La Provvidenza

di Franco Casati

   Maria sarebbe stata contenta del ruolo di casalinga, diversamente da quello che è il luogo comune: del precedente lavoro aveva avuto abbastanza esperienza, anni di vita trascorsi a fare l’impiegata, chiusa in un ufficio con una sola finestra che si affacciava contro il muro scalcinato di una vecchia casa in demolizione, praticamente sottoposta ai voleri capricciosi di un datore di lavoro, strampalato e imprevedibile, spiando la luce del giorno che scemava contro quel vecchio muro sbrecciato, dove il cotto dei mattoni in vista si accendeva per alcune ore e si spegneva inesorabilmente prima che lei potesse ritrovare la libertà della strada.

A che pro spendere la vita nel lavoro, rifletteva fra sé, piuttosto che dedicarsi ad amare un compagno e a crescere i figli, carne della sua carne…

Pur fra i tanti impegni domestici si sentiva molto più libera di una volta, non fosse stato altro per il fatto che poteva decidere autonomamente se e quando uscire o starsene in casa, impegnarsi in un’attività o rilassarsi leggendo un giornale, guardare la TV o cercare la compagnia di un’amica.

E le ore che dedicava ai figli e al marito non erano certo sterili come quelle che aveva trascorso coi colleghi o col datore di lavoro. E poi questo vivere per gli altri la faceva sentire meglio, piuttosto che nascondersi dietro un’attività impersonale.

Nell’ambito della sua casa aveva maturato una certa disciplina visto che il marito, impegnato com’era dal lavoro, le aveva addossato tutto l’onere della famiglia, dal punto di vista della conduzione materiale e dell’amministrazione di quel magro stipendio che le consegnava, intatto, ad ogni fine mese.

Era questa, purtroppo, l’unica riserva che impediva a Maria di godere in pieno il proprio ruolo di casalinga, una condizione di precarietà comune a tante altre famiglie con i figli, come la sua. Ma nonostante le ristrettezze del bilancio non si era mai lasciata andare all’idea che se avesse sposato un professionista, al posto di un lavoratore dipendente, avrebbe condotto una vita più agiata, come qualche amica le aveva confessato, per cullarsi nel benessere. Non provava il bisogno di mettersi in vista con un abbigliamento firmato, cercava anzi di non dare nell’occhio visto che le sue forme giunoniche già le attiravano gli sguardi dei maschi. Amava vestirsi in modo pratico, adatto anche al ruolo di mamma, impegnata a portare i bambini al parco-giochi e a sentirseli addosso ad ogni momento. L’unico vizio un po’ costoso che il marito non si sentiva tuttavia in animo di rimproverarle era quello del fumo, un pacchetto di sigarette al giorno, di marca straniera.

Dal fumo era proprio dipendente. Sua compagna inseparabile, oltre alla sigaretta, era la piccola calcolatrice elettronica a carica solare, un rettangolino piatto e scuro, che teneva sempre in borsetta e sulla quale armeggiava con l’indice ogni volta che andava a fare la spesa o che, seduta in cucina, rifaceva i conti del mese. Appuntava le cifre su un’agenda domestica e caparbiamente le ripercorreva fino ad avere esaurito ogni possibile ipotesi contabile; dopo di che, soddisfatta, riprendeva le sue faccende  di routine quotidiana.

Ma da un po’ di tempo nel suo animo si andava insinuando uno stato di inquietudine, perché il costo della vita risultava in continuo aumento e il reddito della famiglia era pressoché costante. Col Bancomat Maria mandava ogni mese il suo conto corrente in rosso, e il debito andava aumentando per accumulo. Alle spese mensili si aggiungevano gli interessi che la banca esigeva per questo continuo prestito, aggravando ancora di più un deficit che stava diventando come un serpente che si morde la coda.

A quante spese per la casa, che sarebbero state necessarie, era costretta a rinunciare! Si sarebbe dovuto rifare il bagno, tappezzato com’era di piastrelle di ceramica rotte o di vari colori per le diverse riparazioni che erano state fatte nel tempo alle tubature oramai corrose, e cambiare i sanitari; così il lavello della cucina, ugualmente datato, che andava sostituito con uno in acciaio, sotto il quale potere sistemare la lavastoviglie per ricavare un po’ più di spazio. Per non parlare della camera da letto, comprata per pochi soldi in un grande magazzino, dove il truciolato si sfasciava come sabbia al punto che i cassetti non entravano più nel comò.

Non pretendeva certo la donna di arricchire la sua casa con argenteria o lussuosi servizi di posate e di piatti, nemmeno di abbellirla con tendaggi o tappeti pregiati o con quadri d’autore, ma di potere rinnovare almeno ogni tanto quei modesti accessori e la biancheria.

Il suo guardaroba era vecchio di anni, i capi di abbigliamento sempre più fuori moda, rinverditi soltanto da qualche modesto acquisto effettuato presso i grandi magazzini o i mercatini rionali. La spesa per trucchi e profumi, salvo che per l’igiene intima, l’aveva pressoché annullata; dall’estetista non andava mai e dal parrucchiere sempre più di rado. Si faceva scrupolo, nei confronti del marito, a comprare un settimanale femminile, visto che lui aveva rinunciato da tempo al giornale quotidiano pur di fare economia. Questi, a volte, la rimproverava perché spesso rientrava dalla spesa con modesti giocattoli per i bambini; gli sembravano soldi sprecati e un incentivo al facile consumismo, insomma un atteggiamento diseducativo nei confronti dei piccoli. Lui aveva dovuto inventarseli, a suo tempo, i giochi, e si era divertito lo stesso.

D’altra parte anch’egli avrebbe avuto diverse spese urgenti da compiere e desideri da soddisfare; ma doveva rimandare tutto quanto a tempo indeterminato, affidandosi alla benevolenza della sorte.

Un giorno Maria rincasò portando nella borsa della spesa un quotidiano che conteneva un inserto settimanale di annunci pubblicitari. Quando Giuseppe rientrò dal lavoro, avendo scorto l’inserto, chiese alla moglie a cosa le servisse. La donna rispose che cercava qualche possibilità di guadagno attraverso gli annunci economici.

Giuseppe rimase soprappensiero per qualche istante, le domandò poi se avesse trovato qualcosa. La donna rispose di no. Egli non disse altro, ma considerò che era meglio così. Pensava che Maria era  una moglie e una madre ideale, e non avrebbe dovuto guastarsi col lavoro, cosa che lei, d’altra parte, non desiderava. E poi ne andava del suo orgoglio personale, nel dover constatare di non riuscire a mantenere la famiglia col proprio lavoro. Ma la vita ha le sue esigenze e non si può rinunciare a tutto.

Si era nuovamente guastato il video-registratore, che oramai era da buttare, e per i bambini praticamente indispensabile: dove si sarebbero presi i soldi per comprarne uno di nuovo? Di rate non se ne potevano più fare, perché lo stipendio risultava risicato fino all’osso. Qualche decisione si doveva pur prendere. E finché i bambini erano piccoli si potevano anche accontentare con poco, ma quando fossero cresciuti le loro esigenze ed aspettative sarebbero state ben più consistenti. E allora?

Giuseppe rifletteva che non era giusto che lui col proprio lavoro non potesse mantenere la famiglia, che più di tanto alla società non poteva dare, che lo stato non li aiutava per nulla, e che non si potevano mettere al mondo dei figli se la famiglia non veniva economicamente sostenuta. Vivere per sé bisognava, i coniugi lavorassero entrambi e fossero senza figli, allora sì che si stava bene!

Vivere secondo uno schema patriarcale era diventata un’utopia, e il sentimento faceva a pugni contro la realtà e le esigenze di una società consumistica. Belle conquiste si erano realizzate, il diritto al lavoro della donna era diventato oramai una necessità!

Lo disturbava il pensiero che sua moglie dovesse rinunciare alle proprie abitudini domestiche, che dovesse reinserirsi in un ambiente di lavoro fatto comunque di incognite e di tensioni, di non ritrovarla più al suo ritorno a casa serena e disponibile come gli era sempre apparsa, soddisfatta della sua giornata e delle piccole mansioni che aveva felicemente portato a termine. Ammesso pure che avesse trovato un lavoro ‘part-time’, nelle ore in cui i bambini erano a scuola.

Giuseppe diffidava delle soluzioni ‘logiche’, quelle che all’apparenza sembrano le più convenienti; amava invece raccogliersi in se stesso, maturare dentro di sé un impulso, una spinta che attingesse a un fondo di verità personale.

Fu questa strategia che mise in atto, evitando di ricercare materialmente una soluzione, concentrandosi in se stesso. Così passarono parecchi giorni, e fu come se egli si fosse dimenticato della cosa, come se dovesse essere Maria a trovare il bandolo della matassa.

La donna lasciò che Giuseppe maturasse le proprie convinzioni, nel frattempo sparse la voce fra le amiche e negli ambienti da lei frequentati che stava cercando una occupazione. A casa non se ne parlò più. La vita continuò con la sua abituale routine.

Ma un giorno, staccando dal lavoro per l’ora di pranzo, sulla via del ritorno Giuseppe fu preso da un senso di inquietudine, presentendo che qualcosa di nuovo lo attendeva in famiglia. Con un po’ di nervosismo accelerò il passo, desideroso di mettere piede in casa al più presto. Entrato, appendendo il soprabito nel corridoio d’ingresso, sentì che Maria stava conversando con qualcuno, ma con uno strano tono di voce, di un’estrema confidenza. Si affacciò lesto alla porta del tinello e vide la consorte seduta sul divano che parlava guardando verso terra. Seguendo la direzione del suo sguardo scorse sul tappeto un bambinello intento a stringere una palla variamente colorata.

Avanzò verso di loro e per prima cosa salutò il bambino con un tenero ‘ciao’.

Il piccolo si voltò verso di lui e Giuseppe notò il suo visetto schiacciato, gli occhietti a mandorla, azzurri, i bei capelli dorati. Venne investito dal sorriso strano del bambino down, e deglutì.

“L’ho avuto in custodia per la mattina” disse la moglie “, dal lunedi al venerdi. Mi sono rivolta alla Parrocchia per offrirmi come baby-sitter e don Claudio mi ha messo in contatto con la famiglia di Paolino. Mi pagano bene”.

Giuseppe continuava a fissare il bambino, così diverso dai suoi. A contatto con una presenza che non aveva mai supposto di dovere fronteggiare in casa sua si sentiva come smagato. Gli sembrava un esserino arrivato da chissà dove, con quegli occhietti a mandorla, azzurrini, che sfuggivano alla sua comprensione.

Egli aveva pregato perché la Provvidenza li aiutasse: la sua famiglia si era allargata, il bambino down era un piccolo dono del Signore.

11 pensieri su “La Provvidenza

  1. Questo racconto di Franco Casati è la personificazione della Provvidenza, che entra in casa di chi ha il desiderio di lavorare. E’ utile leggerlo: ci insegna a essere aperti e umili, e di credere in noi stessi. Bravo! Proponiti a Bonaccorso Editore; naturalmente con altri oltre questo ma simili per schiettezza di scrittura e di valori.

    Antonio Seracini

  2. Racconto dal tono affabulatorio iscritto in uno stile robusto e asciutto, nessuna parola ridondante o fuori posto. Se a questa prosa dovessi cercare degli antecedenti, penserei a certa letteratura novecentesca attiva grosso modo fino agli anni Settanta. Un mix tra Bilenchi, Pratolini, Cassola e… Moravia? Se poi dovessi pensare a una poesia che si attaglia come un vestito a questa prosa, penserei alla “Ragazza Carla” di Pagliarani. E se dovessi pensare a un film, penserei a “Miracolo a Milano”.
    Sulla morale del racconto, una sorta di valore aggiunto, mi astengo. Non è nella mia “linea editoriale”.

  3. Gent. Roberto Bugliani, grazie per la tua attenzione e per l’ analisi stilistica che considero azzeccata, molto vicina al vero. Devo dire che gli autori italiani che ho maggiormente frequentato sono stati Moravia e Pratolini; ma dietro la mia prosa c’è anche tanta letteratura americana, da Hemingway a Carver a Saul Bellow; la misura e il senso del racconto credo di averli presi invece da Cechov e dal nostro grande Pirandello.
    Resto sempre sulla linea dei classici, vuoi per la mia natura vuoi perché mi danno maggiori garanzie. Leggendo il tuo romanzo ho da subito avvertito uno scatto in più, nel senso della modernità, rispetto alla mia prosa. Mi accontento di appartenere a una retroguardia di qualità. Devo dirti, inoltre, che per più di due anni consecutivi mi sono dedicato a leggere solo le opere del D’Annunzio, in particolare la prosa, per farmene un’idea personale. Di sicuro questo ha influito sul mio stile.
    Ti sono debitore e ti mando un cordiale saluto.

  4. Abbiamo letto il racconto agile nella narrazione realistica di una vicenda familiare dall’esito sorprendente. Bello! Grazie

  5. Il finale commovente e per certi versi sorprendente, se non avessimo fin da subito rilevato i nomi simbolici dei due protagonisti, Giuseppe e Maria, ci riporta come d’incanto a pagine evangeliche, che Franco esprime a sua volta con il suo stile proprio, molto piano e regolare, la caratteristica in generale del suo da me molto apprezzato modo di scrivere. Complimenti.
    Mario Guidorizzi

  6. Che strano ritrovare una donna che riesce a conciliare il suo amore per marito, figli, casa, con la propria realizzazione personale! Sembra di tornare indietro di tanti anni quando il lavoro della donna si identificava con la cura della famiglia.
    Bella la figura di Maria e bella la sua accettazione di ritrovare nella cura di un bambino difficile un modo anche per riscattare quella parte di sé mortificata dalle ristrettezze economiche.
    E’ comunque anche questo un atto d’amore evidenziato attraverso
    una scrittura chiara e lineare che lascia spazi di riflessione fra rigo e rigo.
    Lucia Bruni

  7. Gent. Lucia, sono proprio felice di averti suscitato questi sentimenti, questa nostalgia, che è una cosa naturale nella donna, contro la quale si scaglia l’arroganza di tanta pseudo-cultura contemporanea. Rispetto per la natura, per il valore insostituibile della maternità (e paternità), pur nella libera scelta e affermazione personale della donna. Scrivendo che il bambino down è un dono della Provvidenza intendevo dire che tutti i bambini sono un dono della Provvidenza. Maria ha modo di allargare la propria esperienza e conoscenza di madre accudendo un bambino speciale, che ha bisogno di un amore particolare. Spesso ho avuto modo di constatare quanto i genitori di figli down li amino più profondamente e teneramente.
    Faccio da tanti anni volontariato in una casa di accoglienza per persone disabili, una esperienza che mi ha insegnato quanto sia profonda la corrente d’amore che lega queste persone agli altri e viceversa, pur nella sofferenza, quanto essi amino e rispettino la vita più di quelli che non hanno subìto privazioni e non si accontentano mai.
    Questo breve racconto vorrebbe andare in questa direzione, per chi voglia coglierne il messaggio. Grazie ancora per la tua attenzione e condivisione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *