2005 Intervista a Michele Ranchetti

di Ennio Abate

Ennio AbateIl tuo libro [Non c’è più religione] ripercorre «storicamente» gli elementi della dottrina cattolica e contesta in modo rigoroso il magistero della Chiesa cattolica. Resta – mi pare – nella dimensione religiosa e ripropone però con attenuazioni e problematicamente il recupero di «un senso religioso della vita», lasciando in sospeso la questione della necessità o meno di un tale recupero. Come mai questa sospensione? Cosa t’impedisce di affermarne decisamente la necessità?  

Michele Ranchetti: Sono nato, cresciuto e vissuto a lungo – ho ormai 80 anni – in questa dimensione religiosa, che per me è stata di carattere naturale. Adesso mi pare di vivere una certa crisi, nel senso che, assistendo ad una forma di presenza dell’istituzione cattolica così mastodontica, così dichiarata e accettata e ritenendola così aberrante rispetto al corso degli eventi e alle ragioni o non ragioni per cui si svolgono, contrapponendo ad essi una struttura assolutamente non significativa e che non corrisponde a nessun bisogno e a nessuna vera motivazione religiosa, mi chiedo se proprio l’istituzione cattolica prima di tutto, e anche la professione di fede religiosa non siano ormai da buttare a mare. Ho sentito formulare solo da Ivan Illich, un amico morto recentemente, in un suo testo che sto per rileggere e pubblicare questa domanda: c’è all’interno della professione di fede cattolica, cioè nella vita e nella dottrina del cristianesimo, qualcosa che imponga il suo pervertimento? Sono di fronte a questa interrogazione. Non so se avrà mai risposta, ma è quella che adesso io mi pongo. Ossia, mi chiedo se quello che fino a qualche tempo fa costituiva per me una perversione da parte dell’istituzione del messaggio cristiano non sia invece da intendere come l’unica forma possibile, per cui il messaggio cristiano non può essere che pervertito. E l’istituzione cattolica è una delle forme, non la più visibile forse, non la meno rilevante di tale pervertimento.

EA.: Come virtù per un eventuale recupero del senso religioso della vita indichi paradossalmente la disobbedienza «cieca e assoluta» perinde ac cadaver, criticando così le figure degli «ultimi preti», che – dici – «non erano dei dissidenti, tanto meno degli eretici», ma appunto «obbedienti». Mi chiedo: tale disobbedienza non rischia di essere “irrazionale”, “luciferina”, valore in sé e non strumento per raggiungere “qualcos’altro” che la ragione, il cui uso rivendichi con passione, abbia davvero afferrato (e questo sia che ci si ponga su un piano religioso sia che ci si attesti su quello civile e storico)?

MR.: Nella prospettiva di una corruzione da parte dell’istituzione religiosa del messaggio cristiano, la disobbedienza ha un senso, perché corrisponde a un progetto religioso o a un’appartenenza religiosa non rappresentata. Di fronte alla presenza di un magistero così aberrante e di fronte a manifestazioni di idolatria nei confronti di un pontefice idolatrato che ha contribuito largamente alla struttura di potere della chiesa, la cosa che si poteva fare o si poteva auspicare è che i credenti, coloro che si ritenevano ancora all’interno dell’espressione di fede cristiana, si ribellassero. Se però io mi domando se l’istituzione che si sostituisce alla predicazione, che si è dispersa nel mondo sia la unica forma possibile, allora la disobbedienza ha meno rilievo. Ripropongo perciò la stessa domanda di prima: per contrapporsi occorre pensare che dalla professione di fede cristiana e in particolare dalla lettura o rilettura del Vangelo emerga una possibilità di comportamento anche civile? Questa interrogazione per me rimane in sospeso. Allora, si può sempre disobbedire, perché il comportamento dell’istituzione è certamente aberrante anche rispetto alla pace, alla guerra e alla giustizia. Questo però non so se debba essere o se possa iscriversi in una professione di fede.

EA.: Ma anche se nel momento in cui si disobbedisce manca una proposta positiva? Insisto: la disobbedienza non dovrebbe accompagnarsi alla proposta di qualcosa di diverso, altrimenti…

MR.: Altrimenti, no! Io non so cosa succede. Però, se in nome di una professione di fede religiosa uno agisce da criminale questo si può e si deve fare, auspicare che questa persona venga incriminata. Si può incriminare come pervertimento del messaggio cristiano nella sua elementarità, che è l’amore, il volersi bene, la giustizia, la verità. Si può incriminare per una diversa intelligenza del Vangelo, che io non ho.

EA.: Pensi che l’abbiano altri? Insisto nel porti il problema della disobbedienza in termini che considero politici e non solo etici: quasi sempre a rifiutare la dottrina della chiesa cattolica sono individui arrivati alla consapevolezza della inconsistenza religiosa dell’istituzione e/o della sua connivenza con poteri oppressivi, ma tale consapevolezza manca agli altri. Si può costruire un movimento – io dico di lotta – soltanto sulla disobbedienza individuale o di pochi? Mi ripeto: la disobbedienza non dovrebbe essere “costruttiva”, accompagnarsi ad altro, al ”sogno” almeno di qualcos’altro?

MR.: Certo. Forse diciamo la stessa cosa. L’istituzione cattolica che si riferisce al Vangelo è evidentemente una perversione del Vangelo. Si può, quindi, e si deve disobbedire ad essa, perché ti dice di votare per Berlusconi in quanto uomo di fede, e non è vero. Fin qui è tutto legittimo, è tutto giusto; e non hai da fare un riferimento a qualcosa d’altro. Se ad un certo punto l’istituzione viene riconosciuta per quello che è, e cioè una struttura di potere, hai già fatto un passo avanti.

EA.: Sì, ma quanti la riconoscono per quella che è?

MR.: Lo so, molto pochi.

EA.: E, se quei pochi, che pur hanno afferrato questa verità, non la riescono a trasmettere agli altri, ai tanti, e finiscono isolati? Certo, è preferibile questa condizione all’appartenenza a una comunità falsa.

MR.: Sì, finiamo così. Ma non ho nulla da eccepire al finire diseredati dalla tradizione, respinti da un vivere civile o da un vivere cosiddetto comunitariamente religioso, però abbiamo fatto un passo avanti verso la distruzione di una falsa verità. Cominciamo a fare questo. Ci sono quelli che all’interno della chiesa, anche con responsabilità molto maggiori di quelle che abbia io (io ce l’ho, perché sono un uomo vivo e basta; non ho nessuna struttura di riferimento che mi autorizzi a parlare in modo diverso dagli altri), più obbedienti di me in un primo tempo o più disobbedienti di me in un secondo tempo, che hanno riconosciuto questo pervertimento e si sono posti in una direzione diversa? Non li conosco! Quei preti a cui faccio riferimento – gli ultimi preti: Turoldo, Balducci ed altri – hanno fatto un passo in avanti? No, non mi sembra. Sono rimasti nella delusione di una struttura che non corrisponde al loro ideale. Hanno cercato di migliorarla dov’era possibile. Hanno cercato di avere delle forme di convivenza religiosa con i loro confratelli, di predicare in modo diverso, di non fare riferimento a falsi valori o a false verità. L’hanno fatto e sono benemeriti. Si sono posti al di fuori? No! Si sono posti contro? No! Sono rimasti, come ho detto tante volte, gli ultimi preti. C’è bisogno di ultimi preti? Sì, più che di preti consenzienti, certo. Bastano? No!

EA.: A pag. 67 del tuo libro scrivi: «si poteva cercare nuovi maestri «atei», ma dove trovarli?». Capisco la difficoltà di tale ricerca per un giovane profondamente cattolico e in un tempo di alleanza piena fra chiesa e fascismo. Ma furono da te cercati davvero questi nuovi maestri atei? Ho l’impressione che tu non abbia mai voluto spingerti con decisione fuori dalla problematica cattolica e riconvertire la tua ricerca religiosa in direzioni più “rischiose”, che so verso la critica illuminista o del materialismo marxiano (mentre so che hai avuto un’attenzione partecipe al pensiero di Freud e alla psicoanalisi). Vorrei che approfondissi questa che a me è parsa una tua ritrosia a misurarti con determinate tendenze del pensiero moderno.

MR.: Hai ragione. Descrivi molto bene il mio itinerario, sia che l’abbia esposto io sia che l’abbia riconosciuto tu nei miei scritti. In realtà, ci sono due maestri che io ho cercato al di fuori della professione di fede e di appartenenza religiosa: il primo è Wittgenstein, il secondo Freud. Perché? Perché Wittgenstein ha posto se stesso e il mondo in un’interrogazione senza presupposti, cercando di sapere come stanno le cose, non facendole dipendere da un precedente già detto, già pensato. Questa totale disponibilità verso un’interrogazione assoluta l’ho trovata solo in lui. Per questo sono rimasto affascinato dal suo pensiero e ho cercato di farne tesoro, per così dire. La seconda possibilità mi fu offerta dalla psicanalisi. Perché? Perché, secondo me (e non siamo molti a pensare così), la ricerca di Freud è il tentativo più radicalmente antireligioso che io abbia incontrato nella mia vita. È un’interrogazione precisa di tutti i presupposti religiosi nella ipotesi di ricondurli ad altre fonti, che non sono la presenza di una divinità religiosa incarnata in Gesù Cristo o incarnata in qualche altra cosa. E quindi una riduzione dell’interrogazione a interrogazione che riguarda il singolo così com’è nel momento in cui egli vive. Ogni struttura causale, che è stata introdotta nella giustificazione dell’esistenza, viene sottoposta a un’interrogazione radicale. Nell’ipotesi (che è riuscita solo in parte) di sostituire ad essa i veri nessi, che sono diversi da quelli accettati nella tradizione filosofica o religiosa o in altre tradizioni, compresa quella scientifica. Quindi una interrogazione sui vari statuti disciplinari, per sostituire ad essi altri statuti, che sono quelli che la psicanalisi ha cercato di costruire. Non ce l’ha fatta. Però la domanda radicale che lui si è posta è analoga a quella di Wittgenstein. Questi due radicalismi sono quelli che ho trovato nella mia strada. Non li ho percorsi e non ho seguito il loro esempio fino in fondo, ma è quello che, finché vivo, cercherò di fare.

EA.: Quelli che io ritengo altri radicalismi – quello degli illuministi, quello di Marx – tu non li consideri?

MR.: Non li considero non perché non li ritenga tali. Non li considero perché non li ho incontrati sulla mia strada.

EA.: Scusami, ma perché avresti dovuto incontrarli proprio ed esclusivamente sulla tua strada? Certe strade non s’incrociano necessariamente con quella che abbiamo imboccato.

MR.: Io sono arrivato alla lettura di Freud e di Wittgenstein per caso, nel senso concreto del termine, perché una persona (un ebreo), che ha voluto convertirsi alla fede cattolica e ha scelto me come padrino, mi ha portato il libro di Wittgenstein di cui era stato allievo. Allora l’ho preso e l’ho letto. Secondo esempio: Freud. Non avendo nessuna fonte di lavoro, mi sono rivolto a Boringhieri, che stava iniziando la pubblicazione delle sue opere, e mi sono offerto come traduttore dal tedesco. E così ho cominciato a leggere Freud. Queste due occasioni concrete mi hanno posto di fronte a un libro, alla persona che l’ha scritto e all’universo che ha cercato di produrre ed io le ho colte. Non è avvenuta la stessa cosa per Marx. Queste due letture – di Wittgenstein e di Freud – sono state in un certo senso imposte a me per esigenze concrete: una di lavoro e l’altra dall’offerta di una persona che mi è apparsa subito “nuova” rispetto alla mia cultura. Non mi è capitato invece che qualcuno, con la stessa necessità di proposta, mi offrisse la lettura di Marx.

EA.: Neppure nel confronto che avesti con esponenti della Resistenza di cui parli in quel tuo scritto intitolato Sopra una qualsiasi rivoluzione [in Scritti diversi, II, p. 215]?

MR.: La persona che mi ha introdotto a questa dinamica, a questi incontri, e cioè Delfino Insolera, aveva già proceduto ad interrogare Marx e a lasciarlo da parte.

EA.: Ma in quegli anni il PCI di Togliatti un certo discorso su Marx lo sventolava a destra e a manca. Non ti ha per lo meno incuriosito?

MR.: Io ho sempre proceduto nella mia vita per fatti concreti. Ho avuto sempre delle occasioni molto precise per cui sono andato da una situazione a un’altra. Nel caso di Marx, e quindi della filosofia marxista, e quindi del Partito Comunista, alcuni accadimenti sono stati per me determinanti. All’università avevo come insegnante Banfi, che allora era sia insegnante di filosofia sia anche membro attivo e eminente della struttura di potere marxista del PCI. Io ho avuto uno scontro molto violento con Banfi. Facevo l’università e ho sempre saputo di non essere per nulla una testa filosofica, caso mai una testa artistica. Andavo alle sue lezioni e Banfi le faceva nel modo in cui le ha sempre fatte negli ultimi tempi, quindi passeggiando, in modo salottiero, in modo molto intelligente, ma pochissimo marxista; e quindi mi dava molto fastidio. Era venerato da tutti ma io non pensavo di doverlo venerare. È capitato poi che una mia zia, dopo varie crisi e traversie anche religiose, è diventata medico. Durante la guerra, molto più di mia madre, si è impegnata politicamente e ha tenuto rapporti piuttosto stretti con gli ebrei. Ne ha fatti scappare ed è stata per questo incarcerata a San Vittore. Poi ne è uscita e ha continuato la sua vita fino ad ottantacinque anni. In quegli anni, data la sua appartenenza a questi ambienti politici di carcerati, lei era venuta in contatto con alcuni esponenti sia della Resistenza sia dei fascisti incarcerati subito dopo il ’45. Uno di questi fascisti era stato imputato della uccisione di Curiel. Lei l’ha conosciuto in carcere. E mi ha detto: – Senti, tu conosci Banfi? Siccome lui è un pezzo grosso…Tizio non è colpevole di questo crimine. Sarà fucilato. Se tu vedi Banfi, prova a dirglielo. Banfi era molto connesso con Curiel e quindi per mia zia doveva essere interessato a fare giustizia. Allora io sono andato da Banfi. Fortunatamente allora, come anche adesso, non ho nessun rispetto umano, come si dice. Ho chiesto di parlargli. Era in biblioteca e gli ho detto questo. Ha cominciato a gridare in modo tremendo, in un modo drammatico e teatrale: quello è un porco fascista! Adesso si mettono a salvare anche i fascisti! E questo mi ha fatto piangere. Ho pianto per l’assurdità di questo tipo di reazione di allora (ma lo penso anche adesso). Secondo fatto traumatico: io durante la guerra non ho fatto nulla. Ero sul lago di Como in una situazione molto privilegiata. Ero abbastanza giovane. Mi sono fatto esentare dal servizio militare, mentre mio fratello era in guerra. Facevo solo il lavoro materiale di traversare il lago con gli ebrei che dovevano scappare di là. Quindi la guerra non l’ho vissuta in nessun modo. Non ho fatto il partigiano. Non ho fatto il basista e così via. Ma nei giorni della Liberazione io ero presente a Milano. E – anche questo fu un fatto relativamente drammatico per una mentalità niente affatto politica come la mia – ho assistito al farsi dei partigiani: il giorno prima seduti tranquilli, a bere, a fumare e a fare l’amore, si sono travestiti da partigiani e hanno partecipato alla vita politica in quanto partigiani, che non era vero. Altro elemento: partecipavano tutti attivamente al Fronte della Gioventù diretto da Banfi; ed erano quasi tutti fascisti e si comportavano come fascisti. Io mi sono iscritto nelle liste degli indipendenti di sinistra per le prime elezioni all’Università. Ho avuto il massimo dei voti. Ho partecipato alle riunioni. Ho fatto qualche proposta.

EA.: Passiamo al tema del rapporto cattolicesimocomunismo. Giudicasti positivamente, se non sbaglio, l’ipotesi di Rodano di «un’alleanza storicamente e religiosamente necessaria fra cattolicesimo e comunismo». Essa rappresentò di fatto la base teorica del «compromesso storico ». E questo mi pare, allo stesso tempo, il punto in cui massima è stata la vicinanza tra te e il comunismo e il punto maggiore di distanza fra te e la mia generazione, che secondo Rodano si sarebbe abbandonata agli «estremismi» del ’68» o si sarebbe lasciata attrarre – anche tramite Fortini o la Masi – dalle chimere del «terzo mondo». Puoi precisarmi la tua collocazione rispetto a quelle che una volta si chiamavano «sinistra storica» e «nuova sinistra»?

MR.: Tutto vero. Con alcuni elementi in più, anche questi di carattere geografico. La mia vicinanza al partito della sinistra cristiana deriva anche dal fatto che ho conosciuto e amato Felice Balbo. Felice Balbo non lo conosce più nessuno. Era un uomo straordinario, amico di Pavese e Giaime Pintor e collaboratore della Einaudi. Egli è poi uscito dalla cerchia degli intellettuali organici al PCI e all’istituzione einaudiana ed è entrato all’IRI. Poi si è un po’ stancato ed è rientrato nei ranghi universitari. Insegnava Filosofia morale all’università di Roma. È morto giovanissimo. In quei tempi lui era il filosofo di un gruppo composto anche da Rodano e Napoleoni. Questi erano i tre che avrebbero voluto e forse sarebbero anche riusciti a comporre economia, politica e filosofia. La testa maggiore era Balbo. Costituivano una «scuola», termine inventato dallo stesso Balbo, il cui obiettivo era la formazione di quadri per un futuro civile. Quando Balbo è morto, al suo posto hanno preso me. E quindi c’è stata la «scuola di Roma», in cui insegnavamo: io filosofia, Rodano politica e Napoleoni economia. È durata pochissimo e poi è stata interrotta dal ’68, che ha determinato prese di posizione piuttosto precise da parte di noi tre: Rodano di rifiuto radicale, Napoleoni di attenzione relativa e partecipazione modesta, io di partecipazione assoluta. Quindi la scuola si è interrotta. Anche perché, mentre gli altri due avevano una struttura disciplinare precisa, io non sono riuscito a immettervi, ma dopo parecchio tempo, negli ultimi anni Settanta, né Wittgenstein né Freud, diciamo così, né un’alternativa a questi due. Come ho detto la partecipazione al marxismo da parte mia era modestissima e non ero in grado di elaborare le idee che Balbo aveva già tracciato coi suoi scritti sul marxismo. Ero l’“aspirante filosofo” all’interno di questo gruppo. L’esperienza si è interrotta, però l’ipotesi che Rodano sempre sosteneva di recuperare il senso religioso del cristianesimo al marxismo nella convivenza istituzionale tra il cattolicesimo e il Partito comunista, un po’ l’ho condivisa.

EA.: Qui mi pare di cogliere una sorta di contraddizione. Che legame ci può essere tra la tua rigorosa critica al magistero cattolico per avere sempre difeso inesorabilmente la divisione gerarchica fra ceto sacerdotale e laici e la tua adesione o simpatia per le posizioni di Rodano e per il ruolo del PCI, la cui burocrazia, secondo me, ha seguito proprio quel modello di pratica del potere della chiesa? La dannosa differenza tra laicato e chiesa per me c’era anche tra intellettuali-burocrati del PCI e militanti di base della classe operaia.

MR.: Sì, certo. Probabilmente hai ragione. Non ho nulla da obbiettare. La mia però tu l’hai giustamente definita una «simpatia». Questa era molto motivata dall’ipotesi che dall’iniziativa di Balbo si riuscisse a fondere Rodano con Napoleoni e lo stesso Balbo, ossia la politica di Rodano con l’economia di Napoleoni e la filosofia in largo senso “religiosa”. Ma essa si è interrotta. Io non l’ho più seguita, non ero in grado di sviluppare quella prospettiva. Io ho avuto simpatia, ma questa simpatia l’ho interrotta al momento in cui Rodano è andato per la sua strada e Napoleoni è andato per una strada di economia che io non potevo seguire, anche se ho mantenuto un grande affetto e una grande stima per lui. Il pensiero di Balbo è rimasto interrotto per la sua morte e anche perché io non me ne sono più occupato, anche perché – questo è un fatto contingente – le sue carte sono state tenute segrete dalla sua vedova. Quasi nessuno poteva leggerle e solo adesso sono riaffiorate alla luce. Però era una simpatia. Anzi negli anni successivi è cresciuta la mia ostilità a questa ipotesi che tu giustamente rilevi come un’alleanza tra burocrazie.

EA.: In effetti, nella tua critica alle scelte del magistero della chiesa dall’Ottocento ad oggi ho colto una profonda analogia (non so quanto legittima e fondata storicamente) con la polemica contro la burocratizzazione del comunismo ad opera delle dirigenze di partito. E perciò ritengo perciò prezioso il tuo libro non solo per i credenti, ma anche per quanti non si sono pentiti di aver lottato per il comunismo. Cosa ne pensi?

MR.: Il problema, che poi è stato affrontato da molti, per me è sempre questo: esiste la predicazione ed esiste l’istituzione che si costruisce sulla predicazione. Evidentemente il nesso che si istituisce è sempre sbagliato. Quando la predicazione diventa istituzione, diventa partito, diventa chiesa, la predicazione scompare e prevalgono motivazioni interne alla struttura. Esse impediscono che la predicazione rimanga quella che è, rimanga “pura”, diciamo così. Questo è un fenomeno che si verifica sempre. Nell’ambito dei partiti lo vediamo. Nell’ambito della chiesa non si è visto abbastanza. Però l’ipotesi del ritorno alle origini, che è stata spesso affacciata, per contrastarlo è assurda, perché al momento delle origini trovi la predicazione e pensi che tutto quello che si è costruito sopra sia un errore, mentre esiste una necessità; e non può che esistere una necessità del passaggio dalla predicazione all’istituzione. Dovrebbe avvenire in un modo diverso da quello in cui è avvenuto.

EA.: In termini politici è il cosiddetto problema del passaggio dalla spontaneità all’organizzazione.

MR.: E quello non è stato risolto mai. È irrisolubile? Non lo so.

EA.: Un nodo grosso. Si ripresenta di fronte ad ogni movimento, anche adesso coi no global.

MR.: Sì, finché i no global passeggiano per Roma, per Firenze e dicono delle cose giuste, va benissimo. Al momento in cui dicono facciamo qualcosa di diverso, è finita. È quel momento lì… È possibile che non possa essere che così?

EA.: Concludo chiedendoti una precisazione. Nel punto in cui parli della chiesa che riconosce le colpe di ieri, chiede perdono a non si sa chi e in fin dei conti si assolve, affermi che essa non ha solo «caratteri umani» e appartiene «per sua precisa dichiarazione…a qualcosa d’altro, e che non è, semplicemente, il campo e il dominio della fede». Alludi forse alla distanza insuperata fra senso religioso e senso mondano, politico del comunismo? Sarebbe come dire che il comunismo rimane una cosa ancora “troppo umana”?

MR.: La cosa che non si ricorda e che fa parte dei principi elementari della dottrina cristiana, di cui tutti fan finta di sapere (parlo del magistero), è la definizione di chiesa. Cambiano i secoli, ma non è stata mai riconosciuta una definizione unica. Definendo una cosa devi dire anche ciò che non è. Però tra le definizioni correnti, che non sono definitive, non autenticate da nulla, c’è quella della chiesa docente e della chiesa discente, c’è quella della chiesa come società perfetta e quella della chiesa come popolo di Dio. E poi c’è la chiesa non visibile, che è l’appartenenza di tutti a un mondo che è qui sulla terra ma che ha anche la sua prosecuzione nel cielo. Non c’è nulla di morto nella chiesa. I morti non esistono, sono risorti. Quindi c’è una presenza di cose non visibili che costituisce l’essere della chiesa anche nella visibilità. Questo fa sì che la sfera della chiesa non è fissabile entro il traguardo terreno, ma va anche oltre. E il potere della chiesa deriva dalla disponibilità di questo oltre sul qui. La sfera politica ha sempre una prosecuzione non visibile che è di competenza della chiesa.

EA.: L’aldilà ha sempre la meglio sull’al di qua…

MR.: Ha la meglio perché lo contiene. Perché contiene l’al di qua diventato eterno.

EA.: Per Bloch l’aldilà deve diventare al di qua, perché è l’altra faccia (sublimata) di quella che diciamo “realtà”.

MR.: Sì questo come progetto. Ma la chiesa non ha mai detto che questo è un progetto. Ha detto che è la sua essenza.

[«Poliscritture», 4 gennaio 2005]

Nota

L’intervista appena letta ha una lunga gestazione e alcune motivazioni personali e politiche che è giusto esplicitare. Non c’è più religione è uscito da Garzanti nel 2003 e il filo conduttore del colloquio con Ranchetti parte da una mia istintiva reazione alla lettura del libro. Potrei riassumerla così: bisognerebbe scrivere, a completamento, un Non c’è più comunismo altrettanto rigoroso e appassionato. Ovviamente un libro del genere oggi per me non c’è. Oltre il Novecento di Revelli si limita – credo – a esorcizzare la parte sanguinolenta di quel fantasma storico e Impero o Moltitudine di Hardt e Negri anticipano fin troppo, teleologicamente, un miraggio gioioso e moltitudinario di neocomunismo, sottovalutando la morsa presente di guerre, precariati permanenti, tsunami e altri disastri umani e ambientali. Ho voluto perciò confrontarmi a fondo con questo libro e poi porre direttamente al suo autore delle domande legate ad esperienze che credo siano state comuni alla generazione cresciuta nell’immediato dopoguerra. Sono, infatti, uno dei tanti – suppongo – che, segnato nella sua infanzia e prima adolescenza dal cattolicesimo (certo con differenze di età, di ceto e di formazione rilevanti rispetto a Ranchetti, ma non tali da impedirmi di cogliere la sostanziale continuità dell’ideologia e della pratica dell’Azione Cattolica dei suoi tempi con quelle a me riproposte tra anni Quaranta e Cinquanta, in parrocchia, a Salerno), se ne è poi staccato; e ha preso parte a esperienze di vita e di lotta sociale e politica non solo in contrasto con l’insegnamento cattolico, ma decisamente spostate in partibus infidelium e nutrite di idee illuministe e marxiane, circolate ampiamente da noi attorno al ’68 e per buona parte degli anni Settanta e tendenti ad oltrepassare il terreno religioso o a “materializzarlo” in senso più o meno blochiano. La lettura di questo e di altri libri di Ranchetti mi ha dato, a distanza di tanti anni, la percezione dell’esistenza di una possibilità nella mia giovinezza del tutto insospettata: quella di una critica radicale al cattolicesimo restando cristiani. Nel mio ambiente e in quel periodo, infatti, ogni ipotesi “protestante” o di dissidenza fu per me inesistente. Adesso la ritrovo nell’esperienza di Ranchetti, che ha fatto diventare la sua insofferenza per l’istituzione cattolica rigorosa critica intellettuale. In me invece ha portato a una rottura soprattutto fisica con quel mondo e a deviare o a trasformare quel «senso religioso della vita» in direzioni non so se più “estremiste” delle sue ma comunque non coincidenti. Questo mi permette di guardare oggi il suo percorso e il mio con uno sguardo che direi strabico. Da qui la mia tendenza ad incalzarlo su aspetti che a me paiono “limiti” o sono forse solo problemi che sento con più forza; e l’insistenza di alcune domande, che – come mi ha fatto notare Ranchetti stesso – non corrispondono alle sue domande e forse non trovano del tutto risposta da parte sua. L’ipotesi, ad esempio, della relazione fra crisi del comunismo e crisi del cristianesimo non so quanto sia interessante dal punto di vista della sua vasta e lunga ricerca o alla luce dell’interrogativo di Illich che oggi l’assilla. Non so neppure quanto possa suscitare interesse in altri. Tuttavia mi è piaciuto sondare il suo pensiero su questioni “mie” o fino a tempi recenti anche “nostre”, e cioè di una certa area culturale e politica di “sinistra”, che ha parlato o in qualche sua residua componente ancora parla di comunismo. Nella fase di preparazione dell’intervista mi sono chiesto anche se non sia un paradosso pretendere che un libro lucido e spietato su «istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento», argomenti che parrebbero rivolti esclusivamente a cattolici o a credenti nell’aldilà, interessi “a sinistra”. Eppure, al di là delle intenzioni o opinioni di Ranchetti e contro altre obiezioni che ho messo in preventivo, credo che valga la pena tentare di riportare l’attenzione almeno di una certa intelligenza “di sinistra” su questo libro, sollecitando prese di posizione. Affaccio a sostegno alcune mie convinzioni: 1) il tentativo di Ranchetti di «ripristinare un’interrogazione religiosa nel senso più ampio del termine», offrendo alla discussione una serie di tesi fin dal primo numero de L’ospite ingrato del 1998, mi pare andare incontro a quelli compiuti per tutto il Novecento da minoranze comuniste e socialiste dissidenti dai partiti, che hanno anch’esse cercato di ripristinare un’interrogazione – politica certo – nel senso più ampio del termine; 2) il libro, pur restando dentro la dimensione religiosa cristiana, contesta coraggiosamente e con solidissime argomentazioni teologiche e storiche l’autorità della chiesa cattolica, la cui secolare struttura gerarchica è matrice della pur laica «forma partito»; e la separazione fra sacerdozio e laicato, su cui Ranchetti tanto insiste, è il modello profondo di ogni separazione fra Stato e società civile, fra intellettuali e classe, fra politici (e rivoluzionari) di professione e movimenti; 3) se non è peregrina l’analogia tra cristianesimo e comunismo (e poi tra tentativi di riforma religiosa e tentativi “antirevisionisti” di Marx), va considerato anche il parallelismo tra crisi del cristianesimo, divenuto nell’Ottocento come Ranchetti documenta istituzione “totalitaria”, e crisi del comunismo, tradottosi nel Novecento prima in stalinismo e poi imploso; 4) per contrastare lo sfacelo teorico e ideologico nell’ultimo trentennio che ha colpito tutte le aree della sinistra (“storica” o “nuova” si diceva una volta) può essere utile affrontare la centralità indiscussa del modello-chiesa, così accanitamente e lucidamente al centro degli studi di Ranchetti, specie in questo momento in cui gran parte della sinistra – come ha ricordato Massimo Cappitti in una delle pochissime recensioni che Non c’è più religione abbia ricevuto (in L’ospite ingrato 2 2003) – sembra allinearsi ossequiosamente alla chiesa, fino ritenerla l’«unica istanza etica universale capace di parlare autorevolmente al mondo “globalizzato”»; 5) chi viene dalla storia della sinistra comunista più radicale si potrebbe però chiedere se abbia senso partire dalla critica della chiesa fatta da Ranchetti invece che dalle tante critiche anarchiche fatte fin dall’inizio del movimento operaio alla forma-partito (da Bakunin a Rosa Luxemburg alla rivoluzione culturale cinese). Mi sono risposto: a queste critiche, sovente troppo fiduciosamente illuministiche, è sfuggito quasi sempre la presa dell’aspetto sacrale del potere sull’immaginario sociale. Ed è stata, invece, proprio la chiesa – come fa notare Ranchetti nella coda dell’intervista – che per lunghi secoli, sottraendo il suo e l’altrui potere ad ogni interrogazione o intromissione dei suoi laici e dei cosiddetti “eretici”, ha monopolizzato le risposte a dubbi fondamentali dell’esistenza nostra, riverberando sugli altri poteri con cui mano mano si è alleata – dagli imperatori ai fascismi – l’aura della sua sacralità; 6) se forse c’interrogassimo seriamente sul perché la “chiesa comunista” sia crollata e quella cattolica invece mantenga una sua presenza pervasiva (sia pur pervertita), sa perdonarsi e assolversi dei propri “errori” o esibire in modi spettacolari fascinosi le dichiarazioni e le imprese dei suoi capi carismatici e può presentarsi oggi come «l’unico soggetto monopolista della storia e della verità» (Cappitti), dovremmo rispondere che l’amministrazione oculata del suo Sacro le ha permesso di avere rapporti privilegiati di connivenza e di adattamento con altri gestori di un sacro degradato (fascismo e nazismo); e oggi anche col Capitale finanziario trionfante, dalla chiesa criticato per i suoi “eccessi materialistici”, ma mai disconosciuto e tanto meno scomunicato, come capitò al comunismo da parte di Pio XII. Mentre il comunismo staliniano non seppe andare oltre un certo rozzo culto della personalità. Aggiungo infine almeno altre tre domande che la lettura di Non c’è più religione mi ha suscitato: 1) perché è stata possibile una connivenza quasi logica, come dimostra Ranchetti, fra Chiesa cattolica e fascismo o, altrimenti, è stata sempre più facile l’«alleanza tra trono ed altare» e così ardua quella fra cristianesimo e comunismo? 2) la critica al cattolicesimo di Ranchetti verrebbe rafforzata o indebolita da quella al Capitale, il grande innominato del suo libro? (Marx, se non sbaglio, è citato una sola volta, a pag. 79, parlando del tentativo di interpretazione fatto da parte dei cattolici di sinistra e nell’intervista Ranchetti chiarisce bene anche alcune ragioni biografiche dell’assenza nella sua riflessione di questo autore); 3) da chi e come si potrà spezzare questo monopolio totalitario della Chiesa, se tutta la memoria del tentativo del comunismo novecentesco è diventata oggi tabù? (Ricordo en passant che Giovanni Paolo II, oltre che «incarnazione di un “primato che non riconosce errore”» è stato presentato anche come il “vincitore del comunismo”, e cioè di un’esperienza storica nella quale si era affacciata l’ipotesi che forse un senso religioso alla vita poteva anche non essere più necessario).

[Ennio Abate, 13 maggio 2005]

5 pensieri su “2005 Intervista a Michele Ranchetti

  1. Ciò che mi intriga (mi tira dentro un viluppo di fili -temi, pensieri-) nell’intervista, è che Ranchetti si attesta sulle linee -difensive- del suo essere un singolo. “Io sono arrivato alla lettura di Freud e di Wittgenstein per caso, nel senso concreto del termine”: caso, troppo facile riferirsi oggi all’abusato kairòs.
    E poi l’altro episodio, dopo avere contattato Banfi per la vita di un -forse- innocente “Ha cominciato a gridare in modo tremendo, in un modo drammatico e teatrale: quello è un porco fascista! Adesso si mettono a salvare anche i fascisti! E questo mi ha fatto piangere.” E -giustamente- chiosa “Ho pianto per l’assurdità di questo tipo di reazione di allora (ma lo penso anche adesso)”.
    Sia il senso del caso, sia la reazione “di casta?” di Banfi mettono in rilievo l’enorme portata della vita personale.
    Mi pare sia tutto qua (che non significa “quel poco è qua” ma il contrario, è il “tutto che è qua”) che chiarisce sia la religione di Ranchetti: “I morti non esistono, sono risorti. Quindi c’è una presenza di cose non visibili che costituisce l’essere della chiesa anche nella visibilità”, con la necessaria conseguenza che, alla fine “il potere della chiesa deriva dalla disponibilità di questo oltre sul qui”.
    Sia anche la imparagonabilità tra chiesa e comunismo, nonostante il problema di iato tra predicazione e istituzione: l’idea che la vita sia un passo e l’oltre un altro.
    Se non è fede, questa!
    E’ tutto qua.
    Per i credenti, ovvio, come lui era.

  2. @ Fischer

    Ci sarebbe da precisare e riflettere di più su:

    1. Singolarità . Che Ranchetti si attesti sulle « sulle linee -difensive- del suo essere un singolo» non toglie che linee difensive restino. Che se ne fa un singolo della sua singolarità? È forse autosufficienza? Ho letto di recente un saggio di Todorov su Rilke che a me pare mostri quanto sia problematica (non risolutiva ma tormentosa) questa vocazione alla singolarità (realizzata o realizzabile in varie forme). Questo il link: http://semicerchio.bytenet.it/articolo.asp?id=542&fbclid=IwAR1KLgSHR8oD_3vMBcGZIY4iOWokB0Av3tFEBhS05Zrur7i4WKSjJTOTJL0

    2. Episodio Ranchetti- Banfi- «vita di un-forse-innocente». Mi pare riduttivo vedervi una «reazione di casta». Ranchetti aparteneva lui pure ad una famiglia borghese e lo scontro con Banfi su quel caso è impossibile non leggerlo nel contesto del conflitto fascismo/antifascismo. Anche in questo caso è il conflitto tra io e noi e la «guerra civile» tra “noi” partigiani e “noi” fascisti che non è presente – aggiungo un forse – anche nella meditazione a posteriori di Ranchetti. In quel suo «pianto» a me pare di cogliere una sua “chiusura” o ritrosia a interrogarsi sul senso storico di quella che a lui pareva soltanto «assurdità». (E questa sua “chiusura” a me parve e pare di vederla anche nella risposta che diede alla mia domanda sul suo mancato incontro con Marx:
    « Non è avvenuta la stessa cosa per Marx. Queste due letture – di Wittgenstein e di Freud – sono state in un certo senso imposte a me per esigenze concrete: una di lavoro e l’altra dall’offerta di una persona che mi è apparsa subito “nuova” rispetto alla mia cultura. Non mi è capitato invece che qualcuno, con la stessa necessità di proposta, mi offrisse la lettura di Marx.». A me non pare si trattasse di qualcosa dovuto al caso, ma proprio di rifiuto – magari in quel momento, perché poi si legherà a Balbo e a Rodano e al “cattocomunismo” – di inoltrarsi in partibus infidelium. L’episodio, certamente per lui traumatizzante di quello scontro con il Banfi “comunista” o salottiero, forse conferma – è solo una mia ipotesi di cui valutare la consistenza– una precedente e consolidata cancellazione o rimozione ( del fascismo, della guerra, ecc.) dovuta alla sua formazione e alla sua collocazione sociale.

    3. «Imparagonabilità tra chiesa e comunismo». Vedi che, per essere precisi, ho parlato di paragone tra cristianesimo e comunismo. Anzi di possibile «relazione fra crisi del comunismo e crisi del cristianesimo». Semmai l’altro paragone interessante, e su un piano organizzativo, sarebbe quello tra Chiesa e Partito (comunista). Mi pare di ricordare che fu un tema di Gramsci.

    1. * Ho detto singolarità perché (mi vergogno, ma è così) niente so di personalismo e nemmeno se Ranchetti ne sapesse. Resta però che caso e pianto di reazione alla incomprensione di Banfi sono di una singola creatura, che è “un mondo”. E questo è profondamente cristiano, per via dell’anima e dell’oltre vita. Mica esclude il mondo degli altri!
      * Non è solo questione di precisione se chiesa e partito, o comunismo e cristianesimo, quanto della scriminante tra vita e oltrevita, o vita e basta. Non vuoi raccoglierla, questa cesura?
      * Sul punto 2 tu dici che per te si tratta comunque di chiusura al marxismo. Ma, anche se R. ne fa una giustificazione a posteriori, l’argomento “caso” è un argomento forte: è destino, è guida da fuori della tua vita, per ragioni occulte, cui ti affidi.
      Questo per dire che la eterogeneità tra la tua impostazione e la sua è reale, consistente. L’intervista infatti è ottima perché’… gliela fai tirare fuori! … nelle ultime righe, dove la differenza emerge radicale.
      (Ho usato la parola casta a proposito di Banfi quasi ironicamente, per rimandare alla casta attuale che ormai il pd rappresenta. Non attaccarti alle parole, la sostanza è… la sua fede!)

      1. “la sostanza è… la sua fede!)”. (Fischer)

        Perché “la sostanza”? Bisogna fare attenzione a stabilire come quasi ovvia una gerarchia tra chi crede e chi non crede in Dio, nell'”oltrevita” ( insolubili questioni IRRISOLTE) o magari “crede” in altro (comunismo, fascismo, liberalismo, eccetera). Non è che non voglio raccogliere queste cesure o queste “differenze radicali”. E’ che vorrei mantenerle aperte, persino “incerte”…

        1. Nessuna gerarchia, ma l’eterogeneità tra chi “crede” nel senso che ha una fede nell’aldilà e chi crede in altro, la mostra alla fine dell’intervista Ranchetti stesso.
          E, in precedenza, quando si appella al caso-kairòs per offrirti la spiegazione delle sue scelte: “Questi due radicalismi sono quelli che *ho trovato* nella mia strada”.

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