Disoccupazione e precarizzazione

Due osservazioni  sul mondo del lavoro

di Davide Morelli

Un intervento pacato e attento  sui drammi sociali quotidiani seppelliti dalla  chiacchiera dei social e della “politica”. [E. A.]

Con la pandemia è cresciuto sensibilmente il numero dei disoccupati nel nostro Paese. Per alcuni però la disoccupazione è una colpa perché per loro il disoccupato è una persona che ha perso troppi treni o troppo tempo. Per altri, più solidali e comprensivi, il disoccupato è una persona a cui non è stata data una opportunità, a differenza dell’inoccupato che rifiuta le possibilità di lavoro che gli vengono offerte. Ma forse coloro che ritengono la disoccupazione una colpa a mio avviso sono di gran lunga superiori a coloro che la ritengono una sfortuna, soprattutto se appartengono al Nord Italia, zona ricca e con più lavoro. Sono però certo che coloro che ritengono i disoccupati dei fannulloni, degli incapaci o delle persone che hanno scelto un corso di studi “sbagliato” non lo direbbero mai esplicitamente se intervistati da qualcuno della Doxa mentre camminano per le vie di una grande città. Alcuni personaggi, che si sentono arrivati, invece dichiarano esplicitamente che i disoccupati non hanno voglia di lavorare e sono tali perché rifiutano lavori umili. Qualche imprenditore ha detto che tutti in Italia vogliono fare gli avvocati e nessuno vuole fare il cameriere. Qualche altro ha dichiarato che i disoccupati devono per forza di cose andarsene dall’Italia. Un ministro ha detto in una conferenza stampa che per trovare il lavoro in Italia è più importante andare a giocare a calcetto che saper scrivere un curriculum. Comunque a mio avviso non ha detto uno sproposito. La realtà dei fatti è questa e recenti ricerche lo dimostrerebbero: nel nostro Paese per trovare lavoro c’è bisogno di pubbliche relazioni e di conoscenze. La cosiddetta disoccupazione intellettuale è sempre più rilevante. Soprattutto al Sud c’è un numero consistente di giovani laureati in materie umanistiche e con dei master conseguiti che sono senza lavoro. Alcuni sostengono che in Italia ci sono troppi laureati e teorizzano addirittura più facoltà a numero chiuso, cosa che poi cozzerebbe con il diritto allo studio. Eppure le statistiche dicono il contrario. Recentemente nella classifica dei 34 Paesi più industrializzati del mondo, l’Italia è ultima per numero di giovani laureati. Il nostro Paese spende pochissimo del proprio Pil nelle università. Forse allora ci vorrebbero meno laureati in materie umanistiche e più in materie scientifiche? Bisognerebbe perciò anteporre gli sbocchi professionali alle vocazioni, gli interessi, le attitudini? Staremo a vedere in futuro.

La disoccupazione non solo non consente di essere autonomo ad un giovane o di mantenere la famiglia ad una persona più  matura, ma comporta anche altri effetti collaterali. Una persona disoccupata perde progressivamente sicurezza; può diventare molto più ansiosa con il passare del tempo; diventa sempre più demotivata; spesso cade in depressione. A livello cognitivo si deve trovare delle passioni per tenere in esercizio la mente. Spesso si tratta di lunghi periodi di inattività in cui la mente rallenta e la persona è soggetta a stress da sottoattivazione. Anche il bagaglio di cognizioni delle persona si può indebolire, si può atrofizzare. La mente infatti di solito non viene più allenata continuamente. Non solo ma mancano anche i soldi per comprarsi libri e per fare corsi: anche questa è una limitazione non di poco conto, visto che oggi si parla sempre più di formazione continua e di aggiornamento continuo. Per i giovani è davvero difficile trovare un lavoro (cercano personale con esperienza), ma è problematico trovarlo anche per le persone di mezza età (esiste anche l’ageismo[1]). Qualcuno sostiene che bisogna sapersi adattare e bisogna cambiare al mondo d’oggi. Il cambiamento individuale è certamente possibile. Non è facile però cambiare perché ci sono diverse forze in gioco. C’è l’inerzia. C’è la resistenza al cambiamento che spesso non è dovuta a mancanza d’ intelligenza, ma è una questione prettamente psicologica (come accade ad alcune persone più in là con l’età ma ancora valide che non si sforzano e non vogliono imparare ad usare il computer). L’abitudine, insomma, è una forza rassicurante ed è nemica del cambiamento. Ma ci sono anche le fregature per disoccupati. Non solo sei disoccupato, ma devi stare attento a non farti fregare. Ci sono quelli degli aspirapolvere che vogliono farteli vendere ai familiari e ai parenti e poi ti licenziano. Ci sono quelli che ti dicono di investire una piccola somma perché poi avrai un guadagno doppio o triplo. Ci sono società assicurative che vogliono farti stipulare una polizza e poi licenziarti poco dopo e la polizza  naturalmente ti resta sul groppone. Ci sono quelli che ti propongono un lavoro da casa però prima devi comprare la loro roba che costa qualche centinaia di euro. Ci sono quelli che ti propongono un corso di segretario di notaio in modo che poi potrai essere assunto. Non posso scendere nei particolari e fare nomi perché c’è il rischio di denunce, ma c’è in giro talmente tante truffe e tanta pubblicità ingannevole! In definitiva un disoccupato deve stare anche molto attento a rispondere agli annunci di lavoro perché i lestofanti sono sempre dietro l’angolo.

Un gradino sopra nella scala sociale stanno i precari, che sono ricattabili dai datori di lavoro e non sono granché tutelati dai sindacati. Anche se sono attivi a livello psicofisico e hanno un reddito, non godono di certezze a lungo termine e non possono ottenere mutui. La maggiore flessibilità in entrata rispetto ad un tempo ha creato più posti di lavoro precari: niente altro che questo. Non voglio stare a sindacare se era possibile fare meglio o peggio e se esistevano le condizioni per fare meglio: non sono un economista, un politico, un sindacalista o un imprenditore. Comunque, la situazione non è rosea neanche per i precari.

Oggi come oggi non è tanto la professione che si svolge e neanche il tipo di preparazione che richiede ma il tipo di contratto e il reddito ad essere fondamentale. Ci sono giornalisti freelance che talvolta lavorano gratis in attesa di tempi migliori o si fanno pagare cinque euro al pezzo: ricordo che più di 8 freelance su 10 dichiarano al fisco di percepire redditi minori di 10.000 euro all’anno. Ci sono avvocati che guadagnano 800 euro al mese, dopo cinque anni di legge, due anni di tirocinio, l’esame di stato. Ci sono psicologi che sono costretti a fare altri quattro anni di specializzazione per diventare psicoterapeuti e sperare che in questo modo aumentino i pochissimi clienti del loro studio. Ci sono dottorandi, borsisti, assegnisti di ricerca che sono sottopagati e precari. Spesso sono costretti a vivere fuori sede e a farsi mantenere dalle famiglie di origine. Ci sono anche gli operatori call center outbound[2] che fanno telemarketing di assalto, sono considerati da molti dei molestatori seriali di professione e non se la passano affatto bene. Lo stesso dicasi per i rappresentanti, che oggi vengono chiamati anche consulenti commerciali o sales manager. Un tempo erano signori benestanti. C’era chi vendeva mobili per tutta una regione e si comprava quindici appartamenti. Ora anche per loro è tempo di vacche magre. I guadagni si sono sempre più ridotti. Certo bisogna considerare caso per caso (mansioni, competenze, carriera, fatturato). Oggi in generale il loro lavoro è sempre più precario e si è sempre più proletarizzato. Spesso per i rappresentanti si tratta di vendere porta o porta oppure di prendere il catalogo e andare a vendere senza alcun fisso.  Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che non tutti i lavori intellettuali sono ben retribuiti e che i lavoratori in questi casi non fanno certo i raccoglitori di pomodori. Ma bisogna ricordare che tra i lavori sottopagati ci sono anche le commesse sfruttate dalla grande distribuzione e facilmente ricattabili visti i contratti a tempo determinato, così come ci sono anche diverse dipendenti delle cooperative sociali pagate pochissime e vessate. Queste ultime possono svolgere professioni di aiuto sanitarie ma possono anche fare le donne delle pulizie. Non parliamo inoltre di tutto l’esercito variegato di stagisti, apprendisti, tirocinanti! I contratti part-time talvolta vengono utilizzati dalle aziende per sfruttare i lavoratori. Infine c’è il lavoro nero. E che dire dei rider, che sono senza tutele? Per alcuni dovrebbe essere abbassato il costo del lavoro per migliorare la qualità della vita lavorativa e creare nuovi posti di lavoro. Per il momento non giudico negativamente chi rifiuta di farsi sfruttare e riceve il reddito di cittadinanza. Ci sarebbe da fare un discorso a parte anche per i piccoli commercianti fagocitati dagli outlet e dai supermercati, ma è cosa ormai risaputa. Certi piccoli commercianti sono così indebitati che perfino i disoccupati se la passano meglio: come si suol dire chi sta fermo non fa danni!

Tutti possono diventare disoccupati: infatti i dipendenti possono essere licenziati, i commercianti e gli imprenditori possono fallire, i liberi professionisti possono rimanere senza clienti e perciò  senza lavoro. Ma ci sono anche lavoratori che non  pensano a questa eventualità, essendo molto sicuri del fatto loro. C’è anche chi pensa di trovare subito lavoro e spesso minimizza le problematiche economiche, psicologiche, esistenziali, sociali annesse e connesse alla disoccupazione. Lo Stato naturalmente non può dare lavoro a tutti. Neanche gli imprenditori possono dare lavoro a tutti, ma solo a quelli che ritengono più adatti; in fondo non sono benefattori e quando hanno aperto la loro attività si sono assunti dei rischi. Renzi si è espresso negativamente sul reddito di cittadinanza. Dice che mancano le politiche attive del lavoro. Ha dichiarato anche  che il reddito di cittadinanza educa i giovani “a non fare una mazza”. Secca la replica di Enrico Mentana: “Non credo esista in Italia un giovane che preferisca il reddito di cittadinanza a un posto di lavoro“.  Ci vorrebbe un welfare più efficiente senza ombra di dubbio. L’articolo 1 della Costituzione repubblicana recita: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Questo almeno in teoria! Nel frattempo a livello economico e sociale siamo sempre più nel pantano…per usare un eufemismo.

Note

[1] Ageismo è un inglesismo (in inglese: Ageism) che indica la discriminazione nei confronti di una persona in base alla sua età.

[2] Per call center outbound si intende un call center che gestisce chiamate in uscita verso una lista di contatti.

9 pensieri su “Disoccupazione e precarizzazione

  1. SEGNALAZIONE

    Il martedì nero in cui cade Conte e arriva l’uomo forte
    di Marco Revelli
    https://ilmanifesto.it/il-martedi-nero-in-cui-cade-conte-e-arriva-luomo-forte/?fbclid=IwAR1wde4RRKl8NGcxJFQptE4i_t071zqA79oGGJPkT9vaDRrBXlvFjMVy3uI

    Stralcio:

    Ma poi c’è “il basso”, quello che si chiama “il Paese”, che è allo stremo: in questi giorni, dum Romae consulitur, ogni ora che passa si perdono 50 posti di lavoro. Per ogni giorno di stallo sono 1200 disoccupati in più. Dalla famosa conferenza stampa di Matteo Renzi in cui annunciava il ritiro delle sue due ministre e apriva in modo corsaro una crisi incomprensibile al giorno della resa di Fico sono trascorsi esattamente 20 giorni (compreso quello in cui il principale responsabile di quello stallo se ne è andato a guadagnare i suoi 80.000 dollari con un atto di asservimento a uno dei peggiori despoti del mondo), nel corso dei quali se ne sono andati 24.000 redditi da lavoro. Milioni di lavoratori, dipendenti e autonomi, sono naufragati: 393.000 contratti a termine non sono stati rinnovati, 440.000 in prevalenza giovani hanno perso il posto, altre centinaia di migliaia lo perderanno se il blocco dei licenziamenti non verrà prolungato. Tutti aspettano una boccata d’ossigeno, i benedetti “ristori”, per poter continuare a respirare. E tuttavia, bene che vada, se la crisi di governo non si avvita ulteriormente, occorreranno settimane prima che l’Esecutivo ritorni operativo. E se fosse, come è possibile, un governo “tecnico”, sappiamo bene quale sia la sensibilità sociale dei tecnici… Anche se si chiamano Mario Draghi.

    1. Un governo tecnico no, dice Revelli, perché i tecnici non hanno “sensibilità sociale” in quanto privi del mandato elettorale. Ma, mi chiedo, i politici hanno invece “sensibilità” democratica? E’ dal 2011 che i Presidenti del consiglio sono stati “messi lì” per ragioni che nulla hanno a che fare con il “mandato elettorale”. Insomma, trovo inquietante un paese in cui a perorare il valore della democrazia parlamentare sia rimasta Giorgia Meloni. E’ duro accettarlo, ma è più duro ancora accettare di giustificare il tutto con un’emergenza che si prolunga, sia pure in forme diverse, da 10 anni.

      1. ” trovo inquietante un paese in cui a perorare il valore della democrazia parlamentare sia rimasta Giorgia Meloni” (Bugliani)

        Purtroppo a inquietarci siamo sempre meno e più vecchi che giovani.
        C’è una “leva Draghi” tra questi ultimi che non sospettavo. Ricopio in anonimato un commento di un giovane attivista dell'”opposizione” alla Lega di Cologno Monzese:

        Domattina accendo un cerino. Sono convinto che quest’uomo [sotto: la foto di Mario Draghi], con i 200 e passa miliardi di euro del Recovery Fund, possa davvero risolvere alcuni problemi strutturali del nostro Paese. Speriamo.
        Nel mezzo di tutto questo la morte della politica.

  2. Ed io mi chiedo dove andremo a finire se non ci sarà una proroga del blocco dei licenziamenti e se saranno eliminate le moratorie dei mutui…

  3. Ho letto con attenzione l’articolo di Marco Revelli sul Manifesto e condivido, come quello di qualche giorno passato di Norma Rangeri. Certo, spesso mi domando se non potrebbe finire con scontri sociali….

    Disoccupazione e precarizzazione è un tema molto caldo, anzi esplosivo!
    L’attuale società capitalistica occidentale è strutturata su un sistema politico economico sociale sbagliato. Cancella il futuro per molti giovani. Molti fuggono illudendosi di poter trovare un destino migliore, finendo spesso in condizioni di vera schiavitù. Oggi la disoccupazione è in linea con la precarizzazione e con sfruttamento nascente, I giovani, le donne, i dipendenti con mansioni non specialistiche sono i più colpiti. C’è da evidenziare come le nuove povertà non rappresentano solo quelle che non hanno un reddito fisso, ma anche quelle che pur lavorando non riescono ad avere certezze dei diritti a raggiungere la soglia minima del reddito.
    Queste analisi, porteranno ad una transizione per la competizione globale del lavoro. Si ridisegnano i modelli con prevalenza di scelte tipiche del capitalismo selvaggio, dove chi non si integra è espulso, schiacciato da leggi sempre più selettive.
    Vorrei aggiungere che esistessero regole di etica sociale, forse sarebbe tutto più facile: ossia mi riferisco al fatto che l’uomo è egoista per natura e dunque spesso sul lavoro si ricorre non al merito, ma alle raccomandazioni di ogni tipo. Questo “virus” è dentro la società. Se lo studio per esempio fosse obbligatorio per tutti, ma poi solo i meritevoli si inquadrassero a svolgere i lavori così detti “migliori” con uno sguardo di riguardo con quelli che svolgessero i lavori così detti “umili”, allora comprenderebbero che la società è un ingranaggio di collaborazioni e non competitività ….
    E se guardo agli eventi storici che hanno portato a rivoluzioni per questo, poi regolarmente l’uomo è caduto nuovamente nel proprio egoismo….

  4. Leggendo questo articolo di Davide Morelli (e già durante la precedente discussione con Aguzzi) mi veniva di continuo in mente Kuhle Wampe, film tedesco del 1932 sceneggiato da Brecht che ho visto tantissimi anni fa e di cui ricordo poco, ma un particolare mi è rimasto impresso: è il periodo della grande disoccupazione, in un ambiente proletario-urbano gli uomini escono tutte le mattine in cerca di lavoro (credo che sia la famosa scena delle biciclette), che regolarmente non trovano. E qui c’è la cosa: quando rientrano, la sera, a mani vuote, le donne (mogli, madri), gli dicono sul grugno che se uno vuol veramente lavorare il lavoro lo trova. La scena, per me, ha carattere tragico.

  5. Mi soffermo su questo passaggio di Paolo Carnevali:

    “Se lo studio per esempio fosse obbligatorio per tutti, ma poi solo i meritevoli si inquadrassero a svolgere i lavori così detti “migliori” con uno sguardo di riguardo con quelli che svolgessero i lavori così detti “umili”, allora comprenderebbero che la società è un ingranaggio di collaborazioni e non competitività ….”

    per portare una mia esperienza personale (oggi va di moda parlare di sé, no?)

    Correva l’anno di grazia 1963, ero una giovane simpatizzante del PCI ma allora, per avere la tessera del Partito, non bastava mettere la firma a qualche banchetto falce-martellato ma bisognava essere presentati da due testimoni che facessero da garanti sul tuo nominativo, interrogandoti sulla serietà delle tue motivazioni, se avevi letto o meno alcuni ‘sacri’ testi ecc. ecc., una specie di esame di ammissione. Ebbi l’ardire di sostenere, a proposito della scuola, la importanza di valorizzare i meritevoli (senza però discriminare gli altri, ovviamente). La mia idea era quella di permettere a tutti di concorrere al bene comune: è importante il campione ma senza i gregari (o la squadra) combina ben poco… Forse feci l’errore di citare Fausto Coppi, e l’importanza di chi tira la volata, ma probabilmente offesi il campanilismo rosso di un fedelissimo di Bartali che mi doveva valutare. Non lo so.
    Mi si rispose che, in modo surrettizio, volevo invece introdurre un pericoloso modello meritocratico che avrebbe ancor più penalizzato i figli dei proletari, non solo privi di un adeguato habitat culturale ma anche privi di sussistenza materiale. A scuola ‘tutti uguali’ (verso il basso, ovviamente), come se il merito venisse investito dell’accezione di ‘colpevole privilegio’, o di ‘casta’ in quanto portatore ‘in sé’ di discriminazione e di sopraffazione.
    Rimasi basita davanti a quello strabismo che mi vedeva come una snob. Così io, piccola Lumpenproletariat, non versai una lacrima quando seppi che la mia domanda non fu accolta con la motivazione che ero ancora troppo intrisa di ‘individualismo capitalista’. Ovviamente, secondo loro, ero già una dissidente in potenza! Mi strinsi ai miei meriti scolastici, conquistati anche attraverso borse di studio (altrimenti chi se lo sarebbe potuto permettere il Liceo Classico, oltretutto, a quei tempi, in mezzo alla “créme de la créme”?) e feci le mie gavette lavorative per andare all’Università.
    E oggi, alla luce di quanto osservo oggi e che l’articolo di Davide Morelli mette bene in luce, quando “vedo il merito nascere mendicante” (Shakespeare), mi chiedo: quando è iniziata questa “irresistibile discesa”? Verso questo ‘suq’, questo mercimonio volgare, peggiore, appunto perché intriso di volgarità e di pochezza d’animo, che già si intravedeva al tempo della borsa nera (di merci e di voti) dell’immediato dopoguerra e di cui conservo la triste memoria? Con la differenza che allora c’era una idealità che oggi manca nella sua accezione profonda. Non bastano le dichiarazioni di intenti.

  6. Ringrazio Rita Simonitto per l’ottimo intervento e la preziosa testimonianza. C’è senza ombra di dubbio della verità in quel che scrive. Certe esperienze vissute lasciano nell’animo un retrogusto molto amaro. È vero che non c’è una grande mobilità sociale in Italia. Direi in generale che le nuove generazioni si impoveriranno rispetto ai padri. Quasi tutti sono destinati a scendere degli scalini sociali e solo pochi eletti sono destinati a salirli. Però io piuttosto che focalizzare l’attenzione sul merito vorrei porre l’accento sulla progressiva disarticolazione dei diritti del lavoro. Invece di obbligare alcune dittature a rispettare i loro lavoratori siamo noi occidentali che sempre meno rispettiamo i nostri lavoratori. Forse mi sbaglio. Ma io approccio la realtà del mondo del lavoro odierno tramite questa chiave di lettura.

Rispondi a Paolo Carnevali Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *