Fortini e la scienza della divulgazione

Su Franco Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere

di Elena Grammann

Franco Buffoni: Una settimana fa è uscito Silvia è un anagramma e da più parti mi si sollecita a rispondere alle critiche. Certo, potrei farlo, ma non credo che avrebbe senso quando chi critica dimostra palesemente di non possedere una bibliografia aggiornata sui temi inerenti all’orientamento sessuale e agli studi di genere.

Ennio Abate: Lo faccia, Buffoni, Segua, se è in grado, l’esempio di Fortini: “Bisogna scaldarsi – disse all’incirca – con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così, Non servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio conversando.”

(http://www.leparoleelecose.it/?p=38960)
  1. Scrivere a cottimo

Nei primi anni ’60, perdurando l’epoca d’oro delle enciclopedie e altri repertori venduti a fascicoli nelle edicole, era piuttosto frequente che intellettuali e specialisti di vaglia redigessero le voci relative al proprio campo o alla propria specialità. Anche quando editore e piano dell’opera garantivano un accettabile livello di serietà, è chiaro che questo genere di articoli non poteva avere né carattere di ricerca, né essere altrimenti fonte di prestigio o di particolare gratificazione per l’autore. Erano scritti divulgativi: un lavoro svolto onestamente, il cui senso per colui che redigeva, magari con un sentimento di sufficienza se non quasi di vergogna, era di costituire una fonte di reddito. In una situazione analoga si trovava, e tramontata l’era delle enciclopedie a fascicoli continua a trovarsi, lo specialista che da solo o con altri compili i manuali in uso nelle scuole o anche nelle università.

Intorno al 1963 o ’64 Fortini, che, come dice lui stesso, “avev[a] bisogno di soldi”, accettò di collaborare a una di queste opere[1] e redasse ventidue voci comprese fra la lettera A e la lettera K. Poi gli fu proposto un lavoro meno faticoso o più remunerativo e la collaborazione si interruppe. Qualche anno più tardi raccolse in volume i ventidue articoli, più due redatti in altre occasioni, e li provvide di una “opportuna premessa” nella quale, partendo dalle ventiquattro voci come prestazione scritturale retribuita, riflette in modo più ampio su intellettuale e scrittura, scrittura come comunicazione, scrittura e divulgazione.

Fortini constata innanzitutto, e parrebbe con una certa sorpresa, che per diversi e consistenti periodi la scrittura retribuita “[gli] ha dato da vivere”. Perché questa quasi-sorpresa? Naturalmente perché alla scrittura (ben più che alle attività figurative, aggiungo io) aderisce l’aura di arte liberale che non può mischiarsi col vil denaro, o per la quale il denaro almeno non può essere lo scopo primario. Da cui la distinzione, per l’intellettuale, fra il lavoro libero – in grande misura gratuito, unico depositario di autenticità e valore –, e il lavoro schiavo: retribuito, in diversa misura alienante, di minore o scarso o nullo valore. Ovviamente per Fortini il senso di liberazione con cui l’intellettuale, una volta portata a casa la pagnotta, può dedicarsi agli amati studi è illusorio, dal momento che il contesto globale (economico, sociale, culturale ecc.) in cui si muove da “libero” e da “schiavo” è esattamente lo stesso; ma andiamo per gradi e chiediamoci dapprima in che cosa si distingue il linguaggio del lavoro intellettuale “retribuito” (quindi in misura maggiore o minore “alienato”) dal linguaggio del lavoro intellettuale “libero” (quindi sentito come “autentico”). Ci accorgiamo che quasi immediatamente questa domanda confluisce nella più vasta: qual è o dovrebbe essere il linguaggio proprio della prosa saggistica?

  1. La falsa spontaneità della prosa saggistica

Quando qui parliamo di “prosa”, di “linguaggio”, non intendiamo la letteratura ma la comunicazione. Su questo bisogna essere chiari e Fortini lo è, sgombra subito il campo da eventuali dubbi. Preso nel linguaggio della comunicazione che necessariamente rispecchia e ribadisce il contesto generale in cui è immerso, l’intellettuale “saggista” inutilmente immaginerà di salvarsi nel giardino felice del lavoro libero e gratificante:

“Ogni sforzo individuale a respirare meglio non è che un più attento allenamento alla quotidiana «corsa dei topi». Può avere successo come pratica pia, come esorcismo e come quel che volgarmente è detto arte. Ma quando l’arte e la poesia esistano veramente, appariranno come valore non ostante l’intento terapeutico o di stupefacente o di scongiuro che le ha suscitate.”

Una volta escluso dal discorso l’ambito propriamente artistico Fortini constata innanzitutto, per la prosa saggistica italiana, l’assenza di modelli “ragionati”, improntati a una logica dichiarata, come sono esistiti ad esempio per la corrispondente prosa francese grosso modo fino all’inizio del secolo scorso. Per gli intellettuali suoi contemporanei “venuti su tra la prosa oleosa di Croce, quella tutta batticuore e buone creanze di alcuni suoi discepoli e gli oracoli intimidatori e cavernosi dell’ermetismo toscano, una vita non sarebbe bastata a purgar la sintassi.”

Ma attenzione, perché “purgar la sintassi”, in senso pieno, non significa semplicemente liberarsi degli orpelli di un linguaggio antiquato, né, all’estremo apparentemente opposto, dell’armamentario sclerotizzato di una ideologia di partito. Fortini mette in guardia contro la facile soluzione della “immediatezza magmatica”[2]. Il punto non è l’immediatezza – comunque sempre falsa, poiché non può non essere mediata dal linguaggio – ma, viceversa, la consapevolezza che ci si sta muovendo in un linguaggio già pre-strutturato dal contesto globale fin nella sua sintassi e semantica. Chi, dice Fortini, ignorando questa consapevolezza faccia affidamento sulla propria “spontaneità”[3], è come quello che vuol tirarsi fuori dal pantano afferrandosi per i capelli. È necessaria invece una chiara coscienza dello status della prosa saggistica – diverso, ad esempio, da quello della prosa scientifica – e dei suoi scopi, per progettare e costruire quasi ex-novo un linguaggio che corrisponda a quello status e a quegli scopi fin nella grammatica e nella sintassi – finché a un sapere che si vuole nuovo non corrisponda una nuova prosodia.

  1. Emancipare la divulgazione

Fortini dà atto ad alcuni autori francesi (cita Barthes e Sollers) di avere individuato il carattere trasversale della scrittura come medium che pre-condiziona “tutti i «generi» e quindi anche i testi di più forte natura comunicativa-esplicativa” e di avere così posto le basi per una prospettiva in cui si potrà guardare al linguaggio (al linguaggio, non alla linguistica) come a una scienza; ma gli contesta di essere rimasti prigionieri di un punto di vista “quasi sempre letterario e finalmente estetizzante”. In questo senso, mi pare, è da intendere l’equivoco sempre più diffuso, a partire proprio da autori francesi, fra letteratura e critica, e tendente a incorporare la seconda nella prima[4].

Una volta che il critico o in generale l’intellettuale abbia resistito alla tentazione di “fare l’artista”, si accorgerà che il linguaggio del suo lavoro “servile” e il linguaggio del suo lavoro “libero” differiscono solo accidentalmente, che la necessaria rifondazione riguarda entrambi, e che pregiudiziali o snobismi nei confronti della divulgazione sono ingiustificati. Tanto più, fa notare Fortini, che l’intellettuale che guarda con sufficienza alla divulgazione nella propria materia è poi costretto a servirsi a sua volta di opere divulgative nella materia appena di fianco.

Se facciamo chiarezza sugli scopi della scrittura saggistica – che sono scopi illuministici: di illuminazione progressiva, di messa in luce – ci accorgeremo che non può esserci differenza sostanziale fra ricerca e divulgazione, nella misura in cui entrambe “fanno luce”; ci accorgeremo inoltre che, come ogni nuova formulazione, anche la formulazione divulgativa illumina l’oggetto di una luce nuova e non necessariamente insufficiente o parziale, ma che anzi contribuisce a una luce totale:

“E ogni specialismo – anche quello che riguarda l’uso professionale del linguaggio – varrà solo se contribuisca ad altro sapere. Quale? Dirò per chi sappia tradurre e per offendere chi non sappia: quello che riguarda la «salvezza dell’anima».”

  1. Una nuova prosodia

Se un appunto si può fare al Fortini di questa “opportuna premessa” è che, come il Kant della ragion pura, non fa esempi. Nemmeno uno scampolo dell’auspicato “nuovo linguaggio” della saggistica, di questa pratica del socialismo che anticipa la sua realizzazione.

A meno che non si voglia considerare la “opportuna premessa”, in sé e in toto, già come una esemplificazione del linguaggio preconizzato. Non è questa la sede per un’analisi stilistica che non sarei nemmeno in grado di fare, tanto più che dovrebbe avere come riferimento lo stile medio della produzione saggistica dell’epoca (è trascorso comunque più di mezzo secolo). Tuttavia anche il lettore odierno può fare agevolmente alcune osservazioni:

  • il testo non contiene specialismi.
  • non è però di facile lettura; il lettore ha l’impressione di avanzare a fatica, deve rileggere molte volte. In parte, naturalmente, perché Fortini fa riferimento a situazioni sociali e culturali di oltre mezzo secolo fa, che non necessariamente sono familiari a chi legge; ma soprattutto perché ha l’impressione di trovarsi davanti una costruzione di nuovo tipo e soprattutto un modo diverso di costruire. Al lettore non viene presentato un oggetto, in linea di principio noto, su cui vengono dette cose più o meno nuove; ma è come se, attraverso un discorso che fatica a seguire proprio perché non ha come riferimento un oggetto noto, gli apparisse gradualmente qualcosa che prima non esisteva e che comincia a esistere e si consolida nella misura in cui egli, il lettore, riesce ad aderire al discorso.
  • il testo della “opportuna premessa” – testo non specialistico ma sostanzialmente divulgativo, rivolto a un pubblico extra muros – ha dunque immediatamente un effetto pratico: modifica la coscienza del lettore illuminando ambiti e rapporti precedentemente coperti dall’oscurità e perciò virtualmente non esistenti. Sui quali, come sull’angolazione della luce, si potrà sempre discutere, ma che intanto sono posti – e sono posti grazie a una qualità e a un’architettura del discorso pensate per farli emergere ampliando la coscienza di chi legge.
  • in conclusione, estendendo per illuminazione la consapevolezza, il linguaggio della “premessa” fa esattamente ciò che l’autore chiede a un linguaggio saggistico, sia specialistico che divulgativo, consapevolmente fondato.

L’intellettuale «avanzato», dice Fortini, deve lavorare “a compiere […] perfettamente quella mutazione che nei saggi qui raccolti, grazie ad un provvido stato di necessità, è iniziata ma ancora tanto contraddittoria e parziale”. E prima, con notevole autoironia, aveva detto a proposito dei vincoli che l’opera divulgativa imponeva: “Ero rispettosamente liberale verso questa o quella tesi. Ogni affermazione appena azzardata la dotavo di clausole attenuanti. Seguivo una via media e mediocre.” Ciononostante: “La giustificazione della stampa vorrei fosse in un certo numero di affermazioni che queste pagine contengono e nel modo di presentarle e connetterle tra loro”. Un invito a cercare esempi di “nuovo” nelle ventiquattro voci. Proviamo a raccogliere la sfida e a indicare qualche passo fra quelli – il criterio è soggettivo – che mi hanno maggiormente colpito.

Dalla voce AMBIGUITÀ [subito dopo la definizione del termine]: “L’uso di una medesima parola con significati diversi entro un medesimo contesto, cioè l’equivoco, è sempre stato considerato fonte di errore nel discorso filosofico, scientifico e giuridico; e uno dei compiti della moderna analisi del linguaggio (d’altronde praticata fin dai dialoghi platonici) è appunto quello di eliminare equivoci e ambiguità, in modo che ogni scienza e settore della ricerca sia fornito di un proprio codice o lessico rigorosamente stabilito. Solo in particolari periodi (scritture mistiche medievali) o presso taluni pensatori (come, ai tempi nostri, Martin Heidegger) si è fatto dell’ambiguità, dell’equivoco e delle pseudoetimologie un pretesto al ragionamento.”

Ma uno che lo dice chiaro! Che dice quello che è: “un pretesto al ragionamento”. L’ho particolarmente apprezzato perché, di recente, mi sono trovata a leggere una predica di Meister Eckhart e sono rimasta sbalordita di trovarvi lo stesso identico metodo, completamente a-logico e basato sulla equivocità delle parole, di Heidegger. Tedesco medievale a parte, sembrava di leggere Heidegger. Ma torniamo a Fortini: “un certo numero di affermazioni […] e [il] modo di presentarle e connetterle tra loro”: le affermazioni sono: a) il linguaggio filosofico e scientifico si premura di eliminare gli equivoci e le ambiguità dei termini, e b) Heidegger costruisce precisamente sugli equivoci e ambiguità i suoi [pseudo]ragionamenti. Il modo di presentarle e connetterle è raffinato e, appunto, illuminante: passa attraverso la mistica, che sicuramente non sa che farsene dell’univocità dei termini, e infatti non è né scienza né filosofia.

Dalla voce AUTOBIOGRAFIA (secondo me fra le più belle): “L’espressione romanzesca conferisce alle esistenze e alle serie di eventi un ordinamento retrospettivo, quindi una finalità; la catastrofe o il mutamento dei personaggi, quali che siano, appaiono come la realizzazione delle premesse, come il «dopo» di un «prima». Le nostre singole esistenze reali possono invece sembrare prive di finalità nel loro svolgimento temporale finché non interviene la coscienza a far storia del vissuto e a dotarlo di intenzionalità. In questo senso l’autobiografia, cioè il romanzo di se stessi, si propone di tramutare una cronaca in una storia e una esistenza in un destino. Ne segue che le sue forme sono strettamente subordinate alle nozioni che di destino e di storia hanno avuto determinate epoche e culture. Diremo allora che […] le autobiografie in senso stretto saranno le scritture nelle quali compare la volontà di decifrare attraverso gli eventi e la loro interpretazione un disegno cioè l’itinerario di una vocazione, predestinazione o adempimento.”

Queste riflessioni sull’autobiografia vanno molto al di là della divulgazione – o meglio individuano il punto in cui, come deve essere, la divulgazione diventa illuminazione, e un genere di scrittura, l’autobiografia, apre a considerazioni estremamente precise, direi millimetriche, su esistenza, destino, storia. Storia come storia individuale (ricostruita), ma anche Storia con la maiuscola, se è vero che le forme dell’autobiografia – e dunque del concepire se stessi – “sono strettamente subordinate alle nozioni che di destino e di storia hanno avuto determinate epoche e culture”. Da cui il non trascurabile corollario che non essere consapevoli della propria epoca, rimanere legati, per scelta o per caso, a schemi culturali obsoleti, porta a fallire la storia della propria vita.

Nel senso di questi esempi la “mutazione”, per quanto “ancora contraddittoria e parziale”, che il lettore scopre nelle ventiquattro voci contribuisce al sapere “che riguarda la «salvezza dell’anima».”

  1. Insegnamento secondario e divulgazione

Fortini accenna brevemente ai manuali scolastici, che rientrano nell’ambito della divulgazione e dovrebbero essere redatti con gli stessi criteri che valgono per la corretta prosa saggistica. Deve invece constatare, e noi ancora con lui, che “mai la critica letteraria delle riviste o dei giornali si occuperà di un manuale scolastico di storia”.

Riprendo il discorso a partire dall’esperienza di insegnante.

Lasciando anche da parte l’enorme giro di soldi che di fatto rappresenta la ratio dell’editoria scolastica italiana, e che solo giustifica la proliferazione continua di nuovi libri di testo pressoché identici ai vecchi (quando non siano nuove edizioni con i numeri delle pagine diversi e qualche esercizio in più) – lasciando anche da parte questo aspetto abbastanza deprimente della cosa, rimane che il manuale di materia umanistica è il vero emblema della scuola italiana.

Innanzitutto nella pretesa, assurda, di esaustività; per cui se ai miei tempi la storia dell’arte cominciava dagli Egizi, ora si parte dalle pitture rupestri; il libro di testo di italiano per il triennio è in sei volumi per un totale di qualche tonnellata; oppure hai i ragazzi di quarta che nell’intervallo ripassano parossisticamente le vicende della guerra di successione austriaca per la verifica dell’ora dopo.

In secondo luogo, ma è il punto più importante, nello schematismo. Il manuale non avvicina le cose, le allontana. Quello che il ragazzo percepisce e recepisce non sono cose, fatti, le cui risonanze prossime o remote riguardino comunque “la salvezza dell’anima”; ma morti schemi – quando va bene di concetti, quando va male di parole – che deve in qualche modo appuntare alla memoria superando il grandissimo ostacolo che non hanno nulla a che fare con lui.

I pregi e difetti del manuale sono i pregi e difetti della scuola italiana, che per non rinunciare a una fantomatica “completezza” dell’istruzione si condanna a un inevitabile quanto deleterio schematismo[5]. Se un lavoro serio e progettuale sul linguaggio del manuale possa ovviare almeno in parte al problema, o se invece non sia un fatto (solo) di linguaggio ma di impostazione (avere cognizioni di tutto), sono questioni che meriterebbero una approfondita riflessione e discussione a parte.

[1] L’enciclopedia è Le Muse. Enciclopedia di tutte le arti, edita da De Agostini. Le ventidue voci vi compaiono accompagnate dalla sigla F. Fo.

[2] Trovo interessante che Fortini ricorra per il concetto, negativo, di immediatezza all’aggettivo ‘magmatico’, all’epoca sicuramente meno frequentato di adesso dove non c’è quasi recensione che non ne faccia uso. E peggiore sono l’opera recensita e il recensore, più il magma tende ad affiorare.

[3] Spontaneità di cui, dice Fortini, si vedevano (e, dico io, continuano a vedersi) specimena nelle recensioni di terza pagina, redatte come il cor t’ispira e senza il minimo quadro serio di riferimento.

[4]Una confusione i cui effetti si vedono molto bene ad esempio nella prosa di Andrea Cortellessa.

[5] La via intrapresa dalle scuole europee (in particolare Francia e Germania) per evitare lo schematismo – che in effetti evitano – ha poi lo svantaggio di una diffusa “ignoranza”, nel senso di una difficoltà a situare con una certa correttezza personaggi, eventi, opere, tracce di un passato anche solo appena lontano. In generale però i liceali francesi e tedeschi acquisiscono maggiore sicurezza e fiducia in se stessi, capacità di apprendere e applicare metodi, in generale capacità di fare – perché il fare, e non un apprendimento in larga misura passivo, è quello che ci si aspetta da loro.

7 pensieri su “Fortini e la scienza della divulgazione

  1. Sintassi dell’argomentazione.
    Figura retorica generale è la mise en abyme (Fortini come Grammann): entrambe, ricerca e divulgazione, fanno luce.
    Ipotesi: “guardare al linguaggio […] come a una scienza”.
    Tesi: “modifica la coscienza del lettore illuminando ambiti e rapporti precedentemente coperti dall’oscurità e perciò virtualmente non esistenti”.
    Dimostrazione: voce “Autobiografia”.
    Congettura: “Se un lavoro serio e progettuale sul linguaggio del manuale possa ovviare” alla pretesa di completezza dello schematismo.

    1. Accidenti. Sembra la lastra radiografica del mio articolo. Ottimo.

      Sulla mise en abyme: in una prima stesura l’articolo cominciava: Questa è la divulgazione di un’apologia della divulgazione…

      Sulla tesi e collegamento con la congettura: le potenzialità della divulgazione sono enormi, perché per ogni “oggetto” che si sia in congrua misura capito e amato (non c’è vera divulgazione senza eros didattico), ogni successiva “presentazione” anche da parte del medesimo divulgatore sarà fatta con parole diverse, che implicano percorsi concettuali diversi e inattesi, spesso prendendo l’avvio da punti di partenza diversi, eventualmente per un pubblico diverso – e tutte queste divulgazioni non saranno le varianti più o meno accurate di una Ur-divulgazione accreditata, ma un modo sempre leggermente diverso di illuminare l’oggetto che apparirà alla fine, non fosse che per il divulgatore stesso, in una luce accresciuta e in una definizione più precisa. Questa pratica che nessun manuale può sostituire potrebbe fare della scuola, in particolare della scuola superiore, un luogo più interessante di quanto non sia adesso. E avrebbe come gradita conseguenza che il manuale, se proprio non lo si vuole abolire – è comodo per le informazioni fattuali e dà un senso di sicurezza ai ragazzi -, diventerebbe sottilissimo. A tutto vantaggio degli apparati scheletri degli adolescenti.

  2. Potrebbe, altroché se potrebbe: questo fa una prof brava e amata.
    La cosa comunque mi toccava perché ho campato la famiglia scrivendo letteratura popolare per venti anni e… se ho imparato chiarezza e progressività!

  3. …trovo molto bello questo saggio sul saggio, partendo da un’opera di F.Fortini: “Ventiquattro voci”, che ragione sulle finalità divulgative e illuminanti, attraverso un linguaggio da reinventare, della prosa saggistica. Una prosa che, se ho ben capito, deve essere scientifica ma non specialistica e allargare la conoscenza del lettore quanto dello scrittore e avere presente la “salvezza dell’anima”, in quanto espressione di una ricerca vera e onesta. Devo confessare che sino a qualche anno fa non amavo il genere “saggio”, preferendo, come lettrice, la narrativa, dove peraltro è possibile soddisfare, volendo, il desiderio di conoscenza della storia umana, sociale piu’ ampia, oltre o insieme a quella delle vicende dei singoli personaggi, anche in forma autobiografica…sentivo maggiormente pulsare le emozioni, i conflitti e la terza dimensione dei vissuti. Ma ho cambiato un po’ la mia prospettiva leggendo proprio saggi come questo di E. Grammann, saggi che non si presentano anonimi, asettici, anzi fanno sentire il lettore in qualche modo partecipe alla ricerca…Oltre alle necessarie informazioni e conoscenze il saggio che “ti prende” ha anche un taglio, un fine, illumina un aspetto di interesse comune…Insomma lo leggi volentieri…Su questo blog ne ho letti diversi interessanti e , s sono anche rivolti a giovani studenti, certamente possono diventare strumenti didattici molto validi. E i libri di testo si assottiglierebbero, buona cosa…Sempre qualche anno fa a rompere il ghiaccio (mio) riguardo al genere saggio è stata la lettura di un saggio di Grazia Livi che mi ha coinvolto, non meno di un romanzo, sulle vite di alcune scrittrici del secolo scorso, evidenziando, come taglio privilegiato, lo spazio da loro scelto e duramente conquistato, per l’attività di scrittura: V. Woolf: “una stanza tutta per sè, con poltrona”…J. Austen “Stanza di passagio”…E. Dickinson: “Stanza al piano di sopra”…C. Percoto: “Stanza murata”, “K. Mansfiled: “Stanza d’affitto”…A. Nin: “Stanza con canapé”.. lei stessa, Grazia Livi: “Stanza con porta socchiusa”… Ho molto apprezzato anche gli altri saggi pubblicati da Elena perchè sempre il fascio di luce della sua ricerca riusciva a raggiungere una realtà nascosta, dimenticata…

    1. Grazie, Annamaria, del tuo lusinghiero e “consonante” commento. Anch’io sono stata e sono ancora una lettrice prevalentemente di narrativa, proprio perché la narrativa, quando è buona, conserva qualcosa di quella contingenza della vita che va quotidianamente perduta. (Per inciso: le mie più solide cognizioni di storia derivano da romanzi e non da saggi o da manuali.) Il saggio – ed è naturalmente una valutazione personale – diventa interessante quando vi è riconoscibile la traccia di un io – di quella parte più durevole dell’io biografico che non è altro, per dirla con Proust, che un punto di vista sulle cose.
      (Grazie anche del rimando a Grazia Livi. Non conosco il suo “Da una stanza all’altra” ma mi piacerebbe leggerlo, tanto più che apprezzo molto la scrittura di Livi.)

  4. e a proposito di stanza o camera vi dono la lettura di questi umili versi-
    grazie A. S.

    ——————————————————————
    Camera

    Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
    le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
    vuote… il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
    e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

    Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
    la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
    il negromante a squarciagola: ecco, questi sono gli altari,
    dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi Cristo!

    Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
    e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
    con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
    la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

    Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
    Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
    al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
    Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

    Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
    capriccio e parvenza di se stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
    eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
    stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

    antonio sagredo

    Vermicino, 16-20 maggio 2008

    1. “Capriccio e parvenza di se stesso” il trono, da un certo punto di vista, sono d’accordo.
      E rimane uno spazio per una “stanza mia, che è Tutto per me”? In fondo un’utopia ne vale un’altra. Ma la Storia preme tutto intorno – almeno per diciannove versi su venti, o mi sbaglio?
      Grazie per questa tua stanza…

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