Sine titulo

di Roberto Bugliani

“Sono dialoghi costruiti in modo particolare, di cui che io sappia non conosco esempi in letteratura (a parte testi che vi s’avvicinano come quello di Carlo Coccioli, “Le case del lago”, o alcuni di Manuel Puig e Antonio Lobo Antunes). Sono dialoghi in cui i dialoganti non hanno indicatori semantici (quello che nei dialoghi “normali” indica l’identità e il tipo di “comportamento” dialogici, come “disse a voce bassa X” o “Y rispose con voce alterata”). Quando poi un dialogante interrompe il discorso dell’altro per fretta o per ribattere una cosa contraria, allora la stringa dialogica di chi interrompe ha inizio subito sotto il discorso del primo, con la prima parola in minuscolo e senza punteggiatura finale fino a che le interruzioni non finiscono, come una sorta di gradino o i versi d’una poesia. Graficamente questa disposizione spaziale è importante perché connota semanticamente una situazione. Qualora i dialoganti siano più di due, il dialogo si arricchisce di altre voci, diventa un dialogo plurale, dove nelle interruzioni che aggiungono altre voci valgono le stesse norme del dialogo a due. Le parole straniere, poi, le ho scritte come si pronunciano.” (da una mail di R.B. a E. A.)

                           

APERTO

PER ASPORTO

TUTTI I GIORNI

dalle 7 alle 18

– Hai visto che batosta ha preso la Cidiu della Merkel alle ultime elezioni tedesche in Renania e nel Baden come-si-chiama?

– Ma perché, ci sono ancora dei paesi in cui la gente va a votare?

– Incredibile ma vero.

– Poveracci, li compatisco, al confronto noi siamo più avanti di anni.

– Addirittura!

– Be’, siamo nella post-democrazia, no?

– Su questo non ci piove.

– Oh, finalmente una volta che mi dai ragione.

– Guarda che quando cihai ragione io non ho problemi a dartela, figurati, però non vorrei che ti fossi svegliato solo ora e avessi perso le puntate precedenti.

– Non direi proprio, e se vuoi te le riassumo, dunque, prima eravamo nella post-democrazia modello a due, mentre adesso siamo nella post-democrazia modello ammucchiata.

– Che detto così, è anche invitante.

– Quando la politica s’apre all’eros.

– E tutti s’abbracciano contenti, però con un braccio solo.

– Immagino sia una battuta, ma al momento mi sfugge.

– Perché colla mano dell’altro braccio si parano le chiappe

– Ha ha ha.

– E’ il Toni quello là che sta passando davanti alla vetrina di Casascic?

– Fammi vedere, che con ‘ste belin di mascherine sembriamo tutti dei marziani.

– Ora è vicino alla fermata del bus.

– Sì, è proprio lui, il Toni

                                   – chiamalo, dai, che sentiamo se ci sono novità.

– Toni! Toni! ehi, Toooni!

                                      – s’è fermato, fagli segno.

– Ecco, ci ha visti

                           –  vieni, attraversiamo.

– Con ‘sto traffico della madonna ci metteremo ‘na vita.

– Toni, senti, andiamo là dal semaforo! qui è impossibile traversare!

– Ecco il verde.

– Ehilà, Toni, come butta?

– Se l’annaffi butta bene.

– Vedo che malgrado tutto l’umorismo non ti manca

                                                                              – e sul ponte sventola bandiera rossa

                                          – e la rima dov’è finita?

                                                                            – variazione d’autore

        – vabbe’, ma non sforzarti troppo, che ti potrebbe venire l’ernia poetica

                  – aveva ragione quello che consigliava di non dare le perle ai porci

                     – da un estremo all’altro, eh?

                                                                  – poetico, sempre poetico, l’estremo.

– Senti, Toni, hai novità sul nostro amico Dario?

– Torno ora dall’ospedale, ma direi che di sostanziali non ce ne sono

– Sempre stazionario?

– Così ha detto il dottore.

– Uno dei prossimi giorni lo andrò a trovare, è al padiglione psichiatria, vero?

                       – sappimelo dire che vengo anch’io.

– Guarda che non sono ammesse le visite con più d’una persona

       – ah, già, per un attimo m’ero dimenticato della gabbia.

–  La gabbia! ma come sei grezzo! fa più fino chiamarla locdaun.

 – Cosa confabulate che sembrate dei carbonari?

                                                                      – oh, guarda un po’ chi ti spunta da dietro l’angolo

                                                      – ciao Sauro.

– Saludos capitooolistas, compaсeros.

– Non ti smentisci mai, eh?

                                       – che ci vuoi fare, ormai ha preso per quella china.

– Ehi ehi ehi, che ragazzacci reazionari.

– Noi, eh?

– Eccerto, una volta che avevate un preclaro, mirabile esempio del che fare, lo avete snobbato

                                                – se tutto il tuo sovversivismo s’esaurisce lì

               – potrebbe essere un buon inizio, se n’è c’an debù. ti ricorda nulla?

                     – vissi di ricordi, anziché d’arte

                                                                  – hai da farmi accendere?

             – subito

                          – ne vuoi una?

                                              – grazie, volentieri, non conosco la marca, come sono?

                                          – sul leggero andante

                                                                      – e a me niente? devo stare a digiuno?

                                          – vabbe’, per stavolta tieni, ma non ci prendere il vizio

                                 – magari, purtroppo è il vizio ad aver preso me.

– Ma dimmi,  che ci fai da queste parti?

                                                               – e soprattutto, ce l’hai il passaporto?

– Per vostra norma e regola sappiate che la border patrol m’ha detto che basta la carta d’identità per andare dalla mia commercialista

                     – ecco chi ciha la grana

                                               – la grana no, ma la parmigiana sì

                – ne arguisco che la tua commercialista sia di Parma

        – arguisci, arguisci pure

                                    – e dovrei arguire anche qualcos’altro?

               –  ma che domande inopportune fai! è un gentiluomo, lui.

                     – semmai un cavaliere, ordine di San Giorgio

– Eh?

        – sai come diceva San Giorgio? l’unico drago buono è quello morto.

– Bene ragazzi, ora vi toccherà cazzeggiare senza di me, io sono arrivato, lo studio è in quel palazzo là

                                                       – ma là non ci abita anche la Claudia?

                   – sì, è vero, c’è andata ad abitare da un paio di mesi, dopo il divorzio

                          – ah, non lo sapevo, il palazzo è un alveare, gente che va, gente che viene, vabbe’, ora vi lascio, ciao.

– Sarà, ma ho l’impressione che non me la conti giusta il Sauro

      – cioè? vorresti dire che ha provato a depistarci?

                                                                             – be’, e se anche fosse? son mica cazzi tuoi

                                          – ti faccio presente che la Lella è mia cugina oltreché una bravissima ragazza, e non se lo meriterebbe proprio                                       

6 pensieri su “Sine titulo

  1. Molto divertente. E’ una continua allusione a un terreno comune, un passato e il patrimonio (il tascapane) linguistico con cui lo si è condiviso anche in posizioni diverse, che compare solo in mozziconi, corti richiami in cifra. Età e storia, tutto scorciato, ridotto al minimo… e poi c’è anche chi crede che a Milano non si lavorava!

    1. @ cristiana
      direi che sì, cihai colto, come dice uno dei locutori, hai sintetizzato quelli che sono i vettori portanti del “Sine titulo”.
      Quello che invece non ho colto io, è la battuta finale.

      1. Sì, dubitavo infatti che fosse perspicua. Quando mi sono traferita al centro-sud uno, albergatore fancazzista, mi disse: perchè, a Milano si lavora? Poveraccio. E poi -per esempio gli artigiani milanesi- le mani che tutti sanno come si adoperano, e poche parole.

  2. …come calamite che si aggregano via via attirate dal caso per le vie di una città anonima ( forse Genova, per via di quel “belin”), in dialoghi sovrapposti, alcuni pensionati sfaccendati, ormai nel rango degli spettatori pettegoli, alle spalle antiche glorie, si scambiano batture, ricordi smozzicati, osservazioni al veleno sul presente…Ne esce una improvvisata e divertente pièce teatrale

  3. Gran cosa abolire “disse a voce bassa X” o “Y rispose con voce alterata”.
    Il dialogo taglia gli ormeggi, si congeda da una zavorra di finzione e sale per spinta propria come una mongolfiera; una struttura leggera e casuale, casualmente connessa. Si libra sopra una strada trafficata, il vento lo sposta verso un semaforo.

    1. Grazie @ Annamaria e @ Elena per le vostre letture. Un grazie un po’ ritardatario (ma Ennio è molto efficiente nella tabella di marcia del blog, come deve essere, del resto), in quanto impegnato con due amici a mettere a punto un libriccino sui murales zapatisti delle comunità indigene ribelli chiapaneche.

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