Boris Pasternàk, Otto poesie

                  dal romanzo   “Il dottor   Živàgo” e   da precedenti rivisitazioni TRADUZIONI LIBERE  E  “LIBERATE” DI ANTONIO SAGREDO (da 2 dicembre 2020 a 9 gennaio 2021)

di Antonio Sagredo

Delle 25 poesie che Mario Socrate tradusse per pubblicarle nel novembre del 1957 in prima edizione mondiale dall’editore Feltrinelli, scrive che sono “Poesie di Jurij  Živago”; mentre  A. M. Ripellino, che ne tradusse 8, scrive: “Dal romanzo Il dottor Živàgo” (1959), marcando una distinzione tra il personaggio e l’autore. Di queste 25  ne scelsi 17, quasi 40 anni fa, che tradussi e che dopo  alcune rivisitazioni abbandonai  perché distratto e pressato da altri studi e impegni della quotidianità.

  Clara Strada Janovic, in un recente pubblicazione, quasi giustamente osserva, nella prefazione al testo tradotto e pubblicato (Feltrinelli, 2018) che “I versi del protagonista non sono un’appendice, bensì sono un complemento del racconto in prosa che li precede. Anzi, il rapporto tra le parti del romanzo può essere rovesciato: i versi finali come momento essenziale, rispetto ai quali la narrazione costituisce, a modo di introduzione, la biografia del loro autore, il dottor Živàgo. O di Boris Pasternak? Infatti le poesie del dottor Živàgo sono l’estremo frutto della creatività di Pasternàk, l’estremo approdo della sua visione di sé e del mondo, e sono da lui donate al suo eroe”.

   Si può essere quasi d’accordo con tutto, ma con l’appunto che se sono questa poesie “l’estremo frutto della creatività di Pasternàk”, non certo sono il suo miglior frutto. E di certo se sono ”l’estremo approdo della sua visione di sé e del mondo, e sono da lui donate al suo eroe”, per quanto mi riguarda – se estremo vale cronologicamente come  ultimo approdo – va bene; ma quanto alla estrema visione “di sé e del mondo”, se davvero era estrema, non coincide affatto con una elevata visione della Poesia o della sua: questo era appannaggio delle sue prime raccolte.

E non sono nemmeno certo se il poeta Pasternàk le ha “donate al suo eroe”, poiché è risaputo che il poeta è un fingitore! (Pessoa). Dunque, sollecitato dal direttore di un blog che voleva una poesia sul Natale per pubblicarla, mi sono ricordato dei versi de “La stella di Natale” di Pasternàk, che ho letto e rivisitato ancora una volta; e poi sodisfatto del risultato mi son detto se valeva ancora la pena di rivisitare tutte quelle 17 che avevo scelto allora; tranne ovviamente quelle tradotte da A. M. Ripellino nel 1959.

   Mi son messo di nuovo al lavoro e armato della mia conoscenza del poeta (ho curato i tre Corsi di A. M. Ripellino rispettivamente su Majakovskij, Pasternàk e Mandel’štam con centinaia di note allo scopo di saperne mai abbastanza) e con la passione, la devozione, senza inventarmi nulla, con la lezione che la mia stessa poesia mi ha sempre donato: immaginazione più l’estro stilistico che la distingue… mi son messo dunque alla ricerca del loro “duende” (secondo quanto intende F. G. Lorca),  e il tutto contraddistinto dal dettame dello stesso Pasternàk a proposito del lavoro del traduttore, e cioè che:

“Il traduttore non deve fare il calco dell’oggetto che copia, ma dare la forza vitale di questo oggetto tramutando una copia in un’opera originale, che viva a livello dell’originale in un altro sistema linguistico. Noi non rivaleggiamo con nessuno nel tradurre, curando le singole righe, ma disputiamo con intere costruzioni. Noi vogliamo assoggettare tutto quello che traduciamo al nostro sistema personale di linguaggio. I rapporti tra l’originale e la traduzione devono essere un rapporto fra base e derivato, fra tronco e pollone; la traduzione deve emanare da un autore, il quale abbia provato l’azione dell’originale molto tempo prima del lavoro di tradurre. Essa deve essere frutto dell’originale, ma anche sua conseguenza storica”.

  Adesso che il mio lavoro è terminato e rileggendolo ancora posso dirmi davvero sodisfatto. La lettura di queste 17 poesie scorre leggera anche nelle profondità e nelle complessità delle metafore e delle metonimie ecc., dei concetti, delle atmosfere tipiche del poeta… talmente leggera e comprensibile all’ascolto che si adatta perfettamente ad essere  declamata con un recitar-cantando beniano.

Spero che queste mie traduzioni libere, e “liberate” da certe incrostazioni traduttive-stilistiche, possano suscitare un apprezzamento e, se non, almeno curiosità, non solo verso i lettori, amatori della Poesia, pure presso gli studiosi. Aggiungo che alcune poesie dello Živàgo sono state anche tradotte dal polonista e russista Paolo Statuti; dallo scrittore Paolo Ruffilli, e infine dalla stessa Clara Strada Janovic. [A. S.]

Nota. Le altre nove poesie tradotte si leggono su L’Ombra delle Parole (qui)


Amleto 

Quando cessarono dal fondo  i bisbigli entrai in scena,
malfermo  ed incerto mi poggiai  ad una porta,
cercando d’ascoltare se vi fosse in lontananza
qualcosa in un eco che la  vita mi doveva.
 
E la notturna oscurità mi fissava
con migliaia di ostinati binocoli  in fila…
Padre mio, Padre mio,
allontana da me questo calice!
 
E i tuoi progetti irriducibili  io amo, 
per questo accetto e  mia sarà la parte. 
Ma chi sa dove o qui si svolge già un altro dramma
e allora, almeno adesso, scordami. 
   
E la messa in scena è già prescritta
e non si può che berla avidamente sino alla fine…
e sono solo, e tutto rovina nel tradimento.
Vivere una vita non è attraversare un campo.
 


Nella  Settimana Santa
 
Quanta oscurità notturna ancora, ovunque.
E ancora il mondo  non  è pronto ad aprirsi
che nel cielo il conteggio delle stelle è vano                 
e tutte brillano  della luce del giorno,  
ma la terra ha voglia
di dormire  a Pasqua
durante la lettura del salterio.           
 
Quanta oscurità notturna ancora,  ovunque.
C’è una tale luce antelucana sulla terra
che dal crocicchio  fino all’ultimo cantuccio
la piazzetta sì è distesa chi sa per quanto tempo,
e alle prime luci, ai primi tepori
ancora ci vuole  un millennio.
 
Ancora la terra è  nuda in ogni dove
e durante le notti non sa
come cullare le campane
e rispondere da fuori ai cantori.
  
Per tutto il Giovedì Santo
alla fine del Sabato di Pasqua
l’acqua rosicchia gli argini                                   
e incessante forma vortici e gorghi.
  
E la boscaglia è desolata e spoglia
e, per tutta la settimana di Passione,
un ammasso di tronchi di pino.
come  una moltitudine di credenti
 
Ma, come a una riunione,
su un minuscolo spazio urbano, 
osservano gli alberi spogli
dal recinto di una chiesa.
 
Ma i loro occhi sono impauriti.
Di certo un motivo ha quel tormento.
I giardini hanno travolto lo steccato,                  
instabili sono le leggi della terra
e il Signore viene seppellito.
 
E mirano il presbiterio rigato di una  luce,     
il manto nerastro e le filiere di ceri,
e i volti in lagrime,
ma la processione d’improvviso
va loro incontro col lenzuolo funebre,
e sulla soglia due betulle
si fanno da parte 
 
E il corteo fa un giro intorno al piazzale
sul bordo di un marciapiede,
mentre la primavera  dalla strada                 
riveste il sagrato di primaverili orazioni,
di un’aria di gradevoli ostie                                
e di giovanile ebbrezza.
  
E spruzza marzo  neve  in piccole dosi 
sulla moltitudine di storpi sul sagrato,                            
come se qualcuno, dischiusa la porticina,
uscito fuori  con la pisside                                 
avesse distribuito tutto interamente.              
                                                                            
E perdura il canto fino ai primi albori…
e l’apostolo o il salterio
quasi taciturni arrivano da un interno
dopo aver pianto a dirotto fino allo sfinimento,
giù, sotto ai fanali.
 
Ma tutte le creature e la carne non parleranno più
a mezzanotte, perché ovunque  la primavera ha già diffuso
la voce che, quando il tempo si rasserena,
la morte sarà vinta
con la fatica della risurrezione.                             
 
 
   
Dichiarazione
 
Già di nuovo la vita è tornata senza una ragione,
si era sospesa, come una volta, inaspettatamente.    
E nella stessa via, non per caso, già da tempo conosciuta
nello stesso giorno estivo e alla stessa ora.
 
Proprio quelle stesse persone e le stesse angosce,
e quei bagliori ancora in fiamme dei tramonti:
come quella volta, proprio sul muro del Maneggio,
la stessa sera mortale, impaziente, lo aveva inchiodato.
  
E come una volta, sempre donne malvestite e sciatte,
con uno strascichìo di scarpe durante le notti.
E il solaio le inchioda ancora,
sul tetto di latta, come una volta.
 
E vedi lei che a passi tardi e lenti
pigramente è già sulla soglia…               
risale verso l’aperto,
traversando  il cortile obliquamente.
 
E di nuovo mi cerco cavilli,                  
e di nuovo sono incurante.
E questa mia vicina di casa va via
per lasciarci soli.
 
E non piangere, non arricciare le turgide labbra,
non riempirle di rughe.
Di nuovo aprirai le squame già secche                           
quando esploderà la primavera.
 
E leva la tua mano dal mio petto,
noi siamo come corrente di  fili elettrici.
Sii prudente, abbracciati e avvinti, ancora                
saremo riuniti inaspettatamente.
 
Andranno via gli anni, sarai sposata,
scorderai il caos.
Farsi donna è un grande mutamento,                  
far innamorare  è una nobile avventura.

E anch’io davanti al miracolo di mani femminili,
della schiena, del dorso  e del collo,
con  servile dedizione
consacro tutta la mia vita.                                                                     
Ma se la notte m’attanaglia interamente                           
con circoli angosciosi,
inarrestabile è il desiderio di fuggire            
e la frenesia invoglia alle rotture.                   
 


Estate in città
  
Un parlare ovattato            
e un gesto insofferente…                                                
e sono raccolti i capelli
a treccia sopra il collo.
 
Una donna osserva col casco
da sotto uno spesso pettine,
e il capo rovescia
con tutta la capigliatura.
 
E la torrida  notte nelle strade
sente il brutto tempo,                                     
e i passanti si dividono
e vanno verso le proprie dimore.                        
 
E ascolto un tuono che si propaga
sussultando e poi uno schianto
di botto… il vento scuote
i tendaggi alle finestre.
 
E sopraggiunge la quiete  
e di nuovo la calura,
e su nel cielo di nuovo
i fulmini cercano e indagano.                                            
 
Ma quando lo scintillante
e rovente mattino estivo,         
dopo l’acquazzone notturno,                  
prosciuga le pozzanghere nei viali
 
i secolari e odorosi
tigli ancora in fiore
guardano imbronciati                                         
per il loro sonno interrotto.                                                                                   
  

Il vento
  
Da tempo sono già morto, mentre tu vivi ancora.
E con lamenti e lagrime il vento
fa ondeggiare la dacia e il bosco intero.
E non c’è nemmeno un pino in disparte
e, nella vastità senza fine,
di tutti, tutti insieme gli alberi,
come armature di velieri
su tutto lo spazio dell’insenatura.
E non per arroganza
o  sterile delirio,                                                     
ma per strappare  al tormento le parole           
di una ninna nanna per te.
 
 
 
Ebbrezza
 
Sotto il salice fasciato dall’edera                         
ci salviamo dalla tempesta.                          
Un mantello ci avvolge
e io ti abbraccio.
  
Ma no. Tutte insieme le piante                          
non  d’edera s’avviluppano, ma d’ebbrezza.
E tutto il mantello allora apriamo
sotto di noi in tutta la sua grandezza.
 
  
 
Autunno
   
Ho disperso ovunque i miei cari,
e da tempo non so dove siano,
e sempre tutto è colmo di solitudine 
nel cuore e nella natura.
                  
E nel bosco desolato, in questo riparo
vuoto, siamo soli… io e te insieme.
Ed è così cresciuta l’erba che le stradine
e i sentieri sono quasi cancellati.
 
Soltanto queste cataste di tronchi
adesso ci guardano afflitti.
Non abbiamo giurato di assalire le barriere,
noi moriremo senza maschera.
 
E dopo il riposo  ci alziamo,
io con un libro in mano e tu fai ricami,
e l’alba ci ha sorpreso
perché sono finiti i baci.
 
Più sontuose e senza ritegno ancora
stormite foglie e scuotetevi
e con l’afflizione  di questi giorni                          
che tracimi l’amaro calice del passato.
  
Devozione, slancio, seduzione!
Dividiamoci nel frastuono delle foglie di settembre!              
Avvolgiti  tutta nel brusio autunnale!                                   
Perdi i sensi o impazzisci!
  
Tu l’abito abbandoni così
come il bosco le foglie,
quando finisci in un abbraccio
con la vestaglia dal nastro di seta.
 
Tu sei il bene di un passo luttuoso                 
quando vivere è più ripugnante d’un male.                
Ma il fondamento della bellezza è osare,                               
e questo è una reciproca attrazione.
 
 
 
Agosto
 
Come di parola e puntuale ti prometto
che il sole di primo mattino è giunto
dalla finestra fino al mio divano
con un obliquo raggio di zafferano.
  
E ha invaso con un tepore d’ocra il bosco
qui accanto e le casupole del sobborgo,
il mio letto, il cuscino umidiccio,
e la parete dietro la libreria.
  
Mi son ricordato come mai c’erano
delle tracce umidicce sul cuscino.
Mi davi l’ultimo addio mentre sognavo,
mi accompagnavi in fila lungo il bosco.
 
E come in un corteo da soli e a  coppie
si avanzava…  qualcuno si ricordò  che era                               
il sei di agosto del vecchio calendario…
la Trasfigurazione del Signore.
 
Si diffonde un chiarore senza fuoco
dal monte Tabor
e l’autunno limpido, come una predizione,
s’imbeve di tutti  gli sguardi.
  
E avete attraversato il piccolo, infelice,
spoglio e timoroso boschetto di ontani,
fino al rosso-zenzero di alberi cimiteriali,
caldissimi come un pan pepato nel forno.
  
Con gli alberi ammutoliti il cielo
ostentava una vicinanza  dominante
e i versi dei galli
risuonavano negli spazi.
  
In quel cimitero se ne stava,
come agrimensore autorizzato, la morte
che mirava il mio volto esanime
per misurare le dimensioni di una fossa.
  
Come una concreta presenza ciascuno
di noi avvertiva vicino una voce  serena,
che sapevo mia davvero da tanto tempo,
e dispensata era dal disfacimento.                                           
 
“Addio, azzurro della Trasfigurazione,
e seconda festa dorata del Salvatore.
Rendi leggera con una ultima carezza
femminile l’afflizione del tempo mortale.                     
 
Addio, anni spaventosi.                 
Hai lanciato una sfida, Donna, alla voragine
delle offese, lasciamoci!
Io sono il luogo della tua battaglia.
 
Addio, battito appena iniziato dell’ala,                                
libera  fermezza  del viaggio                                      
visione del mondo  annunciata nella parola,                   
creazione e offerta dei miracoli!”

9 pensieri su “Boris Pasternàk, Otto poesie

  1. Ho riconosciuto questi versi:
    “Non abbiamo giurato di assalire le barriere,
    noi moriremo senza maschera.”
    Facevano parte delle “Poesie di Živago” in appendice al romanzo ed erano tradotti così:
    “Non promettemmo di assaltare ostacoli, / noi in tutta sincerità periremo.”
    Avevo quindici o sedici anni, li avevo trascritti sul mio “quadernino segreto” e li ricordo ancora. Un programma, in fondo.

    “Addio, battito appena iniziato dell’ala,
    libera fermezza del viaggio”
    Anche questi, mi pare, avevo ricopiato. Chissà dov’è finito il quadernino.
    Riemerge un mondo scomparso:
    “Si diffonde un chiarore senza fuoco
    dal monte Tabor
    e l’autunno limpido, come una predizione,
    s’imbeve di tutti gli sguardi.”
    Sono cose bellissime e non ci sono più (non ci saranno più). Grazie per il dono della commozione (merce rara di questi tempi).

  2. Non conosco l’originale in russo ma queste traduzioni mi sembrano molto musicali ed espressive e di trasparente significato. Complimenti!

  3. Straordinarie queste traduzioni libere e liberate di Antonio Sagredo: in esse semplicità d’esposizione, chiarezza delle immagini, metafore, musicalità e varie atmosfere tipicamente pasternachiane danno lustro a un lavoro traduttivo di prima qualità. Hanno ragione: il signor Franco Casati e l’entusiasmo degli interventi femminili. Non c’è bisogno di conoscere la lingua russa. A un attento amatore della poesia risalta subito la scioltezza con cui la lettura procede senza intoppi, a differenza di altre traduzioni è senza dubbio la migliore… quella di Mario Socrate obsoleta per il tempo (più di 60 anni), e più recentemente quella modesta di Ruffilli (non ricordo in quale blog); già alcune tradotte dal polonista e russista Paolo Statuti sono decisamente migliori, mentre quelle sette tradotte da Ripellino )nell’antologia Einaudi) sono intoccabili tant’è ho notato che il Sagredo non ha osato affrontarle, al contrario del Ruffilli (che non credo conosca la lingua russa) che nel paragone è uno sconfitto senz’appello.
    E allora non possiamo che essere contenti.
    F. P.

  4. Cari e gentili “interventisti” ,

    Mi dispiace davvero che non sia sta pubblicata una presentazione in questo blog…
    non avevo un particolare fretta a pubblicare, e la presentazione era quasi pronta.
    Comunque chi volesse leggerla deve andare al blog “L’Ombra delle parole”.
    Grazie, e mi scuso

    antonio sagredo

  5. @ Sagredo

    Ci dev’essere stato un equivoco negli scambi tra noi in preparazione dell’articolo. Aggiungo volentieri la Nota e rimando per le restanti poesie a L’Ombra delle Parole.

  6. mi aspettavo un commento di Michele Nigro… perché di traduzioni di poesie dello Zivago se ne parlò all’inizio di dicembre scorso.
    as

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