra queste colpe la scelta quaranta anni fa di appartenere al nuovo impero (“Reich”) che ha fatto scendere il tenore di vita di troppi nel nostro paese rovinosamente anno dopo anno… mentre altri altrove si arricchivano. Erano forse più bravi e volonterosi? Vladimiro Giacché e Sergio Cesaratto la spiegano in modo diverso, con fatti.

  20. Correggo: “anche se stranamente lei non individua tra queste colpe la scelta -*politica*- quaranta anni fa di appartenere al nuovo impero”… La politica i fatti li fa, infatti.

    1. Sergio Cesaratto il suo lavoro lo ha trovato o se l’è creato?
      Vediamo: nato a Roma nel 1955.
      Laureato con Garegnani alla Sapienza nel 1981.
      Ha conseguito un Dottorato di ricerca nel 1988.
      Ha ottenuto un Master a Manchester nel 1986.
      Ha lavorato come ricercatore presso il CNR con borsa di studio precaria, occupandosi di Economia e innovazione.
      Nel 1992 è diventato ricercatore alla Sapienza,
      e poi (e ormai ha oltre 40 anni) professore associato
      e ordinario dopo altri anni.
      Curriculum eccellente, buone relazioni, costanza e passione di studio e lavoro, enorme pazienza, lavoro gratuito per anni prima di avere i primi guadagni, ecc.
      Non so se è di famiglia benestante o ricca che ha potuto mantenerlo, o se, come altri che conosco, si è mantenuto da solo facendo un lavoro qualsiasi mentre studiava e in attesa di conseguire il lavoro che sentiva come suo.
      Ma certamente, qualunque cosa Cesaratto dica nei suoi libri, la sua biografia è un esempio che rispetta ciò che io ho detto delle qualità necessarie per trovare e creare lavoro.
      *
      Non ho invece capito il riferimenti alle colpe della «scelta quaranta anni fa di appartenere al nuovo impero (“Reich”) che ha fatto scendere il tenore di vita».
      Quarant’anni fa ci porta al 1980. Che è successo nel 1980? Consulto un volume di cronologia e non trovo nulla di tanto significativo che può agganciarsi al “nuovo impero”. I fatti politici più importanti sono:
      14 ottobre – Torino: Marcia dei quarantamila.
      4 novembre: Elezioni presidenziali americane: il repubblicano Ronald Reagan è eletto nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.
      Non ci vedo il nuovo Reich.
      **
      Ma stando alle posizioni anti europeiste di Cesaratto, polemico con l’UE, con la moneta comune e con lo Stato ordo-liberista, come lui considera di fatto l’UE, devo pensare che il nuovo Reich sia l’UE e che i “quarant’anni” siano un’approssimazione temporale e non una data?
      Cristiana Fischer, perché non fa uno sforzo e chiarisce che cosa intende dire?
      Io sarò indubbiamente prolisso, ma questo sforzo lo faccio, perché ho stima dei lettori.

      1. Nel febbraio 1981, esattamente 40 anni fa quindi, senza approssimazioni di sorta, si consumo’ il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Ci sono valutazioni diverse su quell’atto, irrilevante nella sua modalità, per questo forse compulsando delle cronologie lei non ne trova traccia. Per altri invece, tra cui Giacché, di cui lei non ha ricostruito la brillante carriera, è stato un atto significativo di apertura a funeste conseguenze.
        Io non respingo le differenze personali e i meriti. Non ne traggo l’idea che siano conseguenti a virtù -morali- di impegno e dedizione. Mi ricordano, queste virtù, le stesse predicate dai miei parenti veneziani, un prete e la sorella presidente dell’azione cattolica. Venezia, ai tempi, era un covo di bigotti.

        1. @ Fischer
          Vladimiro Giacché è ancora più noto e il suo profilo biografico non smentisce il mio paradigma, ma se vuole, anziché fare ricorso all’ampio articolo di Wikipedia dove si trova anche l’elenco dei suoi libri, riprendo solo poche notizie dalla scheda dell’autore stesso nel blog del «Fatto quotidiano».
          Nascita: a Spezia (senza “La”) nel 1963.
          Studi universitari: a Pisa e Bochum (Germania Federale).
          Laureato e perfezionato in Filosofia alla Scuola Normale.
          Professione: Dirigente nel settore finanziario. Dal novembre 2007 è partner di Sator, il gruppo finanziario fondato e diretto da Matteo Arpe. È presidente del Centro Europa Ricerche, membro del Consiglio di Amministrazione di Banca Profilo e Responsabile dell’Internal Audit di Arepo BP.
          Basta? O aggiungiamo anche:
          Figlio di Aldo Giacché, che fu sindaco di La Spezia
          Laurea con tesi «Sulla teleologia nella Scienza della logica di Hegel» (relatore Nicola Badaloni, correlatore Remo Bodei).
          Nell’anno 1987/1988 è stato dichiarato vincitore del premio di studio Emilio Bocca per la migliore tesi di laurea in filosofia. I suoi studi, proseguiti presso la Scuola Normale con Claudio Cesa, nonché con Klaus Düsing (Köln) e Valerio Verra (Roma), si sono conclusi nel 1990 con il conseguimento del diploma di perfezionamento in filosofia con la tesi “Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel” (relatore Nicola Badaloni), poi pubblicata in volume.
          Mi fermo qui. Mi pare che basti. È inutile, ai fini del nostro discorso, esaminare i suoi studi editi in diversi articoli, saggi su riviste specializzate e in volumi (fra l’altro, anche un manuale di filosofia per i licei), con passaggio dalla filosofia all’economia alla finanza a studi di economia internazionale concentrati su alcuni Paesi, fra cui un lungo saggio su «L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea», e a studi su Marx economista.
          Uno che parte “già spinto”, si potrebbe dire, visto che tipo di famiglia ha alle spalle e che amici di famiglia può elencare, ma che del suo ci ha messo molto: non ha perso mai tempo, si è concentrato molto, è stato costante nello studio e nella produzione di titoli sia universitari sia per una carriera nel mondo dell’economia e della finanza.
          ***
          Quanto poi al febbraio 1981, in cui si «consumò il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia», sinceramente non mi pare una data epocale da ricordare alla minima allusione. In fatto di banche, tesoro e moneta le date fondamentali sono altre:
          1866 Il Governo italiano introduce il corso forzoso e il corso legale della cartamoneta.
          1893 Istituzione della Banca d’Italia, che diventa l’unica banca autorizzata ad emettere moneta. La moneta diventa un monopolio dello Stato, che agisce tramite la Banca d’Italia. Cessa ogni concorrenza e libertà in questo campo.
          1926 Banca d’Italia ottiene l’esclusiva dell’emissione della moneta, portando così a compimento quanto iniziato nel 1893 eliminando la concorrenza (limitatissima) delle uniche due banche ancora autorizzate ad emettere moneta (Banco di Napoli e Banco di Sicilia). L’emissione di moneta ora è controllata dal potere politico fascista e l’autonomia della Banca d’Italia è scarsissima.
          1944 Accordi di Bretton Woods sulle relazioni commerciali e finanziarie internazionali tra i principali paesi industrializzati del mondo occidentale. Il sistema giuridico che ne scaturì definisce un sistema di regole e procedure per controllare la politica monetaria internazionale.
          1971 Smithsonian Agreement (in italiano: Accordo smithsoniano) fra i membri del G10 per rimediare al caos monetario seguito alla fine del Sistema di Bretton Woods. Cessa l’epoca dello standard oro-dollaro. Da questa data cessa il rapporto convenzionale del valore della moneta ancorato al valore dell’oro. Il valore della moneta diventa una variabile autonoma e indipendente dal prezzo dell’oro come variabile di mercato. In pratica, il potere politico è sempre più libero di gestire come vuole la moneta, l’inflazione, il debito sovrano e altre cose dell’economia degli Stati.
          1981 Il “divorzio” fra lo Stato (Ministero del Tesoro) e la sua banca centrale. La decisione viene presa per il disaccordo sulla gestione di inflazione, debito pubblico e acquisto delle obbligazioni dello Stato. La Banca d’Italia recuperò una certa autonomia e contribuì a stabilizzare la moneta e l’inflazione, mentre gli effetti sull’importo totale del debito pubblico sono più discutibili. Fra gli economisti è ancora oggi in discussione se quella misura fu un bene o un male. In genere è un male per chi dà la preminenza allo Stato e un bene per chi vede in una certa autonomia della Banca d’Italia un potere di bilanciamento in caso di politiche debitorie e inflazionistiche dello Stato. Ma di fatto l’autonomia della Banca d’Italia era e rimane scarsa.
          1992-1999 Trattato di Maastricht del 1992 e progressiva creazione dell’Unione economica e monetaria, fino all’entrata in vigore dell’Euro, che entrò in circolazione dal 1º gennaio 2002.

          1. Certo, nel 1979 c’era stata l’adesione al Sistema Monetario Europeo: due anni prima quindi fu fissato l’obbligo per il successivo divorzio tra Tesoro e Bd’I. Da allora il nostro debito pubblico dipese dalla finanza internazionale, insieme alla nostra sovranità politica. Che oggi è ai minimi termini.
            Sarò chiara: non sto dicendo che sarebbe meglio, oggi, essere un piccolo paese autonomo, tipo Albania di un dì… Dico che le scelte del neoliberismo dalla fine degli anni ’70 (per rovesciare i vantaggi che i lavoratori avevano ottenuto) ci hanno portato all’oggi. Non solo questo nostro non è il migliore dei mondi possibili, ma incensarlo con teorie sforzate sul merito frutto della concorrenza è inaccettabile: pura ideologia.

          2. http://legislature.camera.it/_dati/leg07/lavori/stenografici/sed0383/sed0383.pdf
            Andrebbe letto il discorso di Napolitano alla Camera dei deputati del dicembre 1978 – e qui compreso negli Atti parlamentari – per vedere come egli fosse profeta allora delle criticità della moneta unica (al tempo prefigurata dallo SME) e oggi, quando le forti criticità della moneta unica si sono appalesate, estimatore senza se e senza ma (assieme alla “””sinistra””” tutta) della moneta unica. E andrebbe letto pure, nella stessa seduta, l’intervento altrettanto lucido di Lucio Magri, e magari domandandosi poi perché i suoi “nipotini” si dichiarano favorevoli all’unità monetaria.

          3. @ Fischer
            Il «nostro non è il migliore dei mondi possibili», siamo d’accordo e credo che in tutta la mia produzione di scritti non mi sia mai dedicato a «incensarlo con teorie sforzate sul merito frutto della concorrenza».
            Questo c’entra ben poco con il discorso che ho fatto e che riassumo nel dire: in tutte le società le persone non hanno mai le stesse capacità e si formano automaticamente (oserei dire, almeno come meccanismo di base poi corretto in diversi sensi da altri meccanismi sociali) delle gerarchie, formalizzate o meno che siano, e gli individui che hanno maggiore successo, e le società meno stagnanti e più innovative, sono quelli e quelle che presentano una serie di caratteristiche positive.
            Questo non è nemmeno un discorso che ha a che fare con la morale, ma una pura constatazione sociologica.
            Non ha a che fare con la morale, perché la moralità dei comportamenti non si giudica dalle capacità degli individui né dal modo in cui sono giunti ad ottenerle e a perfezionarle, ma si giudica dalle intenzioni, o, meglio ancora, secondo me, dai risultati.
            E possono esserci dei geni, dei capi naturali, dotati di tante ottime qualità, che però le usano a fin di male e non di bene.
            Ma vedo che mantenere il discorso su un piano il più oggettivo possibile è difficile perché mi si risponde saltando su altri livelli di discorso, e su altri argomenti (come il richiamo ai rapporti fra Stato e Banca d’Italia) che aprono tutto un nuovo filone di discussione.

    1. @ Grammann
      Che risponde con un aforisma: «Statistica. Quando qualcuno afferma che su qualcosa c’è un comune consenso da migliaia di anni e sotto tutti i cieli e i regimi, novantanove volte su cento sta cercando di giustificare una cazzata».
      **
      Aforismi di risposta:
      1) «Diffida di chi risponde a una equazione con un aforisma basato sul nulla o sul proprio personale sentimento».
      2) «Certi studiosi sollevano dubbi sulla teoria delle élite, nonostante tutte le conferme della storia. Gli etologi e gli animali, al contrario, non hanno dubbi che la gerarchizzazione spontanea sia una modalità essenziale nel comportamento animale, uomo compreso».
      3) «La divisione fra la letteratura del cuore, sempre incerto, e le scienze è profonda, come la divisione fra terra e mare per chi odia il nuoto e la navigazione».

      1. L’aforisma è pubblicato sul mio blog e non è una risposta ma una riflessione, proposta alla riflessione di altri lettori. La mia risposta a lei è su Poliscritture e non è un aforisma.

        Lei però mi ha convinto: se devo incentivare una sua produzione di aforismi mi ritiro in buon ordine. Per il bene della terra, del mare e dell’intero universo.

        La saluto, ci vediamo in branco a ululare alla luna.

  21. Se fosse possibile riassumere in poche parole il senso di una lunga riflessione, a me pare che il succo della lunga intervista di Mario Tronti potrebbe consistere in questa frase: “rottura e continuità nella vita personale non sono alternative, ma ci sono tutte e due”.
    Una lunga parte dei commenti di questo post si è svolta sul passato, sui movimenti e sui soggetti politici che lo hanno interpretato, e al presente sulle diverse letture di quei protagonismi.
    Di quelle diverse letture fanno parte riferimenti ideologici e richiami fattuali.
    “Fatti” e ideologie non sono però separabili, i fatti in sè sono poco significativi, se non per il senso che le ideologie ne forniscono.
    A questo proposito, su Labriola oltre al breve saggio di Visalli, è molto interessante un breve saggio di Roberto Finelli: “Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della «prassi»”, che Visalli segnala e che facilmente si trova in rete.
    Finelli spiega che ideologia non è solo falsa coscienza, come per Marx ed Engels, ma “in Gramsci … funzione strutturalmente costitutiva, in senso positivo, conoscitivo … della coscienza individuale e collettiva”.
    Infatti una specie di seconda parte dei commenti al post ha avuto di mira soprattutto lo stretto legame tra “fatti” e “ideologia”, senza raggiungere un accordo a proposito dei primi. Se non nel fatto paradossale che, appunto, ideologie diverse restituivano sensi diversi ai “cosiddetti” fatti.
    Restituendo insieme continuità nella vita personale.

    1. @ cristiana fischer,
      per “continuità nella vita personale” si dovrebbe forse intendere che queste persone (che si solito sono personaggi), dopo aver cambiato ideologia (cioè insieme di idee, cioè visione del mondo) come si cambia un paio di scarpe e dopo aver aderito all’ideologia dominante perché T.I.N.A., continuano la mattina a guardarsi nel solito specchio senza sputarsi in faccia?

  22. Nulla so di chi si guarda e/o si concilia con se stesso (problema per altro diffuso anche ogni dove). È propriamente la scissione tra fatti e ideologia che intendevo rifiutare. Intelligenti pauca.

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