Taccuino di un militante di AO. Quattro mesi del 1978

Domani 22 febbraio 2021 alle 17,30, collegandosi su Facebook ( qui) o su Yotube (qui), è possibile seguire la presentazione di “VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977).

di Ennio Abate

Sono stato in Avanguardia Operaia dal 1968 al 1977, cioè fino alla sua scissione. Da allora, in tutti questi anni ho continuato a rimuginare e a scrivere su quella mia militanza politica e sulle vicende degli anni Settanta. Dei numerosi appunti (in forma di diario, di narratorio e di saggio) ho pubblicato finora pochi brani su Poliscritture ma ho sempre colto qualsiasi occasione per tornare su quella storia e confrontarmi con i miei ex compagni di AO. E’ accaduto in particolare nel 2016 sulla pagina FB “Via Vetere al 3”, dove per la prima volta  si affacciò l’idea di una Storia di AO. E quando uno di loro, Luca Visentini, ha pubblicato «Sognavamo cavalli selvaggi», una rielaborazione narrativa della sua esperienza in AO, che ho attentamente recensito (qui).

Che ora –  sulla spinta generosa e convinta di Giovanna Moruzzi, che con Fabrizio della Fondazione Marco Pezzi di Bologna e  sulla base di un questionario da lui preparato, ha condotto una raccolta davvero  preziosa di interviste a ex compagni di allora – sia  uscito un libro a cura di Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli  è davvero un segnale per me positivo. La lotta contro l’oblio è fondamentale. E non importa che questa prima riflessione corale su quel passato venga fuori con decenni di ritardo (che pur dovrà essere spiegato). Né importa che in questo libro ci siano lacune, dovute sia agli inganni della memoria dei testimoni  che alle scelte divergenti o spesso contrapposte che in un contesto storico del tutto mutato ci hanno disperso. Alcune lacune su temi o figure importanti di questa storia sono inevitabili. Altre  potranno essere colmate col tempo e con uno studio più approfondito  dei documenti. Per il momento alla testimonianza che ho reso aggiungo questo altro contributo che stralcio della riflessione in solitaria che ho compiuto finora. Si tratta di brani del mio diario del 1978, dove a fior di pelle registrai l’angoscia che tessé la mia vita quotidiana espropriato dalla casa-organizzazione in cui m’ero formato politicamente e mi ero abituato a pensarmi come “noi”(noi di AO) e ad agire assieme ad altri per uno progetto condiviso. Non so quanto i dilemmi che mi posi allora e ancora tento di chiarirmi adesso coincidano con quelli degli altri compagni sopravvissuti. Ma alcuni dei temi principali posti nel libro di Biorcio e Pucciarelli ci sono. Vorrei che quel mio “sentire militante” di allora, proprio là dove si presenta più schiacciato dal  peso di una  storia che ci ha stritolati – «Il desiderio/È una rosa/ Sotto una lastra d’acciaio» scrivevo il 20 marzo 1978 -, entri pienamente nella riflessione storica e critica che, pur da vecchi, siamo ancora capaci di fare su quel passato. Per «uscire di pianto in ragione», come diceva Fortini, non possiamo sfuggire a una domanda: perché  non siamo riusciti a «cambiare il mondo» come volevamo. Sono contro le assoluzioni e le consolazioni. A me non basta dire che ci abbiamo provato. In tal senso il titolo del libro mi piace poco, proprio perché suggerisce la risposta più facile: ci abbiamo provato. E non esito a chiedermi e a chiedere agli altri: ma abbiamo fatto davvero tutto il possibile per cambiarlo? e perché ci siamo fermati – questo è il tarlo che mi rode – prima che ci fermassero gli altri? Perché, secondo me, la scissione del gennaio 1977 di Avanguardia Operaia  fu un esorcisma, un falso rimedio. Può parere ingeneroso che con questo contributo “soggettivo”, invece di soffermarmi sul positivo della storia di AO, io dia tanto peso al dopo, al 1978, all’anno che  svelò in pieno la miseria politica di tutta la sinistra di cui facevamo parte. Ma insisto su questo. Anche le vicende tragiche di quell’anno rientrano in pieno non solo nella storia di Avanguardia Operaia ma in quella degli altri attori allora nostri concorrenti o antagonisti. E come non è possibile imparare solo dal lato solare della Rivoluzione del ’17 senza fare i conti con le tenebre successive (che le si collochi alla morte di Lenin nel 1924, a quella di Stalin nel 1953 o all’implosione dell’Urss nel 1989), così non  potremo o potranno imparare i più giovani da una storia di Avanguardia Operaia che non scavasse a fondo anche nel suo fallimento.[E. A.]

15 feb. 78

Discussione sulla violenza [tra ex AO di Cologno]

Gli interventi ruotano ossessivamente attorno al discorso di un “nuovo modo di far politica”. Insoddisfazione. Malessere. Il PCI intende conservare (e non disturbare) il  “buon livello di partecipazione democratica delle masse”. BR e Autonomia la violenza la praticano. Noi non più (in qualsiasi forma). Le loro pratiche di violenza escludono (ormai) le nostre. Ma questo problema ce lo poniamo come se fossimo ancora in un partito o in un movimento? O da quale collocazione?  E perché oggi il problema viene posto da un punto di vista “morale” ( o più “morale” che in passato)? Manconi: si attesta sulla posizione del “mai l’eliminazione fisica”. Rossanda: sulla posizione della “violenza come triste necessità storica”. Noi, forte incertezza. Riusciamo a vedere più chiaro solo se facciamo analisi retrospettive, storiche. Al presente no. Data la nostra situazione d’impotenza, è ozioso porsi in astratto il problema di una violenza come strumento chirurgico, distruttivo-costruttivo (alla Lenin). In effetti, ci troviamo a fronteggiare disarmati e isolati la violenza praticata da altri, cioè imposta (anche a noi) soltanto da altri. L’accettazione di una certa violenza nel nostro passato (servizi d’ordine nelle manifestazioni in cui era previsto lo scontro con la polizia, autodifesa da attacchi fascisti) aveva dietro una visione politica che è venuta meno. E allora è giusto interrogarsi su questioni  “a monte”. Ad esempio, è meglio morire combattendo e farsi  persino uccidere se davvero si è convinti di aver costruito molto e bene. Noi abbiamo noi costruito qualcosa del genere?

22 feb. 78

Ancora sulla violenza (discussione in collettivo)

Il metodo della violenza è stato introiettato dalla borghesia. La violenza non è uno strumento  neutro ma porta il segno dei borghesi. Sulla violenza dobbiamo esprimere giudizi non solo d’ordine morale ma anche storico. Quella di certe fasce di compagni è una violenza impotente e da burattini. Dove sta il “nuovo” in questa questione della violenza? Leninismo. Sembra che la cosa non sia funzionata e allora la si abbandona? «La presa del riformismo cresce. Dove stanno più le masse pronte alla rivoluzione?». «Allora il PCI ha ragione?». «Allora resta solo la violenza o la poesia?». I partiti macinano tutto. I compagni s’aggrappano a princìpi sterili. Impotenza sia verso gli Autonomi che verso lo Stato. M.: «Mi ero detto. Proviamo il PCI. Ha un ruolo politico e sociale che la Sinistra rivoluzionaria non ha mai avuto. Ho scoperto che anche alla base c’è la longa manus dello Stato. Mi sono trovato dentro un partito-istituzione (statale). Il capitalismo è deciso a morire come Sansone con tutti i filistei. E il Pci cerca solo palliativi ai mali di questa società».

1 mar. 78

Collettivo Itis Sesto

 Siamo ridotti a una parrocchia? Uscire dalla CGIL? Non serve più. Restare è scazzarsi di continuo. Siamo senza prospettive.  Energie poche, entusiasmo pure. L. che insegna disegno e lavora in contemporanea nell’aula grande con altri insegnanti dice: nelle altre ore gli studenti [e gli insegnanti?] non fanno un cazzo. Non si è mai approfondito che cosa davvero succede nelle singole classi. Non sta bene che la scuola vada in malora. Gli studenti ci divengono sempre meno comprensibili. Non c’è più un linguaggio [politico] comune.  Noi parliamo di selezione di classe e quelli recepiscono soltanto il discorso del “6 politico”.

16 mar. 78

Voci. Dubbi.

Difesa della democrazia? Quale? | La gente scende in piazza, ma è già stata espropriata. Il sindacato ha già “svoltato” | La svolta autoritaria non è ancora avvenuta?| Difesa della democrazia non è difesa della DC, ma di una dialettica sociale| Crollo dello Stato? Ma chi è pronto a sostituirlo?| La DC difende la democrazia come vogliamo noi?| I brigatisti starebbero in certi settori della DC? In quanti si sono opposti all’ingresso in maggioranza del PCI? L’hanno rapito “loro”?| Le BR più forti dello Stato?| Cadaveri viventi la gente che scende in piazza?| Chi ha impedito  ogni tipo di manifestazione negli ultimi tempi?| Solidarietà a Moro? Fatti di lato e faccela difendere a noi la democrazia| I precedenti tentativi di golpe sono sempre venuti da quella parte| Avvantaggiato il PCI? Ma se le BR affondano il compromesso storico| Gli ammazzano Moro e non scendono neppure in piazza in massa (quelli della DC)| Anche qui [nel Collegio professori] passiamo per simpatizzanti dei terroristi| Troncare ogni legame sentimentale. Non vedere Robin Hood nelle BR| Sappiamo poco dei processi internazionali, ma l’attenzione va spinta in quella direzione| Subito messo sotto accusa il compagno che ha detto: la democrazia l’hanno difesa e conquistata le masse| Dire ”BR=compagni che sbagliano” non va, ma che diciamo, mentre tutti  ne parlano?| le BR scombinano il “nostro” lavoro (politico)? Solo quello?| si mettono anche contro di noi| Il PCI ha preso la rincorsa per farsi Stato, ma la spinta da dove viene?| Tutte le azioni fatte contro il “regime DC-PCI” andrebbero bene? Quindi anche le BR?

Libreria Celes di Cologno Sono con l’acqua alla gola, anche se non a picco. Stagnazione. Perdite mensili.

20 mar. 78

Il desiderio

È una rosa

 Sotto una lastra d’acciaio.

 [poi dedicata a Fausto e Iaio]

21 mar. 78

Attivo scuola ( a Sesto?)

Uno del MLS: lotta per l’indipendenza nazionale contro le due superpotenze| la democrazia è un processo che si sviluppa, le istituzioni lo cristallizzano in continuazione. Democrazia e istituzioni non possono mai coincidere. E non si può difendere la forma (democratica) indipendentemente dai contenuti. Romanò: Fare una scelta concreta su queste istituzioni «profondamente segnate dal m.o». L. Bobbio: Sull’azione BR si innestano forze reazionarie (gran parte della DC). Vogliamo difendere tutto il vecchio Stato o le istituzioni che vorremmo sviluppare noi? Ipocrisia arco istituzionale: “Non ci saranno leggi speciali”. E quelle varate stamattina? Lama e c. sono andati dall’Arma dei CC! Non sono le nuove istituzioni che avanzano, ma le vecchie che si rinsaldano con l’assenso del m.o.

Il vento soffia

ma nelle fessure del (mio) cuore

1 apr. 78

Dopo assemblea della Costituente di Democrazia Proletaria con Mangano a Villa Casati (Cologno Monzese)

Curiosità, una certa voglia di ritrovarsi fra compagni. Ma  i discorsi di S., F. e anche di Mangano sono nel vecchio stile pedante, comiziesco, d’appello all’emergenza. Aumenta la mia perplessità sull’opportunità di fare un partito. I dubbi vengono ascoltati ma, mancando altre risposte, viene riproposta l’ipotesi già fallita. Mangano ha affinità con i compagni del Manifesto. Si potrebbe lavorare con lui. Ma gli altri? Se l’ipotesi di un collettivo di Democrazia Proletaria avesse avuto qualche base, poteva essere fatta prima della rottura fra Avanguardia operaia e Pdup. Le spinte burocratiche e settarie prevalsero allora e sono presenti anche oggi. Bisogna porsi seriamente il problema di andare oltre il PCI; e per farlo non basta andarci contro. Come dice Grandinetti, questa nuova sinistra non sa costruire un suo progetto e si muove sempre in funzione del PCI. Può sembrare una pretesa, ma penso che dobbiamo andare oltre anche Lotta Continua, Avanguardia Operaia e Pdup. È vano  continuare a stirare le differenze fra queste ex organizzazioni. Bisogna liberarsi dalle croste burocratiche che altri  ci hanno costruito addosso, mentre noi credevamo di far politica. La vicenda di Corvisieri [1] dà da pensare. Come mai un frutto cresciuto sul nostro stesso albero è diventato così “marcio”? Corvisieri scopre la bontà della via pacifica al socialismo proprio quando essa degenera. Come degenera la via militarista delle Brigate Rosse, mentre lo Stato democristiano  va in putrefazione. Attestarsi sulle “modeste certezze” della logica che ha funzionato negli ultimi  trent’anni – il PCI che s’aggrappa allo Stato nato dalla resistenza, Democrazia Proletaria che s’aggrappa alla costruzione del partito –  non fa uscire dalla crisi.

Fortini

Riflettere sulla sua esortazione a «scrivere di questioni concrete, non di teoria politica; meglio allora una problematica etica». Non bastano gli interlocutori rispettabili presenti nella Nuova sinistra. Dobbiamo guardare a compagni ancora più marginali. Fortini, per me, è uno. Ma dobbiamo cercarne altri; e non tanto fra le masse (che è un concetto anch’esso di partito), ma fra gli individui concreti e spesso fuori dalla nostra cerchia di politicizzati. Mi chiedo poi se da Fortini non si debba risalire a riferimenti culturali accantonati dal movimento operaio, invece di ricavare nell’area operaista o leninista o maoista, in cui abbiamo bazzicato. Certo, ci sono lacune da colmare, ma non basta colmare solo lacune. Perché, ad es., non  rileggere Marx, a cui abbiamo guardato sempre con una certa disperazione e con il complesso d’inferiorità di chi  ha dovuto  informarsi sui bigini o sugli articoli-recensione dei giornali d’organizzazione?

2 apr. 78

L’esperienza di Avanguardia Operaia.  I bilanci di Vinci e Campi

Allora quel mio disagio presente fin dagli inizi non era solo il segno di una debolezza politica personale.

Ciao maschio di Ferreri

In un cinema di Monza con Donato, Rosa, Titina e altre maestre. È una favola contemporanea. Quindi amara e inquietante, perché fare entrare nella favola certi aspetti del mondo contemporaneo significa stravolgere il genere. Di cose inquietanti ce n’erano anche in quelle che leggevo da ragazzo, ma  facevano tutt’uno col passato.

Militanza  di sezione

Gigi della GBC di Cinisello. Distribuisce volantini e mi vende un bollettino sull’ opposizione proletaria. Riconosco uno stile: i fatti locali che, incorniciati in quelli nazionali,  sembrano avere più importanza; e invece restano  residuali. È lo stile delle sezioni dei vari partiti. I responsabili  operano con la mentalità dei caporali che badano alla loro squadra. I carrieristi si affacciano in queste situazioni  occasionalmente e per breve tempo. Si ripete così una solida ma ambigua tradizione di vita da partito. Può parere un guscio provvisorio che fa utilmente maturare tutti. Ma il ricambio è sempre parziale: la base  rimane  per anni la stessa con defezioni e aggiunte quasi fisiologiche (amici, figli, parenti, qualche immigrato  dai paesi del Sud). C’è una vita vischiosa che prolunga questi legami, anche quando sono insoddisfacenti.  Non è facile smontare il rapporto di fiducia e subordinazione rispetto ai dirigenti che vengono nominati dall’alto,  hanno una certa presenza, orientano le discussioni e le scelte e poi vanno altrove. Fu un’illusione credere che la sezione di Cologno di Avanguardia Operaia sarebbe rimasta compatta e indenne dagli scazzi del gruppo dirigente. Presto i punti oscuri  dei legami fra i militanti si mostrarono come divisioni. Il legame gerarchico funzionava. Le  rotture al centro si ripresentarono al livello locale. La sorte della gente che agiva nell’ambito di una ventina di kmq.  Era legata alle scelte dei pochi che viaggiavano a livello nazionale.

Collettivo Itis a casa di L.

Siamo solo alcuni dei partecipanti al Collettivo. Si discute di Brigate Rosse.  Hanno metodi ottocenteschi, si dice. Abbiamo delle riserve a scaricare l’Ottocento. Pensiamo a tante altre violenze, a tanti massacri. L. ricorda suoi colloqui con compagni palestinesi. Dobbiamo disfarci così sbrigativamente di tutti i discorsi fatti sulla violenza proletaria, di tutte le analisi storiche sulla guerra? Abbiamo tutti la sensazione di essere tagliati fuori dagli sviluppi che ha preso la situazione.  Le cose decisive si giocano  fra PCI, DC, PSI e Brigate Rosse. E che ce ne facciamo di tutti i vecchi discorsi  circolati nelle organizzazioni extraparlamentari che sono andate distrutte? La sensazione è di essere trattati come bambini, di essere soltanto truppe di rincalzo. Senso di stare ormai in una retrovia e in mezzo a compagni dalle idee confuse.  Come pretendiamo di orientare gli altri? Ci aggrappiamo al discorso sulla democrazia reale contro quello  che simpatizza per la lotta armata? È nella difesa della democrazia reale ci troviamo da soli o assieme ai riformisti?

Documento della direzione del Pdup sulla crisi italiana dopo il rapimento di Moro ( il manifesto 4 aprile 1978)

Delusione. È un ricalco intelligente delle posizioni del PCI, su cui si tace. Parlano di terrorismo (che ha manifestazioni attuali) e di golpismo (che pare inteso come un’eventualità).  I due fenomeni sembrano sullo stesso piano. Sono contro la posizione né con le Br né con lo Stato: che smarrirebbe la distinzione fra  regime democristiano o vecchio stato burocratico sopravvissuto al fascismo e quelle istituzioni e quelle prassi democratiche che sono cresciute attraverso la lotta di massa. Accordo  pieno con il PCI su cosa intendere per difesa della democrazia: in questa fase la difesa della democrazia coincide con la difesa delle «istituzioni di questa costituzione». Nessun accenno al  grado di democraticità reale di tali istituzioni.

6 apr. 78

Entrare nel PCI ?

Devo disinteressarmi della loro politica di piccolo cabotaggio o criticarli subito? Nessun paternalismo. Quello che dicevo in poesia sulla libreria Celes e che li aveva così offesi era centrato. C’è uno scivolamento a destra delle coscienze.  Con l’attuale confusione finiremo o tagliati fuori o a fare le pedine di progetti altrui. Bisogna “espatriare”, costruirsi un’altra mentalità.  Le idee del ’77, come quelle del ’68, oggi servono poco. Possono essere la base, non l’intero edificio. Non fare neppure dell’ingresso nel PCI delle colonne d’ercole. Chi non ha sputato addosso a Corvisieri nell’ultimo anno? Ma basta non entrare nel PCI per pensare e agire in modi non subordinati? Le analisi del manifesto sono quelle rituali del pre-20 giugno [1975]. Malgrado tutte le “gravi” scelte, sembra che questo PCI abbia tanta democrazia depositata in sé da poterla persino sprecare senza danni. Non è che, seguendolo nella scivolata generale a destra del Paese, questo baluardo della democrazia in Italia illuda con la sua apparente “fermezza”? Possiamo accettare questa deriva, sia nella forma del ritorno al PCI, sia in quella di scelte “tattiche” subordinate o in proposte organizzativistiche prive di  una vera conoscenza dei problemi? Anche una scelta di studio non basta. Il progetto del Bollettino è serio, ma non risponde alle esigenze più quotidiane. Se diamo per scontato che lo scontro vero e decisivo sia quello fra una democrazia ormai autoritaria  e il terrorismo e che ogni appello per una democrazia reale sia oggi ultraminoritario e che le scelte di sopravvivenza siano o l’isolamento o stare nel mucchietto della ex-Democrazia Proletaria, il nostro Collettivo Bandiera rossa è fallito in partenza perché a livello locale nulla può contare. La democrazia di base, che è la giustificazione di un gruppo locale, è morta per scelte già fatte in alto. Vedi  l’impotenza di Comuni, consigli di fabbrica, sezioni sindacali e circoli giovanili.

Carlina

«Ma oggi ti arrestano anche se sei contro le BR, basta essere contro lo Stato».  Le BR: «saranno peggiori di noi, ma non dello Stato». Uno che ha scritto tanto e ha sempre cercato di costruire assieme agli altri, può finire mai simpatizzante delle BR? Ha ragione Sciascia. Tutto il suo lavoro testimonia del suo pensiero. E Lama lo squalifica! Schierarsi subito è cedere al ricatto.

A Villa Casati: comitato antifascista etcetera sul terrorismo.

Parecchio pubblico, in prevalenza del PCI e della DC. Cassio sta introducendo. Sottolinea con orgoglio le voci autocritiche che si levano dalla sinistra. Vedete L’Espresso di questa settimana, leggete  le dichiarazioni di Colletti, di Amendola. Parla poi di necessità di tener distinta la politica dall’utopia. Il primo intervento è di un professore repubblicano. Vuole dimostrare che gli extraparlamentari sono i padri del terrorismo. Lo interrompo chiedendogli provocatoriamente di chi è la paternità della strage di Piazza Fontana. Diventa rosso, trambusto,  Cassio  ricorda che ora anche Democrazia Proletaria siede in parlamento e che quindi non bisogna offendere chi interviene.  Dopo un discorso appena accettabile di uno del PSI, parla Chittò del PCI. Dichiara che i comunisti hanno sempre difeso questo Stato, anche quando non erano nell’area di governo, figurarsi oggi. Poi è il turno del figlio di Patané che declama all’antica le cazzate che qualcuno gli ha scritto su un foglio. Intervengo: non si possono assolvere i 30 anni di regime democristiano; le leggi contro il terrorismo sono anticostituzionali;  la campagna dell’arco costituzionale contro le posizioni di dissenso viene condotta in modi ricattatori e antidemocratici; quelli che dissentono non sono quattro gatti; lo slogan Né con le BR né con lo Stato  è già stato corretto con quello Contro lo Stato e contro le BR; la partita che si gioca è fra democrazia autoritaria  e democrazia di massa; gli unici a curarsi  paradossalmente della vita di Moro sono stati proprio gli extraparlamentari. Poi interviene Tremolada: sottolinea il suo essere  nel PCI ma da cattolico. È uscito dalla DC perché questa appoggia il capitalismo. Il PCI invece…Parlano poi le due mamme del Leoncavallo e la Pina Canu. Discorsi emotivi, ma in rottura col clima cerimonioso e falso.

7 apr. 78

CDL di Cologno. Campagnola: «Ci sono 400mila giovani che cercano casa, che devono mettere 2 teste su un cuscino». Il pensionato che mi guarda. Dalla gabbia vetrata. La portineria.

9 apr 78

BR

[Dire «Né con le BR…» non vuol dire aver simpatia.  Ma una contraddizione c’è. Abbiamo parlato di transizione, di presa del potere, di violenza proletaria negli anni passati. Abbiamo   preso in considerazione la produzione di eventi che prevedevano la morte dei nemici (e nostra o di nostri amici). Altri, in clandestinità, li hanno preparati. E ce li hanno imposti sopravanzandoci, giocando il tutto per tutto, in forme certo da noi non immaginate, ma  teoricamente non distanti.  Tra un seminario su Stato e rivoluzione e le azioni delle BR c’è solo discontinuità?  O forse era previsto che i nostri seminari sullo stesso libro di Lenin rimanessero platonici? Certo le pratiche della violenza nella storia sono varie e non si può assimilare un’azione cospirativa di pochi ad un’azione violenta di massa. ]

11 apr. 78

Retorica

«Il passivo e insano slogan né con le Br né con lo Stato va combattuto con un’efficace iniziativa politica, con la pratica della democrazia, con il funzionamento delle istituzioni repubblicane, con la tangibile dimostrazione che lo stato è in grado di sconfiggere le disuguaglianze sociali, le evasioni fiscali, la disoccupazione giovanile e meridionale…..Convincere i più freddi, i più estranei a comprendere che questo Stato offre le più ampie possibilità di lotta politica democratica, mentre il vero sbocco a cui si perviene, perdurando il terrorismo delle BR, è lo stato autoritario» ( Bentivogli, Repubblica, 9.4.1978)

Garantisti per sconfitta

Garantista è la posizione in cui, senza grande soddisfazione e in mancanza di meglio, ci siamo attestati in questi giorni. È la posizione di Stame, del manifesto, di DP. Con sfumature sul giudizio dello Stato: soprattutto repressivo con aggiunta di consenso; anche repressivo ma capace di consenso). D’altra parte siamo stati così spiazzati dagli avvenimenti che le nostre posizioni  ad ogni modo sono subordinate: ai democratici, con cui ancora parliamo; agli autonomi, coi quali neppure riusciamo a parlare. Non ci potrà essere nessuna rimonta rispetto alle BR. Ogni discorso sulla violenza anche armata è per noi finito. Altro che violenza chirurgica. Siamo ridotti a spettatori di una feroce corrida fra eroi e  mostri. I nostri ex compagni possono indicarci il terreno della democrazia, ma non viene meno il sospetto per il loro opportunismo. Oggi che dovevano essere più leninisti che mai, s’accucciano ai piedi del PCI.    

Figure dell’hinterland

C., che aveva partecipato alla lotta per la Scuola materna al Quartiere Stella nel ’68 e a cui poi avevo abbuonato le sue ambiguità, ha tentato il suicidio. Per mesi l’abbiamo visto fermarsi, sfuggendo ai nostri sguardi, al bar qui sotto casa a bere. Adesso ne parla come di un incidente. Eppure si vede che non padroneggia né il suo corpo né la sua mente.

Letture: DWF, numero 5 ott.-dic. 1977 su movimento e istituzioni

«Che farmene di un comunismo che non segni anche la liberazione del mio corpo mercificato, mutilato, represso» (pag. 129)

Sfaccendati

Scese giù al portone. Erano in sei, tutti a guardare in direzione della Seicento che stava per partire. – Adesso entra anche lui – fece quello coi capelli neri e l’aria torva. Mauro dice che i giovani che stanno qui sotto al bar tutte le sere sono fascistelli. Hanno soldi da spendere. Fanno gruppo. Aria spavalda. Controllano i passanti, soprattutto le ragazze. Hanno già imbrattato i manifesti che quelli di Democrazia Proletaria affiggono sui muri accanto alle saracinesche dei negozi.

Sogni

Ad un’assemblea o ad un comizio. Distribuivano uno strano depliant elettorale. Aprendolo  mostrava delle antiche colonne di un tempio classico. I ruderi che si vedevano a sinistra  apparivano man mano restaurati e riprendevano il loro aspetto intatto mentre si spostavano a destra. E’ un messaggio di restaurazione, mi dicevo. Mi hanno zittito. Quello era un depliant del PCI e del PSI. Ma non si può tacere – ho esclamato – proprio perché sono dei compagni.

In un paese del Sud o forse a Salerno. Pare che la mafia avesse organizzato un attentato durante una manifestazione. Vedevo da un balcone un’immensa folla (come quella che si vede nelle foto dei funerali di Fausto e Iaio). I compagni di Cologno filmavano la scena. Ero angosciato perché sapevo quello che stava per avvenire di lì a poco. Ed infatti ho sentito prima un botto e poi spari di fucili. Avevo la sensazione che la scena si sia ripetuta due volte: dapprima senza folla e poi con la folla.

Interruzioni

 A scuola. B. di nuovo in malattia. L. pure. Il movimento di Cooperazione Educativa viaggia imperterrito nel tifone. Il collettivo Itis  di Sesto sonnecchia. Il collettivo Bandiera rossa di Cologno ha saltato la riunione settimanale e abbandonato i suoi propositi di convocare un dibattito sul rapimento di Moro. Anche i redattori del Bollettino  non si sono visti e dichiarano dubbi. Troppe coincidenze per non pensare a tante candele che si spengono in successione È il clima generale che ci macina e  porta via speranze e volontà. Restano le spoglie dei fatti, l’isolamento. E se tutti questi propositi di  continuare fossero il sintomo di un legame perduto e nascessero proprio perché siamo rimasti senza buone ragioni per continuare a far politica?

Generazione che invecchia

e scivola accanto a turpi e veloci vicende

di altre generazioni/

Generazioni che intiepidendosi muoiono.

Hanno lasciato segni impercettibili nei vicoli, nei paesini, nelle periferie.

13 apr. 1978

Ricordo

«Bive dint’a a coccia e paret’e». Così mio padre (o mia madre?) mi  raccontavano l’episodio del re vincitore che aveva preso in sposa la figlia del suo nemico. Amalasunta, lei? Alarico, lui? Boh!

Lettura: Vittorio Strada, Se il messaggio delirante viene dall’antiterrorista,  Repubblica 13.4.1978)

Uno che parla chiaro. Il terrorismo è la spia di problemi irrisolti. La storia lo dimostra.

15 apr. 1978

Colloquio con T.

Se si tace e si osserva la gente, si scoprono tante cose. Siamo entrambi della generazione del ’68 e non siamo rassegnati al lento deperimento che ci hanno preparato.  Non ci siamo associati al coro restauratore.  Però i parametri culturali sono sconvolti. Non è facile rimettersi al passo con questa realtà. Tutti e due abbiamo lasciato perdere il movimento del ’77. Abbiamo sfiorato l’elemento tragico che sta al fondo di quel che chiamiamo comunismo. Lo possiamo riaccostare con una memoria del passato in testa, con una spinta utopistica. Se ce ne distraiamo ancora, faremo chiacchiere. O strisceremo verso il futuro come vermi. Lasciamo ad altri le doppiezze: una verità ai dirigenti, un’altra alla base.

17 apr. 78

Leggere Cologno aprile

Scrittura a risonanza amicale, lontana dai problemi che mi pongo. Me lo studio attentamente. Terribile. È la raccolta dei luoghi comuni e delle velleità residue di far politica. Si accontentano di  attizzare la polemica locale, di “tirare l’orecchio” dei burocrati e di “infastidire” gli attivisti dei partiti di sinistra.

19 apr. 1978

Moro ucciso?

I partiti hanno già pronta la campagna d’orientamento e d’intimidazione. Attenzione alle posizioni eccentriche di Moravia e Sciascia. Ma  il grosso si svolgerà sui binari già ribaditi  nelle ultime settimane. I fatti incalzano. Compagni di Cologno volatilizzati.

Riunione con il MCE al Leonardo di Milano

Prepariamo un’altra esercitazione interdisciplinare per imparare a distinguere linguaggio scientifico da linguaggio narrativo. Mi ricordo di quel saggio di Enzensberger sulla distinzione fra linguaggio dello storico e linguaggio del narratore. Letto su il Menabò (1964?)

G.

Ha un figlio chiuso a San Vittore. Va a trovarlo ogni domenica. Mi dice che il vicecomandante delleguardie ucciso dalle BR era «una carogna».

TG1: Appello del papa, dichiarazioni della DC

Vogliono persuaderci che sono i più forti e per questo sarebbero anche nel giusto. Sono sordi. Trasmettono anche un filmato: una cittadina sovietica che s’incatena al cancello dell’ambasciata russa (?) a Mosca. La figlia disperata urla contro i poliziotti che la portano via. Anche le cose vissute attraverso Tv e giornali sono spesso pesanti.

23 apr. 1978

Dal diario al racconto

Il passaggio va costruito senza smorzare il rapporto con la fluidità del reale. Timore di imbalsamare il reale. Non è che col diario sono più addosso alla realtà.  Con esso rendo in modi meno censurati le mie vicende personali, non la realtà.

Scrittura, forma e rapimento Moro

Scrivo prevalentemente (e provvisoriamente) nella forma di appunti, di diario e di lettera ad amici. Spero di passare ad altre (poesia, narrazione) che adesso mi appaiono poco motivate o per mancanza di tempo non posso permettermi. Ho fatto l’ipotesi di scrivere in forma narrativa e saggistica sul rapimento di Moro. La vicenda mi ha colpito molto e ne ho seguito quotidianamente lo svolgimento da radio, giornali e TV. Il tema potrebbe rappresentare una riflessione sul mio rapporto con la politica (modello: I cani del Sinai di Fortini). Il rapimento è avvenuto quasi a conclusione di un processo di deterioramento anche personale: fine di Avanguardia Operaia e mia autoesclusione dalla militanza; rottura di legami di amicizia nella scuola e a Cologno; e c’è anche la coincidenza fra fine della mia militanza e l’operazione all’occhio sinistro per distacco di retina. Ho sentito questo evento come un’aggressione del Potere alla vita quotidiana. Il potere s’affaccia mostruoso come un King Kong alla mia finestra mentre sto alzando la tapparella. Penso anche alle perquisizioni in corso, ai posti di blocco visti sulla Palmanova o su Via Di Vittorio a Sesto mentre andavo a scuola. Esso ha svelato l’allarmante conferma di un bubbone (quello del terrorismo) che non pareva così pericoloso e leggo come una malattia nostra contro tutte le tendenze esorcistiche, anche provenienti da voci autorevoli.  Mi confermo la necessità di non rinunciare ad una ricerca della verità, anche se dovesse rimanere isolata o clandestina. (Penso alla vicenda degli eretici conosciuta studiando Cantimori).

Parlando con D.:  rapimento Moro e Linda Panzeri

Donato mi dà notizia che questa compagna di Cusano Milanino (aveva lavorato anche a qui a Cologno  attorno al ’70)  ha forse tentato il suicidio ed è in coma. L’avevo vista muoversi tranquilla in mezzo alla folla di piazza Duomo durante la manifestazione indetta per il rapimento di Moro. D. sul rapimento ha scelto senza tentennamenti «l’opzione democratica» e parla di «diritto alla vita di tutti». Io ammetto di avere qualcosa in comune anche con i nemici di classe, ma non me la sento di affermare che «bisogna difendere la vita dell’operaio come quella del deputato (democristiano)». Arriva mio suocero. Michele ci racconta della manifestazione a Cologno per il 25 aprile. D.: «E allora, hai chiesto la pensione alle BR? In questa situazione sono loro loStato…». Dai bersagli delle sue battute (Autonomia, ecc.), afferro il corso della sua evoluzione. Concede di  aver imparato tanto  in questi dieci anni, ma il ricordo di quanto si è imparato sta diventando confuso. Misuro le distanze da me. Ma non ho proposte. 

Villa reale di Monza: Mostra degli Alinari

Dopo essere passato dinanzi a queste nitide visioni e a queste immagini doppiamente immobili (nella loro fissità richiesta dalla tecnica di fine Ottocento, nel richiamo alla morte che immancabilmente suscitano) viene da pensare ai nostri figli o nipoti o gente anonima che guarderanno forse le nostre foto. Quel volto di bimba che si affacciava al vetro rigato di pioggia
dell’auto in attesa al semaforo davanti alla nostra…

Hinterland: un dirigente locale del PCI

Diffidente, viscido, solido nella sua miseria di burocrate. Davanti ai calcinacci caduti «per la bomba» messa di notte alla cooperativa Rinascita non escludeva che potesse essere stato qualcuno di noi.

Sogno

Io e D. entravamo in un locale. C’erano vecchi dirigenti di Avanguardia Operaia. Avevano un’aria derisoria e sorniona verso di noi, che eravamo andati là per contribuire ad una sottoscrizione.

26 apr. 78

Pensieri labili

«Erano in cinquantamila in piazza Duomo. Questa democrazia non è bella, ma resiste. Io non voglio vedere i miei libri bruciati come in  Cile». Questo è il ragionamento che corre.  Ma perché non riesco a rassegnarmi alla democrazia? Perché in essa mi sento un clandestino?

Roberto Cerasoli

Lo rivedo. Fu uno dei primi quadri esterni che vennero a dare una mano all’appena fondato Gruppo operai e studenti di Cologno. Ci teneva i seminari  su Marx e partecipava alle riunioni con gli operai delle piccole fabbriche da me raccolti.  È invecchiato. Ha fatto un viaggio a Cuba ed è in Villa Casati per commentare le diapositive che ha scattato. Lo trovo più approssimativo di un tempo, ma sempre simpatico. Le diapositive sono troppe. I temi sono i soliti: il partito, l’attività che svolge in mezzo alle masse. Abbondano foto di manifestazioni, di studenti in divisa e immagini convenzionali della vita urbana e agricola. I compagni lo incalzano con domande scettiche: la condizione dei dissidenti, le scelte militari di Cuba in Africa. Cerasoli dice di aver scoperto  un «popolo meraviglioso». Diffido. Penso alle letture  ben più severe e critiche di Fortini e della Masi sulla Cina maoista. E poi non mi piace il turismo politico. L’evasione dalla routine quotidiana, che un qualsiasi viaggio comporta, fa trovare quello che si vede altrove sempre più interessante. Certo il nostro socialismo non può essere quello – ammette Roberto verso la fine della serata, dopo aver ricordato lui stesso alcuni aspetti poco entusiasmanti: il contrabbando legato al turismo, i cubani che a fine settimana vanno in giro per alberghi perché non hanno altri modi per  spendere i loro soldi, la crescente voglia di consumi.

N.P.

Itis Sesto S. Giovanni. «Sai c’è quel nuovo insegnante che ha toccato il seno a due  ragazze. È successo un puttanaio. Ne abbiamo discusso pubblicamente e F., l’insegnante di fisica, se n’è uscito dicendo che sono loro, le ragazze, che provocano. Apriti cielo!» Ogni tanto  questi problemi, che restano sempre nelle pieghe delle nostre parole (e nel sottofondo dei nostri sguardi sugli altri, sulle altre) affiorano. Ma sono insolubili. Si affacciano e  presto vengono  messi a tacere. Anche quando se ne discute l’armamentario di concetti a disposizione dei “tradizionalisti” e degli “innovatori” è così prefissato, banale o astratto che  – dopo alcune scaramucce – non si riesce ad andare oltre la condanna scandalizzata o la complicità sotterranea col senso comune. Le studentesse in un Itis sono poche, gli insegnanti molto depressi, gli studenti sono frenati dalle famiglie che però ne ignorano le pulsioni oscure. Altrove, nei licei, le cose stanno diversamente?

Sul rapimento Moro

Il rapimento è avvenuto quasi a conclusione di un processo di deterioramento anche personale: fine di Avanguardia Operaia e mia autoesclusione dalla militanza; rottura di legami di amicizia nella scuola e a Cologno; e c’è anche la coincidenza fra fine della mia militanza e l’operazione
all’occhio sinistro per distacco di retina. Ho sentito questo evento come un’aggressione del Potere alla vita quotidiana. Il potere s’affaccia mostruoso come un King Kong alla mia finestra mentre sto alzando la tapparella. Penso anche alle perquisizioni in corso, ai posti di blocco visti sulla Palmanova o su Via Di Vittorio a Sesto mentre andavo a scuola. Esso ha svelato l’allarmante conferma di un bubbone (quello del terrorismo) che non pareva così pericoloso e leggo come una malattia nostra contro tutte le tendenze esorcistiche, anche provenienti da voci autorevoli.  Mi confermo la necessità di non rinunciare ad una ricerca della verità, anche se dovesse rimanere isolata o clandestina. (Penso alla vicenda degli eretici conosciuta studiando Cantimori).

1 mag. 78

Funerali di Linda Panzeri a Brusuglio

 Rivedo Lupo, Michele e Giovanna Randazzo e diversi della ex sezione di Avanguardia Operaia Sesto-Cologno-Cinisello.  Piove. La salma è in chiesa. Aspettiamo fuori. Ci sono i compagni del primo nucleo del ’68 a Cologno. Con V. e D. accenniamo ai “processi” che si facevano in cellula agli “intellettuali” come la Linda e al fatto che lei non parlava mai di sé. La folla non è molta e la presenza del prete che recita le preghiere mi dà il segno dell’arretramento subito. Siamo ancora compagni, ma travestiti da cittadini qualsiasi? Come inesorabile la storia ci sta chiudendo le porte in faccia. Un accumulo, minimo quanto si vuole, di saggezza politica e di sensibilità umana si sta disperdendo. Alla fine dei funerali mi propongo di scrivere a Michele Randazzo, l’unico del gruppo dirigente di Avanguardia Operaia che  aveva avuto una grossa crisi che lo aveva posto ai margini della direzione.

2 mag. 78

Scuola: un mio ex studente, B.

Ha avuto un pauroso incidente. Un’auto l’ha travolto . I suoi compagni  l’hanno visitato in ospedale: «È irriconoscibile. Dovranno operarlo e non si sa ancora se si salverà. Dovranno fargli la plastica [al volto?]. Resiste solo perché gli sostengono il cuore…».

6 mag. 78

Giampiero Rota

Proposito di andare a trovare un altro respinto da Avanguardia Operaia ancor prima di Michele Randazzo, Giampiero Rota, per approfondire con lui pezzi del mio bilancio su AO.

Cooperativa edificatrice Nuova Cologno

Bilancio amaro. Gli entusiasmi cadono per le scelte della Lega delle cooperative, della Regione, che ha preferito finanziare un’altra cooperativa più numerosa di quella di Cologno, e delle banche coi loro rigidi  e inattaccabili sistemi di selezione del credito. È giunta l’ora di dividersi le spoglie: la cooperativa nata a proprietà indivisa dovrebbe diventare a proprietà divisa. S. del PSI l’aveva proposto già al momento della sua costituzione e c’era entrato apposta – lui che di casa non ha certo bisogno –  per sostenere questa soluzione e boicottare la scelta fatta in un momento di  euforia politica e di concorrenza, per  vecchia ruggine, fra PCI e PSI locali. Qualcuno  più onesto (M.) si dimette. Gli altri – lo stesso S., G. e S. del PCI e il nostro inestimabile ex compagno di AO, M., accanitamente a caccia di un suo posticino – intrallazzano. Riesco a bloccare temporaneamente un subdolo cambiamento dello statuto da loro proposto. 

Hinterland: G.

A pranzo da noi. Ci parla del suo tentato suicidio. «Non so, forse ho aperto io stessa la porta. Ricordo di essere andata fino all’autoambulanza, poi sono svenuta. Mi sono ripresa all’ospedale. Mi dicevano di non stringere il tubo della lavanda gastrica.

9 mag. 78

Trovato il cadavere di Moro

L’hanno fatto. A scuola ci dà la notizia L., mentre ci stavamo raccogliendo per il collegio. Silenzio. Occhi sconcertati e sfuggenti dei compagni. G. della CGIL-Scuola annuncia che il sindacato ha indetto una immediata manifestazione.  Voglia di andare in piazza Duomo non ne abbiamo, ma non abbiamo argomenti. Tratteniamo G. che vorrebbe intervenire per dire che un omicidio bianco vale quanto la morte di Moro. Qualcuno bestemmia. Tutto sembra avvenire in un Olimpo a noi inaccessibile. Persino gli Autonomi si erano pronunciati contro l’uccisione di Moro. Ma allora le Brigate rosse vanno  proprio per  conto loro. Non ammazzare Moro prigioniero – me l’ero detto a me stesso in questi giorni – è l’unico modo per non dimostrare un’estraneità assoluta con quello che noi siamo e che si agita anche nei nostri cuori e nei nostri cervelli. Mi resta solo un’altra ipotesi per spiegare la scelta: che essi – comunque da “divinità” a noi estranee –  sappiano misteri per noi inconcepibili e si muovano secondo una logica da cui siamo tagliati totalmente fuori. E’ un’ipotesi ancora più umiliante, perché confermerebbe una nostra totale impotenza non solo di azione ma persino di pensiero.  Accettarla, verrebbe a dire che  la politica per noi è ormai tabù, che siamo in un’epoca di sette segrete.  Può essere anche così. Resta il fatto che ci siamo appassionati alla politica proprio sfuggendo e contrastando  le “divinità”. Questo sentimento di rifiuto nessuno me lo può togliere. Ci sciogliamo dal collegio tesi. Cade ogni intenzione di vedersi a casa di qualcuno per discutere assieme. Ciascuno preferisce andarsene per conto suo. Non sono d’accordo a non andare per principio in Piazza Duomo. Le reazioni dal vivo di quelli che ci vanno m’interessano. Mi dico: adesso sono a cavallo. Si sono tolti un peso dallo stomaco. Hanno il martire. Hanno il diritto a portare in piazza le loro bandiere. Manifesti e discorsi preparati sono stampati sulle loro facce. Perché l’hanno fatto? «Omicidio insensato»? Vespa: «Il nostro è un mestiere sgradevole. Siamo costretti a violare i sentimenti». IL POPOLO: «Tutto il popolo deve riconoscersi…Estirpare il cancro mortale del terrorismo». E se le BR dicessero che loro l’hanno liberato e altri l’hanno ucciso? Moro: aveva paura di  prendere l’aereo. Vespa: «C’è da dubitare  che, anche se fossero state accettate le loro condizioni, non l’avrebbero ucciso». Ci sono interstizi dov’è possibile l’indifferenza. Ma perché dovremmo occuparli noi? Radio popolare: «Con Moro è morta la prima repubblica?». E se le BR si sentissero tanto forti da poter agire anche senza consenso e solo perché lo Stato non riesce (?) a disturbarle? Titina: «La gente adesso identifica i comunisti con il terrorismo». Tagliati fuori tutti, anche gli Autonomi. Si cementa l’accordo DC-PCI o si indebolisce?

ANSA: L’auto di Lama assaltata in Piazza del Gesù al grido di: Assassino! Assassino! Non sentirsi in dovere di “intervenire”: capire, dubitare, interrogarsi. Piazza del Gesù: «Morte a Curcio.. elezioni anticipate!». In Piazza Duomo: più impiegati che operai. Scontro tra Banfi (PCI) e DP per uno striscione che diceva: «Contro il terrorismo di Stato». Tutti gli scioperi sospesi.  Saragat: «La prima repubblica è morta». Leone: «Chi non sente questo lutto è fuori dalla democrazia». Un compagno di DP di Cinisi [Impastato] è stato ucciso dalla mafia .

10 mag. 78

A Villa Casati assemblea sull’uccisione di Moro

Un melenso e piatto cerimoniale di commemorazione imposto dalla DC. Questi sono ormai i democratici: impauriti, retorici, aggressivi verso ogni possibile obiezione. E i rivoluzionari ormai sono gli altri: anacronistici, incomprensibili,  ridotti ad assassini.

11 mag. 78

Parlando con B.

Critico sia le incertezze che ancora permangono sulle BR sia i discorsi autoritari del PCI. O riusciamo a distinguerci come nuova sinistra dalla sua democrazia o è meglio ripiegare nel silenzio. Discorsi seri su violenza e partito per una lunga fase saranno inconcepibili. Preparo con molte difficoltà dei Punti di discussione sul rapimento e l’assassinio di Moro.

Cassio (DC di Cologno)

Ha detto : «In fabbrica si sta tornado finalmente ad una maggiore responsabilità, all’isolamento degli elementi pericolosi». Riecheggia Montanelli: «È inutile che questi gruppi ostentino adesso costernazione e stupore per le belluine imprese delle BR. Il terrorismo è figlio loro». Poi prosegue aizzando ad una caccia all’estremista nelle fabbriche e nelle scuole.

Dibattito su Moro al Circolo La comune di Via  don Pietro Giudici

Cerco di chiarire la mia posizione confrontandomi con compagni di DP e i cani sciolti abbastanza diffidenti. Alla fine la diffidenza  forse resta, ma viene meno l’aggressività. Alcuni degli elementi di autocritica che sollevo vengono accolti come una liberazione. Me lo confermano i sorrisi quando dico che siamo finiti in una posizione debolissima e che i due slogan che abbiamo accolto («Né con lo Stato né con le BR», «Contro lo Stato, contro le BR») hanno qualcosa di attendista e un po’ megalomane. Non capisco chi mostra compiacimento o indifferenza per la sorte toccata a Moro, quando parla “fra compagni”, mentre poi durante le assemblee pubbliche se ne sta zitto. Dico che ad accettare di muoverci sul terreno della democrazia (e non più della rivoluzione dello Stato si abbatte e non si cambia) siamo stati  costretti e che dovremmo capire in cosa ora ci distinguiamo dalla posizione democratica del PCI. Manifesto  le mie oscillazioni. Ripensando successivamente a quanto detto, mi accorgo di quanto sia stato lungo il silenzio su questi temi. È quasi inevitabile che io ragioni aggrappandomi e sciogliendomi al contempo da alcun dei principi dell’organizzazione in cui mi sono formato politicamente. Ma Avanguardia Operaia non esiste più. Allora quel leninismo serve ancora? E dove trovo una lettura diversa di Lenin o una visione della politica diversa da quella di Lenin? O un’organizzazione che non sia più quella tentata da Avanguardia Operaia proprio rifacendosi a Lenin?

Ancora a discutere di BR

Ne parliamo in pochi: io, R, D.e T. Non riusciamo ad accettare che la rottura dello Stato debba essere solo militare. E l’ideologia, i rapporti di produzione, la scuola, la famiglia? Quali “rotture” dovranno esserci su questi piani? Sono meno importanti del piano militare? Prendiamo in considerazione anche le varie ipotesi  fatte dai giornali sugli appoggi  che esse hanno potuto avere o sulle infiltrazioni  possibili. Ma non sappiamo che dire. Anche sulle trattative per salvare la vita di Moro non andiamo oltre le ipotesi riportate dai giornali. Insomma, anche a volerci ragionare con la nostra testa, non abbiamo elementi per  capire  il senso di quanto è accaduto. Ne parlo ancora, il giorno dopo, con alcuni colleghi di scuola (T., G., B.) approfittando di un’assemblea di distretto che si tiene al Palazzetto di Cinisello. Mi colpisce l’ottica di T.  I problemi per lui vengono posti in maniera determinante esclusivamente dalle scelte che fanno i partiti. Sostiene che le reazioni sociali sono solo una conseguenza e comunque non riusciranno mai a ribaltare quelle scelte. La politica, in sostanza, la fanno i partiti.  Il resto (movimenti, femminismo, critica della politica) si ridurrebbe a poca cosa. 

14 mag. 78

Finzioni

D. mi riferisce dei funerali alla TV senza la salma  di Moro. Leone che si avvicina come un sorcio per ossequiare il papa, i canti religiosi. Mi dispiace di non aver visto. Stamattina sui giornali trovo una foto fenomenale. Mostra i notabili della DC che , dopo la comunione – (scavare nel mio passato giovanile cattolico) -,  s’immergono in una posa di profonda meditazione. Come quella salma assente doveva tormentarli! Mi viene in mente quell’episodio della lotta fra papi concorrenti, quando non ricordo chi fece dissotterrare il cadavere del suo avversario per sottoporlo ad un “regolare processo” , in modo da rafforzare il proprio traballante potere. Anche questi democristiani  fingono di avere ancora qualcosa di Moro con loro. E i comunisti e i socialisti presenti alla cerimonia? Tutti compattati attorno al papa.

15 mag. 78

A cinema: Una moglie di Cassavetes

Metti insieme due congegni  vivi e delicatissimi come una donna ed un uomo e scoppia il casino.

17 mag. 78

Alla scuola per il Turismo. Il caso Granata

Siamo appena una trentina di persone. Sono in gran parte insegnanti  della sinistra estrema o nuova. L’appello in difesa di questa compagna è stato sottoscritto da circa 250 lavoratori. Per fiducia in P. l’avevo firmato anch’io senza neppure leggerlo, mentre stava per cominciare il Collegio all’Itis di Sesto ed era arrivata la notizia del ritrovamento del cadavere di Moro.  Prevale, dopo alcuni interventi che tentano di animare il dibattito, una grande incertezza. Ciascuno rimugina i suoi dubbi. Dopo un lungo silenzio una compagna comunica che nella sua scuola hanno sottoscritto l’appello a favore della Granata dopo aver eliminato la frase «avendo espresso giudizi difformi dai partiti della maggioranza governativa». A me quella frase pare necessaria. Mi faccio coraggio (dopotutto, mi dico, siamo in un collettivo che vuol difendere la libertà d’opinione)  e intervengo. Se vogliamo informare o controinformare – dico – dobbiamo contrastare le  opinioni propagandate dai giornali e saper rispondere però anche ai dubbi e alle perplessità della gente. La difesa del posto di lavoro e della libertà d’opinione per la Granata non può più restare sul piano strettamente sindacale.  Dobbiamo pronunciarci anche sulle implicazioni politiche suscitate dal suo caso. Colgo subito mormorii di disapprovazione. Una delle promotrici dell’assemblea replica immediatamente. Per lei «è prioritaria» la difesa del diritto al lavoro  e della libertà di pensiero.  «Il giudizio politico  di merito è un’altra cosa» e se ne parlerà in seguito «in altra sede». I mormorii, accompagnati da battute sarcastiche,  crescono, quando un’insegnante del MLS (Movimento Lavoratori per il Socialismo) si impunta proprio  sul latente contrasto politico che serpeggia nell’assemblea. La Granata, un’insegnante rotondetta, sui trentanni mi pare, molto impulsiva e allineata alle posizioni di Autonomia Operaia ma presto deve smettere la sua requisitoria contro quello del MLS perché I bidelli devono andar via e la scuola deve essere chiusa. Non si conclude nulla. Continuiamo a dibattere fuori in capannelli improvvisati. Io insisto a non separare aspetto sindacale e aspetto politico. Eugenio (Grandinetti) mi fa notare che, a pronunciare un giudizio sulle BR, il fragile collettivo si spaccherebbe subito. Non sono del tutto convinto.  La difesa del posto di lavoro e della libertà d’opinione la facciamo  partendo da un caso preciso, quello della Granata, che ha espresso un’opinione favorevole al rapimento Moro, di cui i giornali hanno già parlato. Non possiamo accettare firme di disinformati. Io ho firmato quell’appello senza leggerlo in una situazione di tensione, ma mi fidavo di chi mi ha chiesto di firmare e voglio vederci chiaro. Non riesco a capire  perché pronunciarsi sulle BR significherebbe subire  «il ricatto del PCI». Tacendo mi pare che si subisca il «ricatto» opposto, quello delle BR. Anche Pinuccia Samek ammette sconsolata che la gente non ci sta ad attaccare i poliziotti come «servi dei padroni» e che l’identificazione dell’insegnante col suo ruolo di funzionario statale, al quale non sono permesse certe affermazioni,  è penetrata a fondo.

19 mag. 78

Hinterland, studenti

Mi fermo a parlare con D., O. e P. Vanno alla deriva. P. non se la prende neppure più con B., il collega duro, quello di matematica. È rassegnato alla bocciatura. È tutta colpa mia, dice. O. è il più positivo dei tre. Ha i suoi rifiuti, ma sono precisi, non totali. Calcola gli spazi di recupero e di trattativa che gli insegnanti gli offrono. D.è nella situazione più penosa. Pieno di incertezze e di voglie. Vuol ballare, far teatro. Viene a scuola «per dare una soddisfazione ai genitori», ma rimanda, rimanda e non sa come ripigliarsi. Non riesce a sistemare le sue ambivalenze. Non si preoccupa. Non  fa chiarezza. «Prova a smettere la scuola per un po’ – gli suggerisco – prova a lavorare, visto che hai la possibilità e poi riprendi». Mi ascolta, ma no scatta nulla nel suo sguardo. Durante l’intervallo il collega di chimica, che è appena tornato dalla licenza matrimoniale, ci offre un pacchetto di dolci. I ragazzi, che di solito girano  quasi spavaldi nella stanzetta che qui alla sezione staccata fa da sala professori, si ritirano subito intimiditi.

Inibizioni

Ci sono corpi, profumi, abiti colorati, dolciumi che mi attirano prepotentemente. Ma l’attrazione non riesce a trovare una forma. Mi mancano le parole, i gesti, il movimento per avvicinarmi  almeno. Mi faccio rigido. Se qualcuno se ne accorgesse, arrossirei. Sono le cose che ho  desiderato spasmodicamente da ragazzo e da adolescente e che erano normali anche nell’ambiente che frequentavo.  Il ballo, ad esempio. Quanta malinconia a vedere dalla mia finestra le coppie  che danzavano  per qualche festa serale sulla terrazza dei Bonomi, appena illuminata da qualche lampadina. E il viaggiare, il conversare senza uno scopo prefissato…

Corpi, mutamenti

Quanta gente abbiamo incontrato in questi anni di manifestazioni, assemblee, riunioni, incontri casuali per strada. Quanta ne abbiamo perso di vista. Solo d’improvviso  un volto riaffiora e poi scorre via. Da quanta ci siamo staccati o non potremo mai più incontrarla, anche se lo volessimo. Il cambiamento lo misuri nella ferocia e nell’amarezza di questi stacchi, che ci hanno mutato. Tutti. Ed altri stacchi, sai, si preparano. Questo è terribile.  Mutare senza volerlo, andare nella strada che non prevedevi. Trovarti assieme ad altri corpi che non erano neppure nati quando tu  eri nel pieno di questo movimento, del tuo movimento passeggero.

25 mag. 78

Una giornata di riposo

Si ritorna su certi luoghi (sono andato a Senago, dove ho cominciato il mio lavoro d’insegnante precario con una supplenza nella scuola media), che nella memoria coltivo come un piccolo mito. Arrivando avevo in mente il fervore di alcune immagini “epiche”  ancora vive in me di quell’anno: il fermento dei ragazzi e di colleghe e colleghi quasi tutti giovani, la conoscenza di S., fresca e quasi innamorata di me, le discussioni sui libri di Mario Lodi, don Milani, la scoperta di una recensione sugli Argomenti umani di Vegezzi e Fortini, le prime discussioni e l’intenzione di una sezione sindacale ostacolata dalla preside del PCI. Era il 1971. Il contatto col presente di Senago me l’ha dissolto. Vi ritrovo piccoli cimiteri di ricordi. Profonda insoddisfazione. Amara verità: quel tempo  è finito. Sono andato a trovare un insegnante di educazione artistica, di poco più giovane di me e col quale i rapporti erano stati cordiali.  È rimasto lì e conduce la vita che grosso modo anch’io conduco. Senza però dover combattere il lutto per il tracollo delle illusioni politiche. Vita comune, con i suoi problemi e con altri fantasmi, forse non così dissimili da quelli “politici” che adesso agitano me. R mi dice: «Ma perché ci vai? Non sai che ti fa male?». E ne ho le prove. Non è la prima volta che  m’imbarco per questi ritorni e ne ricavo delusione. I ritorni a Barunisse, paesino della mia prima infanzia, quand’ero adolescente a Salerno. Quelli a Salerno, dopo il mio spostamento a Milano.  La lumaca ritrova   un po’ di bava  dietro di sé. E poi non è bisogno di rivedere i luoghi. È soprattutto bisogno di rincontrare  gente a cui siamo stati legati in vari modi, quasi sempre fortemente affettivi.  Non cerco incontri casuali, ma premeditati, in qualche caso a lungo vagheggiati, oscillando fra censura e desiderio.  Vi rientrano persone che non sono mai state presenti nella cerchia dei rapporti quotidiani presenti e appartengono ad un  mondo vissuto ora come più piccolo, più circoscritto, più elementare, non fluido, complicato, incerto nei confini com’è  quello d’adesso.  Non nascono da motivazioni precise, pratiche. Semmai queste coprono  una motivazione più profonda, eccezionale: il desiderio di confrontare due tempi e sentimenti quasi sicuramente inconciliabili e incomunicanti. È spinta poetica. È accumulo di sensazioni, descrizioni, osservazioni che paiono disporsi più facilmente in narrazione. Infine, questi incontri tradiscono un’attesa profonda, non proprio inconfessabile, ma che si sente delirante e utopica: quella di stabilire una continuità, un fluire, dove è avvenuta o si è compiuta, anche per nostre scelte, una rottura. «Se mia madre potesse essere ancora viva adesso e stare qui, come reagirebbe?». «Se non me ne fossi andato da Salerno, come sarebbe proseguita la mia amicizia con Bis?». «Se Mario Barletta non si fosse suicidato, saremmo stati ancora amici come prima?». E così via. La delusione, che succede al tentativo realizzato vincendo le censure e gli avvisi  di pericoli dovuti a precedenti esperienze fallimentari,  riporta al limite. Il presente non accoglie quel passato. Non vuol sentirne di recuperarlo, se non in forma minima. La quotidianità d’oggi pretende di essere reale e unica.  Ma non lo è. Eppure l’imbarazzo emerge in quelli che vai a stanare, che solo per te proiettano quelle immagini passate e accettano durante l’incontro di fargli posto (a tratti,  con fatica), di presentartele come ricordi. Del resto, come ho reagito io quando un mio ex studente è venuto a trovarmi, così, senza un preciso scopo? Non sempre (o quasi mai) si è pronti per accogliere un altro che sta seguendo una sua traccia nel tempo passato. La parte che riemerge spesso è insignificante. L’incontro “vero” è avvenuto al passato.  Resta un enigma e la voglia di decifrarlo non è detto che sia presente in entrambi. Anzi. E sai che rapporto intenso bisognerebbe ristabilire al presente per poter scavare su quel passato! E sai quanto esso potrebbe entrare in conflitto con  i rapporti che formano la rete  in cui ci reggiamo nel presente. L’imbarazzo nasce anche in me, che sono tentato da quest’operazione. Oscillo  fra la sensazione del pezzente e quella del ladro. Per favore, fate la carità al povero di passato! Restituitemi qualche ricordo, siate generosi! A volte ho rivisto parenti che spontaneamente mi hanno offerto, assieme al caffè e ai dolciumi, ricordi di mio padre e di mia madre. Ma ho colto anche l’ostilità di chi sentiva nel mio arrivo un pericolo e forse coglieva  questa mia cleptomania di ricordi. Perché, sembravano dirmi irritati, devo sorbirmi la tua vicinanza e sottopormi a questo sforzo fastidioso o troppo  faticoso di mettere accanto passato e presente? Non capisci che ho scelto di tagliare i ponti per sempre con quello  a cui tu t’interessi?

Nota

[1] Passato al PCI in quegli anni?

13 pensieri su “Taccuino di un militante di AO. Quattro mesi del 1978

  1. Ho letto tutto. Mi sfuggono alcuni riferimenti nei tuoi appunti ma, tornando alla storia di AO, credo nella debolezza del nostro gruppo dirigente di allora. La scissione mi appare ancora inspiegabile. Da compagno di base li vedevo come delle belle teste, illuminate, mentre si sono rivelati dei compagni incasinati. Alla fine ha ragione Vittorio Rieser quando nel libro sotttolinea il loro attaccamento – non proprio un settarismo quanto piuttosto una gelosia – alle proprie idee. Un’immaturità.

  2. DALLA PAGINA “AVANGUARDIA OPERAIA” SU FB

    Mario Fragnito

    Sono stato anch’io militante di AO e ora posso guardare e fare un bilancio oggettivo, da comunista non pentito, alla pochezza teorica espressa in quegli anni da tutta la sinistra parlamentare, non esclusa AO, che era l’organizzazione più dignitosa, A quella pochezza si sopperiva solo con il volontarismo e l’entusiasmo militante. Troppo poco e la soggettività esasperata, checché ne dicesse Mao, non fa cambiare le cose. Volevamo cambiare il mondo, solo con la volontà di cambiarlo, ma il mondo con la sua oggettività, concretezza e le sue lusinghe ha cambiato noi. Basti pensare a come fu gestita tutta la vicenda dell’unificazione con il PdUP e come la sinistra delle due organizzazioni che era sulla carta maggioranza si trovò improvvisamente in minoranza grazie al fascino discreto radical chic che Il Manifesto esercitò sui compagni che scrivevano sul Quotidiano dei Lavoratori e su gran parte del gruppo dirigente di AO, incluso Silverio Corvisieri.

  3. UN VELOCE SCAMBIO CON GIULIO TOFFOLI

    [12:44, 21/2/2021] Toffoli:

    Carissimo davvero molto interessanti questi tuoi appunti che descrivono sensazioni, frammenti di esperienze che molti di noi hanno fatto in quegli anni particolarmente laceranti. Nel contempo però mi sembra di leggere qualche cosa che è infinitamente distante. Mi chiedo cosa possano dire quelle esperienze a in giovane ventenne d’oggi e ho timore che la risposta sia nulla o almeno poco. Non so… Proprio in questo periodo, forse è l’età sto ragionando intorno a questi temi e la sensazione è di grande tristezza. Abbiamo alle spalle un mare di ruderi come se fossimo dei prigionieri liberati dalla Kolyma e con ben poco da dire se non guardarci intorno vedendo un capitale che rimane incredibilmente forte e creativo, capace di risolvere pur fra mille errori innume…

    [12:47, 21/2/2021] Toffoli:

    Addenda. Mi colpisce il numero di suicidi o tentati suicidi di cui parli. Un tristissimo segno che anche allora molto non funzionava.

    [12:59, 21/2/2021] Ennio Abate:

    Ciao Giulio, la tristezza è comune. Sulla distanza sono solo in parte d’accordo. Non che la neghi. Ma quanto abbiamo vissuto ci rimane dentro, ci lavora e ritorna. Io poi una buona parte delle varie fasi del mio percorso di vita l’ho in qualche modo registrato e mi sento in dovere, quando mi è possibile, tornarci su e rielaborare/rivedere/riflettere. Il mio obiettivo è di fissare per me stesso delle immagini delle varie esperienze fatte nella luce di verità che mi è possibile raggiungere. Verso i giovani (i miei stessi figli e nipoti, ad es.) non ho attese né miro a sedurli o ad attirare la loro attenzione. Spedisco il mio messaggio in bottiglia e vedranno loro, se le condizioni in cui vivranno glielo consentiranno, se e cosa prendere. Sì, suicidi e altre miserie “proletarie” ne ho conosciute tante. E qui ho anche selezionato…

  4. Bello questo taccuino che ci ricorda come eravamo con un documento dell’epoca e non con una ricostruzione a posteriori.
    Ricostruzioni storiche di cui, peraltro, c’è bisogno, perché chi ha fatto politica deve render conto del proprio operato.
    Concordo con Luca Visentini sul giudicare non elevato il livello del gruppo dirigente di Ao. Verso il 1976, erano mesi che Silverio Corvisieri, che era qui di Roma, si comportava in modo strano. Ho capito a posteriori che l’unica cosa che veramente gli interessava era diventare deputato o senatore. Credo che chi stava in segreteria o ufficio politico sapesse di più. Invece fecero un po’ casta. Se a me, quadro di base e segretario di cellula, mi avessero messo in guardia, l’avrei gradito. (Luca, grazie per il tuo bel libro).
    E, del taccuino, hanno colpito anche a me, come a Giulio Toffoli, il numero e il profilo dei suicidi. Un libro veramente coraggioso, ma tanto sofferente, potrebbe tentare la storia di quegli anni a partire dalle storie dei suicidi che sono personali ma anche, in parte, politici.

  5. “Un libro veramente coraggioso, ma tanto sofferente, potrebbe tentare la storia di quegli anni a partire dalle storie dei suicidi che sono personali ma anche, in parte, politici.” (Paolo Miggiano)

    Non storcerei il bastone tutto dalla parte opposta (la base “tradita” o tenuta all’oscuro, i suicidi in forme palesi o occulte). C’è bisogno di tener presente sia le luci che le ombre di tutti (dirigenti e diretti). E’ questa l’operazione più difficile. Né assoluzioni né consolazioni né patriottismi di partito (o addirittura di frazioni).

  6. Uno spunto (condivisibile, a parte il fatto di affidare il compito solo alle “nuove generazioni”) da tener presente anche nella possibile discussione sulla storia di AO …

    SEGNALAZIONE

    Per un nuovo inizio

    di Giancarlo Gaeta
    https://www.ospiteingrato.unisi.it/per-un-nuovo-iniziogiancarlo-gaeta/

    Stralcio:

    “Si tratta di ricreare luoghi in cui tornare a ordinare i frammenti dispersi del passato e del presente (una vera coscienza storica); in cui ridare forma a un parlare comune, a un linguaggio della relazione (parlare e ascoltare) opposto alla Babele della comunicazione mediatica; in cui maturare un voler fare, un agire che manifesti una nuova maniera di procedere a partire da punti strategici definiti in rapporto alla congiuntura. Vale a dire luoghi (gruppi o reti di associazioni) che pongano le condizioni per informare la vita democratica ad una ragione politica che prenda il posto di quella sfatta, illeggibile in cui siamo immersi.

    Non c’è dubbio che nella situazione attuale un siffatto compito può essere assunto solo dalle nuove generazioni, se e nella misura in cui abbiano coscienza della drammaticità del momento e abbiano la volontà di perseguire un nuovo inizio.”

  7. Mi è difficile dire qualcosa oltre la sensazione di avere rivissutolo stesso smarrimento di allora. Mi ha colpito la domanda: entrane nel Pci? Io feci e me ne pentii in fretta ma pensavo che un militante di AO facesse più fatica a porsela. Detto questo, non so davvero a che cosa possa servire oggi, ragionare sulle scelte di allora. La storia va custodita, d’accordo, andrò a leggermi il libro e se mai dirò qualcosa dopo.

  8. “Mi ha colpito la domanda: entrare nel Pci? Io feci e me ne pentii in fretta ma pensavo che un militante di AO facesse più fatica a porsela.” (Romanò)

    E perché mai? Se fu proprio il rapporto con il PCI a scatenare un processo disastroso che portò alla spaccatura di AO e successivamente alla dispersione di tanti compagni, una parte dei quali approdò alla fine nel PCI; mentre altri, amputati di qualcosa che nell’esperienza in AO c’era ed era stata posta fino a quel momento in primo piano, continuarono a far politica in DP e poi in Rifondazione o nei Verdi, etc.?

    A volersi interrogare, si aprirebbe un vaso di Pandora. E si dovrebbe mettere mano con coraggio a grovigli di storia (non solo di AO) irrisolta o mal sistemata.
    Di questi grovigli avevamo cominciato in pochi a discutere sulla pagina FB di “Via Vetere al 3”.
    Ora, all’indomani della deludente (per me) presentazione della “Storia di AO” che c’è stata ieri 22 febbraio dalle 17,30 alle 19,30 su Zoom, voglio pubblicare un ragionamento che tentai di fare già nel 2016 e che è ancora alla base della mia riflessione d’oggi.

    Era il 1 marzo 2016 e su quella pagina FB, dove si può consultare l’intera discussione a questo link : https://www.facebook.com/groups/AO.CUB.68/permalink/1037959289597235 , riflettendo a partire da un doloroso episodio di espulsione evocato in interventi precedcenti, scrivevo:

    Appunti per una storia di AO

    “PROCESSO ALLA BANDA DEI TRE”?
    Sulla espulsione (o radiazione) di tre compagni di AO nel 1975

    1.
    Parto dalla testimonianza di Cereda: «nel corso del 75 avvenne quella che reputo una grande ingiustizia, da parte del gruppo dirigente alto, la supersegreteria (Oskian, Vinci, Gorla). Furono espulsi con ignominia due compagni che avevano curato il finanziamento e l’amministrazione e che avevano osato mettere in discussione talune scelte: erano Flavio Crippa e Pietro Spotti, due cari amici di vecchissima data, due persone pulite e serie che avevano osato chiedere dei chiarimenti ed osservare che una parte del danaro ricavato da compagni che si erano venduti le case, era stato speso malamente».(Va aggiunto, come è stato fatto rilevare, un terzo, Maurizio Bertasi)
    E riassumo i dati certi finora così: i tre chiesero conto (anzi: chiesero chiarimenti) su spese che ritenevano non giustificate o sbagliate («si trattava di rilievi relativi all’acquisto della tipografia»); la «supersegreteria», invece di fornire chiarimenti, li mise sotto accusa; e li fece espellere (dal Comitato Centrale) «con ignominia» o, come Maurilio Riva ha ora precisato, li radiò (capitò nel ’68 anche a quelli de “il manifesto” che erano nel PCI); e «al termine del periodo di radiazione [quando? e dalla stessa «supersegreteria»?] furono riammessi; solo pochi (Calamida e i due fratelli Molinari) li difesero, contrastando nel Comitato centrale, pur da una posizione sfavorevole e già in partenza vissuta come perdente («Sapevamo che saremmo stati sconfitti», Calamida), la decisione della «supersegreteria».

    2.
    Marx diceva che gli uomini fanno la storia senza saperlo. Domanda: “noi di AO” che storia abbiamo fatto senza saperlo? E che senso dare a questo episodio nella storia (purtroppo ancora non scritta) di AO? Dove, cioè, collocarlo? Nella cornice psicologica che ci fa vedere le miserie *umane, troppo umane* dei singoli individui? Oppure nella catena di atti e scelte *politiche* che portarono alla spaccatura di AO e alla dispersione di un patrimonio socio-politico, notevole soprattutto a Milano e dintorni, di relazioni costruttive? (Altro che soltanto di un *sogno*!).

    3.
    Ragionandoci su, se optiamo per la prima ipotesi, ci possiamo chiedere: ma quale poi fu la vera o presunta “colpa” dei tre compagni (Spotti, Crippa, Bertasi)? Nessuna. E potremmo concludere che si trattò di un equivoco o di un difetto di comunicazione o dell’emergere incontrollato del “lato oscuro” e insondabile dell’anima umana, ecc.

    4.
    Se scegliamo invece di valutare la cosa su un piano storico-politico, il discorso mi pare più drammatico, perché FORSE fu attraverso atti come questi che si avviò la disgregazione di AO e quella nostra esperienza, che aveva una chiara matrice di sinistra, “nuova” o “rivoluzionaria”, o comunque abbastanza anticapitalista, fini (ingloriosamente secondo me). E tutti finimmo nelle secche di esperienze che con quella matrice non avevano più nulla a che fare (fossero quelle di DP o di quanti rientrarono nel PCI o di quelli che andarono altrove o rifluirono nel “privato”).

    5.
    Calamida e Cereda tendono a spiegare quel dramma (e quella “miseria”) con il condizionamento (che pesava su tutti) dell’ideologia. Come per il PCI, l’«unita del partito» – dice Calamida – allora « era un vero e proprio totem». Un atto, che metteva in discussione l’autorità del segretario, l’avrebbe incrinata e sarebbe stato considerato «di per sé un tradimento». Sarebbe stato il modello leninista che, dunque, ci dominava e annebbiava. E anche Marina Massenz, in un suo intervento, pare non avere oggi alcun dubbio, se ha scritto: «il pensiero politico che c’era dietro [l’esperienza di AO] era errato, sarebbe meglio dirselo una volta per tutte;[…] Il partito del centralismo democratico di matrice bolscevica è stato una concettualizzazione errata, la cui pratica ha avuto esiti disgraziati» .

    6.
    A me viene da obbiettare: ma chiedere chiarimenti o, più concretamente, esprimere dubbi su spese considerate opinabili o non giustificate (e poi fatte da chi? dalla «supersegreteria» in blocco o dal solo segretario Oskian? questo ancora oggi non si capisce…) metteva davvero in discussione «l’autorità del segretario» o della «supersegreteria»? Certo «chi non visse quei tempi forse non può capire cosa implicò quello scontro» (Calamida) specie sul piano emotivo. Ma, allora, bisognerebbe farsi un’altra domanda: la dialettica democratica interna (prevista dal modello leninista di partito!) s’era già, in quel 1975, così bloccata che ormai solo un’esigua minoranza (Calamida, Molinari e forse altri) osavano dissentire?

    7.
    In un precedente commento ho già fatto notare a Cereda, il quale aveva scritto: « furono passati per le armi in senso metaforico; carogne, traditori, controrivoluzionari, nella miglior tradizione della storia del comunismo siamo rimasti zitti», che la migliore tradizione comunista era un’altra: quella di chi difendeva la verità. «La verità è rivoluzionaria» era allora uno slogan serio, non ancora censurato o deriso. E, nell’AO di quell’anno 1975, a difendere la verità e a dar prova della miglior tradizione della storia del comunismo» furono, se la testimonianza di Calamida è, come penso, attendibile, proprio Calamida e i due Molinari. Dunque, quella scelta di espulsione o radiazione non poteva essere presentata (allora e neppure adesso, secondo me) «una conseguenza diretta del nostro leninismo messo alla prova dei fatti» (Cereda). Semmai fu una sua negazione. Che doveva allarmare e mettere sul chi va là. (E si pensi poi che AO si professava antistalinista e da molti era ritenuta addirittura trotzkista).

    8.
    Aggiungerei che quel modello leninista non venne sempre e da tutti applicato alla lettera o in modi scolastici. Ed era, a pensarci bene, *corretto* dal modello luxemburghiano. Cos’erano, infatti, i CUB, i contenitori delle “avanguardie di massa”, se non un tentativo (magari eclettico e fragile) di correzione di un leninismo “duro e puro” o elitario e decisionista? Anzi io ritengo che, solo quando si rinunciò a questa “quadratura del cerchio” e prevalse la linea della confluenza nel Pdup (e poi nel PCI) arrivò la fine certa della nostra esperienza. Solo allora si finì per ricalcare le orme del Padre PCI, prima contestato e poi rivalutato o abbracciato da tanti figliul prodighi.

    9.
    Non credo, perciò, che quella faccenda dell’espulsione o della radiazione sia rubricabile alla voce “miserie umane” o che fosse dovuta ad una applicazione rigida e scolastica del modello leninista. E affaccio un’altra ipotesi – che può essere smentita o confermata o corretta: che quell’episodio rientrasse già nello strisciante processo di scissione avviatosi non so da quando a nostra ( dei militanti e anche di molti dirigenti)
    Insaputa. Me lo fa pensare l’accenno di Calamida alla «personalizzazione della politica» e all’«accentramento dei poteri». E posso anche pensare che, come rimedio più o meno “emergenziale”, la «supersegreteria» (?) sopperisse con una stretta elitaria dell’organizzazione, già presentendo che tutto stesse colando a picco.

    10.
    Se il contesto interno era già di questo tipo, allora l’episodio dell’espulsione o radiazione potrebbe essere letto come uno degli anelli della catena che poi portò alla spaccatura di AO. Detto altrimenti – e al momento ancora con tutto il rispetto sia per gli “inquisiti” (Spotti, Crippa e Bertasi) e sia gli “inquisitori” (la «supersegreteria»? o il solo Oskian?), ci sarebbero due domande a cui qualcuno più informato o che ha riflettuto di più dovrebbe dare risposta: – in quel 1975 i primi agivano del tutto “ingenuamente” o “da soli” ed erano preoccupati soltanto per quel singolo episodio circoscritto? O avevano già altri elementi (e persino un “secondo fine”) nel sollevare la questione, mirando davvero a mettere in discussione «l’autorità del segretario» o della «supersegreteria»? E questa, nel trattarli come emissari di un’”altra linea”, reagì malamente di fronte ad una minaccia in parte reale o no?

    11.
    Non credo, cioè, che la reazione della «supersegreteria» fosse dovuta solo a tracotanza o fosse una mossa compiuta soltanto «per affermare l’esercizio di un potere» in modo astratto, « imponendo qualcosa [cioè persino una decisione sbagliata?] solo in funzione del potere stesso»; e quindi ormai solo per il “gusto di comandare”; e, dunque, indipendentemente dall’accertamento di una verità di fatto, empirica, come pare si possa intendere dalla testimonianza di Calamida.

    12.
    C’è poi il problema del silenzio, dell’incertezza o della paura degli altri che non intervennero, finendo per accettare, come scrive (con troppa enfasi?) Cereda, che «si passasse come degli schiacciasassi sul corpo e l’anima di due [tre in effetti] compagni validi e fedelissimi (tanto è vero che erano incaricati di seguire questioni delicate come finanziamento e amministrazione)». O, come dice Rino, che preferirono «una furbesca quanto imbelle non alzata di mano sulla risoluzione di radiazione dei tre (3, di numero!) processati». Anche questo “silenzio” andrebbe interrogato più a fondo. No, non ricorrerei alla psicologia dei singoli. Né evocherei fantasmi da storia della Chiesa cattolica («processo alla streghe»; «ricerca liturgica del capro espiatorio» «Santa Inquisizione», «eretici»).

    13.
    Insomma, c’era o non c’era già allora in AO lo scontro tra le “due linee” che portò poi alla fine della nostra esperienza? C’era o non c’era qualcosa che potesse somigliare a quell’ «indimostrato complotto, addirittura tramato nel campo revisionista, ai danni del nostro quotidiano»(Riva)? E, comunque, non vorrei concludere amaramente e disperatamente con l’andante “ tali padri tali figli”: «Ci eravamo incamminati sullo stesso tragitto, compiendo gli stessi errori – da noi criticati – commessi da quelli che erano venuti prima e non lo sapevamo. Volevamo cambiare la fisionomia al mondo ma non riuscivamo a modificare in noi ciò che il mondo aveva storicamente e stolidamente prodotto» (Riva).

    14.
    Marina Massenz ha anche scritto: « questa storia ci pesa e non è stata digerita. Personalmente mi agito molto e anche un po’ mi angoscio in questa discussione. Colpe vere e proprie non riesco a darmene, tranne la mia ingenuità». Io penso, con Fortini, che bisogna uscire «di pianto in ragione». E perciò mi manterrei sul piano storico-politico. Ed eviterei perciò una visione tutta *inter nos* (“noi di AO” di allora o ex di oggi).
    Da valutare, ad es., resta l’intero contesto politico, che si divaricava e portava alla nascita del compromesso storico e (non certo a caso) di Autonomia e poi delle BR. Per me, DP da una parte e la confluenza nel Pdup (anticamera del PCI) dall’altra furono anche forme di fuga dai problemi ormai feroci posti dalla crisi. Ma di questo in altra occasione.

  9. A UNO CHE ERA ENTRATO NEL PCI

    Ennio Abate (25 FEBBRAIO 2016)

    SU “1971- 1991: IL PCI” DI CLAUDIO CEREDA
    (In replica a: http://www.ceredaclaudio.it/wp/2016/02/1977-1991-il-pci/)

    Caro Claudio,
    non mi permetto di contestare le tue scelte politiche, ma i tuoi giudizi sul PCI, la nuova sinistra e il fallimento degli anni ’70 sì.
    Ne va, credo, anche il senso del confronto in questo gruppo che, almeno per me, ha senso se, rileggendo il passato – tutto e non solo di quello legato a Via Vetere 3 – riusciamo a trovarne un senso o una qualche “memoria condivisa”. O, se questo non fosse possibile, a chiarire le contraddizioni, i punti di continuità, di discontinuità, di rottura. Sui quali ciascuno rifletterà e trarrà delle conclusioni.
    Nella tua onesta ricostruzione autobiografico-politica io non vedo messi ben a fuoco i momenti di discontinuità.
    Quando passi da lettore di Rinascita, di Politica, dell’Astrolabio e di Settegiorni , che si sentiva “formato” dal PCI anche se non lo votava, agli anni della sinistra rivoluzionaria, ci sarà stata una rottura nel tuo percorso? Ci sarà stata la revisione delle precedenti posizioni e la giustificazione (a te stesso innanzitutto) della scelta “rivoluzionaria” e non più di quella “riformista” del PCI?
    Ecco a me piacerebbe capire che pensieri hai fatto e che ragioni ti sei dato per fare quel “trasloco”. Non credo da una stanza all’altra di uno stesso palazzo. Perché a me non pare che tra sinistra e marxismo ci sia stata – storicamente parlando – mai piena armonia.
    Posso intuire, da una tua frase ( « Negli ultimi anni della militanza rivoluzionaria si aggiunse lo studio di Critica Marxista»), che il filo che ti legava al PCI non si era mai spezzato del tutto. E che, quando « alla fine del 1976, dopo una riflessione durata qualche mese, di fronte allo sgretolarsi delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria» decidesti di «non seguire la minoranza di AO che si apprestava ad unirsi alla maggioranza del PDUP», si sia persino rinsaldato con « il lavoro di approfondimento della storia del PCI del dopoguerra», le riflessioni sugli scritti di Gramsci e di Togliatti. Segno dunque di una continuità che prevalse sulla discontinuità “rivoluzionaria”.
    Ma, se mi dici che la tua scelta di staccarti dalla sinistra rivoluzionaria in disfacimento, avvenne soltanto per la «botta politica» venuta dalle elezioni, a me viene da chiederti, appunto, di precisare quanta discontinuità c’era per te tra gli anni di avvicinamento (diciamo così) al PCI e gli anni di militanza nella sinistra rivoluzionaria (in pratica in AO). Tra, se vuoi, Il Marx o il Lenin del PCI e il Marx althusseriano o il Lenin “CUBista” o l’eclettico marx-leninismo-gramscismo-maoismo che circolarono in AO.
    Io non penso che la botta decisiva sia venuta dalle deludenti elezioni del 1976. Quella fu solo la punta dell’iceberg in cui si andò a cozzare e che segnalava a noi ciechi gli oscuri processi che poi affossarono prima la “nuova sinistra “ o “sinistra rivoluzionaria”, poi l’Autonomia, poi le BR, poi il PCI e il PSI. E che tuttora stentiamo a decifrare con rigore, preferendo appiccicarvi sopra l’etichetta di comodo, neutra e generica, di “globalizzazione” o “finanziarizzazione”.
    Tu te la prendi con le «mosche cocchiere», che pensavano alla “rivoluzione” invece di «conquistare ad una prospettiva di sinistra la maggioranza del paese». E ti consoli (secondo me) appellandoti alle «masse popolari di cui ci eravamo riempiti la bocca [e che] erano più concrete di noi e quando c’era da votare sceglievano chi desse loro delle garanzie».
    Ma, votando il PCI ( o entrandoci come tu facesti nel febbraio 1977), quale concretezza hanno/hai ottenuto?
    La fine del ”nostro” progetto (o di quello dell’Autonomia o di quello delle BR) è solo arrivata prima. Poi la valanga ha raggiunto anche quel PCI in cui tu riponevi le tue speranze. La « bella serata di discussione nel salone della casa del Popolo di Villasanta», che tu ricordi, è il momento in cui le “furbe” o “concrete” masse s’accorgevano – ahi noi! – dell’abisso di maggiore disperazione in cui precipitavano! E senza più ricevere dai loro dirigenti uno straccio di spiegazione. Fossero essi mosche cocchiere, autonomi, brigatisti, di sinistra (vecchia o nuova o rivoluzionaria).
    Ci fu in quel ventennio ‘60-’70 la possibilità di un salto, di una rivoluzione? Fu solo un abbaglio, un sogno che svaniva? (Questo mi scrisse Michele Randazzo attorno al ’78 in una lettera che purtroppo non riesco a trovare). Non so dire. Se la situazione s’incacrenì, se prevalsero gli «slogan infantili, la violenza e la linea del tutto e subito», se si fece – con la collaborazione del PCI! – di tutt’erbe un fascio (7 aprile, etc.) e si arrivò al rapimento e all’uccisione di Moro, non credo – questa è la mia convinzione – che le maggiori responsabilità del disastro furono delle fastidiose «mosche cocchiere» o di quanti si attestarono sconsolati (me compreso) sul «né con lo Stato né con le BR» [o “contro lo Stato, contro le BR”]. Ma proprio della scelta del compromesso storico, che invece di frenare quella “irrazionalità” (reale a volte, ma spesso anche gonfiata ad arte per spaventare e bloccare anche i conflitti sociali riconosciuti dalla Costituzione) la rese ingovernabile e nichilista. E spinse delle minoranze a puntare sull’avventurismo dell’ “o la va o la spacca” ed il resto della cosiddetta “meglio gioventù” (Ah, quante lodi agli sconfitti!) a rientrare nei ranghi, a buttare nel cesso Marx , il marxismo, il comunismo, a sputare sulla propria giovinezza. E a riprendere carriere di relativo prestigio e spesso mai interrotte anche durante “la rivoluzione”.
    Un saluto
    Ennio

  10. SEGNALAZIONE

    “Sentivamo forte l’ impulso a lottare”
    di Riccardo Barbero

    https://www.lasinistrainzona.it/?p=2849

    Stralcio:

    E tuttavia nonostante questi pregi (o forse proprio a causa di essi?) questa maggiore solidità teorica limito’ la capacità di un’analisi marxista critica e creativa: l’atteggiamento della sinistra politica e sindacale fu spiegato solo come effetto del revisionismo, anche alla luce della critica maoista verso l’URSS.

    Sarebbe bastato, quindi, ristabilire la corretta strada leninista per avere la giusta strategia: non casualmente nel libro le testimonianze di molti compagni, a piu’ riprese, confermano che non c’era in AO una chiarezza sulla strategia rivoluzionaria, ma si puntava sostanzialmente a contribuire alla costruzione del nuovo partito comunista.

    Sarebbe poi stato quest’ultimo a dotarsi della strategia rivoluzionaria.

    In realtà la pratica concreta era molto piu’ ricca e articolata e si manifestava nella costruzione di una linea di massa all’interno dei diversi movimenti sociali. Da questo punto di vista è sintomatica l’evoluzione della concezione del ruolo dei CUB all’interno delle fabbriche di cui si parla nella parte curata da Franco Calamida: da una fase iniziale nella quale coesisteva una visione sindacale con quella politica, a quella successiva nella quale i CUB venivano intesi come organizzazione politica di massa in relazione dialettica con la cellula dell’organizzazione di partito, da un lato, e con il Consiglio di fabbrica, dall’altro.

    E d’altro canto l’iniziativa politica si allargava ai temi del territorio (la casa, in primo luogo, ma non solo), fino ai temi culturali, come testimonia l’interessante paragrafo curato da Vincenzo Vita.

    Eppure queste esperienze poco pesavano nell’elaborazione teorica degli organismi dirigenti: non si arricchi’ l’impostazione leninista, accontentandosi di un’interpretazione scolastica incardinata sulle tre centralità “ontologiche” della classe operaia, del partito e dello stato.

    Probabilmente i tempi erano troppo frenetici e le nostre capacità limitate.

    Ma questi limiti spiegano, forse, almeno in parte, la crisi del 76 e la successiva scomparsa.

    Pensandoci, a distanza di quasi cinquant’anni, è paradossale che la sinistra extraparlamentare cosi’ ampia e radicata a livello sociale, si sia liquefatta, a seguito di un risultato elettorale deludente: forse, pero’, questo mette in evidenza proprio quei limiti di strategia ai quali si accennava in precedenza.

    Che cosa ci prefiggevamo nel presentare delle liste per il parlamento? Non ci fu una discussione chiara e approfondita. Quella scarsa chiarezza si è poi trascinata per decenni e ha coinvolto tutte le formazioni di sinistra, fino ad arrivare ai giorni attuali.

    Naturalmente sarebbe sbagliato attribuire la sconfitta e la dissoluzione delle formazioni extraparlamentari degli anni ’70 solo o principalmente al risultato elettorale: in realtà la sconfitta colpi’ anche il PCI e il sindacato.

  11. A proposito della Storia di Avanguardia Operaia

    Attenzione a certi autoelogi: “In queste riunioni si studiava davvero, infatti gli altri gruppi chiamavano noi di Ao “i professorini”.”

    SEGNALAZIONE (anche se qui si parla del PCI…)
    Una sfida per i protocolli di un vecchio partito (e di una vecchia storiografia)
    Pubblicato il 24 Febbraio 2021 ·
    di Sandro Moiso
    https://www.carmillaonline.com/2021/02/24/una-sfida-per-i-protocolli-di-un-vecchi-partito-e-di-una-vecchia-storiografia/?fbclid=IwAR2FT5jiCEf_3xxk0J6V-60Y14zFTuDccrgjGSVlEPmpWOHS5txjkQe6EVs

    Stralcio:
    L’ideale progressista che animava le scuole di partito finiva così col ricalcare il metodo di una scuola che, dal punto di vista linguistico, più che tener conto delle differenze individuali, culturali e di classe, mirava ad un inquadramento unico dei soggetti/oggetti destinati ad essere istruiti e che della cancellazione delle radici sociali e delle lingue ad esse collegate faceva, e ancora troppo spesso fa, il suo obiettivo primario.
    Lo sradicamento dalle radici culturali significava, in ambito istituzionale e partitico, non solo impoverire la ricchezza espressiva posseduta in partenza dai subordinati, ma anche, ridefinendone i linguaggi e le terminologie usate (spesso impropriamente), ridisegnarne i confini del pensiero e della capacità di autonoma riflessione, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Motivo per cui si può cogliere come la resa dei partiti comunisti all’ideale progressista di acculturazione e alfabetizzazione finisse col ridurre quegli stessi partiti a strumenti di un’evoluzione politica e sociale che poco per volta avrebbe rimosso dal suo orizzonte qualsiasi cambiamento radicale dei rapporti di classe, economici e culturali.
    Come dire: la trasformazione dell’immaginario partitico da antagonista a sostenitore dell’esistente aveva origine, più ancora che nelle scelte ideologiche e nella praxis politica, negli strumenti usati per inquadrare i militanti. Strumenti educativi che si pensavano imparziali e disinteressati, ma che di fatto non lo erano.

  12. DA “TACCUINO DI UN MILITANTE DI AO” IN FORMA DI NARRATORIO

    Quelli che incontrava per obbligo sul posto di lavoro era gente estranea e forse, specie i più anziani e zelanti, anche ostile ad uno come lui, che, sì, lavorava con loro ma studiava. Per staccarsene, chiaro. Aveva ripreso l’università. S’era riscritto a Lettere alla Statale. Le ore di lavoro toglievano spazio allo studio. Lavorare era interrompere per forza le cose che gli piaceva fare – Quali? Le aveva quasi dimenticate. Appartenevano all’epoca di SA – ma anche le letture dei libri da portare agli esami. Cercava appena possibile, furtivamente, [lo aveva fatto anche quando era impiegato al Comune] di usare segmenti di quelle ore di lavoro per portarsi avanti con il libro di Gioacchino Volpe, ma poi, mentre leggeva gli passavano per la testa convulsi pensieri. Allora interrompeva la lettura e si buttava a stendere due tre appunti disordinati su quei pensieri. Sul lavoro fino a mezzanotte non c’era niente da fare. Le chiamate erano continue e doveva manovrare con gli spinotti di continuo, mettere in collegamento gli utenti che avevano prenotato le chiamate nazionali, che si accumulavano. Doveva rispondere garbato a chi sollecitava ansioso o s’incazzava per l’eccessivo ritardo. E non lasciarsi provocare da qualche arrogante, spiegare e rispiegare con pazienza a quelli che non capivano o fingevano di non capire, fare attenzione alla durata delle telefonate; e, appena concluse, segnare i tempi sulle schede meccanografiche. Dal tavolo al centro del salone i capireparto e gli assistenti di turno controllavano l’esecuzione del lavoro suo e degli altri notturnisti. Lui sapeva che di tanto in tanto, a sua insaputa, s’inserivano nelle telefonate che stava eseguendo. C’era una certa tolleranza da parte loro a partire all’incirca da dopo mezzanotte, quando le chiamate si diradavano. Allora poteva tirar fuori un libro e leggerlo a brani, ma stando attento a scattare subito appena qualcuno chiamava per dettare un telegramma o chiedere un’informazione. A volte riusciva a dattilografare quei pensieri improvvisi che gli venivano in mente sugli stessi fogli per i telegrammi.

    In quegli appunti smozzicati parlava di «paura degli altri». Ma non era una paura generica. Sorgeva dal contatto diretto e subordinato con persone precise, che avrebbero potuto rimproverarlo, sanzionarlo, licenziarlo.

    Tu sei stato qui in questi stanzoni del palazzone Sip di Piazza Affari [ o…]. Hai lavorato qui. Unottodue. Chiamavano e dettavano telegrammi. Ripreso a studiare, a colmare la crepa. Annaspavi all’esame di fronte a Musatti indifferente. Sprofondavi tra i camici neri dei notturnisti della SIP. Figure di preti metropolitani anch’essi. Disciplina e cerimonie d’epoca industriale. Erano queste le stanze a zig zag in cui ti dibattevi. Ma quale unità del pensiero o del desiderio! Eri diviso, sgomento e spezzato come tutti i lav-stud. Scrivevi, scrivevi come per respirare. Appena potevi. Come gli altri fumavano una sigaretta. Tu respiravi-scrivevi negli intervalli tra un telegramma e l’altro. E leggevi, leggevi. Ma torpido di stanchezza, coi pensieri che si sbriciolavano. Leggevi e dimenticavi. Leggevi di cieli e rivolte. E ti torcevi inchiodato a quel lavoro, a quella condizione, a quel certo numero di visi noti che ad ore fisse eri obbligato a incontrare, a guardare. Cercavi di masticare anche tu i «problemi del lavoro». Dopo un po’ sputavi i tuoi denti spezzati da nuovi gelidi, oggettivi concetti, che a fatica cercavi di collegare alla (tua?) cosiddetta «esperienza».

    Eri sceso tra loro, i «proletari», i «lavoratori». Eri disceso? In un certo senso eri precipitato. E già: da impiegato eri passato a studente spiantato e senza soldi e ora a «operaio notturnista» alla SIP di Milano. Non avevi scelto di stare con loro. Non ti eri ancora legato a qualcuno per amicizia. Come era dura da costruire l’amicizia. Anche con gli apparentemente simili, anche con gli altri stud-lav. Con Grandi, con Pavesi, con Taccani, Querci. Coscienza di classe? In piccoli inferni di classe, forse. Ti smarrivi tra gente per il momento sconosciuta. E, smarrendoti, gli sorridevi. Per difenderti. E cercavi appigli in parole che fino ad allora non avevi mai usato, ma che essi già usavano o che in quegli anni cominciavano ad essere più usate: rivoluzione, Vietnam, classe, partito, sindacato. Sempre fra pochi, in ambienti ristretti – la sede di Via Ausonio di Falce e martello, che tu cominciavi a frequentare. Scrivevi, scrivevi. Titolo: «Appunti presi sul posto di lavoro».Sarebbero stati testamenti confusi sulla gioventù che se ne andava. Lavorando. Ne seguivi l’agonia in quei corridoi fiocamente illuminati (ti pare). In quei gesti obbligati e guardinghi nei cessi. Davanti alla macchina che distribuiva il caffè. che si fugge tuttavia. Eh, sì! Amaro ricordare parole da un altro mondo stando in un mondo che tutta quella bellezza (del resto appena intravista, non a te destinata neppure allora che eri studente) negava. Non sentivi desiderio per la bellezza dei corpi di certe telefoniste, quando v’incorciavate per il cambio del turno? Sentire sì, ma prima di tutto sentivi l’inaccessibilità. Eri già nella prigione del giovane declassato, proletarizzato, coniugato, con figli da curare.

    Tutto avvenuto così in fretta, senza possibilità di calcolare, confrontare. Autorepressione? Di sicuro. Quanta per educazione cattolica precedente, quanta per invischiamento in quella rete di legami, ridottisi a R, ai suoi parenti stretti, ai vicini della casa affittata in via Pasubio a Colognom. E a pochi altri. Innamorarsi allora? Sfogo proibito. Eri sotto. Stavi sotto i tuoi capi d’ufficio, i tuoi colleghi di lavoro, i tuoi compagni di politica, i tuoi professori che t’interrogavano agli esami universitari. Era l’inimicizia che sentivi con forza: andava da te verso loro e probabilmente da loro verso te. Stavi tra i furbi, i navigati, quelli che ii capitava di guardare. Per strada, sul lavoro, in università. Sentirti così maledettamente nudo nella tua impreparazione a vivere nella grande città. Ed esserti buttato proprio nella grande città del Nord! Quelli avevano già digerito il linguaggio che tu cominciavi a masticare rompendoti i denti, costruendoti anzi i denti. Non serviva quello del latte dialettale materno e paterno. Non serviva quello delle poesie lette nell’ebbra solitudine dei 17 anni, leggiucchiando al massimo “La fiera letteraria”, l’unica rivista che ti capitò di scoprire e comprare a SA. Ci volevano nuovi denti. Quelli per superare l’esame di storia romana e poi di storia medievale. Quelli per non restare sempre stupefatto e impacciato di fronte alla vita che scorreva sia vicino a te che lontano. Ti dovevi fare un altro passato adesso. Di tuo non ce n’era più a Mi. Di tuo c’era quello trascorso in mezzo ai preti, nelle favole dei preti e del liceo classico. Adesso dovevi fare l’operaio notturnista. E farti una cultura operaia, come quella di Forcolini.
    Che allora t’intimidiva e t’insospettiva tanto diceva le cose con sicurezza almeno quanto ne sospettavi. Facendoti misurare la tua estraneità a quel mondo e a quella sua Milano. Ma tu dove sei stato finora? – ti chiedevi dopo aver parlato con lui.

    E allora vai! Svegliati alle 5 del mattino. Inforca il motom. Corri a Lambrate a fare il picchetto a sostegno degli operai dell’Innocenti. Impara quello che altri lav-stud – appena più benestanti, meglio piazzati, con alle spalle un sostegno familiare quotidiano – temono o disprezzano. Perché semplicemente ci possono ragionare su di più. Fronteggia, petto contro petto, muscoli tesi (piccolo petto, deboli muscoli!), il sibilo di parole che fanno muro contro muro. O l’impiegato incarognito e deciso – il culocaldo (ma tu non eri dei loro?) – , che vuole entrare a tutti i costi in ufficio e odia senza sforzo sti studenti rompicazzo che stamattina glielo vogliono impedire. E scervellati poi a leggere documenti, dove sta scritto che la lotta economica (quella che stai assaggiando, quella degli altri) non basta. E orecchia, ascolta. Parlano, parlano gli altri. Non tu. Tu ascolti. Impari (credi di…). Parlano del sindacalista della Uil, che fregava i soldi delle tessere. Del potere operaio contro i sindacati pompieri. Degli operai tutta una vita in fabbrica. (E tu, che mai sei entrato dentro una fabbrica). Di D’Este, picchiato da operai aizzati contro di lui dai sindacalisti. Degli m-l, che conservano il marxismo in celle frigorifere. Adesso sei tutto un rammarico per non aver aperto gli occhi prima. Sei tutto un vano, tardivo rimprovero contro i professori di Salerno che, marchiati di fascismo – ma quello di filosofia non citava Croce? -, ti fecero saltare lo studio di Marx, perché poco importante. Leggi Marcuse sull’utilità di ricordare le offese. Ma R s’è addormentata stanca, senza salutarti. E tu chiudi la porta a chiave, sali sul motorino, parti nel freddo delle 21,30 per piazza Affari a fare il tuo turno di lavoro. E al mattino la ritrovi ingelosita. Altro peso da portare la gelosia d’una moglie. Lei che coi suoi bisogni ti trascina giù, in questa periferia di case impenetrabili; e che invidia le occasioni che hai di vedere la vita in movimento all’università.

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