Io e poesia di ricerca

Egon Schiele, Alberi autunnali

di Davide Morelli

Per secoli e secoli i poeti seguivano gli stessi canoni estetici. Rispettavano le regole della metrica. Scrivevano endecasillabi canonici. Talvolta li alternavano con dei settenari. Da Lucini in poi ci fu la diffusione del verso libero. Oggi la stragrande maggioranza dei poeti scrive in versi liberi, va a capo quando vuole. Nel novecento abbiamo visto molte rivoluzioni copernicane nell’ambito della lirica. Hanno creato nonsense, calligrammi, montaggi.  È comparsa anche la poesia concreta (a sua volta suddivisibile in poesia visiva e poesia sonora). Poi nell’epoca del postmoderno hanno pensato anche a delle sperimentazioni multimediali come la poesia elettronica (videopoesia e computer poetry). Da un lato, qui in Toscana, sembrava esserci la riscoperta dell’oralità con l’organizzazione di serate di poesia estemporanea, dove i poeti improvvisavano in ottava rima. Si sono diffusi, in tutta la penisola, anche gli slam poetry, importati in Italia dal poeta Lello Voce. Dall’altro lato sembrava che il virtuale avesse preso il sopravvento sui media tradizionali. Negli ultimi tempi sembra che sia sempre più difficile incasellare la poesia in una definizione, visto e considerato che ogni decennio nasce una nuova forma di poesia.

I poeti di ricerca sperimentano. Uno dei padri nobili di questa sperimentazione fu Burroughs con il cut-up, che consisteva nel tagliare parole dai quotidiani, mischiare e creare poesie. Oggi i poeti di ricerca utilizzano l’eavesdropping, cioè l’intercettazione di una frase di una conversazione origliata. In questo caso  non c’è alcuna autorità autoriale. I poeti di ricerca italiani si rifanno spesso al Flarf, movimento di avanguardia, creato da Gary Sullivan. Quest’ultimo utilizzava Google per scrivere poesie, assemblava i materiali verbali più eterogenei e definiva infatti il Flarf “un PC fuori controllo”. Anche i poeti di ricerca nostrani si dilettano nel googlism, cioè nel comporre poesie, assemblando i risultati su un determinato argomento, chiedendo quindi a Google. In questo caso utilizzano l’intelligenza collettiva del web. Ricordo che il primo ad utilizzare il computer, un IBM della Cariplo, fu Nanni Balestrini nel 1962. Il poeta ideò un algoritmo e il computer generò una poesia, che sembra scritta da un poeta umano[1]. I poeti di ricerca si  cimentano anche nel New Sentence, ovvero in frasi “paradossali”, spesso pseudoaforismi, pseudosentenze. All’estero alcuni autori creano poesie con i messaggi spam di posta elettronica. Sempre all’estero è diffuso il “found poem”, che nasce prelevando materiali da varie fonti (discorsi di politici, frasi di film, discorsi di star, eccetera eccetera), talvolta elaborandoli e altre volte no, e mischiandoli assieme. Esistono anche la micropoesia, ovvero un tipo di poesia brevissima al massimo di 140 parole, come i cinguettii su Twitter, e la poesia captcha, in cui estrapolano il testo scaturito dall’omonimo software. Recentemente in Italia il fotografo Silvio Belloni ha ideato la poesia dorsale, che consiste nel creare liriche, connettendo i titoli dei libri. Però la poesia dorsale, per ora, è praticata a livello, diciamo così, dilettantesco. Qualcuno ha sollevato dei dubbi sulla correttezza di questi metodi. Si tratterebbe di parole prese in prestito. D’altronde non esistono regole ferree nella “Fantastica” della poesia: è ammessa qualsiasi tecnica in quella che Rodari chiamava “Grammatica della fantasia”.

Il gruppo 63 voleva ridurre l’io, ma non eliminarlo perché è impossibile. Alfredo Giuliani scriveva nel 1961, introducendo l’antologia de Novissimi, che “La ‘riduzione dell’io’ è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente“. I motivi di questa riduzioni erano plausibili. Infatti Giuliani continuava così: “Io credo si debba interpretare la ‘novità’ anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei ‘contenuti’. Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella ‘realtà matrigna’ cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo”. I futuristi volevano eliminare l’io lirico[2], usando i verbi all’infinito. La poesia di ricerca[3] vorrebbe escludere l’io lirico. Alcuni autori si lasciano scappare la frase “va eliminato l’io”. Siamo sicuri che si tratti solo dell’io lirico? Nutro dei seri dubbi e in questo mio scritto esporrò tutte le mie perplessità. Mi auguro di sbagliarmi. Voglio spiegare i potenziali danni di una eliminazione non solo dell’io lirico ma dell’io freudiano: questo è il grande rischio. Forse alcuni rimarranno delusi per il razionalismo e le verità “lapalissiane” di questo scritto. Mi scuso quindi per le volgarizzazioni e le semplificazioni. D’altronde non sono un addetto ai lavori, ma solo un disoccupato, appassionato di poesia contemporanea. La premessa implicita di questo saggio breve è che a mio avviso i poeti di ricerca potrebbero fare meglio, vista e considerata la loro levatura intellettuale e la loro ricchezza di contenuti. In queste righe cercherò di valutare le loro dichiarazioni di intenti e alcuni aspetti della loro poetica. Forse per alcuni filosofeggerò troppo, ma la poesia contemporanea è caratterizzata dall’estrema concettualizzazione. Sicuramente va preso atto che questi autori hanno trovato un nuovo modo di fare poesia. Ma andiamo al nocciolo della questione. Franco Fortini in “Verifica dei poteri” parlava di “mare dell’oggettività” per Calvino e di “cosismo” per Vittorini. Gli stessi termini, a mio avviso, si potrebbero adoprare per la poesia di ricerca, che  riduce ai minimi termini la soggettività autoriale. L’io però è una metafora, alla fine: è un contenitore che contiene molte voci. Anche questo bisogna tenerlo presente. La poesia italiana degli ultimi secoli, secondo Guido Mazzoni[4], è figlia dell’egocentrismo, a causa dell’individualismo borghese. Insomma c’è troppo io. Non discuto dell’autorevolezza e della grande competenza del Mazzoni, ma non fidiamoci troppo però di chi usa pronomi diversi dall’io in poesia. Gli altri, il mondo possono essere frutto delle capacità allucinatorie, anche se l’autore può sembrare di primo acchito aperto al mondo. Oppure la narrazione degli altri può essere influenzata in modo determinante da proiezioni ed essere quindi un meccanismo di difesa di un io in crisi.

Per Marx l’io è determinato dalla formazione economico-sociale, ovvero dalle relazioni sociali, dalla struttura economica, dalla sovrastruttura ideologica.  Per Freud l’io ha la centralità nell’adulto, anche se “non è padrone a casa propria” perché subisce l’influsso dell’inconscio e del Super-Ego: è tra l’incudine e il martello. Esiste anche la psicologia dell’io, che è una branca della psicanalisi. Più recentemente è nata anche la psicologia del Sé[5]. Non cito le moderne neuroscienze perché come scrisse Maurice Merleau-Ponty: “L’intero mondo della scienza è costruito sulla vita, eppure la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell’esperienza soggettiva”[6].

La poesia di ricerca addirittura tenta con l’asemico[7] di azzerare il significato e di estendere paradossalmente il polisemico. Diciamo che la scrittura asemica è Test di Rorschach per antonomasia. Regna l’inconscio. La coscienza, l’io viene relegato ai margini. Un’altra caratteristica della poesia di ricerca è quella di considerare impoetica l’assertività. Ma ciò non è forse anche esso assertivo? I poeti di ricerca – mi si scusi il gioco di parole- sostengono di non essere assertivi, ma affermando ciò lo sono: si verifica quindi il paradosso del mentitore. Diciamo, più seriamente, che non saranno assertivi nelle loro poesie, ma lo sono troppo nella loro poetica. Inoltre mi sembra che un’altra caratteristica di questo genere di poesia sia la ricerca di provocare lo shock, lo straniamento nel lettore. A mio modesto avviso il pregio della poesia di ricerca è quello di essere un fattore di rottura rispetto alla tradizione, ma non si può imporre come paradigma dominante. Un altro pregio è quello di aver gettato un poco di scompiglio nel panorama asfittico della poesia italiana. Un altro pregio ancora di questi autori è il gusto del divertissement. Mi auguro quindi che non si prendano troppo sul serio e non finiscano nell’accademismo. Il problema è che resta poco, quando  prevale  il gioco combinatorio dell’autore e scompare l’autore: resta solo l’arte combinatoria  e forse è ben poco per rinnovare la poesia contemporanea.

Apro una parentesi. A Firenze nel 2010 è nata una nuova comunità artistica o aspirante tale: il mep (movimento di emancipazione della poesia). Hanno un loro sito internet ed una loro pagina facebook. Fanno volantinaggio. Affiggono le loro poesie sui muri dei vicoli dei centri storici di diverse città. Il mep non sporca i monumenti e gli edifici storici. Per il resto lascia le poesie nei posti più disparati: sui cofani delle macchine, nelle biblioteche, nei bar. Nessuno si firma. Tutti utilizzano un codice sia perché vogliono una poesia spersonalizzata sia perché le affissioni sono abusive. Perciò l’anonimato è un obbligo. Il movimento è formato da universitari, ma non mancano gli studenti delle scuole medie superiori e giovani post-universitari. È nato a Firenze, ma si sta diffondendo in molte città italiane. Staremo a vedere in futuro come si evolverà questo movimento. I giovani del mep non si firmano. In questo caso viene eliminato l’io empirico. Sono anche loro i poeti-massa di cui scrive Ennio Abate.

Torniamo ai poeti di ricerca, che non si contano certo sulle dita di una mano. In questa definizione possono essere compresi tutti coloro che fanno poesia sperimentale. Sono il contropotere rispetto agli autori Einaudi o Mondadori, ma non è detto che domani siano loro il potere. Sono quindi molti di più di quelli che sono stati canonizzati, ovvero antologizzati dai critici. I migliori in Italia sono quelli antologizzati dal volume “Prosa in prosa”, che è un libro divertente, ironico, autoironico, spassoso, caratterizzato da un notevole spessore culturale. Consiglio a tutti di acquistarlo per farsene una idea. Il merito maggiore di questi autori è di aver trasceso lo storytelling così in voga in Italia, come ha evidenziato Paolo Giovannetti[8]. Ma cosa è “la prosa in prosa”? Potremmo, semplificando un poco, definirla come una scrittura  che non va a capo e che viene percepita lo stesso da gran parte dei critici e dei lettori come poesia. Tra questi artisti sperimentali ci sono sicuramente delle eccellenze, ma qui vorrei trattare delle loro premesse teoriche. Non voglio lodare nessuno (è innegabile comunque che la qualità letteraria di questa corrente è molto elevata, anche se talvolta di nicchia. I capiscuola di questa corrente sono talentuosi e scrivono magistralmente. Entreranno a pieno diritto nella storia della letteratura) e neanche stroncare nessuno; non ne avrei l’autorità.  Vorrei ad ogni modo disquisire sui presupposti teorici senza fare un processo alle intenzioni. D’altronde riflettere su di essi è legittimo, perché nell’arte bisogna sempre valutare la poetica, anche se è la gestalt finale che conta. Vorrei quindi analizzare concettualmente questo tipo di poesia.

A mio avviso i poeti in questione hanno almeno tre cose in comune: il voler sminuire l’io, l’essere raffinati letterati e il raro pregio di essere intellettuali non cortigiani, ma spesso militanti. Direi che questi nuovi poeti cercano un rimodernamento in seno alla “tradizione del nuovo”.  Per alcuni la maggior parte della poesia italiana di questi anni è caratterizzata dall’ ”epigonismo lirico”, ma anche tra i poeti di ricerca e la neoavanguardia c’è una parentela. Anche per il gruppo 63 si parlò di neooggettualismo, ma questo gruppo considerò anche l’arte come “fabbrica di antislogan” e demifistificò la civiltà consumistica, ritenuta alienante e mercificante. Non solo: la neoavanguardia rifletteva la crisi della società neocapitalista e la crisi dell’uomo moderno. Tutto ciò allora era innovativo. Una cosa che non mi convince nella poesia di ricerca è la considerazione negativa della poesia lirica, in quanto espressione dell’io. A mio avviso la poesia lirica è anche ricerca di corrispondenze, uso di figure retoriche, ritmo e immagini. È possibile che i poeti di ricerca vogliano delegittimare le impressioni, le sensazioni e i sentimenti? Uno scrive poesie per cercare un poco di libertà e invece a conti fatti non ha nemmeno più la libertà di scrivere il pronome “io”! Personalmente trovo del tutto legittima la poesia come espressione dell’io: anche quella più incentrata tutta sulla capacità introspettiva, a costo che non sia troppo egocentrica e troppo prigioniera dell’io. La lirica può essere considerata conoscenza anche per la descrizione degli stati interiori dell’individuo. La poesia lirica può avere come limite quello di riguardare una dimensione privata e risentire troppo della personalità dell’autore. È ovvio che bisogna guardarsi bene dagli eccessi del lirismo, come il narcisismo e il compiacimento. Su questo hanno ragione i poeti di ricerca, che sono salutari quando contrastano l’ipertrofia dell’io di diversi poeti lirici. Però, secondo il più recente approccio post-razionalista, ogni individuo, tramite la propria esperienza, cerca di dare un senso al mondo.  Nessun autore può giungere a una rappresentazione  oggettiva perché nessuno è privo di condizionamenti e pregiudizi. L’oggettività è sempre pretesa.  Ogni poeta ha un suo sguardo sul mondo e come sostiene Vittorio Sgarbi “la bellezza è oggettiva. La visione è soggettiva”[9]. Il rispecchiamento fedele e imparziale non esiste. Direi che nella poesia lirica prevale l’io, invece nella poesia di ricerca gli oggetti e l’inconscio. E del noi chi se ne occupa?

C’è chi rispetto alla poesia di ricerca ha parlato di “annichilimento dell’io”. Forse è per raggiungere l’oggettività? Mi sembra quasi che questi nuovi poeti vogliano riprendere l’impersonalità del naturalismo francese e del verismo di Verga. Oggettivare il mondo è solo un’espressione. Si può anche dire “oggettivare uno stato d’animo”, che significa solo esprimere uno stato di coscienza. La realtà è la nostra costruzione logica e non solo: dipende anche da fattori psichici ed esistenziali. Per gli esistenzialisti ognuno ha la sua intuizione del mondo.

Ho l’impressione che i poeti di ricerca non stimino coloro che vengono definiti poeti lirici. Eppure qualsiasi tipo di poesia è una interazione tra io e mondo. Bisogna ricordarsi a tale proposito del criticismo kantiano (si pensi allo schematismo trascendentale) e di Schopenhauer, secondo cui il mondo è sempre una rappresentazione del soggetto e quindi della coscienza. Per Schopenhauer tutto quello che conosciamo si trova nella coscienza. Qui non si tratta di ritornare a essere platonici o idealisti in senso assoluto. Il soggetto non può determinare tutta la realtà. Non si tratta neanche di subordinare l’oggetto al soggetto o viceversa. Si tratta invece di considerare la continua correlazione tra soggetto e oggetto. L’oggettività in poesia è solo supposta. Possono certamente criticare l’introspezione e la ricerca di interiorità perché possono ritenere che uno in questo modo guardi il proprio ombelico. Però il mondo è una nostra percezione. Niente altro. Un tempo si diceva che l’idealista pensa e il realista conosce. Oggi invece in ambito scientifico si sta sempre più affermando il costruttivismo[10]. Non si può essere realisti a tal punto da mettere tra parentesi l’io. Il mondo là fuori non ci viene dato in base alle proprietà intrinseche dei fenomeni. Noi conosciamo le cose sia perché abbiamo una coscienza, sia perché esse sono intellegibili.

Potremmo affermare filosoficamente che la ricerca della verità umana è basata sulla compartecipazione di soggetto e oggetto. In psicologia si usano altri termini e si dice che esiste una interdipendenza tra osservatore e realtà osservata. Il concetto comunque è lo stesso. Naturalmente bisogna considerare che l’osservatore modifica sempre ciò che osserva e che l’osservatore fa a sua volta parte di quel che osserva. La poesia di ricerca quindi, al di là del talento dei suoi rappresentanti, mi sembra fondata su presupposti e su premesse errate. La realtà sensibile non può essere una cosa a sé stante. La coscienza è un flusso continuo, una continua interconnessione tra soggetto e realtà. Non si può fare a meno dell’io nella poesia.

La poesia, anche oggi, può essere sperimentale, può cercare di rinnovare il linguaggio come le avanguardie; può essere satirica, didascalica, religiosa (come fu quella di Turoldo, Rebora), aforistica, spirituale; può essere poesia sociale, può descrivere epifanie, può ricercare “corrispondenze”, può esprimere un sentimento amoroso; un poeta può scrivere anche metapoesia. In caso di metapoesia o poesia didascalica non mi sembra che un poeta esprima solo sentimento, come si intende per la poesia lirica.  Trovo in molti giovani poeti la ricerca di originalità a tutti i costi. Spesso l’innovazione è cercata utilizzando l’inconscio o una cosiddetta poesia degli oggetti. Per la neoavanguardia bisognava compiere “una riduzione dell’io”. Molti allora pensarono che essere “oggettuali” significasse essere oggettivi.  A mio avviso c’è il rischio di fare una elencazione di oggetti più che scrivere una poesia.  Non si può far parlare solo l’inconscio che si relaziona agli oggetti.  Anche in Sanguineti l’io è presente. Il professor Romano Luperini in “Il Novecento (apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea)” riguardo a Sanguineti parla di “autocommiserazione ironico-patetica” (pagina 838). Nemmeno Sanguineti è riuscito a “destituire l’io”. A mio modesto avviso sarebbe meglio se molti cercassero un equilibrio tra conscio e inconscio, tra io ed oggetti. Infine manca forse qualcosa alla poesia di questi ultimi anni: il Noi, gli altri soggetti, gli altri insomma a cui relazionarsi. Manca anche la capacità di vivere la poesia in modo totalizzante, come fecero Adriano Spatola e Giulia Niccolai negli anni settanta al mulino di Bazzano, fondando “la Repubblica dei poeti”[11]. Il problema, a mio modesto avviso, è che viviamo in una società asociale. I nostri io sono quasi delle monadi. Eppure la psicologia insegna che nelle prime fasi della vita l’interpsichico determina l’intrapsichico. Dimostrazione di questo è il fatto che i bambini che crescono nei primi anni di vita nella foresta, in modo selvaggio, senza altri umani, non riescono più a parlare e non sanno più interagire dignitosamente con altri, anche se vengono educati successivamente da degli scienziati[12]. Ritornando a questa società, da una parte c’è l’omologazione descritta da Pasolini, ovvero l’uniformazione dei modi di essere, di pensare e dei gusti. Ogni mutazione  avviene tramite variazione (stabilita ad esempio nei consigli di amministrazione delle multinazionali) e fissazione (tramite l’affermazione della novità con la pubblicità). Non a caso Pasolini aveva mutuato il termine dalla biologia. L’omologazione avviene in gran parte, per ora, tramite la TV. Dall’altra parte c’è la bolla di filtraggio su internet, la cosiddetta filter bubble. Ognuno è chiuso quindi nella sua storia, nella sua bolla. La tecnologia ci isola. Ognuno appena ha un momento di tempo libero si isola e sta a smanettare al telefonino. Oppure in casa ogni familiare sta chiuso nella sua camera a guardare la TV. Insomma siamo sempre più isolati. Ma questo non significa che si è in grado di essere autenticamente se stessi. La risultante di queste due forze (omologazione e bolla di filtraggio), apparentemente contrapposte, è l’immobilismo sociale. Abbiamo individualismo e “de-individuazione” (qui da intendersi come perdita della propria identità ed interiorità. Non come la intendeva Zimbardo) allo stesso tempo. La società di massa è spersonalizzante e ci condanna all’anonimato, all’appiattimento, al livellamento. Abbiamo tutte le libertà tranne quella di pensare, come cantava Gaber. Siamo liberi, ma dobbiamo muoverci in un certo raggio di azione. Non possiamo deragliare dai binari stabiliti. Altrimenti diventiamo devianti! Ad ogni modo essere noi è sempre più difficile. Per dirla in termini sociologici siamo in una società con uno scarso senso della comunità. È avvenuto un netto depotenziamento dell’io. È avvenuta la disgregazione dell’io. Siamo quasi tutti prodotti in serie. È avvenuta anche la disgregazione sociale. È avvenuta anche la disgregazione del noi. Si guardi ai giovani. Gli unici luoghi di aggregazione sono i vari divertimentifici, che talvolta stordiscono. Abbiamo quindi anche il tempo libero “alienato”. L’interpsichico è ridotto ai minimi termini. È sempre più arduo pensarsi, dirsi ed essere noi. Ma è altrettanto difficile riappropriarsi dell’io ed essere veramente se stessi. La poesia, in mancanza del noi, dovrebbe almeno essere espressione autentica dell’ io. Dovrebbe affermare la nostra unicità ed irripetibilità. Ma spesso questo non avviene.

Inoltre cosa è veramente l’io? Cosa è la coscienza[13]? L’io per Freud è quella parte della psiche che media tra le pulsioni dell’Es e il Super-Ego. Senza l’io non c’è quindi oggettività, ma un essere in balia delle altre due forze. Ridurre l’io significa sottrarre una parte a noi stessi. Forse ridurre l’io significa eliminare qualche problema, ma aggiungerne molti altri in più.  Per secoli si voleva rimuovere l’inconscio. Un tempo in poesia si voleva rimuovere il Super-Ego (poeti maledetti, Scapigliati) . Ora si vuole rimuovere l’io. Invece non bisogna cercare di rimuovere nessuna di queste tre istanze psichiche. Queste istanze psichiche vanno tutte affrontate. Se non affrontiamo noi stessi non possiamo affrontare degnamente neanche gli altri. A mio avviso il rischio della poesia di ricerca è quello di iniziare con l’eliminazione dell’io lirico e di finire quasi con l’eliminare l’io freudiano. Secondo alcuni bisognerebbe scegliere tra l’io e il mondo e lo dicono/scrivono come se non si dovesse privilegiare l’uno piuttosto che l’altro, ma come se ci si trovasse di fronte ad un aut aut impietoso. In realtà l’uno non esclude mai l’altro. Non si tratta di giocare a biliardo e mandare in buca l’io, come vorrebbero in molti oggi in poesia, anche se capisco il disprezzo di fronte all’ipertrofia dell’io e alle persone egoriferite.  Ad onor del vero la realtà umana è un quadro di riferimento, che include sia l’io che il mondo. L’io e il mondo fanno parte del medesimo circuito. C’è una interazione continua tra io e mondo. Ogni io, anche quello più alienato, si specchia nel mondo. Il mondo ritorna sempre in ogni io. Ci sono dei dati oggettivi nella percezione del mondo, che fanno in modo che possiamo condividere la realtà e comunicare tra di noi. Ci sono verità evidenti per i sensi (quella è una sedia, quella è una mela); altre apodittiche a livello logico; altre basate su delle convenzioni e sul senso comune; altre invece sono attendibili, come ad esempio le informazioni che formano la conoscenza scientifica e sono inconfutabili fino a quando degli esperimenti non le falsificano[14]. Non tutto comunque è opinabile e in questa realtà siamo provvisti di alcune certezze. C’è ad ogni modo un significato condiviso e comune del mondo. Ci sono anche molti altri elementi particolari che costituiscono l’unicità e l’irripetibilità della visione del mondo di ognuno. Come si suol dire, siamo per certe cose tutti uguali e per certe altre tutti diversi.  Inoltre, come sosteneva Popper[15], osservare non è un verbo intransitivo. Si osserva sempre qualcosa e questo qualcosa lo si sceglie in base a delle aspettative precedenti. Ognuno conosce in base alla sua esperienza. Nessuno è tabula rasa. Ciò può essere un pregio o un difetto a seconda dei casi: più semplicemente è così che siamo fatti. Ognuno, ancora una volta, conosce a modo suo. È per questa ragione che in poesia chi aspira all’oggettività può ottenere soltanto l’oggettualità. In realtà ognuno ha la sua visione del mondo, formata anche da una quota parte imprescindibile di soggettività.

Secondo il filosofo Goodman[16] i modi di “fare” (interpretare/rappresentare/descrivere) il mondo sono tanti quanti gli uomini. Sono tanti quante le menti umane perché ogni mente è diversa: i gemelli omozigoti sono uguali in tutto, ma le loro menti invece sono diverse. Secondo lo psicologo George Kelly noi adattiamo continuamente il mondo alla nostra personalità e ai nostri schemi cognitivi. Questa raffigurazione/testualizzazione del mondo avviene ogni giorno ed è quindi dinamica. Neanche chi delira è fuori da questo circolo ermeneutico perché secondo gli psichiatri il delirio è una interpretazione del mondo, anche se errata o meglio non condivisa/condivisibile (si pensi soltanto alla pericolosità sociale ed alla desiderabilità sociale). La comunità si dà quindi delle regole e delle restrizioni nell’interpretazione. Secondo Nietzsche “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. Ognuno ad onor del vero ha la sua “versione” del mondo e nessuna è onnicomprensiva; nessuno può dire l’ultima parola sul mondo: ecco perché abbiamo sempre bisogno di scambiarci informazioni, parlarci, relazionarci. Ognuno aggiunge una tessera al mosaico dell’altro. Noi interagiamo con il mondo di fuori ed alcune cose le percepiamo esattamente, come tutti gli altri esseri umani, mentre invece altre le percepiamo soggettivamente. Ci sono alcuni elementi in comune con il modo con cui le altre menti percepiscono il mondo. Altre cose invece le vediamo in modo diverso. Descrivere come percepiamo il mondo è estremamente complesso. Ci poniamo mille domande, ma non abbiamo nessuna certezza. Il mondo naturalmente esisterebbe anche senza di noi (sostengono i realisti). La realtà non è prodotta dalla mente cosciente, ma l’io è l’unica modalità in grado di distinguere io e non io, di percepire, di descrivere e nominare il mondo. Senza l’io il mondo non sarebbe più oggetto di indagine. Non ci sarebbe più nessuna indagine. Ecco perché l’io, ovvero la coscienza è importante!

Ma passiamo ad altro. Cito testualmente: “La prosa in prosa è letteralmente letterale vuol dire quello che dice nel momento in cui lo dice dopo averlo detto e la prosa in prosa come poesia dopo la poesia se esistesse avrebbe letteralmente, propriamente, l’unico stupidissima senso che sta dicendo cos’è.” (Jean-Marie Gleize. La traduzione è di Michele Zafferano. Da” Prosa in prosa”). Gli autori di “Prosa in prosa”, come sottolineato da Paolo Giovannetti, vogliono raggiungere “il grado zero della connotazione”, teorizzato da T. Todorov. Per  i poeti di ricerca molto probabilmente  “una rosa, è una rosa, è una rosa”[17], come scriveva Gertrude Stein. A mio modesto avviso invece in poesia una rosa non è solo una rosa perché può avere diverse connotazioni (che possono essere anche considerate delle sfumature emotive. Anche la nominazione più precisa può avere quindi una sua vaghezza), può provocare le più svariate “corrispondenze” tra l’io e l’oggetto (più banalmente risonanze interiori). Inoltre ogni oggetto può essere suggestivo, può ispirare l’artista. Joyce ha insegnato che qualsiasi cosa può essere rivelatrice e chiarire l’esistenza. L’arte anche per questo motivo dimostra di essere ineffabile. Le “corrispondenze” tra gli stati d’animo e il mondo non solo variano da individuo ad individuo ma anche di giorno in giorno e di istante in istante. Cambiamo continuamente noi. Cambia continuamente il mondo. Di conseguenza cambiano continuamente le corrispondenze. Ogni artista quindi deve sempre cogliere le occasioni perché le corrispondenze hanno carattere episodico. I pensieri sono casuali, come le gocce di pioggia sull’asfalto. Sta al poeta mettere ordine tra i suoi pensieri. Una rosa non solo può suscitare diverse sensazioni, ma anche portare ai più svariati simbolismi. A essere più puntigliosi il poeta rappresenta più che descrivere ed ogni rappresentazione possiede deformazioni e approssimazioni. Eludere l’io, occultarlo per avere uno sguardo diretto ed oggettivo è impresa impossibile.  Tutto ciò è paradossale. Invece bisogna considerare che esiste sempre una componente emotiva dell’artista: la sua soggettività. C’è sempre un quid mentale e parziale, così come è innegabile che esiste una realtà in certa parte comune e condivisibile. Spesso viene stimato grande poeta colui che riesce a descrivere sensazioni, emozioni o pensieri, che la maggioranza delle persone fino ad allora non vedevano, come il fanciullino del Pascoli. Cercare di eludere l’io per vedere meglio le cose, per distanziarle, per vederci più chiaro è impresa vana a mio avviso. In questo senso nessun artista può registrare oggettivamente il suo inconscio. È impossibile. Deve esserci sempre la mediazione della coscienza. Inoltre l’inconscio è per gran parte inattingibile e la coscienza non può accedere totalmente ad esso: molte zone restano inesplorate. Infine Gian Luca Picconi ha parlato di “soggettivazione di gruppo” per gli autori di “Prosa in prosa”. Questa “soggettivazione di gruppo” può andare bene in una antologia, ma di che cosa se ne fa un lettore comune, quando legge la silloge di uno di questi poeti? Forse ben poco. Ogni poeta in definitiva, grazie alla sua soggettività, è unico. È anche grazie alla soggettività che un poeta inventa un linguaggio o rinnova il linguaggio. Ognuno, anche il più mediocre, ha la sua angolatura e da questa scaturisce la sua particolare prospettiva. Si usa dire che un artista apre un mondo quando trova un nuovo filone di cose, ovvero rappresenta un mondo che fino ad allora non era stato rappresentato[18]. Per Claudio Magris il poeta è “un nessuno che parla per tutti”[19]. Un poeta lavora per intuizioni verbali, piccole rivelazioni gnomiche, illuminazioni liriche. È efficace quando le sue parole riescono ad essere evocative, quando riesce ad esprimere il fluire di immagini nella sua mente e anche quando riesce ad accostare cose lontane tra di loro. Un artista può rappresentare una nuova realtà oppure se è della neoavanguardia può cercare di trovare un nuovo linguaggio, cercando di dare forma all’informe. L’artista è tale quando fa diventare universali i suoi pensieri e le sue percezioni.

Note

[1] Ecco la poesia in questione:

NANNI BALESTRINI

(Da Almanacco Letterario Bompiani – Bompiani, 1962)

TAPE MARK I

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.
 
I capelli tra le labbra, esse tornano tutte
alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco
io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita
lentamente, e malgrado che le cose fioriscano
assume la ben nota forma di fungo, cercando
di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.
 
Nell’accecante globo di fuoco io contemplo
il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine
delle cose accade, la testa premuta
sulla spalla: trenta volte più luminose del sole
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.
 
Giacquero immobili senza parlare, trenta volte
più luminosi del sole essi tornano tutti
alla loro radice, la testa premuta sulla spalla
assumono la ben nota forma di fungo cercando
di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano
si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.
 
Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante
globo di fuoco, esse tornano tutte
alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse
le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera
e giacque immobile senza parlare, trenta volte
più luminoso del sole, cercando di afferrare.
 
Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita
lentamente nell’accecante globo di fuoco:
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole
giacquero immobili senza parlare, si espandono
rapidamente cercando di afferrare la sommità.

[2] L’io lirico è la voce interiore nella poesia. Non è detto che coincida sempre con l’io empirico, ovvero con l’autore in carne ed ossa. L’io lirico può essere anche in un certo qual modo fittizio. Si veda ad esempio Pessoa ed i suoi eteronimi. L’io lirico può essere anche un alter ego.

Un saggio sull’io lirico: http://www.leparoleelecose.it/?p=20689

[3] Sulla poesia di ricerca: http://www.leparoleelecose.it/?p=34663

https://www.glistatigenerali.com/letteratura/mappa-poesia-italiana-26082017/

https://www.versanteripido.it/prosa-o-poesia-di-francesco-di-lorenzo/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/21/humpty-dumpty-e-poesia-di-ricerca-in-italia/688793/

[4] “Sulla poesia moderna” di Guido Mazzoni (Il Mulino, Bologna, 2005)

[5]https://www.treccani.it/enciclopedia/io-se_(Enciclopedia-Italiana)/#:~:text=Il%20concetto%20di%20Io%20diviene,cio%C3%A8%20psicologia%20dell’Io)

[6] “Fenomenologia della percezione” di Merleau-Ponty (Bompiani, Milano, 2003)

[7] https://www.alfabeta2.it/tag/enciclopedia-asemica/

[8] “Prosa in prosa” (Tic edizioni, Roma, 2020)

[9] “Lezioni private 2” di Vittorio Sgarbi (Mondadori, Milano, 1997)

[10]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Costruttivismo_(psicologia)

[11] “La repubblica dei poeti. Gli anni del mulino di Bazzano. Con DVD” di D. Rossi (cur.) e E. Minarelli (cur.) (Campanotto, Udine, 2010)

[12]https://www.focus.it/ambiente/animali/le-vere-storie-dei-ragazzi-selvaggi

[13] In letteratura esiste il flusso di coscienza. Basta leggere la Woolf, H. James, W. Faulkner, Joyce. Gli scrittori inseguivano i loro pensieri senza punteggiatura. La loro scrittura registrava i dati psicologici, la loro interiorità; descriveva la loro mente, che vagava da una idea all’altra. Allora la mente non era ancora considerata esclusivamente un insieme di processi fisico-chimici. Naturalmente da allora è innegabile che siano stati fatti dei passi in avanti perché non si parla più di spirito e sappiamo che, privati del sistema limbico, non sapremmo più provare emozioni. Secondo la psicologia la coscienza è innanzitutto autoconsapevolezza. È allo stesso tempo consapevolezza del vissuto e responsabilità delle proprie azioni. Per Jaspers è “la vita psichica di un dato momento”. È autoriconoscimento, memoria di sé, percezione di sé, conoscenza di sé, senso di sé; recentemente i neuroscienziati hanno parlato di sé autobiografico, ovvero conoscenza del proprio passato e presente. Coscienza significa accorgersi anche degli stimoli esterni. Coscienza è attenzione. È consapevolezza della propria identità. È organizzazione psichica di attenzione, memoria, linguaggio, desideri, intenzioni, emozioni, valori, stati mentali. Secondo il cognitivismo è anche metacognizione, ovvero conoscenza delle proprie operazioni mentali. Tutto ciò risulta in parte labile ed ineffabile. A tal riguardo dobbiamo ricordarci che il Sé è sempre sfuggente ed elusivo. Molte cose che sappiamo della coscienza le sappiamo grazie all’introspezione. La coscienza è ancora oggi un mistero.

[14] Dopo il principio di complementarietà di Bohr e il principio di indeterminazione di Heisenberg la scienza dipende non più da un rapporto di causa-effetto, ma da leggi di tipo statistico-probabilistico.

[15] “Congetture e confutazioni” di K. Popper (Il Mulino, Bologna, 2009)

[16] “Vedere e costruire il mondo” di Nelson Goodman (Laterza, Bari 2008)

[17]https://en.m.wikipedia.org/wiki/Rose_is_a_rose_is_a_rose_is_a_rose

[18] La rappresentazione non è mai totalmente fedele. La realtà è una commistione di drammaticità, tragedia, comicità, erotismo, mistero, etc etc. Noi non possiamo immagazzinare tutti gli stimoli del reale e ne selezioniamo solo alcuni per un puro fatto di economia cognitiva e per i nostri limiti mentali. Nella rappresentazione ne scegliamo solo alcuni da mostrare. La realtà ha moltissime sfaccettature e noi ne evidenziamo solo alcuni aspetti salienti. Sono illimitati i rapporti che un fatto, una cosa o un soggetto può avere con altri fatti, cose o soggetti. È impossibile prendere in esame l’immensa eterogeneità del reale e l’enorme casistica degli eventi. Gadda scriveva dello “gnommero”. Montale a tal riguardo scrisse della “matassa da disbrogliare”. Per Vincenzo Gioberti la verità è “un immenso poligono” dai lati infiniti. L’immaginazione umana è anche essa un immenso poligono dai lati infiniti. Quindi anche i più alti ingegni umani non possono che rappresentare tutto ciò in modo parziale. La realtà è un enorme caos. Noi possiamo solo cercare di fare dei modelli del reale. Possiamo solo dare una forma al caos. Ogni opera subisce perciò una deformazione in base al punto di vista e alla prospettiva dell’autore.  La realtà umana è costituita da una illimitata molteplicità di eventi e di stati mentali. La realtà umana in fondo è una continua interazione tra io e mondo. È un continuo feedback. La realtà non esisterebbe senza i fenomeni neurochimici del nostro cervello, che ci permettono di rappresentarla. Quella che alcuni chiamano oggettività è solo una conoscenza condivisa. L’arte è un impasto di oggettività e soggettività. Anche gli artisti più realisti, che vogliono dare una visione il più possibile impersonale e distaccata della realtà, non possono mai essere totalmente oggettivi. In definitiva l’arte non dipende solo dalla verosimiglianza e dal realismo raggiunti. Una scoria di soggettività resta sempre. Per Picasso in fondo “l’arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità”.

[19] “Alfabeti” di Claudio Magris (Garzanti, Milano, 2008)

 

45 pensieri su “Io e poesia di ricerca

  1. Gent. Davide Morelli, rispondo un po’ a braccio alla sua lunga relazione. Intanto vorrei che tutti i disoccupati investissero il loro tempo libero in questo modo!
    Trovo che il suo intervento critico abbia anche un non trascurabile valore e risvolto di aggiornamento culturale per molti, compreso il sottoscritto. La carne messa al fuoco è tanta…
    Come lei forse saprà non sono un saggista, ma solo un modesto narratore. Il che, tuttavia, mi consente di confrontare questa mia esperienza con le sue riflessioni. Preventivamente valuto che lei inclina verso la fenomenologia husserliana, anche se non la cita. In questo mi trova d’accordo, l’ho sempre considerata come una delle espressioni più veritiere della filosofia contemporanea.
    I percorso sperimentali della poesia che lei ha citato li associo, come critico d’arte, a quelli dell’arte contemporanea dove io, che sono cresciuto e mi sono alimentato in un contesto di pittura figurativa, posto di fronte a un’opera contemporanea devo rinunciare a occhi e cervello per capirne qualcosa.
    Ma veniamo a quello che è il tema fondamentale del suo scritto: il valore o la funzione dell’io nella poesia e, nel mio caso, nella narrativa. Trovo, come lei, campata per aria l’idea di voler eliminare dall’attività creativa letteraria questo nucleo, questa essenza soggettiva che è l’energia che ne alimenta il motore.
    Molti anni fa un docente che presentò un mio romanzo agli alunni del suo corso all’Università Ca’ Foscari di Venezia disse, a mo’ di elogio, che avevo conquistato ‘la terza persona’. Io non volli ribattere per cortesia, ma dentro di me pensai che questa ‘terza persona’ era più intrisa che mai del mio ‘io’. Vero è che uno scrittore dovrebbe prescindere dal proprio ‘io’ per calarsi negli altri personaggi e nelle situazioni esteriori che si appresta a raccontare (nella misura in cui gli viene concesso dal fatto che è sempre lui che li ‘filtra’).
    Penso che eliminare l’io significhi scacciare il diavolo dalla porta per vederselo rientrare, moltiplicato, dalla finestra.
    Non mi dilungo più di tanto su questa questione teorica; le rinnovo i sensi del mio sincero apprezzamento per il suo lavoro e, visto che lei è di Firenze, le confido che sono un appassionato lettore di Mario Luzi, che ho avuto la fortuna di incontrare a Verona, e di apprezzarne la grande e squisita personalità. Era accompagnato da Gilberto Lonardi, che fu premiato a Firenze per i suoi studi su Montale, e del quale ho avuto il privilegio di essere allievo. Contestai a Luzi che è facile per un toscano esprimersi in italiano, sua lingua madre, mentre un veneto come me deve sputare sangue. Mi spiegò con molta pazienza che, per un poeta, le cose non stanno proprio così…
    L’ultima volta venni a Firenze due anni fa per rendere omaggio alla tomba di Oriana Fallaci, nel Cimitero degli Allori, dietro sollecitazione di mia moglie che vede in lei una grande italiana. A leggere sul marmo ORIANA FALLACI/SCRITTORE mi sono venuti i brividi…

  2. Gent. scrittore Franco Casati,
    la ringrazio molto per l’attenzione. Mi fa molto piacere che una persona di cultura come lei l’abbia apprezzato. Questo mio saggetto l’ho pensato, riveduto e corretto più volte; l’argomento è complesso. Può darsi che qualcuno ravvisi delle contraddizioni, ma anche io ho molti difetti, poi la stessa realtà è contraddittoria e se valutassimo molti aspetti del reale sotto il punto di vista logico troveremmo che non soddisfano il principio di non contraddizione. Se ho fatto qualche critica ai poeti di ricerca è per il fatto che hanno le spalle larghe, hanno talento e spessore. Sono sicuro che molti di loro avranno un grande futuro. Sono dell’avviso che si può fare delle critiche pubblicamente in poesia solo a chi è affermato. Non le farei mai ad un esordiente. Per il resto io sono di Pontedera ed ho frequentato da giovanissimo il movimento umanista fiorentino. Mi ha aiutato molto a sbloccarmi psicologicamente e a relazionarmi con le persone. Un cordiale saluto.
    Con stima

  3. Davvero, per quel che posso giudicare, una panoramica a trecentosessanta gradi sulle tendenze e le impasse della poesia moderna e contemporanea, di cui noi lettori dobbiamo ringraziarla. E una difesa a tutto campo dell’Io e del soggetto, ultimamente piuttosto bistrattati a favore della rete, delle connessioni, dell’instabilità delle componenti, della frammentazione nel tempo ecc.; una difesa nonostante la consistenza nient’affatto granitica dell’Io e una sostanziale opacità della coscienza a se stessa, come lei fa giustamente notare nella nota 13.
    La scelta di campo che emerge dal suo saggio non potrebbe avere più accesa sostenitrice di me. Eppure negli ultimi tempi la mia fede vacilla. Come non vedere che tutto si è indebolito e continua a indebolirsi, perfino i virus: in fondo anche questo Covid è più un problema di ordine pubblico (gestione di ospedali e cimiteri) che di sanità. Ma non voglio divagare. I fenomeni, e quindi anche il soggetto in quanto fenomeno, sbiadiscono; non ci rimangono, a tinte forti, che la ferocia impersonale del capitale e quella un po’ più personale dell’islam.
    Lei parla del sentimento come di un ambito d’elezione della poesia lirica e afferma, giustamente, che il sentimento è di pertinenza di un soggetto, di un Io. Ma anche qui, come sono cambiate le cose. Il sentimento era l’estrema certezza dei romantici, la roccia su cui poggiava il poco che era rimasto dopo la liquidazione della metafisica. Possiamo ancora dire che è una certezza? Che l’Io è certo di quello che prova? Che, come Werther, su di esso può fondare la sua identità? O non è diventato anch’esso qualcosa di “preso-in-prestito”, di ostentato e inalberato per dissimulare un’identità ridotta ai minimi termini, quasi inesistente?
    Riflessioni che non vogliono sostenere questa o quella tesi, ma che sono sorte spontanee alla lettura del suo ricco e ben argomentato saggio.

    1. Gentile prof. Elena,
      ringrazio molto anche lei. Sono davvero contento che due persone di cultura così abbiano apprezzato questo saggetto. Ho meditato molto anche sulla stesura delle note. Avrei voluto metterne qualcuna in più e avrei voluto mettere qualche link in più, ma avrei rischiato di essere troppo dispersivo. Ho tolto che secondo Nietzsche l’io è un “prodotto della grammatica” perché avrebbe complicato le cose. Un cordiale saluto. Con stima

      1. Gentile Davide,
        per favore, non mi chiami prof. Elena. Va benissimo Elena. Sono un’insegnante in pensione, ‘prof’ mi chiamavano i ragazzi. Gli unici che mi abbiano mai chiamato ‘professoressa’ per esteso sono stati un’alunna di ascendenza sarda e i rappresentanti dei libri di testo, se non ero abbastanza veloce a andare a nascondermi in bagno.
        Ho apprezzato molto la sua nota 1. Purtroppo ho un’idea molto vaga di cosa sia un algoritmo, quindi non sono in grado di valutare l’apporto di Balestrini (voglio dire quanto c’è di intenzionale nel prodotto finito), ma sono sicura che se non si sapesse che è prodotto da un computer, un sacco di gente seria si metterebbe alacremente a interpretarlo. E forse anche sapendolo. Il che getta una certa luce sugli eccessi dell’ermetismo in poesia.

  4. TRE APPUNTI

    1.
    A me è passata la voglia di fare discorsi (monologhi di fatto) sulla poesia, anche se in passato ne ho tentato alcuni (https://moltinpoesia.blogspot.com/2012/06/ennio-abate-una-riflessione-per-la.html?fbclid=IwAR0FesXCxVIAyREVradiB1Y_EsjnQIeCfG53X66OeJSPNIyCvR3i9-rCNyo#more). Non so più che farmene delle «molte rivoluzioni copernicane nell’ambito della lirica». Che di fatto sono state quelle d’inizio Novecento, spesso riprese e rimasticate con esibizionismi tecnicisti. Mi sono pure stufato dei reading, delle riscoperte dell’«oralità», degli slam poetry. Sì, come ricorda Morelli, «ogni decennio nasce una nuova forma di poesia», ma non me ne importa. Semplifico, ma molte tendenze a me paiono giochini da salotto o da cenacoli amicali. Mi hanno incuriosito ma mai interessato. Al massimo ho ammirato i surrealismi bizzarri di Rodari, che vanno benissimo per i ragazzi: li affezionano alla lingua e così imparano a manipolarla con elasticità.

    2.
    Lo scritto di Morelli è interessante perché ripropone in modi critici il problema dell’io in poesia. Io pure ci ho riflettuto spesso, ma cercando sempre di non staccarlo dalla dimensione politica di massa (https://www.poliscritture.it/2017/09/15/appunti-politici-11-io-vs-noi-o-io-noi/). Anche perché i dubbi sulla compattezza dell’io o sulla sua crisi o sulla sua contestazione (futurista) nacquero proprio quando si parlò di
    società di massa ed esse “entrarono” anche in poesia. Mi ha anche interessato il passo in cui Morelli dichiara: «non sono un addetto ai lavori, ma solo un disoccupato, appassionato di poesia contemporanea». Potrebbe sviluppare questo spunto, chiedendosi ad esempio: qual è il modo particolare con cui un disoccupato si accosta alla poesia. E, magari, riecheggiare altre domande analoghe o in contrappunto conquelle che il brechtiano lettore operaio rivolgeva a suo tempo ai grandi personaggi della storia.

    3.
    Morelli insiste sulla «estrema concettualizzazione» della poesia contemporanea, in particolare di quella di ricerca. E, ricordando che «Franco Fortini in “Verifica dei poteri” parlava di “mare dell’oggettività” per Calvino e di “cosismo” per Vittorini», fa notare – giustamente – che «gli stessi termini […] si potrebbero adoprare per la poesia di ricerca». Qui solo una nota: agli inizi degli anni ’60 quel “cosismo” poteva ancora essere filtrato (almeno da Fortini allora legato ai Quaderni Rossi) attraverso le lenti del suo marxismo critico e svelare il suo lato complice con quello che allora si chiamava ‘neocapitalismo’. Ma oggi? La poesia di ricerca a prima vista mi dà l’impressione di essere felicemente alla deriva nel “mare della oggettività” odierna. E nessuna voce critica si alza veramente contro le sue liaisons dangereuses con le forme tecnologizzate del Capitale. ( A meno di non pensare a «Destini capitali» di Cristina Corradi, che ho recensito, e alla sua voce che grida nel deserto, quasi come allora quella di Fortini?).

    1. Caro Ennio,
      grazie per questo tuo ottimo intervento. Molte cose devo ancora approfondirle. Volevo solo far presente una cosa. Siamo tutti “atomizzati” oggi ed allo stesso tempo è anche vero che siamo “sempre più connessi e sempre più soli”, come scritto su un muro di una scuola di Latina (la cui immagine è diventata virale su Facebook) o come detto dal Papa recentemente. Nel mio scritto ho voluto difendere quel poco che resta dell’io.
      Ho preso per buona la struttura tripartita dell’identità secondo Freud, anche se l’io potrebbe considerarsi una convenzione grammaticale e perciò rivelare anche delle subpersonalità.

  5. Negli anni’70 c’era chi voleva espandere la coscienza, dilatare l’io con l’Lsd. Oggi vanno di moda le cerimonie Ayahuasca, in cui bevono pozioni di erbe allucinogene della foresta amazzonica. In realtà non so se si tratti di espansione della coscienza. Forse più probabilmente si tratta solo di uno stato alterato di coscienza transitorio. L’uso di queste sostanze psicotrope può causare danni neurologici e slatentizzare disturbi psichiatrici. Ci sono psicoterapeuti che si rifanno ai libri di Carlos Castaneda e promuovono questo tipo di esperienze. Non voglio fare il moralista perché siamo tutti ladri, serial killer ed orgiastici nel teatrino infelice del nostro inconscio. Quindi non punto l’indice contro i semplici sperimentatori, ma mi attenderei più consapevolezza, più sobrietà e più correttezza professionale da dei professionisti della psiche. Al contrario i mistici cristiani ed orientali vogliono annullare l’io con l’ascesi, la preghiera, la meditazione. In realtà l’io, dopo meditazione ed esercizi spirituali, ritorna subito prepotentemente, come sottolineava il poeta Francesco Innella in una intervista al poeta Michele Nigro. Gli studi scientifici sui correlati neurofisiologici sulla meditazione hanno dimostrato che chi la pratica trae dei benefici cerebrali e non solo psicologici, detto in parole povere. Però l’io ritorna. Allora che fare? Affrontarlo con un lavoro su se stessi, inseguendo un proprio iter di autoperfezionamento? Oppure andare in analisi? Ma la questione principale è che durante la pandemia c’è stato un aumento del 30% delle operazioni di chirurgia estetica. Le persone non sono soddisfatte di come appaiono in smart working, via cam, eccetera eccetera. La preoccupazione più assillante riguarda il cosiddetto io corporeo. Dove vogliamo andare perciò con questo andazzo? Detto in modo brutale: di cosa stiamo parlando? Il mio saggetto è astruso, campato in aria. La poesia interessa a ben pochi. La dismorfofobia aumenta vertiginosamente in tutte le fasce di età. Il body shaming è sempre più diffuso. Siamo tutti o quasi schiavi dell’apparire e dell’estetica del nostro involucro. Siamo prigionieri del nostro io corporeo. Vorrei banalizzare un poco, raccontando un aneddoto. Una volta ero con un mio ex amico in un bar. Conoscemmo una donna che aveva fatto per anni la guardia del corpo al Dalai Lama. Ad un certo punto questa donna disse al mio ex amico che avrebbe dovuto andare in Oriente per cambiare mentalità completamente. Le disse che in Oriente l’aspetto fisico contava ben poco e che a lui sarebbero crollate molte certezze. Insomma dovremmo “buscare ad Oriente” . In definitiva “ci vorrebbe un’altra vita” come cantava Battiato.

  6. @ Davide Morelli

    Grazie soprattutto del secondo link, molto chiaro, che contiene direi tutte le informazioni che cercavo. Cioè: i “mattoncini” della poesia sono presi da testi preesistenti, dietro cui si cela un autore. Visto che due testi su tre sono orientali, si può immaginare che già in questa pre-scelta Balestrini si sia orientato verso una presenza minimale dell’Io. Al computer sono poi state fornite (ovviamente) indicazioni su come procedere, e, soprattutto, alla fine Balestrini stesso ha operato una scelta: “Dall’intero stampato Balestrini ha individuato un frammento di 6 strofe consecutive particolarmente interessanti.”
    Mi interessa questo esperimento per certe affinità/differenze col procedimento surrealista della scrittura automatica – avanguardia estrema, come quella di Balestrini.
    La scrittura automatica in sé è stata abbandonata abbastanza presto, come ci si poteva aspettare. Però trovo interessante che attraverso essa il surrealismo mirasse, diversamente dalle correnti di poesia di ricerca di cui lei parla nel suo saggio, a scoprire un Io personale e autentico, che normalmente ci sfugge, ma che c’è.

    Cambiando argomento, a proposito di espansione della coscienza e Mulino di Bazzano, lei conosce Giuliano Mesa?

    1. Cara Elena,
      grazie a lei per l’attenzione. Volevo chiarire che ho usato il termine “professoressa” non solo perché è insegnante, ma perché ho letto alcuni suoi saggi brevi e li ho davvero apprezzati. A mio avviso non è la stirpe che nobilita l’uomo, ma è l’uomo che nobilita la stirpe. Conosco Giuliano Mesa solo di nome. Non ho mai letto le sue opere. Solo qualche componimento. Ammetto la mia ignoranza. Colmerò prima o poi la mia lacuna.

  7. @ Davide
    Scusa, ho dimenticato che avevi chiesto di darti del tu. D’accordo per passare al tu reciproco.

  8. “C’è ad ogni modo un significato condiviso e comune del mondo.”
    Già. Qual è? Le diverse istanze delle diverse “poesiadiricerca” rappresentano piuttosto delle faglie in questo significato comune, distribuite tra i diversi io-noi.
    “Ci sono anche molti altri elementi particolari che costituiscono l’unicità e l’irripetibilità della visione del mondo di ognuno.”
    Quelle faglie interrogano, insieme, sia “chi” vede-pensa-sente-immagina sia “che cosa” è.
    La PdR (poesia di ricerca) è la forma generale di una cultura incerta su di sé: quel “comune” è tutt’altro che conosciuto, anzi pericolosamente sporto sull’inconoscibile, dalla parte del soggetto come dell’oggetto: anzi sull’incontro stesso che è il flusso vivente di ognuno interrelato con quello degli altri. La PdR è un inconoscibile tentato, provocato, sondato con frecce e lampi, con frasi fatte e con intuizioni abbaglianti (e magari incomprensibili).
    Questa frase: “La realtà non è prodotta dalla mente cosciente, ma l’io è l’unica modalità in grado di distinguere io e non io, di percepire, di descrivere e nominare il mondo. Senza l’io il mondo non sarebbe più oggetto di indagine” si sostiene in realtà sui suoi presupposti: l’io (chi è, cosa è?) non sarebbe in grado di distinguere io e non io (l’io quindi c’è prima di identificarsi, e di distinguersi da cosa non lo è).
    Ecco perchè si è immaginato il dio, a cui somigliare. Ecco perchè, insieme, si è invece immaginata la materia (gli atomi di Democrito e Epicuro) o l’animalità come possibili fondamenti unitari di una propria indistinzione rispetto alla fantasmatica oggettualità del mondo. Sbattuti tra dio e la scienza. La PdR è un tentativo di individuare il neutro, più che come l’uno e l’altro, piuttosto come né l’uno né l’altro.
    Con i suoi esiti cosiddetti nichilisti.

    Due rotture rispetto a questo senso che ho delineato della PdR sono, nel testo di Morelli:
    1. l’immobilismo sociale come prodotto consistente della soluzione capitalistico-padronale della negazione del dilemma soggetto oggetto: “risultante di queste due forze (omologazione e bolla di filtraggio), apparentemente contrapposte, è l’immobilismo sociale […] l’interpsichico è ridotto ai minimi termini. È sempre più arduo pensarsi, dirsi ed essere noi. Ma è altrettanto difficile riappropriarsi dell’io ed essere veramente se stessi”.
    2. recupero della poesia come via di accesso alla ineffabile sintesi fondata sulla singolarità: “A mio modesto avviso invece in poesia una rosa non è solo una rosa perché può avere diverse connotazioni (che possono essere anche considerate delle sfumature emotive. Anche la nominazione più precisa può avere quindi una sua vaghezza), può provocare le più svariate ‘corrispondenze’ tra l’io e l’oggetto (più banalmente risonanze interiori).”
    Si fugge dal nichilismo sia col transumano normato sia col vibrante rappresentativo.

    Una nuova via non potrebbe prescindere da una prospettiva costruttivista, dalla presa d’atto della faglie e dal lancio di pontili che si reggono -ancora, per ora- sull’aria ma che appoggeranno prima o poi su quelle nuove terre che da tante parti si invocano, in nuove interrelazioni, in maggiori conoscenze reciproche, in distacchi razionali da culture limitate e concluse. Non vaneggio per ottimismo, o almeno… mi sento in buona compagnia (ma non evocherò nomi noti a tutti).

  9. Cara Cristiana,
    grazie per l’ottimo intervento. Solo un piccolo chiarimento. Non vorrei essere frainteso. Molto probabilmente sarò banale. Il mondo come l’arte sono un continuo impasto di soggettività ed oggettività, come scrivo in una nota. L’io per Freud è la nostra parte cosciente. Più difficile è distinguere tra io statico ed io dinamico. Certo prima avviene la coscienza e poi l’identità. Si è coscienti quando si è vigili. La coscienza è da principio più vigilanza che consapevolezza di sé: questa viene poco dopo. Nelle prime fasi di vita c’è lo stato fusionale con la madre. Poi avviene la separazione e la cosiddetta identificazione. Ma questo avviene molto presto. Quindi nessun terreno che si sfalda sotto i piedi. Nessun regresso all’infinito. Poi incorporiamo e proiettiamo per Freud. Per Piaget da principio assimiliamo ed accomodiamo il mondo esterno. Ma questo avviene nelle prime fasi di vita, in cui l’io è embrionale. Io non l’ho mai messo in dubbio. Anzi ho parlato di interpsichico che determina l’intrapsichico. Che cosa è l’io? In forma adulta è ciò che io so di me. È la parte interiore conosciuta e razionale. Senza la distinzione tra io e non io e senza la tautologia io=io non ci sarebbe alcun tipo di conoscenza. Per il resto sono d’accordo con lei.

    1. @ Davide Morelli: Due frasi mi colpiscono in questa tua risposta (mi permetti di darti del tu?):
      1 “Più difficile è distinguere tra io statico ed io dinamico”,
      2 “La coscienza è da principio più vigilanza che consapevolezza di sé: questa viene poco dopo”.
      La sostanza per me sarebbe che, accettando del tutto la tua considerazione che l’io potenziale e l’io attuale (traduco così lo sguardo esterno che lo chiama “statico e dinamico”) sono due categorie differenti, io sono invece per considerare l’io potenziale come già legato per amore, anzi, lo riscrivo: “legato per amore”, in quanto l’io è amato come altro, come altro da sé, dalla madre che lo ha partorito come non-sé.
      Quindi quell’io potenziale già nasce in quanto bisognoso (in cui colloco la tua “vigilanza”) e rivolto ad Altro che non è. (I figli abbandonati dalla madre sono comunque strutturati da quel bisogno.)
      Certo che quindi l’io è insieme io e non-io, ma in quanto è non-io di Altro, non dell’oggetto! (Che tragedia della psicologia neoliberista è, interpretare l’amore per la madre, e per l’Altro, come amore “oggettuale”?)
      Il mondo diviene da allora il mondo comune del comune abitare, interpretare, amare, coltivare… (Mi rendo conto che questo è puro creazionismo, puro cristianesimo. Non so pensare altrimenti, chiedo venia.)
      L’io, contemporaneamente, è un quasi reticolo universale, e di incontri e scontri, e la materia è inesistente, se non entro i nostri scopi.

      Ecco che la vecchia cultura creazionista occidentale mi ripiglia e mi rimette in riga. Vorrei almeno sapere, conoscere, confrontare, come il capitalismo orientale -cinese, indiano, da noi indotto per conquista- vede la posizione umana nell’universo conosciuto. Purtroppo non ne so quasi niente. (A parte l’utopia di Panikkar che immagina in altre intelligenze nell’universo lo stesso divino incarnarsi, ripetendo il nostro schema umano nella sconosciuta e muta universalità materiale.)

      1. Cara Cristiana,
        certamente può darmi del tu. Nessun problema. Grazie per il bel contributo e l’attenzione.
        -Per io statico si intende comunemente la parte egoica costante e che non muta nel tempo, a differenza di quello dinamico. Tutto qui. Ma c’è confusione in psicologia, a mio avviso. Da una parte molti pensano che la personalità di base e le attitudini siano costanti. Dall’altra la psicoterapia ha come assunto di base la possibilità del cambiamento del paziente. Per quanto riguarda le attitudini non dovrebbero essere così costanti come credevano un tempo. Lo dimostrano gli studi sulla neuroplasticità.
        – Le sue intuizioni sono eccellenti e le sue perplessità sono le mie. Posso solo aggiungere altra carne al fuoco. A complicare ulteriormente le cose c’è la discordanza tra desiderio e amore per Freud, che scrive: «Dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare». Roland Barthes scrive in “Frammenti di un discorso amoroso”: «Io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è altro che il suo accessorio». Il discorso è molto complesso ed i farabutti del pensiero occidentale sono molti.
        – Posso solo consigliarle di leggere “Storia del pensiero organizzativo” di Giuseppe Bonazzi. È un ottimo sociologo industriale. Nell’ultimo capitolo viene trattato un poco il capitalismo asiatico. Lì c’è tutta la bibliografia per approfondire.

        1. Resto sorpresa (capitano spesso questi casi) di come non venga colto IL punto del mio discorso: che la relazione primaria è di amore (per la madre), cui corrisponde il riconoscimento da parte della stessa che amore per il figlio è insieme alterita’ riconosciuta.
          E che questo è il nocciolo dell’inter e dell’intrapsichico.

          1. Cara Cristiana,
            tutto ciò è interessante, ma riguarda le primissime fasi di vita (non regrediamo all’infinito) e affrontandolo si svia dall’argomento del mio saggetto. Le mie citazioni volevano riportare tutto all’amore e al desiderio in senso lato. Lo scrivo col massimo rispetto e la stima che ho per lei.

  10. *) La buona poesia è sempre tradizione + innovazione. Quando si riesce ad innovare, si fa sempre una qualche forma di sperimentazione. Dante e Leopardi hanno sperimentato, innovato, creato una nuova tradizione. Quando si cerca l’innovazione non nei “valori poetici” (qualunque cosa siano), ma solo nella forma, a scopo di rottura e di polemica, si ha un altro tipo di sperimentazione. Burchiello e Francesco Redi come, a suo modo, Lorenzo Stecchetti fecero della poesia sperimentale, pur non riuscendo a rinnovare la tradizione come Dante e Leopardi. Le avanguardie e le neoavanguardie hanno sperimentato, lavorando più sulle forme e sulla rottura che sui valori. Ovviamente le forme e le modalità di rottura e di polemica possono essere presi e presentati come valori, ma tuttavia restano estranei ai “valori poetici” e non rinnovano la tradizione, salvo che non arrivino a creare valore poetico nuovo, in senso stretto, quando le due forme di sperimentazione si uniscono in una forte “vena” poetica di autore. Tutte le altre sperimentazioni, basate perlopiù su tecnicismi, restano come esperienze particolari, curiose, a volte interessanti, ma incidono poco o nulla sulla storia della tradizione poetica.
    ** ) La poesia creata con l’ausilio del computer non può non risentire dei limiti del computer. Quando Balestrini comincia la sua esperienza, i computer non erano ancora dotati di “intelligenza artificiale” ma di un hardware e un software piuttosto primitivi. Potevano, sulla base del programma fornito alla macchina, “calcolare / elaborare” gli elementi forniti, cioè i testi immagazzinati nella memoria, e produrre altri testi che erano un “centone” tratto da quelli memorizzati. Poi Balestrini riaggiustava un po’ le cose a risultato ottenuto. Elaborare centoni, cioè opere interamente composte di frasi / versi tratti da altre opere, è un genere poetico (? forse meglio dire scolastico) antico e non ha mai prodotto opere di rilievo, ma sempre e solo, nelle migliori ipotesi, opere curiose che dimostravano la cultura, la memoria e la pazienza dell’autore. Oggi potremmo dire che i centoni elaborati dal computer dimostrano la memoria e l’intelligenza del computer. Attualmente ci sono specifici programmi di intelligenza artificiale mirati a produrre opere di narrativa e di poesia, di gran lunga superiori ai programmi usati da Balestrini. Il prodotto è raffinato, ma mai davvero creativo. Un autore americano (Usa) ha pubblicato oltre quattro mila romanzi scritti dal computer. Pubblicati, il che vuol dire con un mercato e un certo numero di lettori. E leggendo romanzi gialli o rosa scritti dal computer forse molti lettori hanno creduto di leggere opere scritte da uno scrittore in carne e ossa, perché i prodotti sono leggibili. E sono leggibili con pochi e rapidi interventi di aggiustamento dello scrittore, perché se non fosse così come si potrebbe arrivare a pubblicare oltre 4000 romanzi? Dove troverebbe il tempo un autore che scrivesse tutto da solo? Ma tuttavia siamo sempre a livello di centoni: perfezionati fin che si vuole, ma centoni restano.
    Non è escluso che in futuro un elaboratore elettronico dotato di un buon programma di intelligenza artificiale possa scrivere opere autentiche e di grande valore, come Dante e Shakespeare e Leopardi. Non si può escludere nulla, ma per il momento non ci siamo ancora. Nei giochi di dama e di scacchi oggi il computer è in grado di gareggiare, e qualche volta vincere, con i campioni mondiali. In futuro potrebbe capitare anche nel campo della narrativa e della poesia, ma se capitasse, la buona poesia resterebbe comunque tradizione + innovazione. Dovremmo solo prendere atto che anche certe macchine sono capaci di innovare, di operare in modo creativo. La prospettiva è realistica, infatti ci sono programmi di intelligenza artificiale capaci di creare altri programmi sulla base della propria esperienza. Quando un programma creato da un programma a sua volta creato da un programma ecc. sarà arrivato alla decima o centesima generazione magari si avrà qualcosa che ancora non riusciamo a immaginare.
    ***) L’io non si può mai cancellare, né dalla poesia né da nessuna attività umana. Lo si può però mascherare, subordinare a strategie non sue, umiliarlo, smemorarlo, trasformarlo. L’io non è una “essenza”, un “essere”, ma è una situazione e un progetto radicati su base biologica / genetica. Come situazione, è immerso nella sua storia, nel suo sociale, nei suoi condizionamenti. Come progetto è in rapporto alla propria coscienza e alla propria volontà proiettati nel futuro. Quindi richiama un sacco di cose, una rete di cose che abbraccia il mondo. L’io può essere “depresso” in tanti modi fino a fargli perdere la forza di avere un proprio progetto. Si riduce allora a mera situazione, a pura sopravvivenza per adattamento a progetti altrui. Questa “depressione” può essere anche volontaria, o frutto di mille circostanze, o anche di malattia. L’io depresso non va confuso con l’io forte che si maschera nella forma del “noi”, ma che da quel “noi” esce continuamente e in tante forme. A volte nelle forme del leader del “noi” collettivo: del leader che impone al “noi” il suo “io” mascherato.
    ****) Cercare di liberare la poesia dall’io e dal sentimento, vuol dire imporre alla poesia il proprio io e il proprio sentimento, o un particolare io e un particolare sentimento. La poesia e la narrativa sono sempre autobiografici, a diversi livelli e con diverse strategie di esplicitazione o di occultamento. Ma anche nascondere l’io è una strategia dell’io e ne rivela certe modalità di comportamento. Persino il suicidio ci parla della situazione e del progetto dell’io che si suicida e diventa qualcosa di “sensato” solo in relazione alla storia dell’io, fosse pure solo storia di distruzione dell’io.

    1. … quello che un computer non riuscirà mai a fare è dare conto del mutamento storico e sociale, di cui invece si incarica il poeta in carne e ossa.

  11. Ringrazio davvero il prof. Luciano Aguzzi per questo suo intervento così illuminante e che arricchisce il senso del mio saggetto. Grazie per questo suo apporto.
    La poesia umana, seguendo la linea heideggeriana, apre all’essere. La filosofia moderna può studiare l’essere solo in termini analitici. Per giungere ad una dimensione autentica dell’essere c’è bisogno dell’arte. Non sono heideggeriano. Ma probabilmente è così. Da semplice lettore di filosofia posso rilevare queste contraddizioni nello studio dell’essere:

    Un tempo alcuni filosofi erano dell’idea che la logica fosse una branca dell’ontologia. Oggi invece molti filosofi che si occupano di ontologia si occupano prevalentemente di distinguere tra sostanze, proprietà e concetti: dopo la filosofia analitica del linguaggio ecco l’avvento della filosofia analitica dell’essere. Così facendo a mio modesto avviso l’ontologia diviene una branca della logica e non si interroga più sull’essere. Non so dire se ciò significa che sia in crisi o meno. Nel corso della storia ha avuto alterne fortune. Secoli fa era in auge. Vi ricordate forse della prova ontologica dell’esistenza di Dio? Che argomentazioni noiose e inutili! Dopo è stata in ombra, ad esempio durante il dominio del positivismo e del neopositivismo. Quindi è stata riscoperta successivamente con la comparsa dell’esistenzialismo. Comunque molti studiosi non fanno altro che scomporre e frazionare con una ragione del tutto arbitraria l’essere. Penso a Nicolai Hartmann che suddivide l’essere in svariate categorie. Sono passati secoli e sono ancora diversi i discepoli di Aristotele, secondo cui l’essere si dice in molti modi. Sembra che l’essere sia un’entità dagli innumerevoli strati. Potrei affermare quindi che nell’ontologia prevale l’atomismo dell’essere, mentre invece questo ramo dello scibile dovrebbe indagare e interrogarsi sul fondamento ultimo. Forse questa mia analisi potrebbe sembrare superficiale e semplificare tutto per gli addetti ai lavori. Forse la questione è un’altra. Il problema d’altronde è che l’essere ci trascende come ci ha insegnato Jaspers. Non lo posso neanche definire. Se cerco di definire il nulla risultano inadeguati il predicato verbale e quello nominale. Se cerco di definire l’essere i predicati determinano una semplice tautologia. Il linguaggio dell’essere quindi non esiste. Forse aveva ragione Platone secondo cui l’essere assoluto si troverebbe solo nel mondo delle idee. Parmenide nel “Poema sulla natura” afferma che “l’essere è, il non essere non è “. Secondo il filosofo greco il nous(la ragione) dovrebbe essere il mezzo che ci dice ciò che è. Parmenide ritiene che l’essere sia pensabile e il nulla sia impensabile. Abbiamo bisogno di Parmenide perché viviamo meglio se pensiamo che essere e pensiero coincidono e anche che il nulla non è. Viviamo meglio se pensiamo che l’eterno divenire è un inganno dei sensi. Viviamo con meno angoscia se pensiamo che le cose e le persone scomparse fanno ugualmente parte dell’essere, anche se forse si trovano in una altra dimensione. Personalmente trovo particolarmente brillante questo aforisma di Gesualdo Bufalino: “essere non comporta necessariamente l’esistere: Dio non esiste ma è”. Ma naturalmente non c’è niente di certo. Molti filosofi hanno cercato vanamente di studiare l’essere e hanno soltanto moltiplicato gli enti. Sappiamo per certo che essere e nulla si richiamano a vicenda e che per pensare all’essere dobbiamo pensare per forza di cose pensare al nulla. A volte l’essere sembra scomparire nel nulla. Cosa sappiamo del nostro rapporto con l’essere quindi? Per Heidegger l’uomo è aperto all’essere e può porsi delle domande a riguardo, ma l’esserci non può spiegare l’essere. Secondo il filosofo tedesco dobbiamo partire dall’esistenza per cogliere l’essere. Ma l’essere non è afferrabile, non è comprensibile, non è conoscibile, non è accessibile, non è penetrabile per la mente umana. Sappiamo solo che è atemporale e molto probabilmente passeranno secoli e saremmo sempre punto e a capo. L’essere è talmente labile e indistinto per la conoscenza umana che non ne sapremmo mai niente di certo. Intanto le domande ontologiche (che cosa è quell’ente? Esiste Dio? Esiste una parte dell’essere irreale? Da dove proviene ciò che è? Il nulla è reale? Di quale sostanza è fatto il vuoto? Il pensiero è essere? Perché c’è l’essere invece del nulla? Le cose erano nel nulla e finiranno di nuovo nel nulla? Che senso ha l’esistenza? Che legame c’è tra esistenza e essere?) non hanno ancora una risposta. D’altra parte la filosofia non darà mai all’uomo verità oggettive ma solo parvenza di verità umane.

  12. @ Morelli scrive:
    «Vi ricordate forse della prova ontologica dell’esistenza di Dio? Che argomentazioni noiose e inutili!». Non so se noiose e inutili, ma non per me che ci prendo gusto. La prova ontologica dimostra l’esistenza di Dio con sicurezza matematica. Il problema, però, è che il Dio così affermato è un Dio generico, non riconducibile a un Dio storico e nemmeno a un Dio al quale sia attribuibile una qualche personalità. Dal punto di vista del desiderio umano resta del tutto ignoto. L’esistenza di questo Dio generico potrebbe coincidere con l’esistenza puramente linguistica o con l’esistenza “di ciò che esiste”, trasformandosi così in una forma di panteismo immanente e quindi in una equivalenza generica fra Dio e il tutto. La difficoltà logica non sta nel dimostrare Dio, ma nel dare a Dio una specifica serie di attributi che ne facciano un Dio “vero”. Tutti gli Dei presunti veri sono Dei storici e la dimostrazione della loro esistenza non sta nella logica e nemmeno nella filosofia in senso lato, ma in fattori empirici, di esperienza storica, cioè nella rivelazione e nel rapporto con uomini che si fanno testimoni di questi fatti storici. Chi non crede alla verità storica di questi fatti storici, non può credere a un Dio che si rileva esplicitamente nella storia. Allora, il non credente nella rivelazione e nelle sue testimonianze non può credere in un Dio determinato ma solo in un qualcosa di indeterminato che è alla base del proprio rapporto con il sentimento religioso. Questo rapporto riguarda anche i materialisti e gli atei, perché il sentimento religioso può prescindere dall’esistenza di un Dio storico e, di fatto, il materialismo del Settecento e in parte anche l’odierno spesso parlano della natura come se la natura fosse un Dio e il sentimento di rapporto con la natura può avere molte caratteristiche del sentimento religioso.

    1. Gentile prof. Aguzzi,
      faccio questa considerazione tra il serio e il faceto. La ringrazio per la sua eccellente riflessione.
      Ho pensato un po’ su certe frasi, che a mio avviso possono avere delle implicazioni filosofiche. Ad esempio frasi come queste: “ti comporti come se Dio esistesse” oppure “ti comporti come se Dio non esistesse”. Almeno in questa vita la frase “ti comporti come se Dio esistesse” in fondo significa “ti comporti come se credessi che Dio esista”. Più esattamente dovremmo formulare questa frase: “credo che tu ti comporti come se credessi che Dio esista”. Oppure ci sono frasi come queste: “ti comporti bene perché credi che Dio esista” o “ti comporti male perché credi che Dio non esista”. Ma esistono anche altre possibilità. Ad esempio “ti comporti bene nonostante tu creda che Dio non esista” oppure “ti comporti male nonostante tu creda che Dio esista”. Queste frasi potrebbero essere naturalmente riformulate più esattamente in questo modo: “credo che ti comporti bene nonostante tu creda che Dio non esista” oppure “credo che ti comporti male nonostante tu creda che Dio esista”. Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che la maggioranza delle persone non si comportano nè bene nè male, ma così e così. È lo stesso. Potremmo riformulare le stesse frasi con l’espressione “così e così” al posto di “bene” o di “male”. Che la morale cristiana possa riassumersi tutta nella frase “comportati come se Dio esistesse” oppure nella frase “devi credere che Dio esiste e comportarti secondo quelli che vengono ritenuti i suoi comandamenti” ? L’etica cristiana non parte forse (implicitamente) dal significato espresso in queste frasi ? In ogni caso è meglio non avere certezze assolute. L’unica cosa certa a questa vita è la morte.

      1. Mi hai suggerito la formulazione per una morale laica: “Comportati come dovrebbe comportarsi Dio se esistesse”.

        1. Mi pare più immediato e umano l’imperativo categorico di Kant : “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.

          1. Sì, ma Kant era un teologo astuto, non vale come fondatore di una morale laica. (E poi la massima che citi è puramente astensiva. Nel senso: secondo quella massima il buon samaritano avrebbe potuto tirare dritto limitandosi a non pestare a sua volta il disgraziato che era incappato nei banditi).
            In ogni caso: anch’io mi stavo muovendo fra il serio e il faceto.

    2. Giusto e vero: scrive Andrea Moro, “Breve storia del verbo essere”, 2010, Adelphi : “Su un campione rappresentativo di 386 lingue, in ben 175 laddove nelle altre compare il verbo essere o un suo equivalente non solo non c’è alcun verbo non c’è proprio niente”. Di quel dio che garantisce la sostanzialità dell’esistente non c’è un gran bisogno… se non per i Conservatori del Potere.

  13. Cara Elena,
    allora i laici sono tutti ingenui ed ottusi? E i fedeli tutti delle aquile? Sempre tra il serio ed il faceto…

    1. Confesso che non capisco. “Astuti teologi” sono, mi pare secondo Nietzsche, quei filosofi che, come Kant, cacciano Dio fuori dalla porta e lo fanno rientrare dalla finestra. D’altra parte il comandamento dell’astuzia è stato dato da Gesù in persona, e con ragione: senza astuzia, nessun successo in questo mondo; ma la Chiesa come la conosciamo ha avuto e ha bisogno di successo nel mondo.
      Non mi sembra però che questo implichi in alcun modo ingenuità o ottusità da parte dei laici. Anzi, mi pare che siano i fedeli quelli che si rendono intenzionalmente ottusi mettendosi delle gran fette di prosciutto sugli occhi (che può essere una scelta astuta, ma epistemologicamente non onesta).

  14. @ Morelli scrive:
    «Che la morale cristiana possa riassumersi tutta nella frase “comportati come se Dio esistesse” oppure nella frase “devi credere che Dio esiste e comportarti secondo quelli che vengono ritenuti i suoi comandamenti” ? ».
    C’è almeno un’obiezione forte: ci sono persone che credono che Dio esiste e proprio per questo si ribellano a Dio ritenendolo un despota maligno. La ribellione contro la malignità di Dio è una vena di sentimenti e di pensieri che alimenta qualche aspetto del pensiero utopistico, non solo ai tempi di Prometeo. Ci sono infine anche quelli che credono sia in Dio sia in Satana e credono che sia Satana la potenza benigna, non Dio.
    Il cielo e la sua storia sono pieni di divinità di tutti i tipi.
    Se ci limitiamo alla morale cristiana, solo alla morale cristiana, possiamo ridurre il campo del possibile tuttavia siamo sempre in un ambito di interpretazioni assai varie.
    Luisito Bianchi (Vescovato, 23 maggio 1927 – Melegnano, 5 gennaio 2012), autore del grande romanzo (grande in tutti i sensi, sebbene meno noto del dovuto) «La messa dell’uomo disarmato» (1989), sulla Resistenza, riteneva che ciò che qualificava la morale cristiana fosse la carità e la gratuità: dare gratuitamente. E lo faceva rifiutando, anche con un contrasto polemico con la gerarchia ecclesiastica, di far pagare qualcosa per la somministrazione dei sacramenti (battesimo, cresima, comunione, matrimonio, funerali…), oltre che con le forme più consuete di carità da parte di un prete operaio e poi sacerdote di parrocchia.
    Ma la massima della gratuità è compatibile con la coesistenza fra cristianesimo e organizzazione sociale? Di qualunque tipo di organizzazione sociale? E fin dove la morale cristiana può ripiegare per diventare compatibile? Qui si aprono strade diverse: non un bivio o un trivio, ma un labirinto di vie.

  15. Gentile prof. Aguzzi, come al solito non si smentisce e fa delle ottime riflessioni intellettuali. Nel mio divertissement di prima volevo solo mettere in luce la difficoltà a mettere in pratica i buoni propositi e la fede. Era tra il serio ed il faceto. Comunque credere nell’esistenza di Dio implicherebbe teoricamente essere timorosi di Dio. Chi crede in Dio di solito ha paura della sua punizione. Coloro che credono nell’esistenza di Dio teoricamente dovrebbero credere in Dio e comportarsi di conseguenza. Di solito chi pensa che Dio esista ha fede e cerca di comportarsi di conseguenza. Pascal focalizza tutto sulla scommessa di credere in Dio e non sull’accettare o rifiutare Dio. Coloro che non riescono a essere coerenti con la propria fede e si comportano male è spesso perché non sono forti come le loro idee, come scriveva Bukowski. Certo ci sono sempre le mosche bianche o le pecore nere. Sono a mio avviso una esigua minoranza coloro che rifiutano sdegnosamente Dio. Credere nell’esistenza di Dio e allo stesso tempo rifiutarlo oltre ad essere una contraddizione di termini è anche una impresa titanica, significa cercare di sottomettere Dio al proprio io. Nella maturità, in vecchiaia e in punto di morte queste persone talvolta hanno crisi interiori o mistiche, pentendosi. Sono davvero pochi quelli che sono coerenti fino alla fine, come Voltaire, che in punto di morte dichiarò probabilmente a proposito di Cristo: “In nome di Dio, Signore, non parlatemi più di quell’uomo e lasciatemi morire in pace”. Poi quelli che credono in Satana di solito si comportano male. Ci sono anche gli atei e gli agnostici che sospendono il giudizio e si comportano egregiamente nel dubbio. Parlando seriamente, ma queste sono cose che lei Aguzzi sa benissimo, uno dei problemi della società occidentale è il nichilismo, cioè la credenza che le cose siano nel niente, esistano e poi ritornino nel niente. Da qui una conseguente crisi dei valori che attanaglia molti. Comunque tutto questo ci porterebbe molto lontano ed anni luce distanti dall’argomento del mio saggetto.

    1. @ Morelli
      Sì, ci porterebbe lontani, fino ai volumi di Emanuele Severino, grande e paradossale filosofo morto recentemente. Ma non è il caso di aprire un’altra finestra sul nichilismo e sulla realtà / irrealtà del nulla. Finestra temporalmente ampia, almeno da Parmenide ad oggi.

  16. Io scrivevo: Che la morale cristiana possa riassumersi tutta nella frase “comportati come se Dio esistesse” oppure nella frase “devi credere che Dio esiste e comportarti secondo quelli che vengono ritenuti i suoi comandamenti” ? ».
    Il prof. Aguzzi scrive: “C’è almeno un’obiezione forte: ci sono persone che credono che Dio esiste e proprio per questo si ribellano a Dio ritenendolo un despota maligno. La ribellione contro la malignità di Dio è una vena di sentimenti e di pensieri che alimenta qualche aspetto del pensiero utopistico, non solo ai tempi di Prometeo. Ci sono infine anche quelli che credono sia in Dio sia in Satana e credono che sia Satana la potenza benigna, non Dio.”
    Aggiungo: chi rifiuta Dio allora sarà pure un cristiano di nome ma non di fatto. Chi è cristiano inoltre dovrebbe accettare i principi della Bibbia. Chi crede in Satana come “potenza benigna” non è assolutamente cristiano. Io parlavo di morale cristiana ed il mio era un interrogativo.

  17. Sintesi dell’Antico Testamento: “Loda il Signore e fai la sua volontà”, due semplici enunciati per il programma di una vita.
    Detto questo, caro Davide, chiudo il mio intervento per questo interessante saggio che ha mosso tanto interesse premiando la tua personale e onesta ricerca.

  18. Ringrazio tutti della discussione io pure, ma faccio notare con rammarico che la giusta difesa dell’io in poesia ha portato a discutere di Dio (e Satana) e ha perso di vista il noi. Per me è un brutto segnale.

  19. @ Morelli
    Sì, ci porterebbe lontani, fino ai volumi di Emanuele Severino, grande e paradossale filosofo morto recentemente. Ma non è il caso di aprire un’altra finestra sul nichilismo e sulla realtà / irrealtà del nulla. Finestra temporalmente ampia, almeno da Parmenide ad oggi.

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