Io sono mia       

di Marcella Corsi

        A via Pomponazzi* i piccoli gruppi di autocoscienza erano formati da 8-10 donne appena entrate e da una compagna veterana del collettivo, che faceva da tutor alle nuove. Nel nostro la “vecchia” era Biancamaria: ventinove anni, alcuni di militanza femminista (d’altronde il movimento non aveva più di quattro o cinque anni di vita). Noi nuove tutte intorno alla ventina, ma delle più disparate provenienze. Io addirittura con un padre che riceveva telefonate da Giorgio Almirante. Cosa che provocava non solo a me qualche scompenso, ma dentro il gruppo sembrava non interessare più di tanto.

Si discuteva di tutto: dalle relazioni di potere tra i sessi a come togliere una spirale. Forse gli approfondimenti di conoscenza del corpo femminile ci furono in quel momento più utili di tutto il resto. Fui in grado di togliere la spirale ad Adriana quando ne ebbe bisogno, anche se qualche volta, partendo dal corpo, si finiva in ridicole gare tipo “chi ha i peli più lunghi sulle gambe”. Le risate però, specie quelle autoironiche, servivano a sentirsi davvero in comunicazione e a facilitare il confronto sugli argomenti più difficili da affrontare.

I dibattiti sull’autonomia e il potere ci imponevano invece appassionati confronti con i compagni, e con le compagne che sull’autonomia non erano d’accordo. Ma, santo iddio, era una fase di passaggio… e quello che acquisivamo per noi avrebbe aiutato pure loro, i “maschietti”. Anche madri incomprese ci sentivamo, oltre che guerriere a cavallo delle nostre paure.

Quella sera l’argomento era la capacità di liberarsi dal condizionamento maschile, a partire naturalmente dal rapporto coi nostri compagni. Alcune di noi sembravano aver superato il problema giacché avevano relazioni multiple in sequenza veloce o anche in contemporanea, oppure avevano deciso di “prendersi una pausa di riflessione”. Cristina però ci proponeva il “namiohorenkekiò”, e a me sembrava che la sua sensibile intelligenza si fosse smarrita.

Dunque Adriana parlava di Seb, Giuliana di Fausto, Anna di Alberto, io di Sandro. Biancamaria, molto meno di noi come sempre, di Renzo.

Si trattava di individuare modi, inventarne magari, per conservare la disponibilità ad un’emotività piena e sincera senza farsi fagocitare dai meccanismi amorosi della perdita del sé. Riconoscevamo che era quasi impossibile prescindere da quella sorta di “perdita della presenza” che l’innamoramento e l’amore comportano, ma c’erano secondo noi specificità di questa diminutio che riguardavano soprattutto noi donne. Queste volevamo indagare e superare.

Con l’occhio all’incontro di quella sera avevo riletto qualche pagina del diario che riportava sensazioni e riflessioni dell’inizio del rapporto con il mio compagno. Mi avevano colpito i versi finali di una poesia: sono una cosa/ come le strade che percorri ogni giorno/ come il cinturino del tuo orologio/ appeso al volante/ come i pensieri che non pensi/ e i propositi che dimentichi/ anch’io sono una cosa tua.

Non mi percepivo certo allo stesso modo dopo sei anni e nel pieno del movimento femminista ma, mi dicevo, quanta strada ancora c’è da percorrere se me ne rammarico. Per me questa perdita di sé, che mi faceva pensare agli scritti di Ernesto De Martino, era un inevitabile corollario amoroso, e non sentire più quell’appartenenza sembrava segnalarmi… almeno una diminuzione nel vissuto  di quella emozione.

Qualche altra riga del diario mi corroborava nella sensazione che il perdersi nell’altro fosse anche un allontanarsi da quanto di sé era chiuso, inesperto, egocentrico, ridotto (o forse riduttivo come allora si diceva),  in fondo un’acquisizione: non è un gioco questa pazzia/ che mi scoppia dentro/ quando m’immagino venirti incontro/ e mi sento sollevare in un abbraccio/ Sandro dove mi porti/ ogni giorno più lontano/ da me stessa.

In realtà mi sentivo abbastanza stravolta, ma dalle difficoltà che la nostra storia stava affrontando. Per le sue contraddizioni certo, ma forse anche per quanto il movimento femminista stava facendo emergere. C’erano curiosità ed entusiasmo per le nuove idee, ma pure qualche confusione. E un vago timore? Soprattutto in quella fase iniziale, sì, pure un vago timore. Però acquisivo anche qualche sicurezza in più.

A lui tenevo. Con un sentimento dolorante da quando, subito dopo la laurea, mi aveva detto di non sapere più bene se voleva ancora stare con me. Vivevamo da qualche mese in una casa dove anche un paio di amici abitavano e spesso qualcun altro passava, ospitato da uno dei coabitanti. In genere compagni provenienti da altre città. Quando si materializzò una bellissima che, vidi, lo incantava con nordica naturalezza mi feci avanti e, forte del bagaglio acquisito nel rapporto con altre donne, gliela scippai. Diventammo complici in una sera, tanto che non si sentì più di accettare il suo invito (chiudersi in una camera per qualche ora). Viola si chiamava ed era anche simpatica. Essere amiche però non potevamo. Ma questo accadde dopo.

Durante la riunione sui meccanismi della sudditanza amorosa i suggerimenti non furono pochi, quasi tutti proposti però in forma di regole e prescrizioni. Il che lasciava in tutte, o almeno in me, il sospetto di una qualche mancanza, una sottile insoddisfazione. Stemmo ore ad esplicitare quelle che individuavamo come contraddizioni, a cercarne le cause nel modo di relazionarsi, a prospettare soluzioni che finivano sempre per apparire parziali, insufficienti o non praticabili. Il dibattito però era animato, più che animato, il tema sembrava ci coinvolgesse in modo speciale. “Io sono mia” era uno degli slogan più condivisi, un’affermazione di sé sentita come promessa di liberazione.

Finché sul più bello – il focus era sul far accettare al partner libertà di orario per i nostri impegni o desideri – Biancamaria ci dice che deve andare. Lo faceva ogni volta: a un certo punto della discussione diceva che doveva andar via e ci salutava. Continuavamo senza di lei, anche se con qualche mugugno, immaginando impegni improrogabili o forse una tecnica per costringerci a riflettere senza il suo aiuto. Quella volta però la cosa ci sembrò inaccettabile. Da lei aspettavamo qualche suggerimento dirimente, qualcosa che mettesse un punto fermo nella discussione. Così gliene chiedemmo ragione.

“Con Renzo siamo d’accordo così: la notte la passo con lui”. Non era un caso allora che ci salutasse ogni volta un po’ prima di mezzanotte. “Ma se una volta hai bisogno di rimanere fuori casa più a lungo? Stasera per esempio”, Adriana non si trattenne. “No… riprenderemo il discorso la prossima volta”.

Via lei, fu un coro di riprovazione quasi sdegnato. Se c’era qualcuna che dubitava potesse essere accettabile, non si sentì di dirlo. Com’era possibile, ci chiedevamo, che proprio lei ci desse un esempio così contrastante con quello che – almeno questo ci era chiaro – dovevamo ottenere? Certo non poteva fare differenza il fatto che Renzo, oltre che il compagno di Biancamaria, fosse anche suo marito: non potevamo certo ipotizzare notturni ‘doveri’ coniugali. Dunque perché?

Ne dicemmo di tutti i colori, tra tentativi di spiegazione e attribuzioni di responsabilità. La soprannominammo Cenerentola. L’unica ipotesi che non facemmo fu che facesse piacere a lei trascorrere le notti con lui. Ma tutte?

Perché no, mi dico ora.

Non ricordo come proseguì il nostro confronto di autocoscienza sul tema, né quello che ci disse Biancamaria al riguardo. E’ possibile che l’incontro di piccolo gruppo successivo a quello sia saltato per via dell’atmosfera da golpe che si respirava dopo i fatti della P2 (ricordavamo bene la fine di Salvador Allende). Anche qualche compagna del collettivo aveva preferito trasferirsi altrove per timore di essere arrestata nel suo letto. Certo nessuna indicazione dirimente o acquisizione di certezza comportamentale ce ne derivò. E ognuna dovette continuare a riflettere, a leggere, a sbagliare o fare il giusto soprattutto a partire da sé.

Quanto alla mia storia con Sandro, quello che avevo evitato succedesse con Viola accadde qualche mese più tardi, nel letto dove per necessità dormivamo ancora insieme, con una meno bella e del tutto impermeabile a sentimenti di solidarietà al femminile. La mattina dopo presi il tavolo fratino comperato insieme a Porta Portese con la sedia da trattoria dipinta di rosso che gli stava accanto e andai via senza salutarlo. Questo gli consentì di convincersi che l’avevo lasciato io e di sostenerlo per anni.

Ah, (quanti ricordi incorporano gli oggetti…)  il tavolo è quello su cui scrivo anche ora.

 

 

* Sede, negli anni ’70, del Collettivo femminista comunista.

7 pensieri su “Io sono mia       

  1. A Milano noi non parlavamo di (dei nostri, di alcune tra cui io, ma non ero la sola) maschi. Diosa però se avevo due piccoli figli maschi!
    Si diceva, allora, che intanto il femminismo aveva prodotto le separazioni. Come sottolinei tu. Una disse anche che, essendo i maschi diversi, il sesso poteva avere altre ricchezze … lei era diventata lesbica ma forse quelle diversità non le aveva trovate… o non le interessavano.
    Da noi c’erano alcune coppie di donne che mostravano la via della società femminile, del rapporto di autorità femminile, della differenza singolare che crea ordine, ma non gerarchico, non di potere.
    Dico che questo risultato, che tutte abbiamo condiviso con parecchie fatiche, è stato il risultato *politico* della nostra politica.
    Intanto con la forza che ci davano i rapporti continui e periodici tra di noi, si ordinavano i rapporti con figli maschi e compagni.
    Si è aspettato che questi rapporti trovassero un loro incanalarsi naturale e rispettoso.
    Oggi faccio un bilancio nel complesso positivo, per me eterosessuale e per i miei figli maschi e i loro figli e figlie. Via dura e impervia, come forse sempre.

  2. @ Marcella

    Mi ha suscitato quasi invidia la leggerezza e l’eleganza con cui hai raccontato le problematiche femministe in “Io sono mia”.
    Impossibile averla noi quella distanza ironica a quei tempi! (E forse neppure oggi…)

    P.s.
    Stralcio da uno dei saggi di “Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977), quello di Grazia Longoni: DAL GERME DEL FEMMINISMO
    ALL’ESPLOSIONE DEL MOVIMENTO DELLE DONNE:

    Questi valori di libertà sessuale continuavano a serpeggiare nelle organizzazioni della sinistra, ma abbastanza sullo sfondo, messi in secondo piano dall’impegno politico. Tuttavia hanno dato luogo, nel vissuto e nel ricordo di diverse compagne, ad alcune ambiguità nei comportamenti privati dei maschi. Ricordo che quando andavo a Roma ero molto più insidiata dai compagni che non a Milano. Io stavo attenta a evitare queste attenzioni, non solo perché mio marito era gelosissimo, ma anche perché volevo evitare che si scatenassero personalismi – riferisce Claudia Sorlini –. Invece alcuni dei nostri milanesi andavano volentieri a Roma a farsi un giro. Con altre donne abbiamo cominciato a raccontarci la faticosa vita all’interno di una struttura a preponderanza maschile – ricorda Paola Ottaviani –. Io non avevo consapevolezza, mi sembrava che se sei di sinistra e stai coi compagni, come sei, sei. Invece, se sei seduta e hai la gonna corta, qualcuno ti deve mettere la mano tra le gambe, se stai facendo un volantino, quello ti tocca e dice: “Perché, nun se po fa’?”. Così si è arrivati alla famosa assemblea romana del luglio ’76 in cui la questione dei comportamenti privati maschili deflagrò come un me-too ante-litteram. Dal 13 al 15 luglio ’76 si svolgeva un’assemblea dei delegati della federazione di Roma. Titolo classico di quegli anni: “La situa zione politica e i nostri compiti”. Questa assemblea si trascinava stancamente, a un certo punto interviene una compagna, Franca, dice che aveva una relazione con un compagno e voleva porre fine a questa storia, essendo sposata. Disse che lui l’aveva scaraventata fuori dall’auto. Fu una bomba. Il dibattito si incentrò su quella questione, se il compagno avesse fatto bene o male (Francesco Saponaro). Noi prendemmo il microfono e dicemmo: “Prima si parla di questo, perché non ne possiamo più” – dice Paola Ottaviani –. C’era anche Aurelio Campi (il segretario). Non se l’aspettava. Lui fu un mio stalker pazzesco, mi perseguitava. Quella volta noi donne ci facemmo coraggio, e ognuna raccontò. Ognuna aveva da dire. Carla raccontò del suo compagno di allora. Venivano fuori le cose personali, dal grande capo al fidanzato. “Ho ancora una memoria visiva dell’assemblea, ricordo in che fila ero seduta, vicino a chi” rievoca Carla Caponi, una delle promotrici dell’iniziativa delle donne. Ricordo lo sconcerto totale, i compagni dicevano: “Noi siamo qui per parlare di cose politiche importanti e voi venite a parlarci delle vostre questioni di coppia?”. Sì, saranno questioni di coppia, però tu magari torni a casa e ti aspetti che io abbia pulito e fatto la spesa o mi tratti con poco rispetto, magari ritieni che la tua attività politica sia più importante della mia… Questo non va bene. Se noi vogliamo cambiare questo mondo, e noi eravamo veramente convinti di voler lo, convinti che ci sarebbe stata una rivoluzione, non armata, ma nei costumi, nel modo di pensare, dicevamo: il personale è politico per questo, perché da una trasformazione dell’individuo si può arrivare alla trasformazione della società. Aggiunge Cecilia Brighi: Fu una cosa abbastanza devastante, perché nessuno si aspettava una reazione delle donne di quel tipo. Siamo intervenute denunciando con nomi e cognomi… Quell’assemblea fu uno spartiacque. Ricordo l’atmosfera, la sala enorme, un po’ buia, con la gente allibita perché non si aspettava che cose così personali potessero essere presentate e rese pubbliche. Ci volle tanto coraggio, ma eravamo anche molto giovani. Anche alcuni maschi ricordano bene. Maurizio Zandri: In quella riunione famosa, piangenti e incoraggiate dalle altre, andavano a parlare donne che altrimenti non l’avrebbero mai fatto, raccontando di comportamenti sessuali violenti del compagno a letto. Oppure degli insulti, cose legate all’intimità. Questa cosa ci ha segnato molto, a me ha insegnato cose molto importanti, non soltanto il rispetto. Io per un anno non ho avuto rapporti con penetrazione. Guido Piccoli, dirigente a Napoli: “La mia fidanzata, che stava con me da quattro anni, disse che non aveva mai avuto un orgasmo, lo disse in pubblico, con tutte le radio private che c’erano”.

    1. E’ proprio così: in quell’anno, in quel giro di anni, finì per sempre il maschilismo italiano: non quello patriarcale, quello dei fratelli! Nel periodo ’68-’72, “rivoluzionario”, (mah…) sembrava che la disponibilità sessuale delle donne fosse assicurata, solo che, come racconta Grazia Longoni, i maschi come maschi, in maggioranza erano rimasti nel mondo di prima. Fu l’epoca delle separazioni.
      Non so se a qualcuno succede di vedere i film italiani (e la tv!) precedente a quegli anni: le figure femminili presentate erano tra il penoso (le poverette di Antonioni) e il disgustoso.
      Per fortuna i giovani (oggi ormai cinquantenni… ) e le giovani di oggi hanno saltato a pie’ pari quell’orrore. Non sanno niente, fortuna loro!
      Quella terribile compressione e oppressione della sessualità in generale, e della esistenza femminile, sembrò essere rotta dalle tv del berluska, che in realtà davano libero corso alle fantasie maschili e creavano una libertà femminile farlocca: libertà solo di “darla” in cambio di poco o niente, e non di investire da parte delle donne su di sè. Era la destra, che da allora, e proprio perchè affondava in modo pervertito nella vita quotidiana, trionfò.

  3. Vorrei tanto partecipare al dialogo, ma non so proprio cosa dire.
    Mio padre non riceveva telefonate da Giorgio Almirante. Non avevamo neanche il telefono.

  4. @ Cristiana
    Nonostante praticasse il separatismo (riflessione in autonomia tra sole donne), nel collettivo Pomponazzi ci si confrontava anche sul rapporto con la politica, maschile, delle diverse sinistre. Molte avevano rapporti di coppia con compagni in vario modo impegnati in partiti, collettivi studenteschi o organizzazioni politiche. Dunque non solo il nostro personale diventava politico ma anche il politico, talora dei nostri compagni, entrava non di rado nelle discussioni.
    Nel racconto però la scelta del tema di discussione della serata era ‘obbligata’ dal voler mettere in risalto l’episodio della fuga di mezzanotte e le contraddizioni connesse.
    Dovevamo darci tempo perché, come tu dici, “i rapporti trovassero un loro incanalarsi naturale e rispettoso”.
    @ Ennio
    Io sono mia è stato scritto di recente. Forse allora avrei scritto in modo assai meno distaccato e leggero.
    Lo scritto di Grazia Longoni testimonia della fatica doppia delle donne nelle organizzazioni politiche. In fondo i gruppi femministi separatisti (a Roma più del collettivo di Pomponazzi, quello di Pompeo Magno) permettevano una pratica che era ‘liberatoria’ nella riflessione e poteva anche essere ‘ristretta’ alla gestione dei rapporti interpersonali.
    @ Elena
    Sebbene scritto in prima persona, si tratta di un racconto, non di una pagina di diario né di un resoconto storico-politico. Ho attinto ai miei ricordi, ma diversi particolari sono stati inseriti per segnalare altro: quello cui ti riferisci rimanda alla provenienza di parecchi/e compagni/e da famiglie borghesi e di destra.
    Potresti forse esprimerti sul racconto nel suo complesso, a partire dai tuoi criteri di valutazione. Non sarebbe probabilmente una valutazione positiva, ma a me interesserebbe.

  5. Ho visto dopo che è inserito nella categoria “narrativa”, subito l’ho letto ingenuamente come una testimonianza autobiografica. Anche i commenti indirizzavano un po’ in quel senso.
    Colpevole sbadataggine, e sì che ero avvertita. A partire dal primo racconto che ho letto di te (Ghiacci che si sciolgono, ma anche andando indietro Guanti di astrakan) sono stata colpita (e un po’ disorientata) dall’oscillazione fra il conte e il récit, fra il racconto e la cronaca – la cronaca di un episodio di vita reale che appare in qualche modo esemplare o significativo. Racconto o pagina di diario? Per stabilirlo avrei dovuto disporre di informazioni che non ho. Lo stile, attento a evitare ogni posa letteraria, non mi aiutava. Potevano essere cronache scritte con consapevolezza letteraria (quindi senza “pose” e “falsi letterari”). Alcuni “tiravano” più verso il racconto (Ghiacci e Fiori di zucca, quest’ultimo, oltre che per la terza persona, per l’insistere sul “piccino” che va oltre il dettaglio di cronaca ed è marcatamente letterario), altri più verso la cronaca.
    Nel caso presente, sono caduta nella trappola della prima persona. Rileggendo, elementi che indicano in direzione racconto ci sono, ma non sono tanti: il titolo, “Quella sera…” l’uso del passato remoto, qualche incongruenza (“Noi tutte nuove intorno alla ventina”… “Non mi percepivo certo allo stesso modo dopo sei anni”). Ma il tavolo fratino (bei tempi, quando si trovavano i tavoli fratini a Porta Portese) su cui l’autrice scrive inganna di nuovo verso l’autobiografia.
    Credo anche che quello che porta a leggere il tuo racconto come un documento sia la finalità didascalica: ci porti uno spaccato di femminismo ai suoi inizi, e lo fai bene, con le sfumature giuste. Ho apprezzato particolarmente il senso di timore che riferisci e che riconosco per il mio, quando sono stata confrontata, molto più blandamente, al fenomeno del femminismo. Che mi faceva paura – e non mi convinceva – per la “separazione”. Quando mi sono trovata in una situazione falsa e insostenibile – in una vera prigione – sono stata aiutata da amiche, ma soprattutto da amici. Le donne le ho sempre trovate molto allineate e “giudicanti”. O forse io, inconsciamente, cercavo quelle. Ho fatto scelte che apparivano libertarie, ma interiormente ero molto meno libera di voi. Non osavo fino in fondo, ho vissuto a lungo in una contraddizione castrante. Per me è stato un lungo cammino. Come detto, non avevamo neanche il telefono.

  6. @ Elena
    Grazie di questo commento. Un po’ mi è sembrato di avertelo ‘estorto’, ma mi pareva importante sfuggire all’attenzione che nei commenti si andava consolidando soprattutto sul contenuto. Non mi dispiace che il racconto (i miei racconti forse tutti) non sia facilmente ascrivibile ad un genere, letterario o meno. Li scrivo anche per divertimento e ci metto dentro un po’ di tutto, senza troppe intenzioni di riuscita letteraria. (L’incongruenza però mi sa che non c’è: “dopo sei anni” si riferisce all’inizio del rapporto con il compagno, non alla pratica dell’autocoscienza.)
    Mi ha fatto anche piacere che tu ti sia un poco raccontata, anche se non vorrei ti ci fossi sentita costretta (non era mia intenzione). Confesso che anch’io ho incontrato diverse donne “giudicanti”. Il separatismo dei gruppi femministi invece lo sentivo come una scelta necessaria per sottrarci allo sguardo maschile, un modo di confrontarci impegnativo nelle conseguenze pratiche ma sostanzialmente liberatorio. Soffrivo gli slogan truculenti dei compagni extraparlamentari nelle manifestazioni, mentre timidezza e senso di inadeguatezza mi zittivano nelle riunioni di collettivo.
    Il collettivo di Poliscritture invece guadagna dalla tua assidua presenza.

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