Nove poesie

Disegno di Milius

di Canio Mancuso

Anniversario
 
Tutto il provvisorio
messo tra parentesi
- il resto del rancore
insieme alla tenerezza -
osserva il marito
che si fa la barba
passando il rasoio
piano sullo specchio.
Gli chiede di non stancarsi
e di non farsi male.
Aggiorna il promemoria:
proteggere gli uomini
e i cani dalla fame
avvolgere in una benda
il taglio nel costato
tenere lontani
dall'ombra delle camelie
la stagione in rivolta
il dio che annienta.
Sente nelle narici
il fiato di chi le dorme
accanto l'ultima notte.
Dal covo in cui resiste
il fuoco e non si spegne
neanche al soffio del phon
sui bigodini sente
il marito che esercita
il mestiere di uomo
il prepuzio che si apre
dentro le sue cosce.
Nel luogo in cui si ostina
la bugia dell'essere
si arrende un'altra volta
alle carezze vuote -
le mani che non toccano
la bocca che non bacia -
ascolta le parole
scritte con le dita
lo scrocchio del sale
sotto la pantofola.
 
 
 
 
 
 
 
Il disegno stilizzato
 
Non lo sospettavamo noi che
disegnavamo uomini di stanghe
la testa un cerchio, gli occhi due
punti, la bocca una u un po' più larga.
Lui gonfiava la stanga del tronco
inseriva un cuore
aggiungeva alle mani le unghie
i solchi invisibili dei polpastrelli.
Disegnava davvero o ci provava.
Noi altri gli alunni senza talento
lo invidiavamo, il terzultimo della
classe che con la matita scavava
la fossa alla nostra insipienza:
non era affetto come noi dalla
sindrome del disegno stilizzato.
Lo invidiavamo senza ragione
Non sapevamo che la sua libertà
era chiusa in quell'ora di disegni
forzati - la fantasia una forma
dell'obbedienza, lo sprofondo in
una miniera davanti ai rimproveri
del maestro. A casa il piccolo artista
che artista non sarebbe stato mai,
preso nella rete dell'incertezza
- perché non sapeva a cosa obbedire - 
per disegnare un uomo
tracciava linee e cerchi come noi.
 
 


Autobiografia dell’eco
 
Quando ero carne
e questo era il mio solo talento
e la creazione una luce
che cade nel solco della schiena
le vene illuminate dal tocco
delle dita, ogni respiro sul vetro
un'invenzione geometrica un punto
croce e ogni sussulto dei gerani
un singhiozzo delle ossa nella terra,
avere un corpo non era
il mio simulacro né il tuo, noi due
impastati di cellule scorza schiuma
e incontrarsi a un semaforo
prendersi distrattamente per mano
solo un risvolto della separazione,
quando sapevo tutto questo
nessuna speranza mi molestava
nessun bisbiglio di Dio
non dovevo credere che i nostri giorni
fossero scorie dello stesso inganno
però io potevo immaginarti
nella paura che tu non esistessi
sentirti sbadigliare in un'altra lingua
tu più giovane di me e della mia carne  
passavi nel mio sonno la prima volta.
 
 
 
 
Paesaggio con casa
 
Il paese dagli tu un nome
il paese l'isola dove non
sai guardare una coppia di
cigni naturalmente monogami
gli altri animali anche loro pigri
intorno alla fine del giorno in
agguato e più in là la montagna.
È la tua casa solo ora che nessuno
diteggia il tuo nome sul citofono
chi non ti chiama lì dove ti aspetta
nessun abitante nessuno scrittore
anzi uno solo, che ha saputo
morire per tempo, sua sola
fortuna postuma indenne
il ricordo di quelli che non
lo conoscono, la memoria un
privilegio che non lo può offendere.
 
  
 
 
Ancora un paragrafo sui gatti
 
La rivoluzione nell'anima dei gatti
interessati al tuo punto di vista
- nel loro modo silenzioso ovviamente -
però accade che un gatto
dopo due giri nella lavatrice
abbia un lampo socievole nell'iride
un orecchio in ascolto del tuo pianto
una vibrissa molle, almeno una,
che ti cerca parole come il naso
del servo le parole del padrone -
i gatti che appallottolano l'anima
e la regalano senza pentimenti
al primo confessore di passaggio
- nessuna posa da bottega del mistero -
e i segreti li mettono da parte
per le conferenze dei poeti,
solo per loro soffiano endecasillabi
solo per loro inarcano la schiena
come i gattacci di Pasolini.
 
 
 
 
 
Un maratoneta giapponese
 
È un corpo, il suo?
un volto o un confetto succhiato
fino a un bolo di mandorla?
sono gambe quei legni spezzati
che galleggiano sull'asfalto?
è una bocca quella bocca di pesce
appiccicata al vetro dell'acquario?
Il suo corpo - volto, gambe e bocca
- inseguito dalla fine che non finisce
strizzato nell'agonia che non uccide
nella fatica che non vorrebbe premiarlo
il suo corpo ostile agli applausi
e alle grida di tutti noi intorno a lui
che speriamo cadrà prima del
traguardo, si scioglierà nell'aria -
noi che lo odiamo perché ha coraggio
lui più feroce del suo corpo sfasciato
arriva davanti a tutti
gli avversari e gli spettatori
riceve la medaglia ascolta l'inno
di un paese lontano quanto il suo
e ingoia le parole dello sconfitto:
Dimenticatemi, io l'ho già fatto.
 
 
 
 
 
Il riciclo secondo lo spazzino
 
I testi sono chiari:
nello stesso inventario
l'anima e il congegno
l'organismo e il meccanismo
che si arresta le labbra
e il boccaglio il mantice
e il soffio tra i denti -
gli oggetti in disuso
allineati in un addio allegro.
Sei tu che parti, loro si allontanano
dalla tua ombra che unisce le sagome:
confondi il sangue con l'olio
dell'ingranaggio il cuore fermo
sui minuti con l'orologio
l'odore delle calze e i piedi che le svuotano -
vizi di forma smessi con i vestiti
le inadempienze scordate nella ressa
degli strumenti alla fine del gioco
allineati per salutare un altro
con la stessa sciatteria delle persone
e con l'aria smarrita delle cose.
 
 
 
 
Confessione di G. a S.
 
(Nessun oggetto)
 
Trentadue anni di rossori
più ridicoli delle mie colpe
piccoli furti nello scantinato
la faccia sotto il tavolo
ad annusare cosce
respiri inumiditi
sottolio nelle mutande.
Estati e inverni a guardare col naso 
tutto ciò che somiglia a un desiderio
un residuo spremuto dal tubetto.
 
Percorro la strada
tra il mio silenzio e il tuo.
Tu mi aspetti nella vagina
me, la mia incompetenza sessuale.
Indosso l'accappatoio di Apollo -
il pugile non il dio, lo scorticatore
non il poeta da camera -
io violento muscoloso
sul ring sul materasso
sono vivo e ti amo
nel libro delle somiglianze.
Tu in fondo al paragrafo
mi chiedi un bacio
e ti nascondi, dici
che ho l'odore di tuo zio.
 
Perderti per averti cercata.
La sera mentre sparano
i fuochi per la Madonna
negra dei cafoni:
i loggionisti che applaudono
quelli che fischiano
ai petardi più fiacchi
il terrore dei passeri
scappati dagli alberi,
io che ti abbraccio la vita
da dietro ti cammino sul collo
con le narici, ti sfioro
il seno con l'unghia
l'erezione che sfiata
per la vergogna, scappo
con tutti i vestiti addosso:
Perdonami, so che hai quindici
anni, non ti toccherò
fino a che non sarai madre
fino a che non sarai vecchia
e il mio sesso una radice
che spunta dalla terra.
 
Questo per dirti quello che sapevi
e dirti che una sera più di tutto,
più di te, ho amato un fracasso di ali
tra gli spari - la paura dei passeri
dentro il fuoco, la mia davanti al corpo
di una donna tanto meno adolescente
di me - farti entrare nella stanza vuota
dove tu che conoscevi gli uomini
mi avresti insegnato a spogliarmi. 

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