Figli e genitori nella letteratura francese

 

ITINERARIO IN QUATTRO TAPPE ATTRAVERSO UN CONFLITTO          

 

di Elena Grammann

In questo itinerario a volo d’uccello attraverso la letteratura francese vorrei mettere in risalto due aspetti: il primo è come i rapporti genitori-figli, nel momento in cui diventano letteratura, rispecchino fedelmente le preoccupazioni dell’epoca; il secondo è la vocazione prettamente realistica della letteratura francese: cioè la vocazione a indagare le cose come sono e non come sarebbe bello che fossero.

  1. PERCEVAL (1175-1190)

Il romanzo di Perceval, o Racconto del Graal, di Chrétien de Troyes, appartiene al ciclo arturiano e più in generale alla materia di Bretagna: leggende di origine celtica (Inghilterra meridionale) gravitanti attorno alla figura di re Artù, ma non solo. La vicenda di Perceval è strettamente legata al Graal, la coppa in cui Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue di Cristo sul Golgota e dal cui ritrovamento dipenderanno la salvezza e il vigore del re, della corte e di tutta la collettività. Solo un cavaliere innocente e puro può sperare di trovarlo, e Perceval, benché ignori tutto del Graal e anche di se stesso, sembra l’uomo giusto per l’impresa. l caratteri principali di questo personaggio sono infatti l’ingenuità e la purezza che viene dall’inesperienza. Egli è puro perché non è mai entrato in contatto con il male del mondo, e questo perché sua madre, che ha perso il marito e i due figli maggiori – tutti e tre cavalieri – in guerre e combattimenti, lo ha cresciuto in un isolamento pressoché totale, in un maniero nel mezzo di una foresta, affinché il giovane non senta mai parlare di cavalleria e le sia conservato sano e salvo.

Un giorno però, nella foresta dove va a caccia, Perceval incontra cinque cavalieri ed è talmente abbagliato dal loro splendore che, avendo saputo che chi fa i cavalieri è il re Artù, decide di recarsi all’istante a Carduel per diventare anch’egli uno di loro. La madre si dispera, tuttavia non si oppone alla decisione del figlio, anzi gli prepara il necessario per il viaggio e lo munisce di una sfilza di buoni consigli (che Perceval, ingenuo com’è, applicherà alla lettera senza capirne il senso, quindi travisandoli). Il dolore della madre non sembra affatto preoccuparlo. Si arriva alla partenza: Perceval, in groppa al cavallo, passa il piccolo ponte del maniero:

Quando il ragazzo si fu allontanato di un tiro di sasso, si guardò indietro e vide sua madre a terra all’ingresso del ponte, vide che giaceva svenuta proprio come se fosse caduta a terra morta; e lui con la bacchetta di salice frusta il cavallo sulla groppa, e quello va, che non s’inciampa, al gran galoppo anzi lo porta, via attraverso la scura foresta. (Chrétien de Troyes, Le conte du Graal, vv. 618-628)

Perceval non si ferma; tira dritto per la sua strada: persegue la propria determinazione – anche se egli non può saperlo dal momento che non si è fermato – al prezzo della vita della madre: essa infatti è morta per il dolore di vederlo partire.

Dopo una serie di avventure, armato cavaliere, viene ospitato per la notte nella dimora del Re Pescatore, enigmatico personaggio afflitto da una grave e misteriosa infermità, e qui, durante la cena, assiste a una strana processione.

Quello che Perceval vede passare è il Graal e i prodigi che lo accompagnano. Egli vorrebbe chiedere al suo ospite di cosa si tratta, ma preoccupato di seguire alla lettera le istruzioni ricevute dal maestro di cavalleria (di non essere indiscreto e non fare domande importune), tace. Ha il Graal a portata di mano, ma tacendo se lo lascia sfuggire e soprattutto si lascia sfuggire l’occasione di salvare il suo ospite, che la domanda riguardo al Graal basterebbe a guarire.

Dopo questo che potremmo chiamare un peccato di omissione, la vita di Perceval si oscura: per cinque anni egli fa il mestiere di cavaliere, passando di avventura in avventura, dimentico di tutto e perfino della religione, finché un Venerdì Santo un eremita gli spiega qual è il peccato che gli ha impedito di chiedere, e di liberare così se stesso e gli altri; gli svela qual è il vero motivo di quella omissione carica di conseguenze: egli non ha potuto cogliere l’occasione del Graal perché su di lui grava una colpa: a causa della sua partenza, la madre è morta di dolore.

“Ah! Amico, dice il galantuomo, dimmi perché hai fatto questo [cioè hai dimenticato la religione], e prega Dio che abbia pietà di te peccatore. – Signore, fui una volta presso il Re Pescatore, e vidi la lancia il cui ferro, è cosa certa, sanguina, e del graal che colà io vidi non so [cioè non ho chiesto] a chi ne fosse servito, e dopo ne ho avuto sì gran dolore che volentieri avrei voluto essere morto; per questo dimenticai il Signore Iddio, che anzi mai più in seguito gli chiesi perdono né feci cosa, per quel che sapevo, che potesse meritare il suo perdono.” “Ah! Amico, dice il galantuomo, dimmi ora qual è il tuo nome.” E quello gli dice: “Perceval, signore”. A queste parole il galantuomo, che ha riconosciuto il nome, sospira, e dice: “Fratello, molto ti ha nuociuto un peccato di cui non sai nulla, e questo peccato è il dolore che tua madre ebbe per te quando te ne andasti, che cadde svenuta all’ingresso del ponte, vicino alla porta, e per quel dolore essa fu morta. […] Questo peccato ti tagliò la lingua quando vedesti passare il ferro che mai smette di sanguinare e non ne chiedesti la ragione. Ti comportasti da sconsiderato quando del graal non domandasti a chi ne venisse servito. […] Ora di questo peccato voglio darti e importi penitenza.” (Le conte du Graal, vv. 6156-6217)

Perceval accoglie l’invito dell’eremita a seguire la liturgia del Venerdì Santo e a fare penitenza, e sul suo pentimento si chiude il romanzo incompiuto di Chrétien de Troyes (almeno nella parte relativa a Perceval).

In questo racconto del XII secolo, che sta all’inizio della letteratura europea e dell’emergere della soggettività e dell’individuo quali li conosciamo, l’eroe si trova in una situazione paradossale: da un lato la sua vocazione, cioè la realizzazione di se stesso come individuo, è essere il cavaliere che troverà il Graal; dall’altro per essere cavaliere egli causa il dolore e la morte della madre e si carica di una colpa che gli precluderà quella realizzazione e lo precipiterà nell’oscurità e nel dolore. Il dilemma aporetico di Perceval è figura della lunga contraddittorietà con cui l’uomo europeo, nel suo processo di emancipazione, ha dovuto fare i conti: da un lato l’autorità – genitoriale, religiosa, epistemologica, politica – da cui ci si vuole e deve emancipare, dall’altro i sensi di colpa che questo processo di liberazione comporta.

Nel romanzo – incompiuto – del Graal, la conclusione, non si sa quanto provvisoria, ci mostra Perceval che assiste contrito alla liturgia del Venerdì Santo: al racconto della Passione, cioè dell’obbedienza del Figlio alla volontà del Padre fino all’annullamento nella morte.

I tempi non sono maturi per la ribellione.

  1. DON GIOVANNI (1665)

Nel 1665, un anno dopo che il Tartuffe è stato censurato e tolto dalle scene, Molière ci dà Don Giovanni, commedia in cinque atti che nonostante il successo iniziale subirà la stessa sorte: fortemente criticato e osteggiato dalla cabala cattolica e devota, nonostante tagli e rimaneggiamenti non sarà più rappresentato fin dopo la morte dell’autore. Ci si chiede perché. La leggenda di Don Giovanni, originariamente rielaborata per il teatro da Tirso de Molina e poi ripresa, prima che da Molière, dalla commedia dell’arte e da altri autori francesi, è nota: Don Giovanni è il seduttore impenitente, il nobile che, incurante della nobiltà come qualità dell’animo prima che come appartenenza sociale, imbroglia, mente, spergiura e perfino uccide; è colui che, senza alcun riguardo per il prossimo, persegue unicamente il proprio piacere, che lo fa con convinzione e a ragion veduta, che dispone di una morale dell’immoralità e vi aderisce senza esitazione; è colui che, anche nel momento estremo, rifiuta di pentirsi e quindi, con soddisfazione di tutti, viene precipitato all’inferno. È la vicenda del malvagio punito ed è lecito chiedersi perché gli ambienti cattolici la abbiano osteggiata con tanta determinazione.

Occorre intanto precisare che il personaggio di Don Giovanni è più noto al pubblico odierno attraverso l’opera di Mozart-Da Ponte che attraverso la commedia di Molière. Il Don Giovanni di Mozart, di un secolo successivo, è un mascalzone, ma un mascalzone con qualcosa di grandioso, un mascalzone di cui, nonostante tutto, si subisce il fascino. Il personaggio di Molière al contrario non ha nulla di affascinante: è un personaggio antipatico, a tratti rivoltante, sembra fatto apposta per suscitare nel pubblico il desiderio di vederlo punito. E allora perché irrita tanto i cattolici? Perché è un mascalzone con una logica – e una logica non facile da smontare. Il suo ateismo è profondo, granitico e coerente, il suo egoismo ha la forza della natura, la sua spregiudicatezza ci mostra le cose del mondo in una luce cruda ma a suo modo esatta. Egli è libertino nel doppio senso della parola: gaudente amorale ma anche spirito libero, insofferente di ogni costrizione e nemico del principio di autorità. Difficile contraddirlo, soprattutto se l’autore, Molière, sceglie di affidare la difesa della morale e della religione alla dialettica sprovveduta e spesso risibile del servitore Sganarello. Come il pubblico di oggi, anche i cattolici dell’epoca devono avere avuto l’impressione che Molière, sotto sotto, tenga per Don Giovanni.

Il punto della commedia che ci interessa è molto breve: la scena V dell’atto IV. Nella scena precedente il padre di Don Giovanni, Don Luigi, figura austera e piena di dignità, fa energiche e ben fondate rimostranze al figlio per la vita dissoluta che conduce e se ne va minacciando di por fine alle sue nefandezze. Don Giovanni lo ascolta con insolente indifferenza. Appena il padre esce di scena ecco la sua reazione:

Ma morite! e più in fretta che potete. È la cosa migliore che possiate fare. Bisogna che ciascuno abbia il suo turno, no? e schiumo di rabbia a vedere dei padri che vivono quanto i loro figli. (Molière, Dom Juan, IV, 5)

Un’affermazione del genere (di cui non c’è traccia, ad esempio, in Tirso da Molina) venendo dalla scena, cioè da quel dispositivo di amplificazione e pubblica educazione che è all’epoca il teatro, ha una forza d’urto e una risonanza enormi. E qui Don Giovanni fa qualcosa di più che non infrangere il quarto comandamento. Lui il quarto comandamento – come pure tutti gli altri – li vuole proprio abolire. Pone un principio: che è necessario – è nell’ordine naturale – che ciascuno abbia il suo turno; che chi contravviene all’ordine naturale (un padre che campa troppo) è motivo di giusta collera (j’enrage); che i genitori devono morire e lasciare spazio, cioè potere, ai figli; che dai genitori ci si aspetta che muoiano.

Insomma, se il partito cattolico ha chiesto, e ottenuto, la soppressione del Don Giovanni un motivo c’era, ed era che, per quanto mascalzone e antipatico, Don Giovanni rappresenta l’individuo moderno, a modo suo porta avanti le istanze del soggetto: rifiuto del principio di autorità, adozione dell’evidenza razionale come criterio di verità; non diversamente da Descartes, con la differenza che Don Giovanni le estende anche alla morale e alla religione, mentre Descartes, allarmato dalla puzza di bruciato, evita di farlo.

 Il faut que chacun ait son tour, bisogna che ognuno abbia il suo turno: come dire che l’individuo libero, emancipato – l’adulto – è qualcuno i cui genitori in quanto genitori sono, anche solo metaforicamente, morti. Come dire, anche, che nulla del passato può essere ripreso così com’è e che il figlio, se vuol essere adulto e libero, non può non vivere diversamente da come il genitore, in quanto genitore, lo ha educato.

Cioè, se facciamo la tara della provocazione e dello choc (Eh, mourez le plus tôt que vous pourrez), si trova che questa riflessione del ribaldo può ben valere, magari metaforicamente, anche per l’uomo onesto.

III.      ILLUSIONI PERDUTE (1837-1843)

Il 21 gennaio 1793, con la decapitazione del re Luigi XVI, l’autorità divina, di cui l’autorità genitoriale è un riflesso, può dirsi liquidata. Nell’età post-rivoluzionaria i rapporti genitori-figli, almeno a quanto ce ne dicono le testimonianze letterarie, prendono un’altra piega.

Se nel XII secolo abbiamo incontrato il senso di colpa della soggettività nascente nei confronti di una tradizione religiosa e culturale basata sull’autorità, se nel XVII secolo la soggettività è ormai abbastanza forte da porsi spregiudicatamente – ancorché sotto la maschera prudente dell’empietà – contro la medesima tradizione, nel XIX questo genere di problematiche appaiono pienamente superate: non sono più di stagione. La realtà che domina il XIX secolo, la realtà con cui bisogna fare i conti e che quindi impronta di sé anche i rapporti genitori-figli, non è l’autorità, non è la religione, non è nemmeno l’autonomia dell’individuo: è il denaro. Nel XIX secolo tutto diventa una questione di soldi.

Già nelle prime pagine di Illusioni perdute – uno dei più bei romanzi che siano mai stati scritti – Balzac ci confronta, direi brutalmente, con questo nuovo carattere del rapporto.

L’inizio del romanzo ci catapulta, con l’immediatezza e la decisione caratteristiche di Balzac, nell’ambiente e nei problemi della tipografia, mondo e, soprattutto, problemi che lui stesso conosceva molto bene per aver rilevato una stamperia che sarebbe poi fallita lasciandolo pieno di debiti. La tipografia del romanzo si trova in provincia, a Angoulême, e l’anziano proprietario, Jérôme-Nicolas Séchard, è un ex-operaio analfabeta, originariamente addetto alle presse, che in seguito agli sconvolgimenti rivoluzionari e grazie a una notevole capacità di iniziativa e a una rustica astuzia negli affari, è passato da dipendente a padrone. Con riferimento alla sua originaria attività di operaio addetto alle presse e ai movimenti identici e ripetitivi che questo genere di lavoro comportava, egli era detto “l’Orso”. L’Orso ha un unico figlio, David, che ha educato con una certa cura, mandandolo perfino a studiare tipografia a Parigi (senza scucire un ghello però) per farne il proprio successore. Ora il padre vuole ritirarsi dall’attività per dedicarsi con più agio alla sua grande passione, cioè al bere; richiama dunque il figlio da Parigi e si appresta a cedergli la stamperia:

A dispetto delle conoscenze che il figlio doveva avere acquisito nella grande Scuola dei Didot [la scuola di tipografia], si propose di fare con lui il buon affare che meditava da tempo. Se il padre ne faceva uno buono, il figlio doveva farne uno cattivo. Ma, per il vecchio, in affari non c’erano né padri né figli. Se in un primo momento aveva visto in David il suo unico figlio, più tardi vide in lui l’acquirente naturale i cui interessi erano opposti ai suoi: lui voleva vendere a caro prezzo, l’interesse di David era di comprare a buon mercato; suo figlio diventava dunque un nemico da battere. Questa trasformazione del sentimento in interesse personale, generalmente lenta, tortuosa e ipocrita nelle persone che hanno ricevuto una buona educazione, fu rapida e diretta nel vecchio Orso, che mostrò come la sbronzografia astuta fosse più efficace della tipografia istruita.

Così è infatti: pur sapendo che cattivo, che pessimo affare sta facendo, David Séchard viene abilmente condotto dal padre, che alterna i consueti patetismi alle lodi dei buoni vecchi sistemi di lavoro, a impegnarsi a pagare, per una stamperia dalle attrezzature largamente superate e minacciata da una concorrenza aggressiva e spietata, una somma spropositata, fidando unicamente nelle ipotetiche future entrate dell’impresa. Il fallimento è assicurato.

Si potrebbe obiettare che una rondine non fa primavera e che il vecchio Séchard è soltanto un avido ubriacone e un padre snaturato, tuttavia la frase con cui si conclude la citazione dovrebbe farci riflettere. In essa Balzac afferma che sì, il caso di Séchard è particolarmente plateale, ma è la manifestazione plateale di un fenomeno generale: la trasformazione del sentimento in interesse personale. E l’interesse personale, nel XIX secolo, riveste la forma del denaro.

A prescindere anche dal numero di padri avari, biecamente calcolatori, o semplicemente mossi, nei loro rapporti con i figli e magari pure in buona fede, da logiche che sono le logiche dell’investimento e della moltiplicazione del denaro – a prescindere anche da questo, rimane il fatto che nell’universo balzacchiano il sentimento – l’istanza romantica – è posto di fronte a una scelta: o cedere e trasformarsi in interesse – l’istanza realista – o andare incontro a uno spettacolare naufragio. Che a naufragare siano i figli – più spesso – o i genitori, come nel caso apparentemente opposto di Papà Goriot, sempre di soldi si tratta.

Corretto: perché nel XIX secolo ciò che fruttifica non sono i sentimenti ma il denaro.

  1. LA SVOLTA GENEALOGICA

Avanzando verso la fine del secolo constatiamo come il momento conflittuale si attenui. Che si tratti di conflitto fra autorità e libertà, o di conflitto intorno al possesso del denaro come mezzo di affermazione, l’aspetto conflittuale nel rapporto genitori-figli tende a spostarsi ai margini della focalizzazione. L’autonomia, almeno da un punto di vista ideologico, è acquisita; al denaro si è fatta l’abitudine, la sua auto-propulsione non è più quella cosa nuova e selvaggia, è stata un tantino regolamentata, un tantino irreggimentata, ha perso l’irruenza originaria. Dall’autonomia e dall’economia l’interesse si sposta sulla genealogia: l’origine dei fenomeni.

Zola individua nella predisposizione genetica, la cosiddetta ereditarietà dei caratteri, uno dei due grandi principi – l’altro è l’influenza dell’ambiente – che determinano in modo ferreo l’individuo e il suo destino: dimmi di chi sei figlio e ti dirò chi sei – o quasi. Nell’universo deterministico di Zola parlare di autonomia dell’individuo – a qualsiasi livello – è come parlare di autonomia di una cellula su un vetrino di laboratorio. Non è quello il punto.

Ma anche al di là e oltre lo scientismo un po’ ingenuo dei naturalisti e del loro caposcuola, il XX secolo si apre su un desiderio di scavo, una curiosità delle origini, una preoccupazione delle radici di cui la psicologia del profondo di Freud e la genealogia di Nietzsche rappresentano al contempo le grandi manifestazioni e le direttive di ricerca per il futuro. In letteratura l’interesse per la propria infanzia e per l’universo familiare testimoniano di un radicale cambiamento di prospettiva: non si tratta più né di contrapporre se stessi e le proprie scelte al mondo valoriale della tradizione, né di conquistare, rispetto a istanze antagoniste, lo spazio economico per la propria realizzazione. I genitori non rappresentano più, sotto il velo usurato e ipocrita di una sentimentalità obbligata, il nemico da sconfiggere, ma diventano esseri misteriosi da indagare, spesso con grande amore, talvolta con atteggiamento più freddo e distaccato, più scientifico, raramente con acredine e spirito di rivalsa. Esseri da indagare perché l’indagine sui genitori e sul mondo semi-sprofondato dell’infanzia diventa un’archeologia di se stessi, un’indagine sui motivi, misteriosi, per cui si è come si è.

“Lentamente scandisco, in me, il contributo di mio padre, la parte della madre”,  dice Colette, autrice francese di cui parleremo fra poco, a proposito del lavoro di memoria che ricostruisce l’infanzia e i genitori.

Indagine e lavoro di memoria i cui risultati sono destinati a essere, per forza di cose, parziali, e che tuttavia ha appassionato e continua a appassionare scrittori e lettori, come si può vedere dalla robusta produzione epigonale che continua a affollare le librerie.

Con l’indagine sull’infanzia e sulle origini balza prepotentemente alla ribalta la figura materna. La madre, molto più del padre, dà la sua impronta all’infanzia e al mondo familiare. Nel 1930 Colette, una dei più grandi scrittori francesi della prima metà del Novecento, pubblica Sido, breve “romanzo” di ricordi d’infanzia strutturato in tre parti con tre titoli distinti: la prima parte, Sido, è dedicata alla madre, Sidonie, detta Sido dal marito; la seconda, Il Capitano, è centrata sulla figura paterna, mentre la terza, I selvaggi, ci presenta i due fratelli maschi. Che il titolo generale scelto da Colette per la piccola trilogia sia comunque Sido è un chiaro segno della preponderanza della figura materna sugli altri componenti della famiglia e del suo peso, per una volta positivo, sulla formazione della futura scrittrice. Sido è un testo bellissimo, che invito caldamente a leggere. Ho scelto, per concludere il mio intervento, un breve passaggio.

Colette, all’epoca una bambina di sette o otto anni, e la madre sono in giardino, davanti ai vasi in cui la madre coltiva fiori particolarmente delicati. Di uno non ricorda cosa vi abbia interrato. E’ facile scoprirlo, dice la bambina, basta grattare la terra. No, protesta la madre, così si ucciderebbe la pianta, e le fa promettere di non scavare:

In quel momento il suo viso, infiammato di fede, di curiosità universale, spariva sotto un altro viso più vecchio, rassegnato e dolce. Sapeva che, non diversamente da lei, non avrei resistito al desiderio di sapere, e che seguendo il suo esempio avrei scavato nella terra del vaso fino a scoprirne il segreto. Sapeva che ero sua figlia, io che non pensavo alla nostra somiglianza, e che già, bambina, cercavo quell’urto, quel battito accelerato del cuore, il respiro che si arresta: l’ebbrezza solitaria del cercatore di tesori. Un tesoro non è soltanto qualcosa nascosto nella terra, nella roccia o sommerso dalle onde. La chimera dell’oro e della gemma non è che un miraggio informe: importa, unicamente, che io denudi e porti alla luce ciò che, prima del mio, l’occhio umano non ha toccato…

La ricerca dell’origine del sé nella somiglianza famigliare diventa, in questo testo sulla madre e l’infanzia, il doppio e la figura del lavoro dello scrittore come ricerca dell’originale sepolto, nascosto – della verità d’origine che nessun occhio, ancora, ha visto e mostrato.

Qui un approfondimento su Sido e l’infanzia di Colette.

6 pensieri su “Figli e genitori nella letteratura francese

  1. ‘I tempi non sono maturi per la ribellione’: perfino i miei ‘enzimi digestivi’ non mi consentono di digerire un commento così semplicistico e sempliciotto, di un mito dal quale Wagner ha tratto un capolavoro, Parsifal, dandone una sofferta e profonda interpretazione che gli costò la rottura del rapporto con Nietzsche, data la sua ispirazione cristiana.
    Le interpretazioni tendenziose e distruttive proseguono con gli altri autori, salvo che per Colette, nel rispetto solidale verso il femminile.
    Anche nel realismo di Balzac o del Don Giovanni si può trovare del positivo, laddove questo ‘male’ apra lo spazio a una adeguata riflessione, sollecitata e incentivata dalla carica dell’opera d’arte.
    Il dado è tratto, gentile amica.

  2. Singolare, e insieme interessante, il taglio di lettura “simultanea” che ha messo insieme questi pilastri della letteratura mondiale. E il résumé dei punti salienti, secondo la peculiare lettura fattane, di tali pilastri mi ha fatto perfino digerire il “Perceval”, opera che non mi ha mai veramente interessato. Ma mentre leggevo il relativo résumé ho pensato che forse, e pur risiedendo i due “personaggi” in galassie diversissime tra loro , senza il Perceval non ci sarebbe stato il Don Quijote , e allora, in questo senso, l’ho apprezzato .

    1. Ringrazio per l’apprezzamento, anche a nome di Perceval.
      Il bello dei cavalieri di Chrétien è che al mattino, appena alzati, si premurano di sentir messa, come si diceva, e senza alcuna ipocrisia. Ma quello che fanno poi durante la giornata ha molto poco a che fare con la messa. Ed è quello che fanno durante la giornata, non la messa, che ha affascinato il pubblico dei lettori e uditori per più di cinque secoli, fino a Don Chisciotte – alla cui discendenza mi pregio di appartenere.

  3. Il puro folle. Il folle puro. Il puramente folle. Il follemente puro. Il puro perché folle. Il folle perché puro. Mah.

    “…[il] sapere sapienziario; che si suol anche chiamare umanistico. Esso conferma se stesso – per questo c’è anche chi lo chiama tautologico – si fonda sulla glossa perpetua a testi ricevuti e procede mediante sempre diverse combinazioni di elementi costanti, come alcuni strutturalisti tendono a dimostrare.”

    Franco Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere

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