«Viva la sinistra» di Alessandro Dal Lago

 Letture in quarantena (5)

 di Donato Salzarulo 

Questa “Lettura d’autore”, annunciatami  da tempo dall’amico Salzarulo che la stava completando, capita nel pieno dell’acceso dibattito  scaturito dagli interventi di Luciano Aguzzi e dalle repliche ad essi (qui e qui). E’, però, una riflessione  autonoma e approfondita di un libro; e come tale va considerata. Al di là delle prese di posizione implicite o esplicite  che indirettamente dà ai dilemmi, agli aut-aut, alle ambivalenze con cui stiamo facendo i conti. Anche se, come suol dirsi, aggiunge altra (o troppa) carne al fuoco già acceso, mi parrebbe immotivato  rinviarne la pubblicazione [E. A.]

1.- L’ultima analisi sulla crisi della sinistra

L’ultima analisi che ho letto sulla crisi della sinistra risale a prima del lockdown, a febbraio 2020.  È di Alessandro Dal Lago ed è contenuta in un libretto che s’intitola «Viva la Sinistra» (Il Mulino, 2020, pp.189, Є 13). L’autore è un sociologo che conosco – nel senso che ho letto altri suoi libri -, è della mia stessa generazione e, soprattutto, ha un atteggiamento molto simile al mio. Ossia, di una persona che guarda al proprio passato «senza indulgenza, ma anche senza vergogna», che continua a nutrire buoni motivi per criticare il capitalismo, anche se è estremamente perplesso sul modo di produzione col quale sostituirlo e che, infine, non ha cambiato sostanzialmente idea. Questo, mentre ha visto nel suo panorama sociale «coetanei, amici di gioventù, colleghi d’università, che negli anni Sessanta e Settanta tiravano sampietrini alla polizia o facevano i piccoli leader di partitini e gruppuscoli, rispuntare decenni dopo nelle vesti di berlusconiani entusiasti o esponenti del verbo padano, quando non reggicoda di Beppe Grillo.» (pag. 24-25).

2.- Due assunti fuorvianti

L’analisi sulla crisi della sinistra non può neanche cominciare se si parte da assunti fuorvianti del tipo: a) lo scontro destra/sinistra è stato sostituito da quello popolo/élite; b) le ideologie sono morte e stiamo vivendo in un tempo post-ideologico.

Questi due assunti sono ambedue ideologici e fanno parte di un discorso che i gruppi dirigenti sovranisti e neo-nazionalisti utilizzano per mobilitare gli elettori contro i gruppi dirigenti di sinistra. Tutte le volte che ascoltiamo o leggiamo un discorso – a meno che non siano postulati, teoremi e proposizioni scientifiche – dobbiamo metterci bene in testa che abbiamo a che fare con un insieme di argomentazioni più o meno coerenti, che, per loro stessa natura, sono in parte ideologiche. Questo mio stesso scritto lo è.  A maggior ragione se parliamo di slogan, simboli, combinazioni di idee più o meno fondate (tipo: siamo invasi dagli immigrati, ci rubano il lavoro, non esiste più destra né sinistra, ccc. ecc. ). Si tratta in larga parte di produzioni ideologiche, «impasti di realtà e illusione, di reale e immaginario.» (pag.13). In buona sostanza: chi sostiene che le ideologie sono morte è un impostore.

3.- Azione sociale e scelte politiche spesso frutto di motivazioni irrazionali

Ulteriore premessa, oltre a quella sull’ideologia: gran parte dell’azione sociale e delle scelte politiche è spesso frutto di motivazioni irrazionali o a-razionali. Alcuni esempi tipici: l’«invasione» di migranti e rifugiati in Italia. La cifra reale è intorno all’8%. Ma, secondo i risultati di una ricerca Eurispes, il 35% degli italiani pensa che sia intorno al 16%, mentre il 25,4% ritiene addirittura che rappresenti quasi un quarto della popolazione residente (il 24%). Il 10% sottostima il numero e soltanto il 28,9% degli intervistati ha fornito una cifra vicina a quella reale.

Lo stesso vale per la percezione del numero dei musulmani in Italia: secondo l’opinione prevalente sarebbero il 20% della popolazione residente, mentre superano di poco il 3%.

Stesso discorso, infine, per il problema delle minacce alla sicurezza dei cittadini. Secondo i dati Istat sono in continua diminuzione, al contrario di ciò che pensa la maggioranza degli intervistati.

Queste percezioni, sopravvalutanti l’impatto delle migrazioni e dell’insicurezza, sono una costante da almeno vent’anni. Nelle elezioni politiche del 2018 e in quelle europee del 2019 queste percezioni sono state alla base della sconfitta della sinistra e delle clamorose affermazioni elettorali di sovranisti, neo-nazionalisti e populisti (Lega, Fratelli d’Italia, M5S).

  1. – Tre ragioni per spiegare la sconfitta dell’idea di sinistra

Dopo aver sottolineato che la sconfitta dell’idea di sinistra non è un problema soltanto italiano, Dal Lago ne individua tre ragioni: a) una crisi generalizzata a tutto l’Occidente, definibile il «disagio della globalizzazione», di cui la paura dei migranti e la percezione di un’insicurezza crescente sono rappresentativi (pag.17). Questo disagio, frutto dell’interdipendenza orizzontale delle economie e dei vincoli politico-economici tra stati, si manifesta come erosione della sovranità degli stati-nazione, come speculazione finanziaria sulle valute e come concorrenza nei mercati del lavoro con minacce di delocalizzazione di imprese, ecc.; b) la diffusione dei social media interattivi (Facebook, Twitter, Instagram, ecc.) con conseguenti mutamenti nelle condizioni di formazione dell’opinione pubblica: «l’attivismo degli utenti crea l’illusione del possesso e del controllo della verità» (pag. 20), essi diventano soggetti e destinatari della comunicazione, contribuiscono a formare “bolle identitarie”, ecc.; c) il fondamentale mutamento della comunicazione pubblica con leader capaci di rivolgersi direttamente al «loro popolo» (pag.21).

Questi tre fattori essenziali si ritrovano perfettamente sintetizzati e impersonati nella presidenza Trump. Ormai ex.

«Ma sarebbe miope attribuire questo declino – oggi apparentemente irreversibile – solo alle migrazioni, ai social media e alle diffuse nostalgie dell’uomo forte. In Occidente movimenti e partiti convenzionalmente definiti di sinistra hanno contribuito ampiamente al loro fallimento.

Qual è dunque la loro specifica responsabilità in quello che si profila essere un vero e proprio cambiamento d’epoca? E si può immaginare una sinistra alternativa a quella che oggi deve dichiarare bancarotta?

Le pagine che seguono sono un tentativo di rispondere a queste domande.» (pag. 23-24)

5.- Gli elementi essenziali di un discorso di destra

Quali siano oggi gli elementi essenziali di un discorso di destra non penso che si faccia fatica ad individuarli. Non occorre consultare un manuale di Storia delle dottrine politiche. Basta ascoltare anche distrattamente Salvini e Meloni per capire che, oltre alla riduzione indiscriminata delle tasse o flat tax, sono ossessionati (e ci ossessionano) con frasi e slogan contro gli immigrati che ci “invaderebbero”, contro la cultura LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) che minerebbe la famiglia tradizionale, contro l’Unione europea che opprimerebbe la nostra nazione e il nostro “popolo”, ecc. ecc.

È il genere di discorso che, sintetizzando e semplificando, definiamo “populista” (di destra) e “sovranista” (nazionalista). Ma, oltre a questo, si domanda Dal Lago, c’è un nucleo di principi comuni alle destre contemporanee? La sua risposta è affermativa. Per argomentarla ritiene che sia opportuno rivolgersi a quelle discipline (sociologia, storia, antropologia) «che si interrogano sulla relazione tra azione politica, rituali e simboli» (pag. 40).

Il suo primo richiamo è allora ad uno studio fondamentale di Victor Turner, «Antropologia della performance» (Il Mulino, 1993). Da queste pagine riprende i concetti di “rituali ‘liminali’” (coinvolgenti, totalizzanti) e “liminoidi” (freddi, teatrali). (pag. 41). La famosa performance di Salvini al Papeete, nell’estate del 2019, è un esempio di rituale liminale. È liminoide, invece, il rituale delle delegazioni dei partiti che si recano al Quirinale per formare un nuovo governo.

6.- L’opposizione destra/sinistra sta assumendo nuove forme

Victor Turner è un importante esponente della “Scuola di Manchester”. A differenza di quella struttural-funzionalista, questa scuola privilegia la componente dinamica, trasformativa e conflittuale dei processi sociali. Nella vita quotidiana di un villaggio o anche di una società complessa possono verificarsi delle fratture, dei punti di svolta, dei veri e propri “drammi sociali”, che hanno la caratteristica di attivare opposizioni e conflitti fra gruppi, classi, etnie, categorie sociali, ruoli e status cristallizzati, ecc. Questi “drammi sociali” non escludono le marxiane lotte di classi, ma comprendono fratture che possono essere anche etniche, religiose, ecc. Seguo, quindi,  Dal Lago: «È a questo livello antropologico, nei suoi vari aspetti e sfumature, che possiamo analizzare l’opposizione destra/sinistra, che alcuni danno per scomparsa e che per me, al contrario, sta assumendo nuove forme.» (pag. 43).

Una delle prime nuove forme è proprio questa capacità della destra di rivolgersi all’elettorato e all’opinione pubblica a un livello “liminale”. Cosa che la sinistra, quel che è diventata e che ne resta, non è capace di fare. Detta in volgare, Salvini e Meloni parlerebbero alla nostra “pancia”, mentre Zingaretti, Fratoianni e non so chi altro si rivolgerebbero alla nostra “ragione”. O forse, scomodando lo studioso britannico di antropologia sociale, si potrebbe sostenere che i primi due trasformano l’approdo a Lampedusa di un certo numero di migranti in “dramma sociale” (sicuramente lo è), mentre la sinistra non riesce ad evidenziare il “dramma sociale” esistente dietro gli incassi e gli stipendi miliardari dei vari consiglieri d’amministrazione. Non si riesce a trasformare in un “rituale liminale”, ad esempio, il fatto che Sundar Pichai, ceo di Google, abbia incassato, in quest’anno terribile di pandemia, 280 milioni di dollari (di cui 2 milioni in stipendio). Circa 10.000 volte lo stipendio medio nel Gruppo. Vorrei che gli alfieri della meritocrazia mi spiegassero come ha fatto e se tutto ciò sia dovuto esclusivamente al suo merito.

7.- Robert Hertz e la preminenza della mano destra sulla sinistra

Dopo Victor Turner, Dal Lago compie un ulteriore passo nella sua ricerca e richiama un saggio assai importante sulla preminenza della mano destra nella cultura e nella religione, pubblicato dall’antropologo francese Robert Hertz nel 1909.

«In sintesi, il risultato della sua indagine è che in gran parte delle società, elementari o complesse, alla destra sono associate le idee di sacralità, abilità, forza, virilità, mentre alla sinistra quelle di empietà, goffaggine, debolezza, femminilità. Questo dualismo si prolunga fino ai nostri tempi disincantati e ipermoderni» (pag. 46).

Ben oltre la differenza simbolica nell’uso delle due mani, l’opposizione destra/sinistra riguarda l’immagine complessiva dell’uomo. «Si configura come un vero e proprio dualismo antropologico […] una sorta di struttura trascendentale della cultura, capace di aggregare anche significati morali, religiosi, [politici], ecc.» (pag. 48).

Scrive, infatti, Robert Hertz: «La mano destra è il simbolo e il modello di tutte le aristocrazie, la sinistra di tutte le plebi.» (citato a pag. 37). Seguace di Durkheim, l’antropologo francese, riteneva che i gruppi sociali dovevano integrarsi e collaborare. Un po’ come sosteneva Menenio Agrippa nel suo famoso apologo. E un po’ come la pensava anche Ernst Jünger che teorizzava il superamento delle categorie di destra e sinistra. Ma il riconoscimento di una possibile “solidarietà” tra le due culture politiche non cancella le loro fondamentali differenze.

  1. – I valori della destra e la loro influenza estetica

«Nel XX secolo fascismo e nazismo hanno rappresentato la manifestazione estrema dei simbolismi che Hertz associava alla destra: forza, destrezza e virilità come culto del corpo, sacralità (dello Stato, del duce e del Führer) esprimevano, anche se in forma grottesca, quell’ideale mistico che Hertz attribuiva per lo più alla religione.» (pag. 53). Persino l’ideale della donna veniva “mascolinizzato”.  L’estetica di destra, secondo Dal Lago, ha avuto nel Novecento «un’influenza ben più duratura e profonda di quella collegata ai principi della sinistra» (pag. 54). Basti pensare a quanto gli ideali della virilità e della forza siano presenti nella vita sociale: «Indipendentemente dai casi estremi del fascismo e del nazismo, la destra si caratterizza per i valori tipicamente maschili del riconoscimento della gerarchia, dell’autorità, delle radici religiose o nazionali, della durezza in campo sociale, dell’individualismo estremo, della libertà come mera indipendenza personale.» (pag. 55). Valga per tutti, l’esempio di Margaret Thatcher. Non a caso soprannominata la “Lady di ferro”.

Scrive Dal Lago: «La linea ideologica di demarcazione tra la destra liberale e quella totalitaria non è sempre netta. La differenza, ovviamente fondamentale, è nel restare o meno di fatto nell’ambito della democrazia liberale.» (pag. 56). Annotazione preziosa, quanto mai condivisibile e fondata. Prova ne sia l’attacco del 6 gennaio 2021 al Congresso americano da parte di Trump e dei suoi seguaci.

9.- L’appartenenza alla sinistra dopo il dibattito promosso da Bobbio nel 1994

Il dibattito sulle radici della destra e della sinistra è esploso in Italia nei primi anni Novanta, dopo la “discesa in campo” di Berlusconi. Infatti, il saggio «Destra e sinistra. Ragioni e significato di una distinzione politica» di Norberto Bobbio venne pubblicato nel 1994 da Donzelli. Il filosofo torinese individuava la ragione fondamentale dell’antitesi destra/sinistra nell’opposizione disuguaglianza/uguaglianza. Uguaglianza non significa ugualitarismo. Rousseau risultava essere il filosofo ispiratore della sinistra e Nietzsche della destra. Nel dibattito che ne seguì si aggiunsero altri criteri: rifiuto della violenza a sinistra e accettazione a destra. Esclusione sociale a destra e inclusione a sinistra. Ricerca dell’ordine sociale a sinistra e accettazione del disordine a destra. Conflitto tra uguaglianza e libertà, ecc.

Dal Lago: «Un limite evidente del dibattito era senz’altro una certa rigidezza categoriale» (pag. 61). Alla base, vi era una lettura abbastanza stereotipata dei due pensatori. «Interpretazioni meno convenzionali avrebbero individuato in Rousseau il teorico di una sorta di Leviatano aggiornato, di una società in cui gli individui rinunciavano alla propria volontà individuale a favore della volontà generale.» (pag. 62). Su questo punto Dal Lago valorizza la critica di Hannah Arendt a Rousseau.

«Anche l’immagine di Nietzsche come pensatore della disuguaglianza era abbastanza stereotipata. Dagli anni Sessanta in poi il suo pensiero era stato interpretato nella prospettiva di una liberazione del soggetto moderno dalle catene della tradizione. […] Il suo contributo alla filosofia doveva essere cercato nella decostruzione di icone come la verità, il progresso e altri idoli moderni.» (pag. 63). Si tratta della cosiddetta Nietzsche-Renaissance, inaugurata dal filosofo Gilles Deleuze, il 4 luglio 1964, al convegno tenuto a nord di Parigi, nell’abbazia di Royaumont e proseguita per il resto degli anni Sessanta e Settanta. Per un giudizio critico su questa rinascita del filosofo di «Così parlò Zarathustra», cfr. tutto il primo capitolo (pag. 15-67) del libro «Insistenze» (Garzanti, 1985) di Franco Fortini.

Tornando a Dal Lago: «Per farla breve, i nomi dei due pensatori sfuggivano a una classificazione del pensiero in campi rigidamente contrapposti. Ma questo significava essenzialmente la fine della sovrapposizione di ideologia e appartenenza politica. Coerentemente con il declino dell’ortodossia marxista, la cultura politica della sinistra o della sua parte più innovativa includeva ormai, oltre a pensatori come Nietzsche, la critica femminista e libertaria, quella della tradizione filosofica e così via.» (pag. 63)

Già dai tempi del dibattito sul libretto di Bobbio risultava chiaro che «l’appartenenza alla sinistra si definiva in base a un apparato concettuale mutevole e soggetto alla contingenza storica, anche se ancorato ad alcuni principi fondamentali. Il tradizionale richiamo all’uguaglianza sociale e alla protezione dei ceti socialmente deboli, caratteristico della tradizione socialista, coesisteva con la critica dello stato e delle ingerenze delle istituzioni nella vita privata, tipica piuttosto del pensiero libertario e persino liberale. Lo “statalismo” della tradizione di sinistra era abbandonato, o comunque mitigato, a favore di una cultura politica più attenta alle esigenze di libertà e indipendenza degli individui. In questo quadro si deve collocare la critica del potere, divenuta una pietra angolare del pensiero di sinistra in tempi più recenti.» (pag. 64)

Secondo Dal Lago, gli apparati di potere, statali e non, sfuggono a una rigida determinazione ideologica. E in quest’idea forse si può leggere un rifiuto della posizione di Althusser sugli “apparati ideologici di stato” (scuola, famiglia, ecc…Le cosiddette “casematte” gramsciane). Per il sociologo si tratta di «strutture che non opprimono in senso stretto i cittadini, ma li formano a loro immagine e somiglianza grazie al complesso gioco delle influenze. Strutture rispetto alle quali non conta tanto stabilire se siano orientate sulle stelle polari dell’uguaglianza e della disuguaglianza, ma se i soggetti delle loro attenzioni siano capaci o meno di resistenza e indipendenza di giudizio» (pag. 65). Occorre capire, quindi, la capacità che si ha di emanciparsi e “liberarsi” da famiglia, scuola, ecc.

10.- Differenze ideologiche e pratiche politiche

Dopo aver discusso i riferimenti ideologici della contrapposizione destra/sinistra, l’autore precisa che nel processo storico «le ideologie riflettono solo parzialmente la collocazione politica di un partito o di una parte politica» (pag. 77). L’esempio del PCI, di cui proprio in questi giorni si celebra il centenario della nascita, calza a pennello. Dopo la Conferenza di Yalta (1945), in realtà, è un partito riformista o socialdemocratico, con una “cultura ufficiale” rigidamente marxista-leninista. Questa doppiezza, sottolinea Dal Lago «non era l’effetto di corruzione o degenerazione del PCI, ma di una Realpolitik obbligata» (pag. 78). «La sopravvivenza del marxismo in un partito di fatto socialdemocratico è un esempio della viscosità del pensiero, come l’ha definita Paul Veyne. Viscosità significa permanenza di un certo discorso in un contesto pratico che lo contraddice, qualcosa di analogo alla riduzione della dissonanza cognitiva analizzata dalla psicologia sociale. I regimi di verità ufficiali corrispondono raramente alle realtà che pretendono di rappresentare» (pag. 79). Ecco perché non basta cogliere le differenze ideologiche. La contrapposizione occorre cercarla anche nelle pratiche. «Oggi, se si escludono le derive autoritarie […] destra e sinistra tendono ufficialmente ad accettare l’esistenza, se non la necessità della democrazia liberale, ovvero un sistema politico-sociale che riconosce l’iniziativa privata in campo economico e la democrazia rappresentativa in quello politico» (pag. 79). La sinistra accetta i due pilastri di questa politica. Ma in questi anni, mentre la sinistra moderata ha sposato con un certo entusiasmo il liberalismo economico, l’interventismo finanziario ed economico «è divenuto un cavallo di battaglia del populismo di destra e del cosiddetto sovranismo o neonazionalismo.» (pag.80-81).

11.- L’opposizione destra/sinistra è un prodotto contingente degli avvenimenti storici

«Per quanto riguarda le pratiche tipiche della sinistra, tutto dipende da che cosa definiamo con questo termine. Nel corso degli ultimi due secoli la parola ha assunto significati così diversi da renderne pressoché impossibile un uso condivisibile. A partire dalla casuale collocazione dei rappresentanti nell’Assemblea nazionale all’inizio della Rivoluzione francese (i favorevoli ai diritti dell’uomo a sinistra della presidenza, i legittimisti a destra), l’opposizione destra/sinistra è in realtà un prodotto largamente contingente degli avvenimenti storici. Anche nell’epoca d’oro del conflitto ideologico destra/sinistra, tra la metà del XIX secolo e quella del XX, sono esistite diverse sinistre, così come – ovviamente – diverse destre.» (pag. 81).

La differenza è che il conservatorismo europeo ha sempre avuto riferimenti fermi e costanti, anche se oggi la destra mostra spinte più o meno illiberali, mentre «la sinistra si è decomposta un po’ dovunque in una miriade di tendenze che scimmiottano varianti del liberalismo e del conservatorismo, oppure si attestano su posizioni intransigenti e ultraminoritarie.» (pag. 83). L’opposizione tra riformismo e massimalismo è stata una costante della sinistra, ma qui «un rilievo particolare assume la conversione al centro di laburisti, socialisti, progressisti, insomma di partiti nominalmente di sinistra.» (pag. 83). Esemplari sono state le politiche sostenute da Tony Blair e da Matteo Renzi. Due gli aspetti rilevanti: a) la subordinazione delle sinistre moderate alle politiche economiche dell’«ordoliberismo»; b) un atlantismo post-guerra fredda. «L’adesione di Blair alla guerra di Bush in Iraq (2003) e quella dei dirigenti del Pd al bombardamento della Libia (2011) sono solo due tra i possibili esempi di questa conversione geopolitica della sinistra alle ragioni della destra.» (pag. 84)

12.- L’allineamento al liberismo delle sinistre moderate

Nella conversione al centro non c’è in realtà nulla di nuovo, ma mentre prima del 1989 e del collasso dell’URSS, questo moderatismo poteva avere un senso, dopo non ne aveva più. «In altri termini, la conversione liberal-democratica e il filoamericanismo delle sinistre moderate non erano legati più al ricatto nucleare e al timore delle ingerenze americane, come ai tempi di Berlinguer, ma a un’altra realtà, ovvero la globalizzazione, o meglio l’ineluttabilità di un ordine sociale mondiale basato sulla libertà assoluta di commercio, tutt’al più regolata da istituzioni come il Fondo monetario internazionale, il Wto e, per ciò che riguarda l’Europa, la Bce e la Commissione europea.» (pag. 87). Un ordine mondiale abbastanza disgregato a cui gran parte dei partiti di sinistra si è subordinata. L’allineamento al liberismo può spiegare il rapido tracollo di un personaggio come Renzi. Dal Lago accenna ad alcuni suoi provvedimenti governativi: la “buona scuola”, il Jobs Act…Così «nel 2018 l’elettorato italiano ha premiato due partiti populisti, il M5S e la Lega, che si sono posti l’obiettivo di difendere i poveri e i lavoratori dalla sinistra globalista, con uno spettacolare cambio di prospettive per cui ora la sinistra veniva vissuta come filocapitalista e la destra populista era considerata vicina ai lavoratori.» (pag. 94)

  1. – Correnti radicali della sinistra e loro incapacità di liberarsi da mitologie e ideologie novecentesche

«Sarebbe però riduttivo cercare solo nel moderatismo le ragioni della crisi dell’idea di sinistra. Un fattore indubbio di declino è l’incapacità, nelle correnti considerate radicali, di liberarsi di mitologie e ideologie novecentesche.» (pag. 96). Dal Lago accenna: a) all’uso vago, allusivo del termine “comune” (pag. 96-97); b) alla “conversione” a CL di Fausto Bertinotti: sua partecipazione al meeting di CL nel 2017 in cui scopre che «comunismo uguale fede o ricerca di un senso della vita» (pag. 98-99). Ci si ritrova di fronte a un comunitarismo generico che rischia di accomunare vari populismi. «La rivendicazione dello spirito comunitario è tipica del movimentismo.» (pag. 100) Dal Lago cita l’esempio di Viola Garofalo che dichiara: «Noi di Potere al Popolo non siamo di sinistra: siamo comunisti.» (pag. 100).

«C’è qualcosa di romantico, ma anche di clamorosamente infantile, nella rivendicazione attuale del comunismo. Comunque, queste posizioni, evidentemente marginali tra gli elettori italiani sono abbastanza diffuse tra intellettuali e filosofi. Nomi come Alain Badiou, Toni Negri, Michael Hardt, Jacques Rancière, Slavoj Žižek rimandano a un dibattito sul comunismo che ha la sostanziale caratteristica di essere, anch’essa, immaginaria. Mentre il mondo va decisamente a destra, i filosofi non rinunciano a immaginare utopie “sovversive del reale”.» (pag. 101).

Dal Lago accenna a un testo di Slavoj Žižek in cui il filosofo si chiede se il leninismo filosofico possa essere una risposta alla miseria attuale della politica di sinistra. Il filosofo crede di sì, a differenza del sociologo che rimprovera al capo bolscevico alcune scelte sbagliate: le “utopie iperdemocratiche della fase insurrezionale”, la repressione della rivolta di Kronstadt nel 1921, il non aver sbarrato la strada a Stalin, l’invenzione di fatto dei gulag, ecc. (pag. 102). Da qui il tagliente giudizio di “dandismo” per questo insieme, abbastanza eterogeneo, di filosofi.

«Con dandismo si può intendere, in simili pensatori, il supremo disprezzo per la storia e quindi per la realtà. Sfogliando i libri loro e di altri minori, maoisti teorici, leninisti lacaniani, ecc., si ha l’impressione che scrivano solo per un pubblico ristrettissimo di filosofi universitari e non, di qua e di là dall’Atlantico. Quando si imbattono in questioni reali, come le migrazioni, ecco però che alcuni di loro abbandonano il leninismo filosofico e finiscono per aderire a posizioni di estrema destra.» (pag.103). Dal Lago riporta, a questo punto, una posizione di Žižek che, in un suo libro del 2016, «La nuova lotta di classe. Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini», sulla questione dei profughi vira dal leninismo verso destra. La citazione è questa:

«Per quel che riguarda i rifugiati, il nostro giusto obiettivo sarebbe cercare di ricostruire la società globale in modo tale che non ci siano più rifugiati disperati e costretti a vagare. Per quanto possa apparire utopistica, questa soluzione su vasta scala è l’unica realistica, e l’esibizione di virtù altruistiche finisce per impedirne la realizzazione. Più trattiamo i rifugiati come oggetti di aiuti umanitari, e lasciamo che la situazione che li ha obbligati a lasciare i loro paesi si affermi, più tenteranno di venire in Europa, fino a che le tensioni raggiungeranno il punto d’ebollizione, non solo nei loro paesi d’origine ma anche qui.» (citato a pag. 103)

Per fortuna non tutti i pensatori “comunisti” e “leninisti” sopra citati virano in modo così esplicito verso il senso comune di destra, anche se in Italia, precisa Dal Lago, abbiamo qualche esempio di marxista leghista o fascio-comunista che potrebbe sottoscrivere le parole di Žižek.

«Ma se eleggo qui il dandy neoxenofobo Žižek a rappresentante della categoria è perché, in nome del materialismo, della dialettica o di qualsiasi altra icona teorica otto-novecentesca, tutti costoro contribuiscono a svalutare qualsiasi idea di “sinistra” che modestamente, ma concretamente, abbia di mira una vita decente per il maggior numero possibile di cittadini, una minima soglia di umanità nelle relazioni con gli abitanti di altri mondi, la limitazione delle sofferenze degli stranieri, e così via. Una sinistra, insomma, che senza piegarsi necessariamente al senso comune dominante rifiuti l’estremismo parolaio di rivoluzionari da salotto come Žižek» (pag.105). Certo, è un giudizio duro. Ma proporre a un rifugiato l’utopia della “società globale”, mentre patisce la fame e il freddo in qualche campo balcanico o rischia di annegare nel Mediterraneo, è davvero verbalismo salottiero.

  1. – Sinistra è anche uno stile, un atteggiamento, un modo d’essere e di pensare basato su alcuni principi non negoziabili.

Negli ultimi decenni, continua Dal Lago, l’idea stessa di sinistra è andata in pezzi tra il riformismo della “terza via” e il comunismo irreale dei suddetti pensatori e dei partitini iperminoritari. Il rimedio populista che si basa sulla presunta fine di un’opposizione destra/sinistra è di gran lunga peggiore del male. La sinistra è essenziale alla sopravvivenza della democrazia. (pag. 106).

«La mia tesi è semplice: “sinistra” non è tanto e soltanto una posizione politica, ma uno stile, un atteggiamento, un modo d’essere e di pensare, che può anche, ma non necessariamente, incarnarsi in un partito o in un movimento. In che cosa consiste allora? In un certo numero di principi non negoziabili o, come si potrebbe dire, fondamentali. Si tratta di principi essenzialmente polemici, che si realizzano in contrasto o in conflitto con altri principi. Le idee di sinistra sono inevitabilmente di parte, proprio come quelle di destra. […]. Cercherò di mostrare come i principi di sinistra – indipendentemente dalla loro incarnazione in movimenti particolari – siano indispensabili all’esistenza di una società democratica. Non propongo l’adozione di politiche particolari, la fondazione di nuovi movimenti o la conversione di quelli esistenti. Suggerisco invece una riflessione su quel nucleo di idee generatrici che può essere considerato ineliminabile di una concezione politica di sinistra.» (pag. 107).

Dal Lago, d’accordo con Luciano Canfora, pensa alla «riscoperta di una vera socialdemocrazia, ma di una che non c’è ancora.» (pag. 108).

15.- Sospetto verso le utopie rivoluzionarie e difesa intransigente del diritto di ribellione.

Gli ultimi due capitoli di questo appassionato libretto mirano a delineare, secondo la formula di Nanni Moretti, “qualcosa di sinistra”; qualcosa, cioè, che riguardi innanzi tutto le “questioni di principio” e, successivamente, alcuni “punti fermi”. Per introdursi nella materia, l’autore, sceglie come viatico una citazione di Michel Foucault in cui il filosofo si domanda se sia inutile ribellarsi. Ecco la risposta: «Nessuno ha il diritto di dire: “Rivoltatevi in mio nome, è in gioco la liberazione finale di ogni uomo”. Ma non sono d’accordo con chi dice: “È inutile sollevarsi, sarà sempre la stessa cosa”.» (pag. 117). Da un lato, quindi, scetticismo nei confronti di chi propugna liberazioni definitive, assolute; dall’altro sostegno nei confronti di chi concretamente si ribella contro il potere che gli uomini esercitano sugli altri uomini.

«Il sospetto verso le utopie rivoluzionarie e la difesa intransigente del diritto di ribellione non sono in contraddizione tra loro. In un certo senso, sono espressione dello stesso principio “antistrategico” (indipendente cioè dall’esito di una lotta e dell’azione politica in generale): il potere dell’uomo sull’uomo è un male in sé. L’aspirazione alla libertà è ciò che definisce l’umano in quanto tale. Di conseguenza va riaffermata anche quando è priva di speranza e destinata allo scacco.» (pag. 119).

È una scelta stoica per la libertà che non caratterizza solo la sinistra. Dal Lago fa alcuni esempi: a) del gruppo cattolico della Rosa bianca, dei militari e civili che organizzarono l’attentato del 20 luglio 1944 contro Hitler (pag. 119); b) dei soldati del reparto dell’Armata rossa che, liberati dalla prigionia nazista e internati dal regime staliniano in un gulag siberiano, all’unanimità decidono di fuggire combattendo (Cfr. «Racconti della Kolyma» di Varlam Šalamov); c) del leader del centro-destra Adolfo Suárez e del comunista Santiago Carrillo che, imperturbabili, restarono in piedi il giorno dell’irruzione nel parlamento spagnolo e del tentato golpe di Antonio Tejero  (23 febbraio 1981).

«Sono casi estremi. Ma è anche grazie al loro esempio che, in fondo, il Novecento si è liberato dei totalitarismi. Nella sinistra storica questo atteggiamento attivamente stoico, scomparso da decenni, è rappresentato da personaggi come Carlo Pisacane e Rosa Luxemburg.» (pag. 121). Il primo particolarmente sensibile alla questione sociale, fu una figura di rivoluzionario caratterizzato dal “volontarismo fatalista” (pag. 122) e dall’idea che «l’adesione a una causa giusta non dipende dalla probabilità del suo successo» (pag. 123); la seconda è «un esempio unico di coraggio stoico. Anche se le masse marciano verso la sconfitta, i dirigenti stanno con loro. È quanto di meno bolscevico si possa immaginare.» (pag. 125)

16.- Gli insegnamenti di Carlo Pisacane e Rosa Luxemburg per il pensiero politico di sinistra

Gli ultimi due esempi offrono, secondo Dal Lago, alcuni insegnamenti per il pensiero politico di sinistra. Il primo: un vero dirigente non si separa mai dalle sorti di chi rappresenta; l’idea stessa di cambiamento sociale non può non identificarsi con una moralità legata non soltanto allo stile personale, ma al modo di pensare il rapporto fra socialismo e democrazia. «Entrambi erano convinti che nessun fine, anche il più nobile, potesse essere conseguito con mezzi abietti. Pisacane aborriva l’idea di uno stato autoritario e Luxemburg riteneva che la rivoluzione sociale avrebbe completato le libertà borghesi, estendendole a tutto il popolo.» (pag. 128).

Il secondo: la rivoluzionaria spartachista insegna ad anteporre l’idea di “compassione” alla razionalità strategica della lotta e dell’azione politica. Compassione vuol dire capacità di entrare in empatia con la sofferenza altrui e capacità di comprendere che nessun obiettivo può giustificare la sofferenza degli esseri umani e degli altri viventi.

«In termini politici, il principio significa che, prima ancora di appartenere a uno stato nazionale, a una classe, a una comunità linguistica o a una cultura, gli abitanti del globo appartengono al genere umano e quindi condividono uno status comune, logicamente precedente qualunque altro che sia basato sulla differenza e non sull’uguaglianza.» (pag. 129)

L’idea di umanità che Dal Lago difende non ha nulla a che vedere con formule pseudo-giuridiche come quelle dei “diritti umani”. Occorre contrastare l’illusione che possa esserci una guerra giusta. Nessuna guerra lo è. Il principio di umanità non va invocato soltanto nei conflitti armati. «Per tornare alla questione migratoria, in cui ho individuato un terreno di scontro decisivo tra destra e sinistra, la protezione della vita dei migranti viene prima di qualsiasi considerazione di opportunità politica. […] Ma c’è molto di più. Nell’emigrazione, causata da qualsiasi condizione di necessità (guerra, povertà) o dall’aspirazione a una vita migliore, si manifesta una spinta al riconoscimento della dignità (e anche della libertà personale) che nessun pensiero di sinistra può disconoscere, se vuole rimanere tale.» (pag. 131)

La trasformazione degli immigrati in capri espiatori coincide con il risveglio del nazionalismo che è del tutto complementare alla riscoperta delle radici. Nazionalismo e sovranismo offrono ai loro seguaci un’appartenenza illusoria, ma potente, capace di sostituire i conflitti esterni a una società con quelli interni. Il populismo è una variante del nazionalismo. Esercitato contro il ceto politico (la cosiddetta “casta”) ha teso ad una ridefinizione morale del rapporto tra politica e società.

«Facendo dei nemici esterni e interni il bersaglio del risentimento diffuso, partiti e movimenti di destra hanno di fatto sovvertito la rappresentazione binaria della lotta politica che, da almeno centocinquant’anni, governa le società occidentali. La destra ha assorbito simbolicamente e a parole gran parte delle tradizionali rivendicazioni della sinistra, promuovendo di fatto la legittimazione di un pensiero unico e virtualmente totalitario.» (pag. 136-137)

A questo punto, attenersi ai principi, alle ragioni per cui si milita da una certa parte, è una questione di moralità. Il che non significa abdicare alla razionalità. «Come ha scritto Max Weber, si possono fare patti persino con il diavolo per realizzare i propri obiettivi politici, ma violare i principi è fuori discussione, o meglio una contraddizione insanabile, perché gli obiettivi non possono che discendere dai principi, se si è fedeli alla propria parte politica.» (pag. 138). Sotto questo profilo, la difesa delle «libertà borghesi» e della democrazia rappresentativa liberale è un requisito minimo di ogni idea e pratica di sinistra.  Dal Lago non si nasconde i limiti di questa forma di governo che, citando Churchill, è indubbiamente la peggiore. «Ma la sola esistente, minacciata com’è da una parte dal mito del governo di un uomo solo e, dall’altra, dal sogno di in governo diretto del popolo del tutto inattuabile in società complesse». (pag. 139) L’idea, infatti, di una “democrazia digitale” propagandata dal M5S non rappresenta per diversi motivi (controllo sociale da parte dei gestori dei sistemi informatici, privatizzazione e atomizzazione del cittadino, ecc.) un’estensione della democrazia, ma la sua negazione. «Il sistema elettorale è solo un aspetto, anche se fondamentale, della democrazia rappresentativa. L’esistenza di poteri indipendenti, le garanzie giuridiche a protezione della libertà (individuale, politica ed economica) e di una vita decente per chiunque, un’opinione pubblica priva di museruola sono altrettanto decisive.» (pag. 140-141)

Dal Lago accenna, infine, al ruolo dell’Unione Europea. Anche in questo caso i suoi difetti costitutivi sono ben noti, tuttavia essa rappresenta pur sempre «un tentativo di superare i limiti e i pericoli degli stati nazionali» (pag. 142) e, spesso, del conseguente nazionalismo, fonte nel Novecento di tante tragedie e sciagure.

17.- Simone Weil e il principio di «saggia partecipazione all’azione del mondo»

«Morta una sinistra, se ne può fare un’altra» proclama fiduciosamente Dal Lago nell’epilogo del suo libretto. Dopo Carlo Pisacane e Rosa Luxemburg, nel Pantheon dei suoi ispiratori colloca il nome di Simone Weil, la giovane insegnante di filosofia che il 31 dicembre 1933 ospitò a Parigi Trockij e famiglia e gli tenne testa su come giudicare il regime staliniano. Si trattava di una dittatura non del, ma sul proletariato. «Simone Weil aveva individuato la convergenza di capitalismo e socialismo autoritario nel nuovo potere anonimo della burocrazia.» (pag. 155). Il suo pensiero antidogmatico è ancora utile per ridefinire un’idea di sinistra. Esso è opposto sia al «principio speranza» di Ernst Bloch che al «principio disperazione» di un certo pensiero neognostico (Cioran, ad esempio). «Si tratta piuttosto di un realismo estremo, quanto eticamente fondato. In politica si lotta, nei limiti delle proprie possibilità, per la giustizia e l’umanità, ma non ci si illude di realizzarle e tanto meno di fondare un mondo futuro in cui dominino incontrastate. Il massimo rigore morale coincide con l’assoluta mancanza di illusioni. La storia resta in larga parte guidata dall’imprevedibile e dagli effetti perversi dell’azione politica.» (pag.157). Nei suoi «Quaderni», Simone Weil chiamava questo principio «saggia partecipazione all’azione nel mondo».

Queste considerazioni e questi richiami non hanno l’ambizione per Dal Lago di formulare un programma o una piattaforma pratica. Servono per tracciare il perimetro di appartenenza a una parte politica. «Per quanto mi riguarda sono disposto a sostenere qualsiasi partito o movimento che li rispecchi nel programma o nell’azione pratica» (pag. 157) purché sia consapevole che la sinistra difende, a parole e nei fatti, i “diritti dell’umanità” a priori. E questo lo fa respingendo la guerra come strumento di soluzione dei conflitti – salvo, beninteso, che non si sia trascinati contro la propria volontà (è il caso delle Unità di protezione popolare curde e delle lotte di resistenza contro il nazismo e le altre dittature) – e vedendo nell’emigrazione un’opportunità di sopravvivenza, di riscatto dalla povertà e di ricerca di un futuro migliore.

«”Il principio umanità” non dovrebbe applicarsi solo a migranti e rifugiati, ma anche agli stranieri interni, cioè ai poveri, ai marginali, ai carcerati e così via.» (pag. 161). A differenza dei liberali duri e puri, la sinistra che ha in mente Dal Lago, dovrebbe aiutare gli “sfortunati” ad integrarsi e dovrebbe essere ostile alla soluzione penale e penitenziaria dei conflitti. «Non solo: contraria all’idea stessa di prigione. […] Il penalismo giustizialista che ha afflitto la sinistra dopo la stagione di Mani pulite è stato, a mio avviso, uno degli errori politici più gravi che i “progressisti” potessero commettere» (pag. 161). Si rinuncia, in tal modo, a qualsiasi critica del potere, come Foucault insegna, e a comprendere le cause storiche e contingenti della corruzione e del crimine organizzato.

«La prigione è uno degli esempi più significativi di quello che lo stesso Kant avrebbe chiamato “il legno storto dell’umanità”…Una vera sinistra, pur non illudendosi di pervenire a una società senza il male, non può smettere di criticare l’oppressione che viene praticata in suo nome.» (pag. 162).

In un mondo unificato dai conflitti e in cui i bisogni della maggioranza dell’umanità si scontrano con gli appetiti di alcuni, cercare la giustizia definitiva sulla terra è impossibile. «Chi agisce in politica si trova nella difficile situazione di conciliare i propri principi con scelte in ogni caso sbagliate: chiudere una fabbrica inquinante e cancerogena o lasciarla aperta salvando i posti di lavoro? Come finanziare un’università che dovrebbe essere gratuita per tutti? Come contrastare i crimini senza accanirsi sui criminali? Fino a che punto vale il principio della libertà di parola per chi ha l’obiettivo di toglierla agli altri? E così via.

La lista di questi dilemmi è interminabile e coincide, più o meno, con l’agenda politica di tutti i giorni. Non è compito di un libro sull’idea di sinistra proporre soluzioni operative. Si tratta semmai di tracciare delle linee di principio, come suggerito più volte. Ovvero dei limiti insuperabili. Così, anche se le soluzioni sono difficili, la coerenza va salvata a ogni costo.» (pag. 163-164).

Cosa che, ad esempio, secondo Dal Lago, non ha fatto il Ministro degli Interni Minniti, quando si è prevalentemente preoccupato di aumentare i controlli su migranti, homeless e altre figure “disturbanti” e si è accordato con le milizie libiche per gli stranieri.

18.- Forse può aiutare la lettura di questo saggio

Ho riassunto ampiamente e abbastanza fedelmente il contenuto di questo saggio per me importante e largamente condivisibile. So che ci sono altre linee di pensiero per argomentare l’attualità della contrapposizione destra/sinistra. Penso, ad esempio, ad un libretto del 2010 di Carlo Galli «Perché ancora destra e sinistra», pubblicato da Laterza e, sempre da questa casa editrice, al lavoro del 2007 di Marco Revelli «Sinistra Destra. L’identità smarrita».

Ancora qualche mese fa il politologo Piero Ignazi recensiva su La Repubblica il libro – che non ho letto – di Janine Mossuz-Lavau «Le clivage droite-gauche» (Les Presses de Sciences Po). Vi si dimostra, partendo dal caso francese, come questa distinzione tenga ancora. Scrive, infatti, Ignazi: «È vero, ricorda Mossuz-Lavau, tanto a sinistra quanto a destra si sono slabbrati i confini. A sinistra ben pochi continuano a sventolare la bandiera dell’eguaglianza, tanto cara a Norberto Bobbio che aveva fondato su questo tema la distinzione tra destra e sinistra nel suo fortunato libretto del 1994. Allo stesso modo, anche a destra i valori della tradizione e della religione sono sbiaditi. Tuttavia, per quanto siano mutevoli, senza questi riferimenti spaziali saremmo dispersi nell’oceano di parole e segni. Anche i due casi più rilevanti di partiti che hanno cercato di andare al di là di questa dicotomia, il Movimento 5 Stelle e il partito di Emmanuel Macron La République En Marche, in poco tempo hanno abbandonato questa ipotesi e hanno dovuto fare i conti con la solidità rocciosa e identificante di destra e sinistra. Si mettano il cuore in pace i sostenitori del loro superamento.» (La Repubblica, 27 ottobre 2020, pag. 29).

Essendomi in diverse occasioni schierato contro i sostenitori del superamento, dovrei avere il cuore in pace. Ma non ce l’ho. Primo perché in una società sempre più diseguale, lasciar cadere la bandiera dell’eguaglianza è un delitto; secondo perché il disorientamento tra le nostre fila è vasto; terzo perché non basta avere idee giuste per realizzare azioni sociali, politiche e culturali che contrastino l’attuale stato (pessimo) delle cose. Da qualche parte, però, bisogna partire. Forse può aiutare la lettura di questo saggio accorato di Dal Lago.

28 gennaio 2021

 

26 pensieri su “«Viva la sinistra» di Alessandro Dal Lago

  1. Mi ricordo di persone conosciute quando ero ragazza in cui la moralità basata sul rispetto e l’aiuto per gli altri esseri umani era sostenuta da coerenza razionale e senza compromessi. Miei professori, amici, personaggi esemplari. Di sinistra, con una storia di persecuzioni e resistenza. Ricordo in tv Tullia Zevi aver raccontato della risposta data a un giovane che le aveva fatto presente che aiutare un ebreo sotto le leggi razziali avrebbe comportato perfino il rischio della morte. E allora? gli aveva risposto. Saresti morto tu, invece che l’altro.
    Anche quelli di destra erano tutto d’un pezzo, basati sui loro valori. Ma, nel periodo dopo la IIGM, mancavano di solidarietà e abbondavano di recriminazioni, per cui non erano molto credibili sul piano morale né razionale. Certo, sono stata fortunata a studiare a Milano, dove continuava una storia di sinistra resistenziale.
    Poi la società dei consumi ha soppiantato la austerità del bisogno, e il nucleo profondo di solidarietà e uguaglianza in ogni persona è andato alleggerendosi, in uno scambio con valori e diritti che funzionavano da protesi esterne.
    Voglio dire che il binomio moralità/razionalità è riferito ai singoli. Basta una società del piacere e del consumo per consumarne la necessità. Il passo poi alla politica diventa sempre più largo, e i valori si fanno insieme formali e indeterminati.
    Massima stima per Dal Lago e Salzarulo e per la posizione, appunto, individuale che assumono, da cui possono svolgere opera educativa.
    In politica essere efficaci con realismo e moralità/razionalità è impresa tremenda. Invece la destra anche col solo realismo va a nozze.

  2. “In politica essere efficaci con realismo e moralità/razionalità è impresa tremenda. Invece la destra anche col solo realismo va a nozze.” (Fischer)
    Mi sembra ben detto, e che sottolinei bene la difficoltà dell’impresa di marciare sulla linea indicata (realismo e moralità/razionalità) senza essere tacciati di perseguire irrealizzabili (o addirittura pericolosi) utopismi.
    Sul realismo con cui va a nozze la destra preciserei, se capisco bene il senso, che si tratta però di un realismo rinunciatario e a ben vedere rassegnato – un realismo che per essere sempre sulla difensiva finisce col non vedere più in là dell’immediato presente (che si rappresenta oltretutto selettivamente) e con lo sviluppare una notevole miopia su quelle che sono le sfide e i pericoli (veri) del prossimo futuro.

    Grazie a Donato Salzarulo per averci presentato, con ampiezza e precisione, un’opera che offre uno spaccato sulla crisi della sinistra. Mi ha stupito (positivamente) che “Dal Lago, d’accordo con Luciano Canfora, pensa alla «riscoperta di una vera socialdemocrazia, ma di una che non c’è ancora.» “. Sarà vero quel che viene detto nel saggio, che la politica del PCI era di fatto socialdemocratica benché il suo verbo fosse marxista, ma ricordo tempi (e ancora adesso ambiti – le nicchie dure e pure di cui parla Dal Lago/Salzarulo) in cui se parlavi di socialdemocrazia ti prendevano a pesci in faccia (o ti seppellivano sotto il loro disprezzo). E’ vero che qui si parla “di una socialdemocrazia che non c’è ancora”, ma già sdoganare il termine mi sembra un passo avanti.
    Almeno, a me sembra un passo avanti, ma c’è un sacco di gente per cui è un passo indietro, perché ad esempio non affronta – mi pare – il problema del capitalismo globale e di una società dei consumi cresciuta oltre l'(eco)sostenibile. Complicato…

    1. È così, il realismo di destra (diffuso in molti contesti di democrazia vigente) non si sporge. Il tema che appuntavo è che “sporgersi”, col rischio, senza garanzie di sorta, è qualcosa che è stato abbandonato da sinistra in condizioni sociali decennali in cui si viaggiava sicuri, ideologicamente e falsamente protetti. Per cui, e questo è l’importante, niente sappiamo di realismo se non accordarsi con l’esistente. La “critica” in cui si è identificata la sinistra, tratta la schiuma.
      Realismo e moralità con razionalità richiede forza e coraggio… di singoli. Così succedeva tanti anni fa. Da tanti decenni ci hanno incoraggiati a farci portare, da campagne giuste, oppure corrette.

  3. “Noi di sinistra siamo umani, siamo morali, siamo razionali”. Mia nonna, interprete della saggezza popolare, diceva: “Lòdete sesto che te ghè un bel manego!” che, tradotto per gli acculturati della sinistra, significa. “Lodati cesto che hai un bel manico!”.

  4. APPUNTI

    1.
    «È vero, ricorda Mossuz-Lavau, tanto a sinistra quanto a destra si sono slabbrati i confini. A sinistra ben pochi continuano a sventolare la bandiera dell’eguaglianza, tanto cara a Norberto Bobbio che aveva fondato su questo tema la distinzione tra destra e sinistra nel suo fortunato libretto del 1994. Allo stesso modo, anche a destra i valori della tradizione e della religione sono sbiaditi. Tuttavia, per quanto siano mutevoli, senza questi riferimenti spaziali saremmo dispersi nell’oceano di parole e segni».

    È la mia posizione (Cfr. inizio di “Aguzzi, Fischer e Grammann”). Riconoscimento del logoramento delle categorie destra/sinistra. Rifiuto della zona grigia: quella di chi prende la bandiera del “né di destra né di sinistra”. Rifiuto dell’oltranzismo: quello di chi si spinge nella terra di nessuno dell’ “oltre la destra e la sinistra” pretendendo che le sue idee (ideologie presentate come scientifiche) siano uno, dieci o cento passi avanti rispetto a quelle di chi le categorie destra/sinistra continua ad usare o ingenuamente o criticamente.

    2.
    Condivido la pars destruens del discorso di Dal Lago. E, quindi, quasi tutti i punti o le precisazioni in cui, nella sintesi che Salzarulo ha qui proposto, Dal Lago mostra i segni del degrado o dell’esaurimento della funzione antagonista e costruttiva dei partiti storicamente di sinistra. Ad esempio, quando viene ricordato che: – «La sopravvivenza del marxismo in un partito di fatto socialdemocratico è un esempio della viscosità del pensiero, come l’ha definita Paul Veyne. Viscosità significa permanenza di un certo discorso in un contesto pratico che lo contraddice»; – «sono esistite diverse sinistre, così come – ovviamente – diverse destre»; «la sinistra si è decomposta un po’ dovunque in una miriade di tendenze che scimmiottano varianti del liberalismo e del conservatorismo, oppure si attestano su posizioni intransigenti e ultraminoritarie». O quando viene criticato «l’uso vago, allusivo del termine “comune”» o il «comunitarismo generico che rischia di accomunare vari populismi».

    3.
    Sono in disaccordo quando liquida come « dandismo» o come « qualcosa di romantico, ma anche di clamorosamente infantile» un insieme eterogeneo di posizioni, quelle di intellettuali e filosofi «marginali tra gli elettori» («Alain Badiou, Toni Negri, Michael Hardt, Jacques Rancière, Slavoj Žižek»), che – in modi forse approssimativi e discutibili – continuano a interrogarsi sul comunismo o ne rivendicano una attualità. Le stesse accuse si potrebbero fare allo stesso Dal Lago. In cosa, infatti, nella comune confusione di idee in cui ci troviamo, è più reale o meno immaginaria la sua proposta di «riscoperta di una vera socialdemocrazia, ma di una che non c’è ancora.»? E perché – immaginario per immaginario, utopia per utopia – sarebbe meglio gridare «Viva la sinistra» e non «Viva il comunismo»? (Per non parlare della presa delle utopie di destra).

    4.
    A me l’etichettatura che fa del « dandy neoxenofobo Žižek » mi pare sbrigativa. La dichiarazione di Žižek riportata («Più trattiamo i rifugiati come oggetti di aiuti umanitari, e lasciamo che la situazione che li ha obbligati a lasciare i loro paesi si affermi, più tenteranno di venire in Europa») effettivamente è ambigua (non so se sia « marxista leghista o fascio-comunista» o “rosso-bruna”).

    5.
    Al di là del caso particolare del filosofo sloveno, nel discorso di Dal Lago vedo una rimozione di un dilemma storico irrisolto, che si presentò già all’inizio del Novecento, nello scontro tra Lenin e Rosa Luxemburg. Dal Lago liquida con troppa disinvoltura le «scelte sbagliate» di Lenin (« le “utopie iperdemocratiche della fase insurrezionale”, la repressione della rivolta di Kronstadt nel 1921, il non aver sbarrato la strada a Stalin, l’invenzione di fatto dei gulag, ecc. (pag. 102)») e accoglie unilateralmente quelle della Luxemburg.

    6.
    Sarebbe bello ritornare ad una bella e pulita distinzione destra/sinistra e continuare il gioco tra le due sponde come nobili cavalieri difensori della « vera socialdemocrazia», ma non mi pare più possibile. Specialmente per noi che, col senno di poi, abbiamo visto sia il tracollo della Socialdemocrazia (falsa?) di fronte alla Prima Guerra mondiale, sia della Rivoluzione russa e sia dell’insurrezione spartakista appoggiata da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Solo tacendo o aggirando quelle tragedie, Dal Lago può procedere tranquillo nella sua «riscoperta di una vera socialdemocrazia, ma di una che non c’è ancora.».

    7.
    Così però, secondo me, ripiega in una visione statica e astratta, che non si fonda sull’analisi storica e non si sporca più le mani con la politica. Infatti, dichiara: «Non propongo l’adozione di politiche particolari, la fondazione di nuovi movimenti o la conversione di quelli esistenti. Suggerisco invece una riflessione su quel nucleo di idee generatrici che può essere considerato ineliminabile di una concezione politica di sinistra.».

    8.
    Dichiarare poi che «la sinistra è essenziale alla sopravvivenza della democrazia», significa evitare il discorso più arduo: qual è la democrazia da auspicare o difendere o far crescere e a quali problemi o ostacoli va incontro una eventuale sua crescita. In fondo Dal Lago si rassegna ad una «difesa delle «libertà borghesi» e della democrazia rappresentativa liberale». Non a caso sceglie Churchill al posto sia di Lenin ma anche della Luxemburg.

    9.
    Cancella, cioè, ogni ipotesi di altra società, per accettare «la sola esistente, minacciata com’è da una parte dal mito del governo di un uomo solo e, dall’altra, dal sogno di in governo diretto del popolo del tutto inattuabile in società complesse». O sceglie l’impolitico di Simone Weil, cioè «il massimo rigore morale [che] coincide con l’assoluta mancanza di illusioni», poiché la storia per Dal Lago «resta in larga parte guidata dall’imprevedibile e dagli effetti perversi dell’azione politica.». Così si evitano però i problemi più drammatici e li si lascia a chi?

    10.
    Certo, la scelta morale e impolitica non sta più di fronte a dilemmi del tipo: «chiudere una fabbrica inquinante e cancerogena o lasciarla aperta salvando i posti di lavoro? Come finanziare un’università che dovrebbe essere gratuita per tutti? Come contrastare i crimini senza accanirsi sui criminali? Fino a che punto vale il principio della libertà di parola per chi ha l’obiettivo di toglierla agli altri? E così via». Ma è una rinuncia a pensare al pezzo (maggioritario) di mondo che costruisce con violenza esplicita o mascherata la sorte di quel «genere umano» a cui pur si appella.

    11.
    Ora lasciamo perdere se comunismo, come sostiene Dal Lago, significhi propugnare «liberazioni definitive, assolute» (rimando per contrappunto al mio commento su «Comunismo» di Fortini), ma cosa significa: «sostegno nei confronti di chi concretamente si ribella contro il potere che gli uomini esercitano sugli altri uomini»? Significa forse appoggiare qualsiasi ribellione? O ribellarsi tanto per ribellarsi? E senza mai porsi – prima, durante e dopo – il problema dello scopo per cui ci si ribella?

    12.
    Per Dal Lago bisogna fare «una scelta stoica per la libertà», come quella che fecero – si ricordi: in contesti storici ben diversi – «personaggi come Carlo Pisacane e Rosa Luxemburg.»? D’accordo che «l’adesione a una causa giusta non dipende dalla probabilità del suo successo» ed è bene sapere che anche Lenin dovette in fondo fare una scommessa. Ma sostenere che « se le masse marciano verso la sconfitta, i dirigenti stanno con loro» non è l’atteggiamento «meno bolscevico [che] si possa immaginare» ma solo una proposta di martirio o di testimonianza per situazioni estreme.

  5. E lo sapevo che la socialdemocrazia non piaceva.
    @ Ennio Abate: a cosa ti riferisci quando parli del ” tracollo della Socialdemocrazia di fronte alla Prima Guerra mondiale”? Scusa l’ignoranza, ma non mi è chiarissimo.

  6. Mi riferisco a questo:

    Lo scoppio della Prima guerra mondiale e il voto in favore dei crediti di guerra da parte della maggioranza del partito, cui si oppose l’ala sinistra di K. Liebknecht e R. Luxemburg, aprirono un conflitto interno che non si sarebbe più sanato. Al gruppo internazionalista o «spartachista» di Liebknecht e Luxemburg si affiancò un’ala socialista-pacifista, facente capo a H. Haase, la quale ultima, a seguito dell’espulsione di vari suoi membri, si staccò dalla SPD per costituire nell’apr. 1917 il Partito socialdemocratico indipendente (USPD), cui aderirono anche gli spartachisti. La Rivoluzione d’ottobre, intanto, acuiva i contrasti, facendo emergere anche in Germania, tra le macerie dell’impero, un’ala del movimento operaio favorevole alla via rivoluzionaria. I socialdemocratici intanto diventavano egemoni nella Repubblica di Weimar: era stato proprio uno dei leader della SPD, P. Scheidemann, a proclamarne la nascita (9 nov. 1918), mentre F. Ebert, anch’egli dirigente socialdemocratico, assumeva la guida del governo in coalizione con la USPD. Il contrasto con gli spartachisti, che contemporaneamente avevano proclamato la nascita di una repubblica socialista, giunse fino alla repressione armata dei moti rivoluzionari e all’assassinio di Liebknecht e Luxemburg (15 genn. 1919)

    (da https://www.treccani.it/enciclopedia/partito-socialdemocratico-tedesco_%28Dizionario-di-Storia%29/)

    Per una trattazione storica approfondita si può scaricare un PDF cercando su Google: Brunello Mantelli, Germania rossa. La sinistra tedesca dal 1848 ad oggi, dal quale stralcio questo brano:

    Il governo provvisorio, a questo punto totalmente nelle mani della MSPD,
    fu ricostituito; tra i nuovi commissari fece la sua comparsa Gustav Noske, che –
    di concerto con Ebert – diede il suo appoggio aperto alla costituzione di “corpi
    franchi” (Freikorps) da parte di ufficiali di carriera che non accettavano di
    essere smobilitati. Che agli occhi della direzione “maggioritaria” i Freikorps
    venissero visti come uno strumento d’eccezione per il mantenimento
    dell’ordine repubblicano in una fase di potenziale guerra civile è ovvio, tuttavia
    essi non potevano non essere consapevoli del fatto che gran parte dei loro
    componenti (senza distinzione tra comandanti e truppa) era ostile alla sinistra
    (comunque connotata) ed alla repubblica.
    Uno degli atti più significativi del nuovo corso fu la rimozione, da parte
    del ministero degli Interni prussiano, il 4 gennaio 1919, del capo della polizia
    berlinese Emil Eichhorn, operaio e militante della USPD, che aveva occupato la
    carica in seguito alla rivoluzione di novembre; l’atto, motivato dall’esigenza
    della MSPD di togliere dalle mani dell’ormai non più alleata USPD un centro di
    potere di grande rilevanza, apparve come un segno drammatico della volontà
    dei “maggioritari” di restaurare le fondamenta del vecchio ordine. Il giorno
    successivo si svolsero nella capitale gigantesche manifestazioni operaie,
    convocate assieme dalla KPD, dall’USPD, e dalle Revoluzionäre Obleute; una
    parte dei manifestanti sfuggì al controllo degli organizzatori e – prese le armi –
    occupò le redazioni dei quotidiani berlinesi. Nonostante Liebknecht (per la KPD)
    e Georg Ledebour (per la USPD) avessero ottenuto il consenso dei dimostranti
    ad una mozione che poneva come obiettivo dell’agitazione il richiamo del
    popolarissimo Eichhorn, gli eventi furono trattati dal governo provvisorio come
    un atto insurrezionale, a cui Noske (responsabile dell’ordine pubblico) rispose
    immediatamente con l’impiego dell’esercito e dei Freikorps. Si giunse così al
    confronto militare, che si concluse dopo una settimana con la totale sconfitta
    degli insorti e con un’ondata di terrore bianco da parte dei Freikorps, le cui
    vittime più illustri furono, il 15 gennaio, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.
    Non è perciò corretto definire insurrezione spartachista quella che fu in
    larga misura un’iniziativa spontanea di massa avvenuta nonostante e contro la
    volontà dell’estrema sinistra; è vero che una volta avviatasi l’insurrezione fu
    appoggiata dal gruppo dirigente della KPD (da alcuni con convinzione, dalla
    maggioranza come scelta obbligata ma in sé foriera di disastri), ma non fu
    preordinata in alcun modo [Heinrich-August Winkler]. Gli eventi berlinesi di
    gennaio 1919 da un lato segnarono una netta cesura in un processo
    rivoluzionario che fino ad allora si era caratterizzato per un basso tasso di
    violenza, dall’altro contribuirono in modo decisivo alla divisione nel movimento
    operaio, in un contesto caratterizzato dalla ripresa delle azioni di massa

    1. Avevo immaginato. Ma non ti pare che prendere la Repubblica di Weimar, sorta su un disastro militare, istituzionale e economico, seguito da un trattato di pace capestro (la Germania ha finito da poco di pagare alla Francia i debiti della I (prima) guerra mondiale) come dimostrazione di fallimento della socialdemocrazia sia una base un po’ ristretta?

      1. Sono questioni di enorme portata e richiederebbero approfondite riflessioni. Più che la Repubblica di Weimar io avevo in mente proprio il ribaltamento di prospettiva ( o la svolta o il compromesso) dei partiti socialisti che aderiscono alle politiche nazionaliste dei rispettivi Stati e abbandonano il principio dell'”internazionalismo proletario”. Quel “tradimento” è epocale. Un po’ come quello che avverrà poi in Urss con la scelta della costruzione del “socialismo in un sol paese”. Inoltre non vedo perché se ci può essere “vera socialdemocrazia” anche dopo questo (per me) fallimento, non ci potrebbe essere “vero comunismo” malgrado il fallimento dell’Urss. Ma – ripeto – evitiamo semplificazioni e approfondiamo i problemi tenendo a bada le nostre inclinazioni (socialdemocratiche o comuniste o d’altro tipo).

  7. Non posso capire questa risposta di Abate: non essendo questo un colloquio di storici mi parrebbe segno forte un libero discutere invece di temi storici a partire dalle proprie visioni del mondo, che confinano anche, o proprio, con le “inclinazioni politiche”.

    1. Leggi quanto ho scritto: “libero discutere di temi storici a partire da visioni del mondo che confinano con intenzioni politiche”. Siccome non siamo al luna park o allo zoo, ognuna e ognuno è in grado di costruirsi una idm a partire dalla riflessione. Non siamo nemmeno a scuola…

  8. Forse dovremmo definire se ci muoviamo in una prospettiva nazionale, europea, o mondiale. A me era sembrato che il discorso di Dal Lago si muovesse in ambito italiano/europeo. In Italia/Europa, se c’è una base di sentimento socialdemocratico su cui lavorare, mi pare che le basi per una rivoluzione comunista con o senza spargimento di sangue siano veramente minime e spesso connotate, come dice Dal Lago, da un intellettualismo che non si vuole di accademia, ma di accademia puzza. In oltre la prospettiva europea mira, bene o male, precisamente al superamento dei vari nazionalismi, che sono del tutto obsoleti.

  9. Sicuro che in Europa ci sia una consistente ” base di sentimento socialdemocratico su cui lavorare”? Sicuro che la posizione di Dal Lago non sia pur essa frutto di “intellettualismo che non si vuole di accademia, ma di accademia puzza”? Sicuro che, se la crisi della democrazia si acutizzasse (fino ad una guerra mondiale?), un’eventuale “vera socialdemocrazia” reggerebbe o non si ripresenterebbe un aut aut in altre forme rispetto al passato ma riconducibile allo scontro socialismo o barbarie oppure fascismo-comunismo? Sicuro che i vari nazionalismi siano “del tutto obsoleti”?

    P.s.
    Sulla dubbia obsolescenza dei nazionalismi e dei neofascismi mi pare utile rimandare agli scritti dello storico Claudio Vercelli, uno dei più attenti a questa questione.

    Cfr. 1
    La rigenerazione perpetua
    di Claudio Vercelli
    Anticipazioni. Estratto dal volume «Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa» che sarà in libreria dal 26 gennaio con Einaudi. Non ritorna ciò che non si è mai esaurito: piuttosto, si rivivifica, manifestandosi in forme coerenti con le trasformazioni in corso
    https://ilmanifesto.it/la-rigenerazione-perpetua/

    Stralcio:
    Non ha alcun fondamento politico, e ancor meno storico, preconizzare e richiamarsi al «ritorno del fascismo». Ciò almeno per due ordini di motivi: un fenomeno storico non si ripete mai nel medesimo modo; del pari, non si può parlare del ritorno di qualcosa che non se ne è mai andato via del tutto dalle società continentali, neanche con la frattura epocale del 1945. Infatti, in Italia così come in Europa, non ritorna ciò che non si è mai esaurito: piuttosto, si rigenera, manifestandosi in nuove forme, congruenti con le grandi trasformazioni in corso. Come tali, le une e le altre vanno identificate e indagate. Il legame tra cambiamento delle società e mutamento della politica è al centro di qualsiasi discorso sul potere. Il tornare sul tema del lascito del fascismo ha quindi senso se si ragiona su quest’asse, che lega trasformazione delle relazioni sociali, delle forme di coesione sociale, del senso stesso della vita associata. Poiché, nel qual caso, parliamo di un soggetto di assoluta contemporaneità.

    È INFATTI TALE CIÒ che non solo coesiste con i tempi presenti ma che, in qualche modo, concorre a dettarne una parte dell’agenda, a definirne contenuti, a identificare priorità. Mussolini e i suoi hanno lasciato un lungo calco nella società italiana, una fenditura mai cicatrizzata, da dove i loro apologeti di oggi cercano di riconquistare spazio e forza. Anche sotto vesti diverse da quelle di un tempo. Non in omaggio alla continuità di una «idea» ma inserendosi all’interno della lotta per costruire egemonie.
    Lo stesso si può dire di quei nazionalismi esasperati che in tanta parte del Continente si riconobbero nel progetto del «Nuovo ordine europeo» di marca nazista. I neofascismi e i neonazismi, quindi, sono fenomeni al contempo mimetici e mitopoietici.

    SI ADATTANO come dei camaleonti alle mutate condizioni, difendendo tuttavia un nocciolo profondo, un calco ideologico vissuto e presentato, in quanto «tradizione», come un insieme di valori insindacabili; proseguono inoltre nella rigenerazione di se stessi, della propria immagine, dei contenuti delle loro proposte, seguendo un tracciato che dichiara l’estinzione della politica come impegno collettivo e sintesi del pluralismo – per definizione luogo della corruzione morale – insieme alla necessità di ripristinare qualcosa che si dichiara perduto nei marosi della modernità: identità, etica, gerarchia, ordine e quant’altro. Si tratta di un discorso moderno, per l’appunto. Non di un rudere del passato, di un vestigio di ciò che fu e che rimane lì, in un orizzonte senza tempo, un anacronismo sospeso nel vuoto delle fantasie nostalgiche.
    Non parliamo – quindi – di soggetti metastorici. Così come non stiamo discorrendo esclusivamente di un ipotetico Ur-fascismo, dai tratti culturali perduranti e autosufficienti a prescindere dal suo connotarsi in gruppi e organizzazioni. Piuttosto, proprio perché ci confrontiamo con protagonisti della scena pubblica, variamente connotati, dobbiamo invece interrogarci non solo sulla loro storia di gruppo ma – soprattutto – sul modo in cui si presentano, essi stessi, come «storia», ossia approdo ultimativo e definitivo al quale società in evidente affanno dovrebbero invece tornare a guardare con fiducia. Tanto più dinanzi alla crisi irreversibile delle democrazie sociali, liberali e dei loro assetti costituzionali. In quanto, e avremo ancora modo di tornare anche su questo passaggio strategico, esiste una stretta correlazione tra declino di queste e reviviscenza dei radicalismi reazionari. Poste queste premesse, semmai ha senso parlare di rigenerazione di motivi e atteggiamenti di fondo che rimandano a un sedimento ideologico e subculturale con una sua specifica matrice fascista. Che si perpetua nel tempo.

    Cfr. 2
    La presentazione del suo nuovo libro “Neofascismi in grigio” su You Tube (https://www.youtube.com/watch?v=cmxG8e0j1e0&fbclid=IwAR0z2qY_at9vV5idjjmjv3ZtT9o6WhvqnmuIZLNuxt_tlFDXxJYiAid_rEA)

    1. Di sicuro al mondo c’è solo la morte. Detto questo,

      1) Si può discutere su quanto sia consistente in Europa la base di sentimento socialdemocratico; mi pare innegabile che è parecchio più consistente di una base radicalmente rivoluzionaria (le sommosse non sono rivoluzioni).

      2)Se si parla di puzza, il giudizio è necessariamente soggettivo. Al mio naso Dal Lago non puzza per nulla di intellettualismo da accademia. Anzi, rimane pure un po’ al di qua dell’intellettualismo.

      3) Non ho capito.

      4) Quando dico che i nazionalismi sono obsoleti, non dico che non esistono più. Esistono eccome. Ma sono obsoleti di fatto: appartengono al passato, sono il rifugio di quella parte di popolazione, anche ingente, che ha paura del futuro – così come i particolarismi, la letteratura dialettale, la sagra della rana fritta, la festa del santo patrono, i vecchi saggi con la barba bianca ecc. E’ la storia di Heidegger e della tecnica, di cui aveva paura. Si attaccava al passato e allo pseudo-passato delle etimologie balorde, per lui l’Essere parla tedesco come per gli islamici Allah parla arabo classico. Infatti era nazista, senza se e senza ma. Per questo mi stupisce (o forse no) che l’antieuropeismo accomuni di fatto la destra e la sinistra radicale.

      Poi, come si diceva, di sicuro c’è solo lo scheletro con la falce. Queste sono semplici riflessioni del tutto inaccademiche.

  10. Rispondo al punto “3) Non ho capito” cercando di essere più chiaro. Intendevo dire che siamo nel pieno di una crisi della democrazia ( liberale, rappresentativa, parlamentare) dagli sbocchi imprevedibili. ( Ascoltando il video sul libro di Vercelli, che ho segnalato, ci si accorge quanto la questione sia già più che drammatica). E intendevo dire che, tra questi sbocchi imprevedibili, ci potrebbe essere anche un suo aggravamento ulteriore. E che esso potrebbe avvenire in coincidenza o anche in seguito all’acutizzarsi degli scontri geopolitici tra USA, Cina o Russia. Affacciavo anche l’ipotesi di una nuova guerra mondiale. E mi chiedevo dubbioso se, di fronte ad un tale scenario, l’eventuale “vera socialdemocrazia”(quella auspicata da Dal Lago e, mi pare, da te) reggerebbe, cioè non finirebbe per partecipare alla guerra dalla parte di uno dei maggiori contendenti invece di scongiurarla. E in altre forme e magari con altri nomi rispetto al passato novecentesco si potrebbe ripresentare un aut aut non dissimile da quelli della Prima mondiale (“socialismo o barbarie”, lo slogan di Rosa Luxemburg) oppure della Seconda (“fascismo o comunismo”). Riconosco che è un immaginario catastrofista, ma è meglio pensarci un po’ su.

    1. Prometto che appena riesco ascolto il video sul libro di Vercelli. Non è un problema di volontà, è un problema di tempo.
      Ma intanto faccio furiosi esercizi di fantasia per staccarmi dal presente-abitudine e proiettarmi in un futuro profondamente diverso.
      Intanto noto che è tutta un’ipotesi di ipotesi: a)mettiamo che l’attuale democrazia parlamentare rappresentativa basata sul suffragio universale collassi inesorabilmente tipo Titanic, b)mettiamo che ciò accada in concomitanza con una ipotetica III guerra mondiale, chi garantisce che un’eventuale socialdemocrazia (europea a questo punto, se deve avere un minimo di capacità di manovra, e che come principio rifiuta la guerra, come premesso da Dal Lago) non entri in guerra a fianco dell’uno o dell’altro dei contendenti invece di scongiurare la guerra (?, mi sembra comunque ambizioso, forse restare fuori dal conflitto?). Nessuno garantisce, ovviamente.
      Ma chi garantisce che un qualcosa di ancora più vago e peggio definito, se non ex-negativo, e tanto poco sperimentato quanto una socialdemocrazia “che non c’è ancora” (ma che comunque ha fatto delle prove di partenza, all’interno delle democrazie parlamentari, consistenti e non traumatiche come i vari socialismi reali) non reagisca allo stesso modo o peggio?
      O è un modello che funziona soltanto se esteso anche a USA, Cina e Russia, e insomma all’orbe intero?

      Mi chiedo, a mia volta, se questa sospettosità a prescindere (mi chiedevo dubbioso se…), basata su una (singola) situazione del passato e proiettata su una serie di ipotesi future, non abbia l’unico scopo di tagliare le gambe a una possibilità presente che non ti piace (scelta di gusto legittima).

  11. Temo che nulla “collassi”, ma stia già accadendo in modo formicolare, erodendo qua e là, e qua e là sostituendo. Importante è attrezzarci per mantenere la rotta: democrazia rappresentativa o democrazia diretta o presidenziale? Welfare di stato ridotto per via del ridurre le tasse, e sostituzione con offerte private (in certi contratti privati offrono una sanità eccedente quella pubblica…) o riordino dei prelievi fiscali? Scuola e università con investimenti o svalutazione dei titoli pubblici? Contratti generali di lavoro? E via…
    Quanto al nuovo conflitto che si apparecchia, noi con Usa, e Russia e Cina da dividere, il nostro cosiddetto ministro degli esteri che fa e dice?
    C’è un bisogno feroce di essere attivi e presenti, se si chiama socialdemocrazia sono anche d’accordo. L’unica cosa importante è non permettere che la gente, cioè i votanti, si addormenti. E non è una impresa facile, la tv impazza e anche sui social non stiamo bene, la democrazia è di base quantità: a questi grandi numeri mirano i nemici, per ottenere appunto quel “collasso strisciante”…

    1. Infatti gli ostacoli che si pongono ora a una socialdemocrazia o semplicemente a una democrazia degna del suo nome mi sembrano abbastanza diversi da quelli di un secolo fa. La questione “culturale” è diventata centrale: è necessario recuperare un’abitudine alla riflessione che è scomparsa, liquidata dall’abitudine all’immediato: comunicazione, reazione, risposta, gratificazione, successo, dannazione, (pseudo)soluzione dei problemi ecc. L’impressione, in parte giustificata dalla rete, che tutto sia a portata di mano, falsa la percezione dei problemi suggerendo che tutto sia risolvibile in un paio di mosse, purché l’uomo giusto al potere non debba sottostare a fastidiosi quanto inutili intralci. Viviamo nell’era della complessità, ma forse per difendersi dalla complessità la gente anela alla bidimensionalità televisiva, aderisce alla stupidità perché è semplice e diretta, i reality hanno smantellato i suoi residui di pudore e può brandire con orgoglio la più primitiva ed egoistica ferocia.
      D’altra parte, proprio perché la complessità è complessa ed è difficile da osservare, è umano e in fondo inevitabile che si abbia, individualmente, una visione limitata. Per questo sarebbero importanti partiti politici a cui si possa dare fiducia – specialisti della complessità che la affrontano secondo un orientamento scelto e dichiarato – e non i salumieri improvvisati, i contenitori vuoti che si lasciano via via riempire dai più rosei sogni che la gente si ritaglia guardando la realtà dalla sua piccola finestrella.
      C’è del lavoro da fare, indubbiamente.

  12. @ Elena Grammann e Cristiana Fischer

    No, la mia non è semplice «sospettosità a prescindere». E’ ostilità ragionata alla proposta di “vera socialdemocrazia” di Dal Lago, di cui, come ho spiegato in ben 12 Appunti, condivido solo l’analisi critica della sinistra storica. Non la ritengo più “concreta” o “praticabile” di quelle degli intellettuali-dandy con cui se la prende o della mia ipotesi “fortiniana” di comunismo sulla quale continuo a lavorare.

    Chiarita questa differenza di vedute, un dialogo amichevole, sereno e costruttivo su queste cose non ci può essere. Si va inevitabilmente verso il duello e la contrapposizione com’è accaduto con il “discorso sui meritevoli” fatto da Aguzzi. Il che può avere al massimo una sua utilità relativa. E capisco che né le mie segnalazioni di articoli o i miei inviti agli approfondimenti storici potranno essere accolti. E che gli stessi chiarimenti che volenterosamente ho cercato di dare sui punti “oscuri” della mia posizione appariranno un “castello di ipotesi” quasi cervellotico.

    Il fatto è che ciascuno/a di noi ha maturato da chissà quando una sua preferenza (di sinistra o di destra, con le precisazioni – anche queste non so quanto condivise – che ho fatto su queste categorie) e se la mantiene. Su Poliscritture condivideremo altro (poesia, letteratura, analisi della vita quotidiana, ecc.). O possiamo anche esporre le nostre posizioni politiche in saggi o articoli di vario orientamento ma sapendo che ci sarà confronto ma non condivisione.
    Questo ci concedono i tempi tristi che ci restano. Può essere bello lo stesso non riuscire a fare né vere rivoluzioni né vere socialdemocrazie.

  13. Non so se capisco bene il senso dell’ultimo commento di Ennio Abate. Perché il suo rimando alle correnti passate, alle differenze ideologiche passate, non so *davvero* quanto conti in un frangente di cambiamenti come quello in cui viviamo.
    In un discorso forzosamente generale
    – che è, credo, discorso generico – le antiche ideologie funzionano.
    Ma se avessimo bisogno di altri paradigmi ideologici? Se ci servissero cioè schemi di classe e di egemonia più aggiornati alla differente composizione di sfruttati e sfruttatori? Se la lotta di classe, per sintetizzare, si svolgesse su nuovi raggruppamenti lavorativi e non? Chi saprà identificare questa nuova divisione umana? Chi traccera’ le linee delle nuove alleanze? Come sollevarsi dal passato senza perdersi?
    Alcune linee per proseguire le ho individuate nel femminismo, per quanto mi riguarda. Ma il rinnovamento riguarda tutti.

  14. “Ma se avessimo bisogno di altri paradigmi ideologici? Se ci servissero cioè schemi di classe e di egemonia più aggiornati alla differente composizione di sfruttati e sfruttatori? Se la lotta di classe, per sintetizzare, si svolgesse su nuovi raggruppamenti lavorativi e non? Chi saprà identificare questa nuova divisione umana? Chi traccera’ le linee delle nuove alleanze? Come sollevarsi dal passato senza perdersi? Alcune linee per proseguire le ho individuate nel femminismo, per quanto mi riguarda. ” (Fischer)

    Perciò ho scritto: “possiamo anche esporre le nostre posizioni politiche in saggi o articoli di vario orientamento ma sapendo che ci sarà confronto ma non condivisione”.

  15. Ringrazio tutti per gli interventi. Sto leggendo e rileggendo. Con quelli di Fischer e Grammann sono in larga parte d’accordo. A Casati, rispondo che in questo periodo la sinistra tutto fa, fuorché lodarsi. Anzi, non sappiamo più neppure se esiste…Quanto ad Abate, ho preso nota accurata dei suoi appunti. Sarà difficile riuscire a chiarirsi al cento per cento. Proviamo con un punto. Scrivi:
    «E perché – immaginario per immaginario, utopia per utopia – sarebbe meglio gridare «Viva la sinistra» e non «Viva il comunismo»? (Per non parlare della presa delle utopie di destra).»
    Giusto per precisare. Dal Lago nel suo libro «cerca di difendere l’esistenza stessa di un pensiero politico di sinistra, di propagare l’idea di una sinistra idealista, ma non utopistica: una sorta di spazio di controllo e riduzione dei guasti del capitalismo.» Non credo che “idealismo” e “utopismo” siano la stessa cosa. Così come non credo che “immaginario” e “utopia” siano la stessa cosa.
    Perché gridare “Viva la sinistra” e non “Viva il comunismo”. Per quanto, mi riguarda si può gridare pure “Viva il comunismo”. Non tutto il comunismo e non in tutte le parti del mondo è stato dittatura sul proletariato, caserma, gulag e totalitarismo. Occorre, però, avere il coraggio di ammettere che questo è stato in alcune parti del mondo. Non credo che Dal Lago non sappia che Rosa Luxembourg era una comunista…Così come non credo che non sappia che «nel corso degli ultimi due secoli la parola ha assunto significati così diversi da renderne pressoché impossibile un uso condivisibile». Se lo scrive, vuol dire che lo sa. Perché allora l’uso di questo termine? Per tutto il discorso che fa nelle pagine in cui, utilizzando il saggio dell’antropologo francese Roberto Hertz, parla dell’opposizione destra/sinistra come di «un vero e proprio dualismo antropologico […] una sorta di struttura trascendentale della cultura, capace di aggregare anche significati morali, religiosi, [politici], ecc.»
    Comunque, l’uso di questo di questo termine – seguo il suggerimento di Carlo Galli – è un modo sintetico di semplificare. Si sa poi che “sinistra” «è il nome di una Parte, di un settore della società e di uno schieramento ideale; ed è anche il nome di una direzione, di un orientamento che questa Parte, con l’azione politica, vuol dare al Tutto, all’ordine politico. Parte e Tutto si implicano l’una nell’altro. C’è l’una perché c’è l’altro. Come questa Parte venga individuata, in quale relazione stia col Tutto, come e a quali fini lo voglia trasformare, e con quali strumenti politico-istituzionali, sono questioni che si spiegano col risalire alle principali tradizioni filosofiche della modernità». (Carlo Galli, «Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia», Mondadori, 2013, pag. 13). Così, sotto il termine sintetico di sinistra, si possono individuare almeno tre tradizioni.
    a) Quella del razionalismo. La Parte è il “singolo soggetto” per il pensiero razionalistico (Hobbes, Locke, Kant, John Stuart Mill, ecc,) in lotta per i propri diritti contro le forze della tradizione e gli autoritarismi…(tra parentesi, quando il PD oppone allo slogan “dalla parte degli italiani”, quello “dalla parte delle persone”, si muove all’interno di questa tradizione, lambendo quella cattolica).
    b) Quella del “pensiero dialettico”. La Parte, invece, è la classe operaia e il suo partito che si oppone al Tutto del modo di produzione capitalistico, questa Parte reputa insufficiente e illusoria la democrazia liberale dei diritti e ne persegue l’oltrepassamento (riformista o rivoluzionario, libertario o autoritario) verso il socialismo e il comunismo. Questa è la sinistra originatasi dal pensiero dialettico di Marx che rimette coi piedi per terra il pensiero di Hegel.
    c) Infine, quella del “pensiero negativo” – Nietzsche, Heidegger, Derrida, Foucault – . Per i sostenitori di questo pensiero occorre “decostruire” l’idea stessa che la politica sia il progetto razionale di un ordine – certo, se si guarda ciò che sta succedendo in questi giorni in Italia, nei palazzi romani, come non dare loro ragione? -. Di conseguenza, la Parte “sinistra” a rigore non esiste. «Esiste semmai il conflitto fra Parti diverse, che in linea di principio si equivalgono: le opzioni di valore a favore dell’una o dell’altra non sono razionali. La politica, qui, può essere narrazione o decisione, decostruzione critica o volontà di potenza, evento o mito, espressività o conflittualità; certo, non progresso né rivoluzione.» (pag. 14)
    Da quel che ho capito – ma può darsi che non abbia capito un fico secco – la “sinistra idealista” di Dal Lago vorrebbe tenere insieme il meglio di queste tre tradizioni: rinunciare ai diritti di libertà del singolo soggetto non si può, così come non si può rinunciare ad una vera “democrazia sociale” – in fondo social democrazia, vuol dire solo questo – e non è possibile, infine, rinunciare alla critica dell’ordine del discorso e del potere effettuata dal “pensiero negativo”…Quindi, Viva la Sinistra!
    Il nostro sociologo lo dice chiaramente: la sua non è una piattaforma programmatica. Chi dalla “sinistra idealista” dovrà passare all’agenda politica quotidiana, dovrà armarsi di tutto ciò che serve – senza contraddire i principi non negoziabili di questa sinistra – per passare dall’idea o dal razionale al reale…Auguri!…Sono d’accordo con Fischer e Grammann, quando ne scorgono le difficoltà. Ma hic Rhodus, hic salta..

  16. @ Donato Salzarulo

    Il punto decisivo che ci distingue è proprio questo dilemma: ««E perché – immaginario per immaginario, utopia per utopia – sarebbe meglio gridare «Viva la sinistra» e non «Viva il comunismo». (Per non parlare della presa delle utopie di destra).»

    Potrei dire che ha distinto anche i nostri personali percorsi politici. Fin dal ’68, quando ci siamo conosciuti a Cologno. E che si è ripresentato anche nella redazione di Poliscritture dai suoi inizi (2005) fino al suo scioglimento (2018) in un forma più attenuata e eufemistica (tutta la discussione su “rifondazione [della sinistra] o esodo”).

    Cosa dirne oggi? Ci provo:

    1.
    Le distinzioni concettuali («Non credo che “idealismo” e “utopismo” siano la stessa cosa. Così come non credo che “immaginario” e “utopia” siano la stessa cosa.») a prima vista oggi servono davvero a poco. Possono essere aggirate («Per quanto, mi riguarda si può gridare pure “Viva il comunismo”») e non appassionano più. Tanto oggi di comunismo parlano soltanto piccole sette residue e rissose che fanno ridere e possono essere più o meno rancorosamente sbeffeggiate dagli ex ormai rinsaviti. (Vedi Gianfranco La Grassa. Vedi ora quanti già stanno commentando l’uscita della «Storia di Avanguardia Operaia», che – ricordo – si autodefiniva “organizzazione comunista”).

    2.
    Non ho mai capito la cancellazione dalla memoria – almeno di quanti, come noi, negli anni ’68-‘77 furono militanti di alcune formazioni della “nuova sinistra” come AO, LC, Pdup – di un dato storico inattaccabile: quelle formazioni erano nate proprio in dissenso più o meno aperto con il PCI e sui loro giornali e nelle assemblee sostenevano proprio che «in alcune parti del mondo» il comunismo era stato un fallimento e aveva prodotto un “comunismo da caserma” e i gulag staliniani.

    2. Anche Dal Lago proviene da quella “nostra” area politica (Cfr. http://www.alessandrodallago.com/chi-sono.html). Sarà stato fin da allora più “di sinistra” che “comunista. Non lo so. Sa di sicuro che « Rosa Luxembourg era una comunista…» (ma non mi pare che lo dica e, soprattutto, non si sofferma più sul senso di quel termine!). Saprà pure che ««nel corso degli ultimi due secoli la parola ha assunto significati così diversi da renderne pressoché impossibile un uso condivisibile». Ma non ci ragiona più su. Per lui si tratta ormai di un sapere inerte, che è meglio lasciar perdere. (Azzardo. per non sporcarsi la vita da prof universitario in pensione; per coltivare il consenso di lettori d’oggi che di comunismo non sanno nulla o sanno soltanto che è un “libro nero”.). Quello, dunque, che Dal Lago mai più farà è proprio tornare su quella storia, riesaminare quei «significati così diversi». Si sarà convinto – eh, le batoste della storia convincono più di tanti discorsi! – che si è trattato solo di un bel sogno giovanile e generoso e che ormai è « impossibile un [suo] uso condivisibile». (Ma – insisto – forse lo è quello della sinistra o della «socialdemocrazia vera»?).

    3. Questa cancellazione del problema-comunismo io me la spiego con la sconfitta di alcune generazioni cresciute nel secondo dopoguerra e arrivate al “botto” del ’68-’69 con la voglia, sì, di “cambiare il mondo” ma senza conoscerlo abbastanza. Come capita ai giovani. Ma c’è cancellazione e cancellazione. Quelle troppo sbrigative o disinvolte non mi sono mai piaciute. Trovo rispettabili soltanto quegli autodafè motivati quantomeno su un piano intellettuale rigoroso. (Cfr. le posizioni assunte da La Grassa, anche se non le condivido nei suoi sbocchi, che trovo discutibili). Non ci si può – anche se succede, ma bisognerebbe capire perché – appellare ad un senso comune che è stato forgiato dai vincitori. O che, anche se fosse spontaneo, non per questo impone a chi fa politica (se la politica è l’arte del possibile) un semplice adeguamento. No, non ci si adegua né alle ideologie dei dominatori né a quella dei dominati. Il pensiero critico cerca un’altra strada. E anche se non la trovasse, fa un lavoro di testimonianza della verità storica che potrebbe servire ad altri.

    4. Attestarsi, come fa Dal Lago, sulle posizioni dell’antropologo francese Roberto Hertz, secondo il quale, quando parliamo di destra e sinistra, ci troveremmo di fronte a ««un vero e proprio dualismo antropologico […] una sorta di struttura trascendentale della cultura, capace di aggregare anche significati morali, religiosi, [politici], ecc.» è un modo elegante per sbarazzarsi del problema-comunismo. Ci fosse pure quel dualismo, non è detto che l’ipotesi del comunismo non vi rientri, magari come “estremizzazione” di un pensiero “di sinistra”.

    5. La definizione di Galli non è detto che non si possa usare per il comunismo. Tant’è vero che un pensatore come Tronti ha usato in questi termini proprio il concetto di Classe Operaia. Come prevede il punto b dello schema di Galli, quando cita la posizione che « reputa insufficiente e illusoria la democrazia liberale dei diritti e ne persegue l’oltrepassamento (riformista o rivoluzionario, libertario o autoritario) verso il socialismo e il comunismo.».

    6. Le sintesi sono sempre cose ardue, ma vorrei capire come si fa a tener assieme « il meglio di queste tre tradizioni» che Galli elenca.

    7. Prima ancora di passare a discorsi su piattaforme programmatiche, per me, in tempi di fallimento del comunismo, si tratta di mantener fermo sul piano intellettuale e morale una prospettiva di ricerca. Si tratta di chiedersi: qual è stato il punto più alto delle esperienze sociali e politiche che sono state fatte? Il punto più alto è stato quello della socialdemocrazia o del socialismo/comunismo o del fascismo o della democrazia liberale? Qui sarebbe per me l’ Hic Rhodus etc… Insomma, le difficoltà ci sono sia se si vuole ripensare la “vera socialdemocrazia” sia se si vuole ripensare il “comunismo vero” ( o altre posizioni). Dipende da una scelta. Io scommetto su questa ipotesi del comunismo e parafraserei il Leopardi de “La ginestra così:

    Qui mira e qui ti specchia,
    sinistra superba e sciocca,
    che il calle insino allora
    dal risorto pensier segnato innanti
    abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
    del ritornar ti vanti,
    e procedere il chiami.

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