Gli anni Settanta nel «panorama storico» di Gianfranco La Grassa

Articolo uscito sul n.8 cartaceo di POLISCRITTURE (dicembre 2011) scaricabile qui

di Ennio Abate

Tempo fa un giovane storico mi confidò che, a suo parere, molti colleghi più anziani di lui erano rimasti fissati (questo il termine usato) agli anni Settanta. Non gli dissi che anch’io, senza essere storico, torno spesso su quegli anni; e, anzi, ho tentato invano di indurre amici, che come me da lì politicamente e culturalmente vengono, a rifletterci assieme. La damnatio memoriae non cede. Ogni tanto, però, scopro con piacere  che qualcuno non li liquida come «i peggiori della nostra vita»[1] e ci torna su quegli anni in modi non banali. È il caso di Raffaele Donnarumma, che in un saggio dedicato al «terrorismo nella narrativa italiana»,[2] si attesta sulla posizione moderata di chi «combatte da anni per impedire l’equiparazione tra gli anni Settanta e gli anni di piombo»[3] e così sintetizza il trapasso da un’epoca a un’altra avvenuto allora: 

«L’impressione che gli anni tra il 1968 e il 1978, per scegliere come estremi  imprecisi le date simbolo della contestazione e dell’omicidio di Aldo Moro, siano stati l’ultima età eroica della Repubblica – l’ultima età, cioè, in cui i destini personali si potevano identificare con quelli collettivi, in cui si consumavano i grandi conflitti, e in cui ciascuno poteva legittimamente pretendere di fare la storia – porta con sé una certa aria di retorica e di nostalgia, ma è tutt’altro che infondata». (p. 437)

Il saggio mi pare ottimo non per il giudizio più o meno “equanime” oggi comune a molti ex-sessantottini e che a me pare “addomestichi” un po’ la storia di allora, ma perché, occupandosi d’immaginario letterario (e dichiaratamente soltanto di quello narrativo) e distinguendolo correttamente dalla verità storica (i due piani, dice, «sono sempre sfalsati»), esamina diversi casi di scrittori allora di punta[4]  e dimostra quanto gli eventi furono vissuti mitologicamente[5] e in preda ad una «angoscia di spossessamento di fronte agli avvenimenti». Tale sentimento non riguardò, per la precisione,   solo narratori o “intellettuali”, ma fu diffuso tra la “gente comune”. Come lo furono le ambivalenze nei confronti del terrorismo[6] e un groviglio, mai chiarito e contraddittorio, di paure, aspirazioni e ideologie, tanto che, come sottolinea Donnarumma, una memoria condivisa su quei fatti è tuttora impossibile.[7] E il lavoro degli storici, anticipo, non è riuscito a ridurre di molto questa oscurità. Un’affermazione che Donnarumma fa, quasi en passant,  sul Pci di allora, che «sino alla metà degli anni Settanta, negava l’esistenza di una lotta armata di ispirazione marxista», (p. 450-451) mette poi il dito sulla principale causa politica di tale oscurità; e può introdurre la revisione di quegli anni compiuta da Gianfranco La Grassa in due suoi scritti apparsi di recente sul sito CONFLITTI E STRATEGIE: Un decennio cruciale  e Un succinto panorama storico (del tutto personale, non da storico).[8]   Altre  revisioni sono in corso d’opera, a riprova che almeno i “vecchi” su quelle vicende riflettono,[9] ma questa di La Grassa[10] mi ha attratto e sfidato, per la sua radicale critica non solo alle posizioni della sinistra comunista, poi diventata semplicemente “democratica”, ma anche al “sessantottismo”, che allora contestò la “sinistra storica” e il “sistema” e che fu la matrice del mio impegno militante (dal 1968 al 1976)  in Avanguardia Operaia.

Perché cruciali per La Grassa gli anni Settanta? Perché, detto in sintesi, sono gli anni del «compromesso storico», un «mutamento fondamentale», che ha segnato la decisiva e non scontata «svolta in senso filo-atlantico» del Pci, il più grande partito comunista d’Occidente (come si diceva in quegli anni), ed ha condizionato la successiva storia italiana. Egli così riassume le tappe principali di quel decennio: 1) 1973: lettura berlingueriana del colpo di Stato in Cile (11 settembre); 2) 1975: firma del patto sulla scala mobile tra la Confindustria guidata da Agnelli, rappresentante principale del capitale famigliare “privato” e Lama, rappresentante dei sindacati in cui allora predominava la CGIL; 3) 1976: appoggio esterno del Pci al Governo di unità nazionale di Andreotti; 4) 1978: viaggio a Washington del “primo ambasciatore” (non ufficiale) del Pci, Giorgio Napolitano, allora considerato il n. 2  della corrente “amendoliana”[11]; 5) ancora 1978: «affaire Moro»,[12] che vide Dc e Pci rifiutare le trattative per la liberazione dello statista democristiano, mentre il Psi, che dal ’76 era guidato da Bettino Craxi, si mostrò più “flessibile”; 6) 1980: sconfitta della Cgil alla Fiat sancita dalla “marcia dei 40.000 quadri”, dopo l’inefficace sciopero dei 35 giorni.

Nel secondo scritto, un corposo saggio, gli anni Settanta vengono riesaminati in un «panorama storico» che va dalla caduta del fascismo ad oggi. Per La Grassa quegli anni, proprio per essere stati gli anni del «compromesso storico» (aspetto politico principale), non sono riducibili ad “anni di piombo”, a “storia criminale” da imputare, secondo una stupida moda, al “comunismo”[13] (aspetto politico secondario, per quanto drammatico e scioccante sul piano dell’immaginario). La lotta politica, che allora si svolse, fu ben più complessa di quanto appaia o si sappia, perché su quegli anni è prevalso «complessivamente un atteggiamento di nascondimento della realtà». La nascose, tra gli altri, il Pci, il quale fece mostra di vedere nelle Brigate Rosse esclusivamente la “reazione in agguato” (solita Cia o Fbi, ecc.). L’hanno nascosta pure la “sinistra comunista” (ingraiani) e i gruppi extraparlamentari (Avanguardia operaia, Lotta Continua, il manifesto-Pdup), che cercarono di separare come potevano la problematica del “terrorismo” (o della violenza armata) da quella dei movimenti del ’68-69, che pur si dicevano (almeno in certi settori)  “rivoluzionari”, riconobbero solo man mano che i “terroristi”[14] appartenevano “all’album di famiglia” e comunque diedero una interpretazione del fenomeno, che egli giudica «buonista e democraticista». Per la precisione, secondo La Grassa, i silenzi o le reticenze hanno riguardato: 1) «la sconfitta del “socialismo”, pur non ancora sanzionata ufficialmente dal 1989»; 2) l’atteggiamento diffuso di rivolta e di resistenza di vari ambienti del Pci al compromesso storico e alla (per La Grassa) «ormai evidente (pur mascherata) svolta del Pci» in senso filo atlantico;[15] 3) «il sommovimento, coperto, che si stava producendo all’est pur nell’apparente immobilismo e cristallizzazione dell’epoca brezneviana» (il 1968 cecoslovacco, i successivi fatti polacchi (Walesa, ecc.), ma anche «le fratture a livello delle dirigenze dei paesi europei orientali», almeno di quelle (Cecoslovacchi, tedeschi della DDR, ecc) che cominciavano a temere troppo dai cedimenti progressivi di settori dell’Urss (che poi prenderanno il potere con Gorbaciov) verso gli Usa». Contestualizzati storicamente (sia pur «da non storico») gli anni ’70, La Grassa procede a una revisione severissima della politica dell’intera sinistra; e in particolare della storia dei gruppi dirigenti del Pci[16] e del «“sessantottismo” movimentista». Egli vede in quel decennio la gestazione lenta[17] di processi, che, dopo il “crollo del muro” di Berlino del 1989 e della dissoluzione dell’Urss (1991), verranno sempre più a galla. Sempre però – aggiunge – in forme deviate, distorte,  tanto da bloccare la vita politica italiana per oltre un ventennio sul dilemma “Berlusconi sì oppure no”, mascherando ben altri, più reali, pesanti e irrisolti dilemmi di politica interna e internazionale (soprattutto nei confronti degli Usa).

Quel decennio per La Grassa è cruciale per un’altra ragione: ha visto ripetersi in altre forme le scelte trasformistiche che avevano già caratterizzato la storia italiana al momento della caduta del fascismo, tanto che è possibile stabilire un’analogia[18] tra gli eventi del ’43-45 e  quelli degli anni Settanta. Come allora, per La Grassa, vinse «“l’antifascismo dei traditori”», così  negli anni Settanta hanno vinto, a partire dal «compromesso storico»,  «quelli che hanno tradito la storia del Pci».[19] Semplificando qui il suo ragionamento, egli sostiene questo: il gruppo dirigente del Pci s’era convinto da tempo che in Urss, paese di riferimento della sua politica, non era in atto nessuna costruzione del socialismo; e che quel sistema non era correggibile con “iniezioni di democrazia”;[20] ma, invece di  iniziare (subdolamente e in modi mascherati) una svolta filo atlantica e finire per subordinarsi agli Usa (come già aveva fatto,  appunto, “l’antifascismo del tradimento”[21] dal ‘43), avrebbe dovuto/potuto  puntare, sia pur in una logica difensiva del “salviamo il salvabile”, a far nascere una buona socialdemocrazia; questa avrebbe potuto giocare le sue carte sul piano internazionale a favore di una ostpolitik, che avrebbe rafforzato un’autonomia dell’Italia,  purtroppo sempre conculcata;[22] invece, con il «compromesso storico» il Pci si è consegnato definitivamente tra le braccia stritolatrici del capitalismo famigliare (Fiat in primis) e degli Usa, che di quel capitalismo italiano da sempre si sono serviti come loro agente principale e più fido.

La Grassa ripropone, dunque, alcune ipotesi non inedite, ma scomodissime, aleggiate in passati dibattiti, ma poi accantonate e silenziate:

1. Con un non troppo implicito accostamento tra l’uccisione di Moro e l’omicidio di Enrico Mattei nel 1962,[23] egli ripropone la tesi che Moro poteva essere salvato e invece fu deciso (da chi?) di farlo perire:

 «si verifica l’affaire Moro, i cui contorni non sono ancor oggi per nulla chiariti (anzi sono del tutto oscuri), salvo lo schieramento dei partiti: Dc e Pci per non trattare affatto e lasciar condannare lo statista diccì, il Psi interessato a salvarlo. Ci si dice, ormai da qualche tempo, che era stato infine scelto di intavolare una trattativa, ma che qualcuno suggerì ai brigatisti di uccidere Moro poche ore prima che venisse ufficialmente annunciata tale decisione. Non mi pronuncio perché la faccenda è rimasta sempre avvolta nella nebbia più fitta. In ogni caso, rilevo solo quelle posizioni: Dc-Pci, in pieno “compromesso storico”, stretti assieme nell’intransigenza, il nuovo Psi interessato a rompere questa tenaglia salvando Moro. Uscendo vivo, questi non avrebbe rivelato pubblicamente nulla, ma avrebbe saputo come agire nei confronti di chi non sembrava volerlo vivo. Ecco una pagina di storia che qualcuno dovrebbe chiarire; ma occorre una nuova generazione, che esca dalla putrefazione preparata fin da allora e attuata dopo il 1991, anche tramite l’operazione “mani pulite”».[24]

2. È esistito ed esiste nella storia italiana un contrasto sordo tra un capitalismo familiare e un capitalismo pubblico, contrasto che oggi La Grassa  giudica ben più determinante di quello tra capitale e lavoro, specialmente se si tenga presente la cornice della storia mondiale, che ha visto il passaggio irreversibile da un capitalismo industriale ottocentesco (quello ben studiato e scientificamente rappresentato nell’opera di Marx, soprattutto in Das Kapital) a nuove forme di capitalismi (il plurale è decisivo per La Grassa), che sono guidati da inedite figure di capitalisti, i «funzionari del capitale», non più assimilabili ai rentier  o ai “padroni delle ferriere”. E il prototipo moderno dei nuovi capitalismi, affermatosi per la prima volta proprio negli Usa ai tempi della Prima guerra mondiale, è per La Grassa mille volte preferibile a quello borghese e familiare,[25] che  tuttora domina in Italia (ma subordinato, però, a quello statunitense) non può essere capito e affrontato con la sola teoria del conflitto capitale/lavoro di Marx.[26] In tutto  il suo «panorama storico» La Grassa    torna con insistenza su questo punto. Il blocco di potere legato alla  Fiat e agli Agnelli alla testa della Confindustria ha giocato in Italia un ruolo deleterio. Perché questo capitalismo familiare[27] ha stabilizzato la “ridotta modernità” dello sviluppo industriale italiano subordinandolo a quello statunitense.

3. Altrettanto nefasta è sul piano culturale per La Grassa l’azione svolta dal quotidiano Repubblica. Fondato  nel gennaio 1976, esso si distinse da subito per il suo appoggio al “compromesso storico”. Particolarmente in tema con  questo numero di «Poliscritture» su revisioni e revisionismi è  quanto La Grassa scrive sul contributo dato da «Repubblica»  al «profondo snaturamento dell’antifascismo resistenziale». Il giornale ha per lui incoraggiato una lettura democraticistica della Resistenza, presentata esclusivamente come processo di “liberazione”, soprattutto grazie agli americani, dal giogo nazifascista.[28]

4. Craxi avrebbe potuto costruire un’alternativa al «compromesso storico» e alla «svolta filo atlantica» del Pci. Secondo La Grassa, infatti, il leader del Psi, avendo ormai rotto con la tradizione del socialismo italiano, voleva una vera modernizzazione dell’Italia. Egli avrebbe dovuto conquistare forti appoggi nel settore del capitale pubblico e non sprecare l’occasione di allearsi con gli amendoliani (la “destra” del Pci, i “miglioristi”). Questi, a suo avviso,  erano «veri socialdemocratici interessati alla produttività del sistema, allo sviluppo di imprese di grandi dimensioni ma di punta, cui dovevano collegarsi i cosiddetti “ceti medi produttivi”, i piccolo-medi imprenditori, i lavoratori “autonomi”, ecc.»; e soprattutto rappresentavano all’interno del Pci una corrente «tendenzialmente filo-sovietica», che, interessata all’ostpolitik, puntava a uno sviluppo delle imprese strategiche italiane, che  non si confinasse nell’atlantismo di marca statunitense e «avrebbe dunque potuto tentare la carta di una  maggiore autonomia nazionale». Tale prospettiva fallì per limiti culturali di Craxi. Il leader socialista  non capì che il comunismo non esisteva più né in Urss né nell’Europa orientale e tanto meno in Amendola, e, intestardito nel contrastare il Pci, imboccò la via (nell’immediato impraticabile dagli amendoliani) di rivalutare Proudhon contro Marx. La cecità “anticomunista” di Craxi gioverà all’altra “corrente” del Pci, quella ingraiana, che, alleatasi con Berlinguer, svolgerà la sua funzione estremamente negativa al momento del crollo del “campo socialistico”.

6. Limiti della «“modernizzazione” sessantottesca». Secondo La Grassa il passaggio dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale, passaggio avvenuto con il «boom economico» tra 1953 e 1958  e sotto la guida del capitalismo familiare,[29] produsse un imponente inurbamento di masse contadine (il cosiddetto «esodo biblico» delle migrazioni interne) e anche un ingresso nelle università di molti figli dei «ceti “piccolo-borghesi” in arricchimento». Ne derivò «una sorta di “connubio conflittuale”» tra le masse di lavoratori che passavano dalla condizione contadina a quella operaia e il capitalismo italiano familiare. Su tali fenomeni s’innestarono le letture dei gruppi extraparlamentari, che videro nella classe operaia il vero «soggetto rivoluzionario». Ma i gruppi finirono per usare una teoria di Marx già deformata da Kautsky.[30] E diedero interpretazioni altrettanto errate dei Grundrisse,[31] alimentando attese  irrealistiche su una «“proletarizzazione” dei tecnici», cioè del «management di medio e medio-alto livello» che si sarebbe potuto/dovuto alleare con la «Classe  operaia». Le correnti della sinistra comunista e sessantottesche furono per La Grassa altrettanto superficiali quando si avvicinarono al maoismo e alla stessa scuola althusseriana,[32] interpretando la stessa involuzione “socialistica” (sovietica) «in termini apertamente antileninisti e di semplice “buonismo sociale”» e finendo successivamente per scivolare anch’esse verso il filo-atlantismo berlingueriano. In sostanza, per lui il ’68 fu una «presunta rivoluzione di cui Pasolini    colse l’orrore e l’obbrobrio».

7. Negli anni Settanta la questione dei «ceti medi» diventò sempre più centrale contro  ogni aspettativa dei marxisti ortodossi, senza trovare né allora né dopo una soluzione adeguata da parte di tutti i partiti (di destra e di sinistra) e finendo per alimentare una sua gestione clientelare che ha rafforzato soprattutto i ceti medi improduttivi. Secondo La Grassa dopo il boom, negli anni ’60 e primi ’70, il Pci, soprattutto nella sua parte “migliorista” (socialdemocratica), aveva tentato  di costruire una alleanza tra la “classe operaia” e i  “ceti medi produttivi”,  presenti soprattutto nella zona “bianca” (lombardo-veneta) e in quella “rossa” (toscoemiliana). Quel progetto era un tassello della “via italiana” al socialismo e prevedeva anche «l’alleanza con l’industria pubblica», che il partito avrebbe dovuto sfruttare «in senso antimonopolistico». Da qui lo «statalismo» del Pci, il primato cioè concesso al settore pubblico rispetto al privato (per cui “pubblico era bello e quasi socialista” si potrebbe dire), che però già stava portando al blocco delle forze produttive nelle società dell’Est. Avvenne che, mentre i ceti medi venivano «conculcati ad est», ad ovest il capitalismo, molto più flessibile e smentendo ogni teoria “crollista”, espanse «una sorta di immenso “calderone” di ceti medi, pervasi da una diffusa mentalità “piccolo borghese” (l’“uomo medio”, cioè mediocre, ben dipinto da Pasolini), ma con enormemente differenziati livelli di reddito e con una serie di tipizzazioni professionali e specialistiche ad ogni livello di reddito».[33]  E in Italia poi si è arrivati soprattutto ad un ampliamento dell settore dell’impiego pubblico (compreso quello degli Enti locali) «creando così infiniti canali di finanziamento per iniziative che poco contribuivano alla “produttività” dell’insieme».[34]

A questo punto va fatto almeno un accenno al «panorama teorico» (qui) di La Grassa, che è parte integrante e fondamento della sua lettura degli anni Settanta e del «panorama storico» qui riassunto. In quest’altro scritto La Grassa polemizza contro le correnti letture che insistono a presentare Marx come “umanista” o “profeta” del comunismo o, negli ultimi tempi, come un semplice “anticipatore della globalizzazione”. Egli, invece, chiede di rileggere fuori da ogni illusione umanistica e religiosa una “realtà”, quella dei capitalismi e della storia del Novecento, completamente mutata rispetto all’epoca di Marx. Delle «rovine» di quella tradizione salva Adam Smith, perché la sua antropologia «considera che l’impulso fondamentale è l’egoismo»,[35] e Marx, perché smitizza la libertà e l’eguaglianza della  società borghese.[36] Poiché, leninianamente, ritiene che «rimettersi alla concretezza empirica senza alcun orientamento teorico, rischia di condurre proprio all’inesatta valutazione dei reali rapporti di forza tra gruppi sociali, o anche tra individui», si pone e pone il compito di «costruire una nuova teoria», che abbandoni in partenza «ogni visione duale di classi antagonistiche in contrasto»[37] e prenda atto dei «fallimenti del comunismo» e, quindi,  anche del fallimento (o della “falsificazione”) di «una serie di previsioni marxiane in merito alla dinamica del modo di produzione capitalistico». Il punto più innovativo e problematico della sua attuale ricerca riguarda il primato che per lui hanno assunto le «strategie per acquisire la supremazia» (e quindi il conflitto, la politica).[38]

Ho presentato quanto pensa La Grassa sugli anni Settanta e la storia italiana del dopoguerra. A questo punto sarebbe necessaria una discussione serrata delle numerose questioni che essa pone ai potenziali lettori che volessero vagliarla criticamente. Non è possibile svolgerla in questo numero della rivista e perciò mi limito ad avviarla con alcune mie osservazioni e obiezioni:

1. Se confronto la  revisione «del tutto personale, non da storico» di La Grassa  con quelle che sullo stesso periodo hanno condotto  i due o tre storici di professione da me letti negli ultimi anni, salta agli occhi la distanza tra il loro punto di vista in senso lato “democratico” e quello di La Grassa, che non ha rinunciato alla lezione di Marx, di Lenin e di Althusser e, quindi, alla critica della “democrazia”. [39] Basti leggere, in particolare,  i lavori di Giovanni De Luna e Paul Ginsborg,[40] mentre più accostabile per alcuni versi ad alcune tesi di La Grassa mi sembra l’analisi  di Guido Crainz,[41] che ne Il paese mancato sottolinea sia il fallimento della “modernizzazione conservatrice” sia l’impossibilità del compromesso di tipo socialdemocratico.

2. La lettura di questi  due scritti mi ha costretto a ripensare l’insieme dei condizionamenti storico-politici che incombevano sulla mia esperienza di  “militante politico di base” extraparlamentare.[42] Tenendo in debito conto (ma senza esagerare, perché oggi  certe distinzioni politiche di allora sembrano cose da “marziani”…) il grado di vicinanza/distanza tra l’area politica in cui militavo (Avanguardia Operaia) e quella a cui faceva riferimento La Grassa (l’area filocinese), mi sento di dire che ci accomunava la critica al Pci (l’”antirevisionismo”) e ci divideva il giudizio  sul movimento del ’68-’69: speranzoso il mio fino all’adesione e alla partecipazione  attiva; di critica e  di  netta condanna, , in parte assimilabile alla polemica pasoliniana “contro gli studenti”. Si potrebbe discutere a lungo se quegli strumenti per leggere la realtà , che io (e altri “piccoli borghesi” come me) avevamo tratto dalla partecipazione “spontanea” al movimento del ’68-’69, ci fornissero una percezione approssimativa o del  tutto errata di quegli eventi (Cfr. Tre mesi del 1978 in questo stesso numero di «Poliscritture») e se potevano essere sostituiti da altri più “scientifici” (e più efficaci?). Lascio in sospeso il problema.

3. Non si dovrebbe dimenticare che le nostre revisioni degli anni Settanta (e della storia dell’Italia del dopoguerra) vengono  compiute – problema non trascurabile – dalla condizione di sconfitti (o di “bastonati dalla storia”, come diceva Fortini). «La storia la fanno i vincitori» è un monito ineludibile. Lo ricordo non per invitare alla rassegnazione o al silenzio, ma per evitare certe ripetizioni (che  hanno un sapore luttuoso e mortuario per me) della vecchia critica “antirevisionista” che facevamo al Pci di allora e spendere le residue e migliori energie che abbiamo nell’allargare il più possibile – da “vecchi” quali siamo (le revisioni del passato le fanno quasi sempre i “vecchi”)  – il varco per intravvedere qualcosa di più della “nuova realtà”. Da una buona consapevolezza della sconfitta delle nostre speranze di allora (o, per chi ce l’aveva, delle ipotesi  teoricamente più salde) dovrebbe nascere un atteggiamento più maturo (meno inquinato dal risentimento, dal catastrofismo, dal disprezzo impotente per i ”vincitori” o i “traditori”, dal desiderio di rivincita) sia nella revisione del passato che nell’analisi dei nuovi dati del presente in continuo mutamento.

4. La mia personale revisione del passato da tempo si è mossa in una direzione che ho chiamato di esodo (innanzitutto dalla sinistra). Ho fatto mie, sulla scorta di Ranchetti e Fortini, le formule di bilancio drastico della tradizione cristiana (da cui provenivo) e di quella comunista (a cui mi ero accostato appunto a partire dal ’68-’69): non c’è più religione; non c’è più comunismo. È per questo, credo, che, a differenza di altri, ho potuto  apprezzare la critica di La Grassa alla sinistra e al Pci, anche se dà una valutazione positiva del ”migliorismo” di Amendola o del periodo staliniano, che ancora oggi non condivido; e prendere sul serio il suo corpo a corpo teorico con l’opera di Marx, che altri ritengono “palloso” o “anacronistico”. Quindi, non mi scandalizzano né la sua dimostrazione “scientifica” – testi di Marx in  mano –  dei mitologemi sulla “classe operaia” o le critiche feroci  ai grundissisti  o il suo rifiuto di un comunismo umanistico e compensatorio. Né i suoi inviti ad andare oltre Marx, a guardare oltre l’orizzonte, a prendere atto dell’incontrollato potere dei «funzionari del capitale». O le sue sottolineature insistenti sul conflitto contro ogni pigra convinzione di comportamenti sostanzialmente miranti alla pace o tutto sommato razionali nella gestione dell’economia (la sua critica al minimummax )….

5. Non lo seguo, però,  quando l’invito alla conoscenza scientifica della  nuova realtà, a sollevarsi dalla chiacchiera sul contingente e immediato verso la teoria (e una «nuova teoria») e a lavorare per i tempi lunghi, secondo me scivola (per impazienza, per eccesso di indignazione contro i “traditori”, per vagheggiamento di “repulisti rivoluzionari”) verso l’invocazione di figure mitiche, come quelle del «Grande Chirurgo» che dovrebbe  sanare il corpo in cancrena della nazione. Posso sbagliarmi, ma  è come se egli smettesse l’abito scientifico dell’indagatore e del pioniere e girasse a vuoto, sprecandosi in invettive dai toni “danteschi”, “poetici” contro il vecchio mondo corrotto (soprattutto della “sinistra”  e dei suoi “intellettuali”) o questa specie di gente nova,  che più che arrivata al potere si è adattata al servizio dei dominatori (statunitensi) Non che mi senta di frenare la sua indignazione. Ma di mostrarne l’inefficacia comunicativa e forse l’appannamento dello stesso sguardo scientifico, sì.

6. La Grassa è ancora uno dei pochi veri intellettuali in grado di guardare ai grandi del passato,  ai punti di maggior conflitto della storia, quando  ai dirigenti politici vengono richieste azioni eccezionali.[43] I suoi  maestri sono stati i grandi comunisti e i grandi illuministi; e perciò non sopporta il moralismo a sfondo più o meno religioso, l’esaltazione col tempo diventata sempre più untuosa, ipocrita o genericamente libertaria della  natura umana ”buona”  o dell’eguaglianza tra gli uomini, convinzioni continuamente smentite nei fatti. A volte mi  viene anche il dubbio che sia io a sbagliare nel vedere contraddizione tra  il suo rigore scientifico e la sua indignazione, laddove, invece, c’è profonda coerenza.  Eppure non mi pare del tutto vano chiedersi se  questo stile polemico-comunicativo contribuisca a delineare il che fare? di cui in tanti sentiamo la mancanza. Siamo davvero in tempi di “termidoro postmoderno” e le uniche soluzioni pensabili sono le congiure alla Babeuf o il “sogno” più o meno ad occhi aperti dell’arrivo del Grande Chirurgo, questa sorta di derivato “moderno” del Grande Veltro? Non vorrei che la critica alla “sinistra” e la potatura dell’albero di Marx portassero, per reazione, ad accettare più del necessario il “vecchio” del pensiero che fu della Destra. Il che non significherebbe avanzare verso il “nuovo” o la “realtà”.[44] Se, messa da parte la lotta di classe come  un ferrovecchio otto-novecentesco, dovessimo davvero  ripartire da un risorgimento nazionale, come si fa a “formare un buon italiano” e contemporaneamente a evitare gli accecamenti nazionalistici? Io ci andrei, insomma, più cauto. E qui viene buono, secondo me, l’invito di Fortini morente: «proteggete le nostre verità».

7. La preferenza di La Grassa per il Marx scienziato sociale ha ottime giustificazioni, ma non me la sento di considerarla l’unica scelta possibile. Ci sono alcune buone ragioni per non cancellare anche il Marx filosofo, anche se circolano letture filosofiche ambigue, ripetitive, rituali. Marx non è stato filosofo per un errore di gioventù. Certamente egli «ha scritto Il Capitale» ed è «il fondatore della “critica dell’economia politica”» e da ciò anche le letture filosofiche  non dovrebbero prescindere, ma gli sviluppi scientifici del suo pensiero non devono  far trascurare la fecondità delle riflessioni filosofiche precedenti, che – forse si potrebbe dire – hanno fatto non solo da “concime” ai risultati più scientifici e fondamentali (non solo per La Grassa),[45] ma aiutano ancora oggi a continuare l’interrogazione su aspetti della realtà diciamo “antropologici” da cui il metodo scientifico necessariamente astrae. Quel che accade – ed è un esempio fatto dallo stesso La Grassa –  per la scienza galileana, la cui esistenza non impedisce che milioni di uomini e donne  continuino a seguire concezioni più approssimative  e a regolare i loro comportamenti  in base a quelle e non alla scienza,[46] accade anche alla teoria di Marx.  E se è vero che avere acesso all’opera di Marx scienziato permette di guardare la vita delle società in modo meno ingenuo,  non unicamente legato all’«apparenza sensibile delle cose e dei processi», resta aperto il problema – fondamentale per la politica –  dello scarto tra sapere degli specialisti (i “dotti” di una volta) e saperi della “gente comune”, che non si risolve sbeffeggiando i creduloni  o denunciando illuministicamente che essi sono manovrati da ideologi furbastri. Questo gap potrebbe essere insuperabile  anche in tempi storici lunghissimi, ma può la politica non tentare di rifare il “miracolo scientifico” che riuscì a Lenin (sia pur per poco nel 1917), quando mise in contatto i due sistemi di pensiero (quello scientifico e quello mitico-religioso delle “masse”)? O dobbiamo  prendere atto che i due sistemi rimarranno per sempre nettamente separati, inconciliabili, incomunicanti e indifferenti l’uno all’altro, per cui da una parte avremo sempre e solo élite o scienziati e dall’altra esclusivamente masse manovrabili a piacimento? Anche questo è un problema che io manterrei aperto.

 8. Secondo me un lettore ben intenzionato (non parlo di quelli prevenuti…) delle analisi di La Grassa non dovrebbe fermarsi più del necessario sulla pars destruens[47] della sua critica e procedere, sulla base degli stimoli che da lui vengono a cercare oltre l’orizzonte. Dovrebbe tenere in gran conto il suo realismo lucido, ma non rinunciare a ripensare anche le «rovine» dell’’esperienza storica del comunismo e l’insegnamento del Marx filosofo. I movimenti della fine degli anni Sessanta (rivoluzione culturale cinese compresa), che parevano dare la spinta sufficiente al tentativo di oltrepassare sia lo stalinismo filosovietico sia l’indigesto e dubbio “socialismo reale” sia  il capitalismo, si sono afflosciati; e quelli d’oggi – mondialisti, moltitudinari – mostrano molti limiti. Questo si deve riconoscere anche da parte di chi (come me) dal “movimento” si è affacciato alla pratica politica. Perciò i meriti della revisione  esemplare e coraggiosa di La Grassa non possono essere taciuti.  Essa è una sfida, che faremmo bene ad accogliere in molti (al di là – ripeto – della parte che mi pare più caduca, quella – ho detto – delle invettive contro i “traditori”) ed una risorsa per chiunque voglia pensare fuori dai pigri schemi di una democrazia che si è fatta guerrafondaia e neocolonialista. Si può avere, insomma, nei confronti del pensiero di La Grassa un atteggiamento  di cauta adesione e di confronto schietto, accogliendo, dunque, in pieno il suo invito a guardare oltre, ad interrogarsi su quel che non è più afferrabile con  i nostri vecchi strumenti e – aggiungerei – tenendo sotto controllo i rispettivi immaginari di partenza siano essi “umanisti” o “scientifici”.

Note

[1] Si veda AA.VV, Anni ’70. I peggiori della nostra vita, Marsilio 2011, esempio illuminante di malafede e di riduzione della storia ad ottiche “generazionali”.

[2] Raffaele Donnarumma,  Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana (1969- 2010) in Per Romano Luperini a cura di Pietro Cataldi, p. 437, Palumbo, Palermo 2010

[3] Scrive, infatti, che, se «è fuori di dubbio che i terroristi rossi provenivano dal movimento, […] lo è altrettanto che il movimento aveva rifiutato la lotta armata: Gli anni Settanta non hanno visto solo tre attentati al giorno, ma mutamenti nella società, nel lavoro, nella cultura, di cui godiamo ancora,  sebbene non ci si possa illudere sulla loro irreversibilità» (p. 439-440).

[4] Accenna a Il nome della rosa, che per Donnarumma «presuppone lo shock dell’omicidio di Moro senza poterlo nominare» (p. 447) e nel quale Eco esprime il turbamento nel riconoscere l’aria di famiglia tra terrorismo e tradizione marxista; a Petrolio  di Pasolini, che non parla tanto «di un terrorismo rosso di cui incrocia, durante la stesura, le primissime manifestazioni, ma di terrorismo nero» e nel quale la violenza politica marxista è rimossa(p. 449), come pure viene rimosso lo scandalo di un proletariato partecipe o vicino alla lotta armata; a Calvino,  che «non racconta di nessun terrorismo né rosso né nero; e quando si avvicinerà al tema, come nelle avventure della guerrigliera di Ludmilla in Se una notte d’inverno un viaggiatore, adotterà modi allusivi, parodici e derealizzanti» (p. 451); a «tutte le storie imbastite da Malerba sul Potere come crimine, dal Pataffio a Fuoco greco alle Maschere», che Donnarumma giudica «allegorie della strategia della tensione» (p. 452);  a Il Contesto di Sciascia, dove lo scrittore  «disconosce del tutto le origini sociali e politiche del terrorismo rosso, di cui nega conseguentemente il peso reale non l’esistenza (siamo, del resto, nel 1971)» (p. 454).

[5] «quel decennio sta […] sotto un mito di distruzione», p.439.

[6] Per Donnarumma la letteratura su quegli anni «rivela che il terrorista esercita una fascinazione ipnotica e che, sebbene il discorso pubblico cerchi di esorcizzarlo sotto le etichette di ‘folle’ e ‘vile’, di fatto ne è invaso e non riesce a sottrarvisi » (p. 455). La sua analisi prova anche che «il terrorismo ha prodotto una serie di discorsi letterari che, mentre lo dicevano, insieme lo nascondevano (p. 443) e ricorda che «fare una storia dell’immaginario [degli anni Settanta] significa spesso fare la storia  di come ci proteggiamo dalla storia e di come cerchiamo di allontanarla».

[7] Donnarumma: «non esiste “un racconto” sociale sul terrorismo o, poniamo, sul caso Moro: esistono  molti racconti che lottano per affermare una loro idea di quei fatti; e non è detto che riescano ad espellere le versioni opposte»(p. 442).

[8]http://www.conflittiestrategie.it/2011/04/20/un-decennio-cruciale-di-giellegi/; http://conflittiestrategie.splinder.com/post/24523555/un-succinto-panorama-storico-del-tutto-personale-non-da-storico

[9] La più recente sembra essere quella di Mario Tronti nel suo ultimo libro, «La libertà di un moderno, dall’estremo possibile». Così ne parla Ida Dominjanni su «il manifesto» del 21.7.2011:«Di nuovo la catastrofe dell”89-91, e al suo interno quella del Pci, nel testo del ’96, e forse oggi più pungente di allora, intitolato «Sinistra e partito nel crollo della politica», e poi in quelli più recenti che dialogano con Lucio Magri e Alfredo Reichlin: nell”89 «non bisognava svendere, bisognava reinvestire», e invece «aver rinunciato alla necessaria critica della propria storia in favore di un pentimento a buon mercato ha aperto quell’età della subalternità, della non-differenza, della irriconoscibilità, che tuttora pesa sull’offerta simbolica di una possibile nuova sinistra».

[10] Un breve ma esauriente riepilogo del percorso intellettuale e politico di La Grassa si trova a questo indirizzo: http://www.lagrassagianfranco.com/pensiero.html. Aggiungo che le analisi degli avvenimenti politici, che La Grassa pubblica assiduamente sul sito «Conflitti e Strategie», sono  così caustiche e controcorrente da essere in effetti un pugno nello stomaco per il pigro senso comune “democratico” dell’Italia d’oggi. Molti evitano di leggerle e ancor più di discutere la drastica revisione della teoria marxiana da lui condotta da oltre un decennio. Convinto dell’importanza e del valore dei suoi studi, ho deciso di confrontarmi da solo, come adesso sto facendo, con queste sue “revisioni antirevisioniste”.

[11] Va chiarito che per La Grassa tale viaggio ha avuto un’importanza straordinaria e “pionieristica”,  specie se esaminato alla luce di avvenimenti successivi,  quali il crollo del campo socialista (1989), dell’Urss (1991) e poi dell’operazione giudiziaria di “Mani pulite” che portò alla fine dei governi Dc-Psi; e fino ai più recenti, come la presa di posizione  a favore dell’intervento militare italiano in Libia a fianco dei “volenterosi”.

[12] Era il titolo del libro di Leonardo Sciascia (Sellerio, Palermo 1978).

[13]Cfr. Furet,  Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 1998.

[14] Il termine è da  La Grassa, ma anche da me e da quanti non credono che sia stata fatta luce sul fenomeno, opportunamente virgolettato.

[15] «Non credo a Br infiltrate dalla Cia o Fbi. All’origine vi fu l’opposizione di ambienti comunisti italiani al tradimento e cambio di campo del Pci berlingueriano, contrastato dai Servizi dell’est. Su chi mise all’angolo le Br circa la scelta di uccidere oppure no – fra l’altro trasmettendo ai carcerieri di Moro notizie false e contrarie al vero sulla riunione della notte precedente l’esecuzione, in cui si era deciso di accedere almeno minimamente alle loro richieste – ci sarebbe però molto da indagare. E credo proprio si scoprirebbe che, al contrario dell’epoca di Giuliano, i veri conniventi con gli Usa – questi ultimi ormai del tutto favorevoli ad un esito letale dell’affaire Moro per ragioni di equilibri politici in Italia – vanno annoverati tra gli ormai rinnegati e traditori al comando nel Pci; non tra i “revisionisti” amendoliani, da noi tanto avversati in questa loro qualifica (da “socialdemocratici”), bensì tra i berlingueriani e chi tradì Amendola diventando “ambasciatore” del Segretario piciista, ormai piattamente filo-atlantico».( nota su CeS del 24 lug 2011)

[16] Per La Grassa, «anche i settori (del Pci) che si pretesero innovativi – con alle spalle Gramsci, ma rivisitato e piuttosto svirilizzato da Togliatti – hanno sempre sbagliato i loro giudizi storici». Il fascismo e il nazismo sono stati giudicati come «fenomeni reazionari del capitalismo agrario e/o finanziario», mentre per lui «il nazifascismo fu comunque un fenomeno rivoluzionario, uno dei tentativi di rivolgimento (magari fallito) del capitalismo borghese e famigliare». Anche dopo la guerra, il Pci di Togliatti , al IX Congresso, nel 1960 sosteneva l’arretratezza del capitalismo italiano proprio nel mentre l’Italia era nel pieno del boom economico e della sua trasformazione sociale.

[17] «i fenomeni degenerativi non potevano venire troppo allo scoperto per l’esistenza del mondo bipolare».

[18] Sono ipotesi che egli chiede agli storici  di vagliare e, se possibile, documentare. Da qui la riaffermazione del suo punto di vista «del tutto personale e non da storico».

[19] Precisa La Grassa: «Ci interessa però adesso l’effetto negativo che il “compromesso storico” ebbe sul fronte interno. Malgrado la linea ufficiale del partito sia rimasta per qualche tempo la stessa – le riforme di struttura, l’alleanza operai-contadini, ecc. – in realtà vi furono notevoli cambiamenti. Il compromesso con l’“occidente” (la stessa Nato era ormai in realtà accettata) passava negli anni ’70 per l’accordo con la Dc, sia pure sotto avallo e con il benestare degli Stati Uniti. Non si poteva abiurare immediatamente il comunismo né abbandonare ogni collegamento con l’Urss e il “socialismo”. Si arrivò solo gradualmente a predicare la “fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, a criticare l’involuzione e cristallizzazione delle società di tipo sovietico. Tutte scelte che non potevano essere criticate “da sinistra”, che erano in fondo proprie anche delle forze “extraparlamentari” (“comuniste”) e che, a mio avviso (e non ho cambiato opinione), erano innegabili. Ritengo ancor oggi un errore madornale quello di voler difendere quel tipo di società sostenendo che, sia pure imperfettamente (magari per un difetto di “democrazia”), erano “socialiste”. Ciò che andava invece criticato nella politica del Pci, soprattutto (non solo) dalla segreteria Berlinguer in poi, era l’abbandono di una prospettiva, di cui fece a lungo parte, senza alcuna riflessione (auto)critica, senza analisi (marxista) di quelle società e del loro essersi bloccate […]Non interessava un simile tipo di riflessione critica, tanto meno condurla sentendosi parte di un grande movimento storico iniziato nel 1917. La critica del Pci, così superficiale ed estemporanea, serviva solo a lanciare messaggi verso “occidente”, ad avvertire che, se si fosse modificato il quadro internazionale (ciò che avvenne dopo poco meno di vent’anni), il Pci sarebbe già stato pronto al “salto della quaglia”. In fondo, non se ne accorse in modo profondo nemmeno la Dc (almeno così sembra) e tanto meno Craxi, giocato dal suo esasperato anticomunismo.»

[20] Come quelle tentate da Dubcek, che La Grassa osteggiò. Come osteggiò più tardi il tentativo di Gorbaciov; e, si deve aggiungere, come aveva osteggiato, prima ancora,  il 56 ungherese e il kruscevismo. Egli vede in tutti questi tentativi fallimentari di “riforme” solo atti di liquidazione di un’esperienza storica, non certo qualificabile come socialista, ma comunque significativa.

[21] Per «antifascismo del tradimento» La Grassa  intende quei settori che a partire dall’otto settembre 1943 lavorarono politicamente per affermare « una sorta di continuità capitalistica in posizione però di subordinazione al paese liberatore» (gli Usa) contrastando i settori comunisti ( ma anche socialisti, reali “azionisti”, ecc.) che tentarono di impostare nell’Italia postfascista almeno una profonda “riforma sociale”.

[22] La Grassa giudica oggi illusoria ogni prospettiva di lotta per il comunismo. Perciò  il ’68-’69, che per molti partecipanti dei gruppi extraparlamentari fu una sorta di nuovo “biennio rosso”, viene da lui derubricato a processo di blanda modernizzazione “piccolo borghese” dei costumi. In questo giudizio negativo, egli condivide in toto la polemica di Pasolini contro gli studenti del ’68. Da qui anche il suo mezzo apprezzamento  di Craxi e la critica/autocritica a posteriori delle analisi  antirevisioniste di allora che  accusavano il Pci di socialdemocratizzarsi, mentre col senno di poi – dice oggi – quel partito stava in realtà imboccando la via liberale e filoamericana.

[23] Enrico Mattei (19061962) è stato un imprenditore e dirigente pubblico italiano. Nell’immediato dopoguerra fu incaricato dallo Stato di smantellare l’Agip, creata nel 1926 dal regime fascista; ma invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l’azienda fondando nel 1953 l’ENI, di cui l’Agip divenne la struttura portante. Mattei diede nuovo impulso alle perforazioni petrolifere nella Pianura Padana, avviò la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano, e aprì all’energia nucleare. Sotto la sua presidenza l’ENI negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica, iniziative che contribuirono a rompere l’oligopolio delle ‘Sette sorelle‘, che allora dominavano l’industria petrolifera mondiale. Era vicino alla sinistra democristiana e fu parlamentare dal 1948 al 1953. Il 27 ottobre 1962 il suo aereo privato si schiantò a Bascapè (PV), in un incidente le cui cause non furono mai chiarite, fino a poco tempo fa, quando vennero ritrovati segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull’anello e sull’orologio di Mattei.  (da http://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei).

[24] In un altro passo  aggiunge: «Le operazioni dei Servizi […] penso siano state molto contorte e con intrecci complicati tra occidente e oriente; perché anche nei paesi “socialisti”, con la degenerazione e la sclerosi,andavano svolgendosi molte manovre nascoste che appariranno, ma non nella loro giusta luce (ne sappiamo poco tuttora), verso il periodo finale di quell’esperienza storica. Il “terrorismo” è frutto dei vari giochi contrapposti; e non fu affatto, a mio avviso, quello che si volle far passare con questa definizione. Non ho dubbi sul fatto che in esso furono coinvolti individui in perfetta buona fede e sicuri di star perseguendo dati fini, mentre gli scopi reali erano altri e ben manovrati da chi stava dietro le quinte».

[25]  «Parte dell’industria pubblica, quella ancor oggi parzialmente tale […], ha elementi di competizione con i settori (energetici, elettronici, ecc.) propulsivi del paese centrale; mentre Fiat e metalmeccanico, e altre imprese private confindustriali, settori decisivi nell’affermazione dell’antifascismo del tradimento, hanno […]una posizione simile a quella che, mutatis mutandis, occupavano a metà ‘800 gli Junker prussiani e i cotonieri del sud statunitense rispetto al centro del al centro del sistema economico mondiale (allora l’Inghilterra)».

[26] Queste tesi sono sviluppate nell’ultima produzione teorica di La Grassa: 1) Gli strateghi del capitale,            Manifestolibri 2006; 2) Finanza e poteri, Manifestolibri 2008; 3) Tutto torna, ma diverso,   Mimesis 2009; 4) Due passi in Marx (per uscirne) Il Poligrafo (Padova) 2010; 5) Oltre l’orizzonte,  Besa editrice, Lecce 2011.

[27] La Grassa ritiene che il capitalismo italiano non sia stato affatto “straccione”, come si è soliti dire, ma sia rimasto però sempre «arretrato di una fase trasformativa» rispetto agli altri capitalismi. È rimasto, cioè, in pieno XX secolo, «un capitalismo famigliare, borghese», che neppure il fascismo, malgrado le sue velleità modernizzatrici, riuscì a spingere  al «“grande salto” nella modernità», pienamente riuscito invece al capitalismo sviluppatosi negli Usa, passati all’avanguardia fin dalla prima guerra mondiale. E perciò, sconfitto il fascismo, alla fine della seconda guerra mondiale, questo capitalismo famigliare italiano rappresentato dalla famiglia Agnelli, «“accodatosi” alla Monarchia» e forse «promotore del cambio di alleanze in direzione dei vincitori» sarà poi alla testa della Confindustria fino alla fine del secolo, «costante alleato (subordinato) degli ambienti prevalenti nel capitalismo americano» in particolare nella «guerra» contro il Settore del capitalismo “pubblico”: «ne è simbolo l’assassinio (mascherato da incidente) di Mattei, con ogni probabilità preparato da ambienti americani (troppo facilmente identificati con le “sette sorelle”)». Di conseguenza, anche se l’industria pubblica sopravviverà,  a guidare «il boom (1958-63, con crescita media del Pil in quegli anni del 6,3% e la grande trasformazione da paese agrario/industriale in industrial/agrario» sarà sempre questo capitalismo famigliare associatosi con parte delle vecchie famiglie e con nuovi “acquisti” soprattutto nel settore degli elettrodomestici (Borghi, Zoppas, Zanussi, ecc.).

[28] Secondo La Grassa (ma anche altri) «la Resistenza fu invece ben altro e l’80% di coloro che vi parteciparono non volevano ripristinare il giogo del capitalismo italiano, quello confindustriale privato, che fu fra gli ispiratori del colpo di Stato del 25 luglio ’43 e del cambio di campo dell’8 settembre, con quel “tutti a casa” che lasciò senza direzione l’esercito e la popolazione italiani; una delle operazioni di tradimento più infami che si conoscano. Chi andò in montagna – e ciò accadde soprattutto al nord e in Toscana, con più deboli propaggini “centrali”; da qui la divisione dell’Italia che si manifestò assai bene nel referendum per la Repubblica o Monarchia, dove la prima vinse soprattutto al Nord – voleva qualcosa di molto diverso dalla “ricostruzione nazionale” (del capitalismo del “tradimento”), accettata a causa dell’occupazione alleata che avrebbe impedito ogni diverso “slittamento”. Non sto ovviamente dicendo che sarebbe stato meglio essere nell’altro campo, quello occupato dall’Armata Rossa. Semplicemente ricordo che comunque l’insieme della Resistenza – non solo i maggioritari comunisti, ma pure gli alleati socialisti, quelli di Giustizia e Libertà, salvo i soli “badogliani” – non voleva una società del tipo di quella che si affermò con il prevalere delle forze comunque intrise di spirito di tradimento, quelle dedite soltanto ad assai ristretti interessi di gruppi dominanti, incapaci di essere forza nazionale perché si erano politicamente affermati tramite il cambio di campo e la piena subordinazione agli Usa».

[29] E quindi basato su «un’industria di tipo taylorista-fordista, come la metalmeccanica, che nei paesi  più avanzati però era già in via di superamento da parte di settori più innovativi», quelli ad esempio che daranno poi vita alla «rivoluzione informatica».

[30] Marx – precisa La Grassa – non parlò di classe operaia ma ipotizzò la figura del «lavoratore collettivo cooperativo», che andava «dall’ingegnere all’ultimo manovale». Nella sua visione lo sviluppo capitalistico avrebbe portato alla crescita e al rafforzamento del «lavoratore collettivo cooperativo». Essi alla fine di un lungo processo sarebbero diventati gli «autentici (e soli) produttori di ricchezza (valori d’uso)» e da «salariati» si sarebbero contrapposti al «capitalista rentier» (o al capitale finanziario) diventando il raggruppamento principale attorno a cui ogni altra attività socialmente utile avrebbe finito per ruotare. Nel marxismo successivo, influenzato appunto da Kautsky, questa figura diventerà la «classe operaia di fabbrica» (le «tute blu» contrapposte ai «colletti bianchi»). La storia per La Grassa ha smentito  sia queste attese di Marx. E neppure la classe operaia in senso ristretto (alla Kautsky) è stata nel XX secolo capace di  trasformare il capitalismo in socialismo e poi in comunismo. Ha piuttosto partecipato alla «lotta per la ripartizione del prodotto ma non al rivoluzionamento dei rapporti sociali capitalistici, come aveva ben intuito Lenin quando parlò di tradunionismo (sindacalismo) operaio o di “aristocrazia operaia”, restringendo però la questione solo al caso dell’Inghilterra».

[31] I Grundrisse o Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica  furono composti da Karl Marx tra il 1857 e il 1858. I manoscritti rappresentavano il lavoro preparatorio per la stesura dell’opera pubblicata nel 1859 con il nome “Per la critica dell’economia politica“.  Editi per la prima volta  a Mosca nel 19391941, circolarono in Europa e nell’Occidente tra gli anni sessanta e gli anni settanta. (da http://it.wikipedia.org/wiki/Grundrisse)

[32] «Dimostrò però sempre di aver capito poco di certe analisi perché appoggiò movimenti decisamente criticati dal comunismo cinese. Si pensi a Dubcek e alla rivoluzione “occidentalista e democraticistica” (da apparentare, pur con tutte le differenze d’epoca, a quelle di Ucraina e di Georgia, ecc. degli ultimi anni). Caduto poi definitivamente il maoismo (1976), la deriva di tale corrente (di cui fu gruppo importante quello del Manifesto) si accentuò con l’appoggio alla rivolta polacca, su cui una  Rossanda fece affermazioni di particolare demenzialità, da me altre volte ricordate. Venne in luce non solo l’alleanza tra questa particolare corrente piciista (sia dentro che fuori il Pci) con le frange peggiori del sessantottismo e, soprattutto, settantasettismo (solo italiano, non a caso), ma pure il suo orientamento filo-occidentale, seppure ancora a lungo quest’ultimo non sfociò nel deciso filo americanismo»

[33] Proprio questo ampliamento dimostra per La Grassa che«la società capitalistica che conosciamo oggi è complicata dall’esistenza di numerose stratificazioni (in verticale) e segmentazioni (in senso orizzontale), che non corrispondono minimamente al concetto marxiano di classi (definite in base al semplice potere di disporre dei mezzi di produzione, per cui ne derivava logicamente la semplificazione duale e verticale)».

[34] «Soprattutto è ormai ampiamente noto che, in ogni comparto del pubblico (ivi compresi gli apparati della Sanità e delle Pensioni), la quota nettamente maggioritaria (anche il 90% a volte) della spesa va non per i servizi forniti, ma per pagare gli stipendi al personale. Non credo ci sia ancora chi sostiene che tale situazione è favorevole perché comporta maggiori possibilità di crescita della domanda. Prevale ormai la sensazione che si tratta di un bel handicap per una possibilità di sviluppo (o comunque di crescita). Se si fosse trattato di netto miglioramento dei servizi, non si sarebbe potuto negare l’utilità di una simile spesa; ma è invece evidente, da tempo immemorabile, che alla sfera politica, e agli amministratori che solo a questa rendono conto, non interessa per nulla la qualità dei servizi (ad essa sono invece sensibili i fruitori, che però non contano nulla). Nemmeno si può più sostenere che si è trattato di un modo per attenuare la “questione sociale”, impedendo che crescessero ampie sacche di disoccupazione. Pure questa scusa è ormai a zero. Chiunque ha capito che il problema è stato semplicemente quello di piazzare stuoli di propri aderenti, un modo per rendere più ampi e scorrevoli i canali atti a far affluire pingui bottini elettorali,  Quindi in Italia, la situazione si è avuta una crescita abnorme dei ceti legati alla spesa pubblica di uno Stato passato per sociale mentre è solo assistenziale e soprattutto clientelare ».E questa elefantiasi parassitaria del settore pubblico è un’eredità per La Grassa del «compromesso storico»: «Il “compromesso storico” – esclusa la volontà della Dc di troppo concedere sul piano dell’industria pubblica (non lo aveva fatto con il Psi, figuriamoci con il Pci) – comportò invece gravi concessioni a quest’ultimo partito, fatte sotto copertura di ampliamento dello Stato sociale, mentre erano invece solo assistenziali e clientelari, con un abnorme incremento di ceti “medi” per null’affatto produttivi. Se osserviamo l’andamento del Debito pubblico (anche la spesa pubblica è servita ad una distorta polemica politica, che ha nascosto l’essenziale), vediamo che esso schizza in alto tra fine anni ’70/inizio ’80 e gli anni ’90. Esattamente nel periodo in cui tale “compromesso” procura i maggiori danni quanto a struttura sociale del paese. Dopo, il regime Dc viene annientato tramite “mani pulite” e si entra in una situazione diversa, ma con quella palla di piombo sempre al piede e non ancora alleggeritasi». A suo avviso l’unica via d’uscita è costruire «un blocco sociale comprendente i ceti medi produttivi, in grado di non peggiorare i servizi dello Stato sociale – snellendo però gli apparati a ciò dediti, attualmente gonfi di personale assunto per clientelismo e “divisione del bottino” – e di ridare spinta allo sviluppo in una situazione di ampliamento della nostra autonomia nazionale».

[35] «Nella concretezza, funzionano senza dubbio anche altri motivi: magari solidarietà, filantropia, alleanza (spesso per necessità al fine di realizzare meglio i propri scopi), orgoglio di essere i migliori, ecc. Nella sua purezza, quella cui mira l’astrazione scientifica, l’impulso oggettivo di cui ci si fa portatori soggettivi è però l’egoismo, scevro dalla morale delle religioni o, nei casi peggiori e “volgari”, dei politici imbroglioni».

[36] «Smith in senso individuale [e] Marx in senso sociale (indicando negli individui i portatori di rapporti e processi oggettivi), sono comunque due “trincee” da cui non indietreggiare; non ho usato a caso Smith (vero pilastro del liberalismo) e Marx (che ha svelato lo sfruttamento nascosto dietro i peana innalzati alla libertà individuale)».

[37] «Ecco perché non conviene trincerarsi dietro il generico conflitto capitale/lavoro, che può coprire una qualsiasi diatriba sorta tra una qualunque azienda e i lavoratori in essa assunti – e talvolta in procinto di perdere il posto – per difendere quest’ultimo, per migliorare le condizioni di lavoro e di retribuzioni, ecc. Lotte più che giuste, sacrosante, da appoggiare per semplice senso di giustizia redistributiva, per normale difesa del più debole, ecc.; ma che non hanno nulla a che vedere con i grandi problemi posti nell’800 dal movimento operaio in crescita, nulla a che vedere con i grandi sconvolgimenti mondiali e le grandi rivoluzioni del XX secolo, nulla a che vedere con le nubi temporalesche che si addensano nuovamente nel mondo».

E in altro passo: ««Noi dobbiamo andare oltre la proprietà o meno, oltre la teoria dello sfruttamento (che significa esclusivamente estrazione di pluslavoro)  […] non possiamo limitarci, se non per semplificazione ai fini di date analisi, al dualismo dominanti/dominati (quindi oppressori/oppressi, sfruttatori/sfruttati). E’ solo ovvio che, in una determinata società, in una sua specifica fase storico-concreta, esistono attori – in quanto i soliti portatori (soggetti) di processi oggettivi (provocati dallo squilibrio) – con differenti capacità decisionali. Sempre per semplificarci i compiti dell’analisi, in dati contesti è lecito quindi effettuare la divisione duale decisori/non decisori; cum grano salis, consapevoli che è una semplificazione estrema, utile a certi fini. […]Coloro che protestano in quanto non prenderei in considerazione i poveri reietti, gli oppressi, i diseredati, sfruttati, dove per sfruttamento intendono quello che costa sangue e sudore, il lavoro sotto la frusta del negriero, ecc [non capiscono] che per Marx lo sfruttamento è possibile nel più asettico degli ambienti, con il più dolce e morbido ritmo lavorativo (magari assegnato totalmente alle macchine nel caso di completa automatizzazione dei processi)» […] «Al loro posto bisogna analizzare le formazioni particolari predominanti, e quelle subordinate o dipendenti oppure subdominanti, ecc. E al loro interno studiare i gruppi decisori o non decisori. La teoria dello sfruttamento (estrazione di pluslavoro/plusvalore) resta base del funzionamento generale delle società, così come il cervello è base del funzionamento del pensiero. Tale teoria serve inoltre alla demistificazione dell’eguaglianza (formale) degli individui e gruppi nel capitalismo; e all’individuazione della diseguaglianza reale in ogni forma di società finora conosciuta.  Volerne però trarre indicazioni più sottili e raffinate in merito ai conflitti sociali di vario genere porterà fuori strada».

[38] «Oggi sia nell’arena della politica internazionale, dove si muovono gli Stati, sia nel mercato, dove si muovono le imprese, non è il “calcolo razionale” a guidare  le mosse degli attori (Stati, imprese, ecc.). In realtà esiste una razionalità suprema ed è quella delle strategie per acquisire la supremazia; il minimo mezzo viene tenuto in conto, ma è in realtà sempre subordinato allo scopo primario di conseguire la vittoria.[…] le alleanze, sia chiaro, nascono in funzione del conflitto. Se tra individui possono talvolta sorgere amicizie solide (e tuttavia quanto soggette a mutamenti ed usura), tutto è assai più labile tra i gruppi (al cui “strato” appartengono le imprese o meglio i centri di vertice che in essa attuano la politica) e ancor più labile tra le formazioni particolari, al cui “strato” appartengono gli Stati, o meglio i centri (sempre di vertice) che svolgono la loro politica».

E in altro passo: «Non capiremo mai il fondo del problema finché non accetteremo l’idea che la nostra razionalità di grado superiore è quella strategica, quella quindi del conflitto, dunque della politica. Non si tratta della superiorità dello Stato rispetto all’economia, ma nemmeno del contrario; e tanto meno della centralità dell’egemonia culturale sul resto. Si ha più semplicemente a che fare con la superiorità della razionalità utilizzata nel necessario conflitto; il quale non sarà mai eliminato da alcuna razionalità cooperante, utile soltanto per compiti sussidiari, quelli stessi che spingono alle alleanze in funzione del conflitto. Dobbiamo accettare quest’ultimo come nostro orizzonte permanente e lavorare a smussarlo. Non potremo mai nemmeno avvicinarci alla realizzazione di tale scopo, se non ci mettiamo in testa che lo squilibrio è sempre all’opera, muta casualmente orientamento al moto in periodi imprecisati senza tanti preavvisi; e noi non siamo in grado di conoscerlo nel suo andamento continuo, dobbiamo sempre fissare gli stati di quiete, i campi, per condurre il conflitto anche nel caso in cui intendiamo rivolgere i nostri sforzi a smussarlo. Prima il conflitto, la presa d’atto della sua obbligatorietà; poi il tentativo di attenuarlo, di impedirne la trasformazione in vera guerra».

[39] Aggiungo per quanti arricciassero il naso di fronte a una critica della democrazia  che il problema se lo pongono in diversi anche da sponde teoriche diverse da quelle di La Grassa, come, ad  es., quelle  post-operaiste di un Mario Tronti. E che il fastidio di quanti non vogliono più sentire argomenti provenienti da Marx, Lenin  o Althusser è del tutto ingiustificato. Dal mio punto di vista questa critica è fondamentale. Anche perché non sono riuscito a lasciar perdere le  posizioni di Franco Fortini che, proprio tentando un bilancio degli anni Settanta in Quindici anni da ripensare (ora in Insistenze, Garzanti, Milano 1985) espresse giudizi sul Pci, la democrazia e il compromesso storico non lontani da quelli di La Grassa. Egli, infatti, non esitò a parlare (e si era nel 1984!) di una «catastrofe ideologica sia della sinistra “storica” quanto di quella “nuova”» e riassunse il suo giudizio sul quindicennio  nella formula«Se il terrorismo è stato vinto, i suoi vincitori non hanno convinto» (p. 219). Riconosceva che «i gruppi e i fatti poi associati al terrorismo sanguinario erano innanzitutto preparazione ad una resistenza armata nel caso di un colpo di destra» e che la ripresa  di «progetti e azioni che si richiamavano a taluni aspetti della lotta terzinternazionalista o a modelli resistenziali, armati, bellici» (219) poteva aver portato  a una scelta politicamente «errata ma non davvero criminale» (222). Non parlava perciò di “contestazione buona” e BR “cattive”, come fu di moda da allora e nei decenni successivi, ma richiese (invano!) di distinguere («Dovere del politico e distinguere tra i diversi tipi di violazioni,219) fra BR e Autonomia, fra questa e altri raggruppamenti e fra questi e «il larghissimo movimento di insubordinazione e contestazione, studentesco e operaio, del periodo 1967-1973. Nell’accettazione delle leggi d’emergenza da parte del Pci vide «l’abbandono persino del ricordo di quella tradizione grande, sebbene sclerotizzata» del comunismo risalente a Lenin. Il Pci del compromesso storico, accettando ormai «un’idea di democrazia come valore assoluto», come «esclusione della violenza e principio di maggioranza» e arrivando alla «criminalizzazione di ogni forma di dissenso», cancellava la questione storicamente irrisolta del sempre «mutevole confine tra lecito e illecito»  e dimenticava che «la democrazia esclude la violenza solo in tempi, aree e gruppi sociali determinati e può convivere con le peggiori sopraffazioni e violenze interne, infranazionali e coloniali», disfacendosi di tutta una tradizione che andava da Bodin a Hobbes, a Marx, a Croce a Weber.  E questa scelta disarmava del tutto i militanti comunisti, poiché – egli argomentava – se il cattolico può collegare «coerentemente morale, religione e diritto» rimandando al Vangelo e alla dottrina della chiesa, lo stesso non poteva più fare il militante comunista che , con questa scelta del Pci, vedeva buttata al macero e condannata tutta la tradizione marxista e persino «tutta una parte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia» (223).

[40] De Luna, ex Lotta Continua, nel suo Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, (Feltrinelli, Milano 2009) ripete la contrapposizione tra i “buoni” della sinistra e i “cattivi” (i terroristi) e non approfondisce le molte “oscurità” della realtà politica di quegli anni, su cui La Grassa tanto insiste,  per puntare sui «mutamenti della società italiana»(8) , secondo una piega di ricerca storica abbastanza evasiva oggi di moda, che  privilegia soprattutto le fonti riferibili all’immaginario “pop” (canzoni, film programmi televisivi). Se di Ginsborg,   riapro La fine di un’epoca in Storia dell’Italia dal dopoguerra a oggi (p. 540), trovo un’interpretazione continuista e tranquillizzante. Contro chi parlò, immediatamente  dopo l’uccisione di Moro   di fine della prima Repubblica (Saragat, Scalfari),  egli sostiene la tesi che  la repubblica continuò ad esistere «grosso modo nella stessa maniera di prima: la democrazia sopravvisse, ma non vi furono mutamenti radicali nei rapporti tra lo Stato e la società» (538); si rallegra perché  in quelle circostanze drammatiche i comunisti difesero la democrazia, abbandonando i «paroloni»; e paragona la collaborazione tra Andreotti e Berlinguer a quella di epoca precedente tra De Gasperi e Togliatti. Quasi inesistenti sono gli accenni al quadro internazionale e rituali mi sembrano gli omaggi a quello «straordinario e composito movimento di protesta», la cui scomparsa tra 1976 e 1979  egli imputa  principalmente al terrorismo (e non al compromesso storico) (p. 539).

[41] La sua ottica però mi pare  più “generazionale”  di quella di La Grassa e comunque si distingue per la difesa della stagione dei “movimenti”, che La Grassa invece svaluta completamente, considerandoli un “classico” sbandamento piccolo borghese e assimilandoli forse troppo meccanicamente alle esperienze storiche dei  ‘narodniki’.

[42] È espressione che riprendo da Danilo Montaldi cita etc e che meglio designa la mia tipologia di militanza in Avanguardia Operaia.

[43] «I dirigenti politici, che restano nella Storia, devono essere pronti ad azioni di alta criminalità. Solo i miserabili e meschini si dedicano a piccole truffe e maneggi da “mercato delle vacche”. Le “mani pulite” sono solo quelle dei servi, che tuttavia partecipano alla criminalità dei padroni, di quelli che pensano in grande; anche al posto loro, miserabili esecutori di ordini. Meglio Macbeth, e perfino Jago, piuttosto che Arlecchino e Pulcinella. Shakespeare li fece finire male; ma in realtà, il più delle volte, sono i vincitori, i creatori di “vasti imperi”. In senso politico come economico; anche il geniale imprenditore (innovatore e soprattutto stratega) è di questa stessa pasta».

[44]  È una preoccupazione che credo La Grassa abbia ben presente, quando pur liquidando la distinzione “democratica” tra destra e sinistra richiede con insistenza di  “uscire da Marx dalla porta di Marx” e non da una qualsiasi.

[45] Qui sarebbe da indagare il problematico  rapporto intrattenuto tra pensiero filosofico e scientifico per vari secoli…

[46] La Grassa: «quando ci alziamo e vediamo il Sole sorgere ad est e poi “correre” durante il giorno verso ovest; organizziamo la nostra giornata in funzione di questo movimento, la cui sommaria conoscenza è più che sufficiente per i nostri bisogni quotidiani».

[47]  le sue verità piccole o grandi, immediate o storiche che contiene: davvero il Pci è diventato PD e filoamericano; davvero  gli  anni Settanta sono  un “buco nero” della vita politica italiana; davvero un certo Marx è ottocentesco e non possiamo accontentarci della caricatura “globalista” che ci suggeriscono i dominatori d’oggi

2 pensieri su “Gli anni Settanta nel «panorama storico» di Gianfranco La Grassa

  1. Caro Ennio, mi ha molto coinvolta questo post perché evoca una serie di questioni importanti. Prima di tutto i due testi di La Grassa mettono a distanza una questione su cui tu ritorni anche in altri testi che stai pubblicando, e che hai scritto più o meno nello stesso periodo. La questione è quella della continuità o separazione tra il movimento degli anni ’68-’69 e il terrorismo successivo.
    I due scritti di La Grassa fanno chiarezza su un groviglio che pare (allora) non sciolto. Tu riporti la posizione di Fortini, che io spero di poter riassumere con questa sua frase “Fra i giovani della lotta armata c’è stato davvero il peggio e il meglio di quella generazione”. (F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, p.74). La tua posizione si attesta, mi pare, sul fatto che la violenza ha sempre fatto parte della politica “condividevo una visione anticapitalista di ascendenza marxiana, nella quale non è contemplato il rifiuto morale ed assoluto della violenza”, dalla parte dei rivoluzionari come dei governi https://www.poliscritture.it/2021/03/24/un-filo-tra-milano-e-cologno-monzese/ alla Nota 16. Apprezzi poi che Donnarumma rilevi la presenza del terrorismo nell’immaginario letterario dell’epoca.
    L’ interesse dei due testi di LG è la distanza teorica -la sua lettura di Marx- che gli consente di fare storia. Qui non conta che egli svaluti anche il ’68, ma che abbia una griglia teorica che colloca le idee dell’epoca in una incomprensione reale del movimento effettivo della storia.
    Un esempio: le Tre Note di Paolo Di Marco https://www.poliscritture.it/2018/11/17/su-piero-del-giudice-tre-note/ sulle lotte cui ha partecipato Piero Del Giudice, e i risultati da quest’ultimo ottenuti (“tumultuose assemblee operaie che hanno imposto ai sindacati la democrazia prima assembleare e poi consiliare”) andrebbero inquadrati, secondo La Grassa, in quello schema duale di conflitto di classe, che non corrispondeva alla fase produttiva e alla composizione di classe effettiva di allora (“gruppi extraparlamentari, che videro nella classe operaia il vero «soggetto rivoluzionario»” mentre è necessario «costruire una nuova teoria», che abbandoni in partenza «ogni visione duale di classi antagonistiche in contrasto»).
    Per cui le lotte di Del Giudice avrebbero potuto, e dovuto, far parte invece di una corretta egemonia socialdemocratica, gestita da una parte del PCI con i socialisti, che tuttavia quella egemonia non seppero imporre.
    In sintesi il tema che questo post pone: la teoria del presente rilegge le contraddizioni in cui il passato era legato. Ancora più in sintesi: il presente vede con (relativa) chiarezza teorica un groviglio in cui il passato si dibatte perlopiù confusamente.
    La questione riguarda anche la lettura del movimento ’68-’69. Oggi alcuni lo leggono grazie alla critica che fanno del neoliberismo. In questo modo lo svalutano. Io trovo questa applicazione della critica al neoliberismo cieca, soprattutto per quanto riguarda il femminismo, che viene ridotto alla alternativa tra o femminismo neoliberista o femminismo socialista, e quindi privato del pensiero della differenza che è lo specifico del femminismo stesso.
    Le conclusioni che trai nel post dai due testi di LG riportano anche per te al presente, ad apprestare una teoria del presente per poter fare storia. Non c’è in effetti altra via possibile che la politica di oggi, per leggere il passato rintracciando in esso una direzione, quella vera e reale. Con tutto il rischio mortale di cui proprio il passato ci offre testimonianze a bizzeffe.
    (Nel caso specifico del presente europeo, covid dominante, riporto questo passaggio da un articolo di Federico Fubini sul Corriere di oggi, che disegna una Ue vecchia e avara. Non avida, come spiega BoJo, capitalista di razza: “le catene globali del valore da cui dipendiamo per la nostra salute sono fragili e lo resteranno, perché così abbiamo scelto noi stessi europei nella nostra miopia. C’è infatti una contraddizione di fondo nel nostro pretendere di comprare da AstraZeneca vaccini a meno di due euro a dose eppure stupirsi quando poi la produzione viene delocalizzata in India. Se davvero vogliamo la «sovranità strategica» di cui parliamo tanto in Europa, dobbiamo essere disposti a pagare di più per ciò che ci serve”).

    p.s. Credo che, in un mondo fondato sulla differenza dei sessi -che ha permesso finora il progresso capitalista- la strada della parità e del welfare che maldestramente si proponeva di assicurarlo, riconoscere vita e produzione come due settori non direttamente collegati, e cioè non che l’uno affondi e si dissolva nell’altro, sarebbe già un passo avanti. Su tempi lunghi, molto.
    Già oggi, nei luoghi amministrativi e politici dove si pratica assistenza, cura, gestione dei vecchi e dei bambini, donne nei servizi sanitari e sociali mostrano la essenzialità femminile nel far proseguire la convivenza sociale.
    Che politica aspettiamo di fare per il futuro? Quando renderci conto tutti, più uomini che donne, della dimensione essenziale del vivere, crescere e morire?

    1. Questo post è del 2011. È ricomparso adesso perché, essendo non più accessibili i vecchi siti di Poliscritture (2004-2010; 2010-2013), sto ricopiando almeno gli articoli più significativi nella rubrica “ Antologia dei vecchi siti”.
      Purtroppo né allora né in seguito, pur avendolo ripetutamente citato anche su FB in discussioni sugli anni ’70 passate e presenti (ora per la pubblicazione della “Storia di Avanguardia Operaia (1968- 1977)), ho trovato interlocutori disponibili ad approfondire.

      Sì, il problema generale più discusso è quello della continuità o separazione tra il movimento degli anni ’68-’69 e il terrorismo successivo. Nessuna continuità ( e nemmeno a livello teorico ) tra esperienze di Avanguardia Operaia (o di LC o del Pdup) e quelle di Autonomia Operaia e “lottarmatismo” (termine che indica una serie di formazioni dalle BR a Prima Linea ecc.) dicono in tanti e chiudono un discorso che, secondo me, bisognerebbe tenere aperto o riaprire almeno a livello storiografico. [1]

      Gianfranco La Grassa è tra i pochi che, anche con numerosi commenti episodici sulla sua pagina FB, ha proposto spunti per una sua interpretazione in termini politici di quelle vicende e dei “misteri” del caso Moro. (Proprio ieri, in occasione della morte di Sante Notarnicola ha accennato ancora una volta al ruolo svolto dalle BR [2] ). L’altro fu appunto Fortini.(Rimando al suo “Insistenze” e alla recensione che feci del suo “Disobbedienze” (https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/)

      Non posso approfondire le varie interpretazioni. Né queste citate (di La Grassa e di Fortini, per molti aspetti contrastanti) né di tante altre (Negri e Euronomade, gli studiosi aggregatisi attorno alla casa editrice DeriveApprodi o ora al sito Machina, Formenti e Nuova Direzione, ecc.).

      Sulla tua convinzione che il femminismo venga dopo e abbia superato il «groviglio in cui il passato si dibatte perlopiù confusamente» ti ho detto in privato le mie perplessità. Spero che ci siano occasioni per arrivare ad una maggiore chiarezza.

      APPENDICE

      [1]
      Sulla sordità a tornare sugli anni ’70 anche solo in forma problematica, è sintomatico il modo con cui Adriano Sofri e Adriano Barra (https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10157529410761879&id=86556801878), trattando di Carlo Pisacane, hanno respinto una mia provocazione:

      Ennio Abate
      Non vorrei turbare la quiete distaccata di questa bella ricostruzione storica della figura di Carlo Pisacane ma, essendo uno che ha vissuto in modi laceranti gli eventi degli anni ’70 del Novecento, quando Sofri scrive: « A Sapri i contadini non cambiarono le zappe in fucili da rivolgere contro il Borbone: usarono le zappe per fare a pezzi i liberatori» (e ricorda, tra l’altro, anche «l’avversione parimenti irritata di Giorgio Amendola a Pisacane e a Guevara»), un dubbio atroce e una domanda un po’ provocatoria mi sorge quasi spontanea: non è che il PCI ma anche la “nuova sinistra” di allora contribuirono a fare a pezzi i “lottarmatisti” ( e magari anche qualche Pisacane) usando o facendo usare facsimili aggiornati di zappe?

      • Adriano Barra
      Eh

      Ennio Abate

      Adriano Barra
      Eh, eh…Esprimi il tuo pensiero fino in fondo. Io il mio dubbio l’ho espresso.
      Autore
      Conversazione con Adriano Sofri
      Con poche eccezioni, ti hanno risposto loro, “i lottarmatisti di allora”. Con quello che hanno pensato e fatto poi.

      Adriano Barra
      Caro Ennio, io nella tempesta del dubbio ci sono affogato. Ti dirò solo che quando tornai a Siena da Torino mi sembrò di essere capitato in un altro mondo oppure di essere stato all’altro mondo. C’era Fortini., è vero, ma lui non era di lì più di quanto non lo fossi più io. Eravamo tutti e due, in due modi ovviamente incommensurabili, già assolutamente postumi.

      Ennio Abate

      Adriano Barra
      Beh, Fortini anche da “postumo” parlava. Basta rileggersi “Insistenze” ( e in particolare: Un decennio di terrorismo (pag. 207); Quindici anni da ripensare (218)). O “Disobbedienze” per rinfrescarsi la memoria. Avessero parlato così i “postumi” di allora. O parlassero così i “postumi” ancora viventi!

      Ennio Abate

      Conversazione con Adriano Sofri
      Sofri, non è una risposta degna di lei. Grazie lo stesso.
      • Adriano Barra

      Ennio Abate
      Hai ragione si può essere postumi ma conservare il dono della parola ma si può anche rendersi conto che anche se si parla non ti ascolta nessuno. E poi: che cosa dire, esattamente?

      Ennio Abate

      Adriano Barra
      A parte il fatto che tutti continuiamo a parlare, anche se pare che non ci ascolti nessuno, di sicuro io ti ascolterei, se mi dicessi esattamente ( e magari argomentando in cosa il mio dubbio atroce è insensato e in che misura l’analogia tra “eran trecento, eran giovani e forti” e i tanti nostri coetanei o più giovani degli anni Settanta andati “deliberatamente allo sbaraglio con uno sparuto manipolo di compagni” è del tutto inconsistente o semplicemente tabù.
      Autore
      Conversazione con Adriano Sofri
      Sono poco incline alle provocazioni. Il punto è uno: per me Pisacane stava dalla parte giusta.

      Adriano Barra
      Caro
      Ennio Abate
      io diffido delle analogie. Vedo che di questi tempi il pensiero analogico, che a ben vedere è un pensiero magico, imperversa. Vedi tutta la faccenda del virus. Il pensiero analogico lo lascerei ai giornalisti. Visto che sono gli unici che hanno ” facoltà di parola “.
      Ennio Abate

      Conversazione con Adriano Sofri
      Non mi pare che la mia provocazione fosse fuori tema o gratuita. Quanto a Pisacane o a Che Guevara che stessero dalla parte giusta è convinzione mia, sua, ma tantissimi altri sia allora che oggi pensano il contrario. Chi sia stato poi “dalla parte giusta” negli anni ’70 è per me questione aperta e non risolta. Ma non insisto. Buona serata a tutti.

      [2]
      Alcuni giudizi sulle BR di La Grassa nel post dedicato alla morte di Sante Notarnicola (https://www.facebook.com/gianfranco.lagrassa/posts/10219408527953966)

      Gianfranco la Grassa
      certo, è del tutto vero. Ma se sbagli nel giudicare una situazione (per null’affatto rivoluzionaria), le infiltrazioni diventano massicce, tanto vaste che di fatto tu vieni utilizzato per far passare per terrorismo criminale quello che indubbiamente non era per nulla nato come tale. Di alcuni infiltrati ben noti oggi, io avevo avuto sospetti assai presto. Ed avevo avvertito anche alcuni amici, che non ne hanno tenuto conto. Quindi mi dispiace, ma non facciamo confusione con i comunisti clandestini durante il periodo fascista e in quegli anni ’30 che sono stati un semplice interregno tra le due guerre mondiali, cioè in un periodo di grossi sconvolgimenti legati alla lotta acuta per la supremazia tra alcune grandi potenze. Nel secondo dopoguerra, la situazione era completamente differente. Invece, i brigatisti hanno pensato nei termini di quel precedente periodo di acceso multipolarismo, con la più che sbagliata previsione di una terza guerra interimperialistica (tra imperialismo occidentale e socialimperialismo) e l’anello debole che doveva essere l’Italia. Ma poi anche altre cose da dire, ma non qui.

      Gianfranco la Grassa
      Il comunismo clandestino degli anni ’30 va rivendicato e considerato positivamente malgrado molti errori e debolezze. Quello brigatista va apertamente e aspramente criticato; non come criminalità ma come totale incapacità di effettuale la leniniana “analisi concreta della situazione concreta”. Si sono consegnati all’infiltrazione e all’uso del tutto favorevole al rinsaldarsi del potere che si affermava di voler rovesciare. E sono largamente passati presso l’opinione pubblica come criminali terroristi. Smettiamola di non afferrare una realtà così evidente; e come mai io la ritenni fin dall’inizio così evidente? Non sono un genio, semplicemente uno che riflette e non si lancia in semplificazioni del tutto sconsiderate inseguendo solo i proprio desideri. E da dove uscivano tanti brigatisti e sessantottardi in genere? Dalle scuole e organizzazioni cattoliche. E quindi capiamo bene che comunismo predicavano! Io rispetto i religiosi che credono effettivamente in un “altro mondo”. Ma non mi entusiasmo mai per chi crede di realizzare il “Paradiso” in questa terra.

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