Verso il 25 aprile. Segnalazioni

di Donato Salzarulo

«Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.»

                                  (W. Benjamin, Sul concetto di storia)

 1.- Il 6 Aprile 2021 è stato pubblicato sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri (www.reteparri.it) un appello, sottoscritto da più di cento storici e studiosi, «per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano».

Infatti, fu il 6 Aprile del 1941 che le truppe italiane, di concerto con quelle tedesche ed ungheresi, attaccarono il Regno jugoslavo da diversi punti e l’occuparono. Nella spartizione del “bottino” all’Italia toccò buona parte della Slovenia (tra cui Lubiana), della Dalmazia, del Montenegro e del Kosovo.

Come scrivono gli storici nell’appello, «durante l’occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L’Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l’aggressione militare e l’appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi.

La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato nei luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia.»

È chiaro che questa è la risposta degli storici a chi, decontestualizzando la drammatica rivalsa delle foibe, ha istituito una giornata del ricordo il 10 febbraio e rimuove o fa finta di non ricordare di quali eccidi i militari italiani  s’erano resi  responsabili qualche anno prima. I fatti storici si capiscono soltanto ricostruendo il contesto. Ma è esattamente quello che non succede più da qualche decennio. L’odierno sistema mass-mediale procede alacremente a distruggere il passato o ad utilizzarne i frammenti utili alla guerra, innanzitutto ideologica, che liberali, sovranisti, neo-nazionalisti e neo-fascisti conducono oggi, ora divisi ora in combutta, contro i vecchi padri comunisti, socialisti, giellisti ai quali si deve, tra gli altri, la conquista dell’attuale carta costituzionale.

2.- La ricerca storica gode buona salute, ma a livello sociale, scolastico e mediatico la situazione è allarmante. Viviamo in un contesto dominato dalla svalutazione della storia, dal suo oblio. Due anni fa, tanto per fare un esempio, il Ministro dell’Istruzione eliminò dalle tracce proposte per gli esami di maturità quella di argomento storico. Motivazione: viene scelta da una piccolissima minoranza. Vero: ma perché? Ecco, domande simili fanno fatica a germogliare nella testa di certi Ministri; non capiscono come questo fatto rappresenti, comunque, uno dei segnali d’allarme: sta ad indicare un processo in atto di perdita della nostra memoria collettiva e di accresciuta ignoranza della nostra storia.

Recentemente Adriano Prosperi, professore di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ha richiamato la nostra attenzione proprio su questa situazione. Le sue riflessioni si possono leggere nel libretto, significativamente intitolato «Un tempo senza storia. La distruzione del passato.» (Einaudi, 2021, pag. 121, Euro 13).

Traggo da queste pagine due citazioni: la prima è del semiologo Jurij M. Lotman, la seconda è dello storico Eric Hobsbawm.

«La storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi.» («Tipologia della cultura», Bompiani, Milano 1975, pag. 31)

«La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.» («Il secolo breve», Rizzoli, Milano 1995, pag. 14).

Sono due citazioni che non hanno bisogno di commento. La prima ci dice che chi si sente impegnato nella trasmissione ed elaborazione di una cultura critica e, più specificamente, nella trasmissione e vivificazione del patrimonio culturale rappresentato dalla storia delle classi subalterne, sfruttate ed oppresse, sa che deve condurre ogni giorno “una lotta per la memoria”. La seconda citazione ci fa capire quanto il compito sia diventato difficile, perché sono stati distrutti “i meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti”.

3.- La storia è selezione. Chi seleziona non lo fa in modo disinteressato e innocente. Non lo può fare. Oggi il ricorso alla storia ha come unico scopo di legittimare il discorso dominante. Ricordo l’articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera del 21 aprile 2020 «Lottare nel nome del tricolore». Metteva sullo stesso piano Prima guerra mondiale, guerre fasciste e Resistenza; poi per combattere la cosiddetta “grande falsificazione ideologica” di chi come me (e tanti altri nei primi anni Settanta) gridava nelle manifestazioni che la “Resistenza è rossa non è democristiana”, chiamandola coralità, ci mette dentro «combattenti di ogni fede politica, e molti che non sapevano neppure cosa fossero i partiti ma non volevano schierarsi con Hitler. E perché ci furono molti modi di resistere, di dire No ai nazifascisti; e quel No fu detto da contadini, carabinieri, ebrei, militari, sacerdoti, suore. Senza dimenticare molti italiani che fecero in buona fede la scelta sbagliata, e morirono convinti di aver servito la patria.» (Quindi, “resistettero” pure i giovani di Salò!…). Incommentabile. Sulla tastiera di Cazzullo (o sotto) la storia davvero diventa una zuppa indigesta. Contestualizzare, contestualizzare, contestualizzare. Questa è la prima operazione che compie uno storico. Le ragioni dei combattenti nella prima guerra mondiale (imperialistica) non sono

paragonabili a quelle di chi partecipò alle guerre coloniali fasciste e, meno che meno, sono paragonabili a quelle di chi fu impegnato nella Resistenza. Ridurre tutto ad una lotta “nel nome del tricolore”, questa sì che è un’astrazione ideologica.

È anche un modo di distruggere il passato e di non stimolare nei giovani un rapporto organico con le varie e drammatiche esperienze delle generazioni che l’hanno preceduto. Esperienze fatte di sentimenti, pensieri, ragioni, scelte, ideali con cui un giovane può confrontarsi. Quando nelle manifestazioni gridavamo che la “Resistenza è rossa non è democristiana”, sapevamo benissimo – o molti di noi sapevano benissimo – che nel Comitato di Liberazione Nazionale c’erano  liberali, democristiani, azionisti, socialisti, comunisti…Immaginavamo ciò che poi ha sostenuto efficacemente lo storico Claudio Pavone; ossia che durante la Resistenza si sono combattute in realtà tre guerre: guerra di liberazione nazionale contro i nazi-fascisti, guerra civile contro i repubblichini di Salò e guerra di classe contro il padronato che aveva foraggiato il regime fascista; semplicemente pensavamo che fosse ancora attuale l’aspetto della lotta di classe e dell’antifascismo (Piano Solo, “Strage di stato”, ecc. ecc.). Lo penso ancora adesso.

Comunque, per chiudere con Cazzullo. Chi avesse voglia di leggere un articolo che smonta il pezzo dell’editorialista del Corriere, dovrà cliccare su Google www.lastoriatutta.org, guidare il mouse sulla rubrica “Distorsioni”, scorrere e troverà il testo di Bruno Maida intitolato «L’irriducibile antifascismo della Resistenza: una risposta ad Aldo Cazzullo». C’è di che restare soddisfatti per l’abbondanza e la fondatezza degli argomenti.

4.- Un po’ più avanti tutta la redazione del sito firma un articolo critico nei confronti di Paolo Mieli che, in occasione della pubblicazione del libro «Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana» a cura di Gad Lerner e Laura Gnocchi (Feltrinelli, 2020), scrive sul Corriere della Sera del 15 aprile 2020 una lunga recensione «per imbastire il solito discorso sui soliti temi: zone oscure, pagine nere, silenzi e colpe del partigianato e dei presunti detentori della sua memoria», dimenticando lo slancio politico ed esistenziale che caratterizzò i protagonisti di quella stagione. Titolo: «Memoria senza miti. Parlano i partigiani». Infatti, i partigiani parlano, ma non dicono ciò che, attraverso una “casistica – appositamente selezionata – di commentini striminziti e puntuti” Paolo Mieli mette sulle loro bocche.

[Tra parentesi: leggo, mentre sto scrivendo, che un primo blocco delle video-interviste coi protagonisti della lotta partigiana verrà messo online, a cura dell’ANPI e della Spi-CGIL, il 19 aprile 2021 sul sito www.noipartigiani.it

Per lo storico Giovanni De Luna nelle storie «emerge la fierezza dei partigiani di aver sconfitto, come avvenne nel Colle della Maddalena, la Wehrmacht, cioè l’esercito ritenuto più forte al mondo.»]

L’editorialista del Corriere non è nuovo a queste operazioni. Un’alta simile l’aveva compiuta il 26 Novembre 2019, recensendo la «Storia della Resistenza» (Laterza, 2019) di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli. Il titolo dell’articolo questa volta era: «La Resistenza senza tabù». Risultato: un sostanziale tradimento degli intenti dei due storici.

Scrive, infatti, la Redazione del sito www.lastoriatutta.org:

«L’idea che sia esistita una narrazione falsa della Resistenza che ha dominato la nostra sfera pubblica, una narrazione che ha “stufato”, da “revisionare” a ogni costo svelando presunte “contro-verità” ed estraendo gli ultimi “tabù” dall’”ombra”, nell’ottica di “pacificare” e “riconciliare” ha preso sempre più piede nel senso comune all’insegna di tricolori sventolati, di “ragazzi di Salò” da perdonare o con i quali empatizzare. Per cancellare, occultare o ridimensionare le colpe del fascismo evidentemente: “invece di ricordare gli errori e di accettare le responsabilità ci si rifugia nel culto dei morti che sono tutti eguali sotto la terra nera”, scriveva Giorgio Bocca nel 2002; “il becchino sostituisce il giudizio di Dio e degli uomini”, aggiungeva (Il valore del 25 aprile, La Repubblica, 5 maggio 2002). Tolte alcune eccezioni, è stata totalmente sdoganata l’idea della resistenza come qualcosa da condannare, da guardare con sarcasmo, come il regno degli eccessi, delle vendette, delle “questioni private” risolte con l’alibi della guerra di liberazione e della guerra civile.»

La redazione del sito riporta dal ponderoso volume di Marcello Floris e Mimmo Franzinelli la citazione che si legge a pagina 555, tratta dalla prefazione di François Marcot a «La vie à en mourir. Lettre de fusillés 1941-1944»:

«La società che i resistenti hanno contribuito a distruggere era quello dell’oppressione, e non occorrono frasi magniloquenti per dire che essi hanno combattuto per la loro libertà e per quella dei loro figli – vale a dire per la nostra. Anche se l’attuale società non ha nulla in comune con quella contro cui essi si sono ribellati, gli ultimi scritti dei fucilati si rivolgono a noi: cosa abbiamo fatto della società che ci hanno affidato? Cosa abbiamo fatto del loro ideale di solidarietà? Che significato abbiamo dato alla loro morte?»

Queste sono le domande che abbiamo il dovere di porci e che sicuramente si pongono le storiche e gli storici che dal febbraio 2020 hanno dato vita a questo sito; un sito che merita di essere visitato frequentemente.

«Siamo partiti da un’amara consapevolezza – scrivono presentandosi – viviamo in un’epoca in cui imperversa la “dittatura del presente”, in cui il passato è imbalsamato ed è un semplice guardiano dell’esistente». Si racconta così «una storia addomesticata, sclerotizzata e a-problematica, in cui abbondano le rimozioni, le distorsioni, e gli stereotipi. Per aprire nuovi scorci e fronteggiare una storia resa prigioniera e trasformatasi in ancella delle pulsioni del momento, abbiamo aperto questo spazio. Crediamo fermamente nella necessità di ridefinire l’orizzonte pubblico della storia, ribadendo la natura dinamica e processuale del passato e indagando gli incroci possibili con le altre discipline». I sostantivi in grassetto rappresentano i titoli delle rubriche del sito.

Fanno parte della redazione: Andrea Mulas, Carlo Greppi, Caterina Ciccopiedi, Claudio Ferlan, Enrico Manera, Francesco Filippi, Marco Meotto, Martina Merletti, Valentina Colombi. Molti altri fanno parte della “ciurma”, come amano definirsi: Alfredo Sasso, Bruno Maida, Chiara Colombini, Davide Leveghi, Eric Gobetti, ecc.

5.- Carlo Greppi, oltre a far parte della redazione di www.lastoriatutta.org , cura la serie “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti” dei “Robinson” della casa editrice Laterza. In un’intervista con Giuseppe Sergi, professore emerito di storia medievale all’Università di Torino, pubblicata sul numero di aprile 2021 de “L’Indice”, chiarisce quale sia l’idea di fondo che muove le due esperienze collettive: è quella «di rivendicare l’importanza della funzione di un sapere documentato contrastando presunte “contro-verità” agitate come clave per finalità per lo più identitarie. Con l’ambizione di oltrepassare la cerchia degli addetti ai lavori cerchiamo di restituire il lavorio incessante della storiografia: lo studio dell’essere umano nel tempo è in primis educazione alla complessità».

Tre sono i volumi sinora pubblicati in questa serie. Il primo è di Eric Gobetti e ha per titolo un classico cliché della conversazione(?!) pubblica: «E allora le foibe?…»; il secondo, dello stesso Carlo Greppi, ha per titolo un’altra specie di luogo comune: «L’antifascismo non serve più a niente…»; una altro stereotipo è, infine, il titolo del terzo «Anche i partigiani però…», scritto da Chiara Colombini.

L’obiettivo è quello di smontare queste frasi fatte e riportare le “narrazioni tossiche” che le sostengono alle acquisizioni della ricerca storiografica, fornendo dei “manuali di autodifesa” a chi percepisce e comprende che è inaccettabile quest’uso à la carte del passato.  «I primi destinatari della serie sono coloro che chiedono antidoti; l’ambizione esplicita è quella di arrivare a mettere punti fermi da cui far ripartire la discussione, contaminando la “memoria grigia” del paese.»

Perché, inutile prendersi in giro, sulla Resistenza non si può avere una memoria condivisa. La “guerra della memoria” cominciò nell’immediato dopoguerra perché su ciò che accadde tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 gli italiani erano divisi fin dall’inizio. Ci furono gli antifascisti, i fascisti e la cosiddetta “zona grigia”, quella di chi non si schierò attivamente con nessuna delle due parti.

Per nostra fortuna vinsero gli antifascisti, ma questi ultimi, lo sappiamo benissimo, erano divisi tra di loro per orientamenti culturali e programmi politici. Dopo la liberazione, già nel fronte antifascista furono date letture diverse della Resistenza. I fascisti vinti continuarono a rivendicare la loro scelta per la Repubblica di Salò e continuarono a giudicare la Resistenza un “tradimento”. Chi restò “alla finestra” continuò a guardare con insofferenza alle due memorie dei vincitori e dei vinti e smaniò (e smania) per lasciarsi alle spalle la tragedia del ventennio di dittatura fascista e della necessaria guerra di liberazione. In questa zona della nostra società (e dei suoi intellettuali) ha origine una memoria “a-fascista” diversa da quella dei reduci di Salò. Questi signori addebitano a Mussolini soprattutto la responsabilità dell’averci costretto a fare una guerra senza la possibilità di vincerla. Il fascismo, insomma, non è un male in sé. Finché teneva a bada “i rossi” in casa andava bene. La memoria di questa zona grigia, come giustamente scrive la Colombini, «è in contrasto soprattutto con quella antifascista, alla quale guarda con un misto di irritazione e apprensione perché essa, facendo leva sulla Resistenza, pretende di imporre una trasformazione politica, sociale e morale del paese, una prospettiva di cui questa parte dell’opinione pubblica diffida […]. Così, se tale memoria grigia si smarca da quelle concorrenti di vinti e vincitori, non è equidistante e di fatto finisce per avere molte assonanze con quella nera, anche e soprattutto in ragione dell’anticomunismo che segna la guerra fredda. Da a-fascista, in breve diventa anti-antifascista» (Chiara Colombini, «Anche i partigiani, però…», Laterza, 2021, pag. 7-8).

Tuttavia, al di là delle numerose fratture delle memorie individuali e collettive, è esistita una “memoria pubblica” che ha accompagnato le varie fasi dello sviluppo storico-politico del nostro paese dal dopoguerra ad oggi. Questa “memoria pubblica” non è stata sempre la stessa. Se tra fine anni Sessanta e anni Settanta del secolo scorso il paradigma antifascista era abbastanza prevalente e il confronto era tra “Resistenza rossa” e “Resistenza tricolore”, oggi il Sindaco (leghista) della città in cui vivo può tranquillamente affidare all’ANPI la celebrazione del 25 aprile, come se fosse un fatto “privato” di questa associazione, e limitarsi a dare il patrocinio del Comune. Lui, evidentemente, ha altro da fare e non è il Sindaco di una città di questa Repubblica democratica ed antifascista. Con l’anniversario della Liberazione vuole avere poco o nulla a che fare; si è sbracciato, invece, per il giorno del ricordo del 10 febbraio. Bisognerebbe regalargli «E allora le foibe?…», il libro di Eric Gobetti. Sarebbe inutile, lo so. Ma non si sa mai!…Scrive Bruno Maida, recensendo il libro: «In un centinaio di pagine, scritte con grande semplicità e chiarezza, che nulla toglie al rigore delle argomentazioni, Gobetti smonta uno a uno gli stereotipi, contesta le falsità contrapponendo un solido apparato di dati e tesi storiografiche che si sono affermate in decenni di ricerca e, credo, faccia anche un ottimo servizio alle vittime, sradicandole da un eroismo e un paradigma vittimario strumentalmente politici e restituendo loro storicità e umanità. Lo fa, prima di tutto, con un approccio che ogni storico dovrebbe mettere al centro, indipendentemente dalle sue convinzioni politiche, dal suo sistema valoriale, dal suo modello interpretativo: contestualizzando.» (L’INDICE, n. 4, aprile 2021, pag. 17),

Io non sono uno storico e molti di quelli che leggeranno queste mie segnalazioni forse non lo sono. Ma il compito che attende tutti noi mi pare sia chiaro: dobbiamo uscire da questa sorta di “dittatura del presente”, dobbiamo riconquistare un “rapporto organico” con il passato, non dobbiamo aver timore della verità, dobbiamo contestualizzare, ricostruire il passato che alimenta ancora le nostre istituzioni quotidiane, mettersi nei panni dei nostri padri, nonni o bisnonni e domandarsi: cosa avremmo fatto noi all’indomani del caos dell’8 settembre 1943?…Io non ho dubbi: avrei fatto la scelta che fece quella minoranza d’italiani, giovani e meno giovani, che volontariamente e in piena autonomia decise di armarsi e ribellarsi, a proprio rischio e pericolo, contro tedeschi e fascisti. Lo fece per liberare l’Italia, ma anche per un cambiamento economico, politico, sociale e morale del nostro paese. Un cambiamento che abbiamo il dovere di contribuire a realizzare. Per dare un senso alle loro morti.

18 aprile 2021

42 pensieri su “Verso il 25 aprile. Segnalazioni

  1. grazie, caro donato. senza questo pezzo e senza il tuo invito in privato a scrivere del 25 aprile non avrei scritto la poesia sul 25 aprile che ho scritto stamattina. sono ammirato dalla tua resistenza, cordiale e puntigliosa assieme. sei un partigiano in servizio permanente, sei un maestro di passione civile.

  2. “dobbiamo … mettersi nei panni dei nostri padri, nonni o bisnonni e domandarsi: cosa avremmo fatto noi all’indomani del caos dell’8 settembre 1943?”

    A 16 anni, in un liceo, di sinistra come i migliori a Milano, lessi le lettere dei condannati della resistenza italiana, e quelle dei condannati della resistenza europea. Ne parlai a mio padre e mia madre che caddero dalle nuvole. Credo che sicuramente avrebbero accreditato un “eroismo” e tranquillamente “un paradigma vittimario” a quanto io raccontavo.
    La questione dell’eterno presente, però, richiede ben altre profondità. Che non corrispondono alla parificazione tra fascisti e democratici, o meglio tra crudeli dell’ordine dato, fascista e nazista, e crudeli della sovversione in nome di ideali ugualitari e progressivi. Anche se la lotta, la guerra, implica la crudeltà: imposta o combattente. (Ma non credo che i rivoluzionari o democratici siano in sé meno disponibili a usare la crudeltà dei nemici. Magari soffrono di più… ma si adeguano. Giustamente.)
    Quello che per me fa la differenza è che l’eroismo di un Guglielmo Jervis, o della nostra Tina Anselmi, splendono di coraggio. (Che credo io non avrei avuto.) Quello stesso coraggio risorgimentale che abbiamo imparato a scuola, dei napoletani, di Silvio Pellico, di Cesare Battisti. Coraggio di spendere la vita per un obiettivo ideale. Concreto. Come quello della Resistenza alla oppressione tedesca, e anche agli alleati che ci mandavano a casa, per l’autunno del ‘ 44.
    Insomma, cosa vuol dire oggi “eterno presente” se non che oggi non abbiamo coraggio per fini che però non appaiono chiari e definibili?
    Capisco bene la valorizzazione che Donato fa di “un rapporto organico con le varie e drammatiche esperienze delle generazioni che l’hanno preceduto”. Di più: anche della diversità qualitativa di quelle “esperienze”. Diversità qualitativa che si rifà a uguaglianza, rispetto, rifiuto di dominio padronale, umanitarismo, progetto che inveri questi valori. Sono tracce profonde della mia esperienza di vita, che non potrei mai cancellare senza cancellare me stessa.
    Capisco però anche l’ignoranza, la debolezza, il coraggio -che non ho-, e soprattutto la lontananza della politica come ideologia dalla vita comune dei più.
    Mi pare che la vita meriti di essere vissuta per tutti, coraggiosi o meno. (Però dico che per i sadici e i cattivi occorre la repressione.)
    Quindi: onore ai e alle resistenti! Coraggiosissimi e precisi negli ideali. Ma non bisogna dimenticare che le donne della resistenza furono ricacciate a casa e in famiglia subito dopo. Non dimentico che i miei genitori ventenni nulla sapevano. Che il Sud adriatico, anche, nulla sapeva (tranne che in Val di Sangro!, dove io sto). Ma la risalita dallo sbarco in Sicilia percorse la costa ovest tirrena: però, Cassino e le campagne intorno, ebbero le donne violentate da tedeschi e marocchini alternati.
    Ecco: il successivo presente alla liberazione portò a galla di ogni. Una Storia che dia conto di tutto? Forse.

    1. “Ma non bisogna dimenticare che le donne della resistenza furono ricacciate a casa e in famiglia subito dopo.” (Fischer)

      DA POLISCRITTURE FB

      24 APRILE 2019

      MEMENTO (5) IN VISTA DEL 25 APRILE/AL VOLO

      “Le reticenze maschili sono particolarmente visibili nel momento della sfilata finale, dopo la vittoria. A Milano – è ancora Elsa Oliva che racconta – “alle staffette, nelle sfilate, mettevano al braccio la fascia da infermiera!”[…]. Quando i partigiani erano entrati ad Alba il 10 ottobre 1944, avviando la breve esperienza della zona libera, cogli uomini – scrisse poi Fenoglio – sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: – Ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzare l’occhio. I comandanti che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e si erano scaraventate in città.
      (Fenoglio, I ventitrè giorni della città di Alba)

      Nella manifestazione finale a Torino le formazioni Garibaldi disposero che le donne non partecipassero alla sfilata per non correre il rischio che venissero chiamate puttane.

      ( da Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, pag. 444, Bollati Boringhieri, Torino 1991)

      1. Racconto qualcosa: una della Libreria delle Donne di Milano, LB, era una delle tre ragazze insieme, foto notissima. Le chiedevamo: quale sei, tu? (50 anni dopo, non riconoscibile, ovviamente) Lei alzava le spalle, non so, che importa?

        1. “Lei alzava le spalle, non so, che importa?” (Fischer)

          Trovo tremenda questa frase. Perché viene da una che aveva combattuto contro il fascismo. Giusto prendercela coi revisionisti che deformano o cancellano la storia e la memoria della Resistenza, ma quando a farlo sono quelli/e che vi parteciparono?

  3. Caro Franco, sono contento che il mio pezzo e il mio suggerimento ti abbiano permesso di scrivere una poesia sul 25 Aprile. Immagino che lettrici e lettori di Poliscritture siano curiosi di apprezzarne contenuti e qualità.
    Quanto agli elogi nei miei confronti, ti ringrazio, ma meglio non esagerare. Non ho fatto nulla di eccezionale. Ho segnalato alcuni siti e alcuni libri che possono aiutarci a combattere la “dittatura del presente”.
    Questa mia annotazione vale anche nei confronti dell’amico e collega Antonio Caggiano. Grazie per la stima, ma non esageriamo coi complimenti. Abbracci

  4. Cara Cristiana, ti ringrazio assai per l’intervento. Io non amo granchè né il paradigma dell’”eroismo” (Brecht: “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”), né quello “vittimario” (Susan Sontag: “Odio sentirmi una vittima”), perciò sono d’accordo con gli storici che sottolineano la necessità di richiamarsi al contesto, un contesto quasi sempre caotico e complesso. A maggior ragione, dopo l’8 settembre del 1943.
    Non mi meraviglia che tuo padre e tua madre cadessero dalle nuvole. Nel mio libro di lettura di quinta elementare (fine anni Cinquanta) ricordo il testo della canzone: «Fischia il sasso, il nome squilla / del ragazzo di Portoria / e l’intrepido Balilla / sta gigante nella Storia». Soltanto, quando durante l’adolescenza, mi sono iscritto per alcuni anni alla FGCI la parola Resistenza è entrata nel mio orizzonte mentale e cognitivo. Ma questo vuol dire semplicemente che mi si era aperta una finestra. “Riattizzare nel passato la scintilla della speranza” è tutt’altra esperienza di collegamento e non è facile. Il passato può prestarsi benissimo ad essere strumento della classe dominante. Pensa all’uso della storia romana da parte dei fascisti…Il passato che a me interessa è quello che “reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione” (Benjamin). «Non sfiora anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa» (W. Benjamin “Sul concetto di storia”).
    Ecco io sono interessato a “questo appuntamento misterioso tra le generazioni”; sono interessato a questa “debole forza messianica” che rinvia alla “redenzione”, al riscatto e alla felicità delle generazioni, compresa la mia, oppresse e sfruttate dalla e nella storia.
    Quando si parla di Resistenza non bisogna estendere, come fa Cazzullo (e tanti altri come lui) surrettiziamente il concetto e l’esperienza. La Resistenza non è quella dei soldati italiani sulla linea del Piave. La Resistenza è quell’esperienza di guerra asimmetrica (sottolineo, guerra) che si sviluppò dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, un’esperienza su cui oggi molti puntano il dito accusatore: è stata inutile (bastavano gli Alleati a “liberare” l’Italia), i partigiani erano vigliacchi perché organizzavano agguati, sabotaggi; la violenza è colpa loro; sono stati degli assassini, dei rubagalline, ecc…La guerra, purtroppo, si fa con le armi ed è violenta e crudele. Discutiamo pure di questi aspetti della guerra partigiana. Era possibile fare diversamente?
    Scrivi: «Ma non bisogna dimenticare che le donne della resistenza furono ricacciate a casa e in famiglia subito dopo». Vero. Non bisogna neanche dimenticare che dopo il 1948, molti partigiani si sentirono traditi. La società per cui avevano rischiato la vita non era quella che la DC e la “guerra fredda” tra USA e URSS stavano realizzando: continuità dello stato fascista, processo ai partigiani, repressione nelle fabbriche, ecc.
    «Una Storia che dia conto di tutto? Forse.» Hai ragione, forse è difficile. Ma perché non provarci?… Purché usciamo dal paradigma “vittimario” del “sangue dei vinti”. I partigiani vinsero la Resistenza. Ma cosa accadde di là a qualche anno?…

    1. Capisco la tua esigenza, che mi appare soprattutto “personale” in senso forte, non di mera psicologia corrente. Spiego: stamane, proprio in vista del commento che intendevo scrivere, leggo su Wikipedia la biografia di Tina Anselmi. Di cui già conoscevo altre cose. Comunque lei si iscrisse subito dopo la guerra -aveva fatto la partigiana!- alla dc. Come ministra della sanità: 1. Tolse la licenza a una ventina di farmaci, perché inutili o dannosi; 2. Denunciò i messaggi di minaccia o corruzione ricevuti facendo i nomi; 3. fece la riforma sanitaria; 4. Le fecero saltare in aria l’auto e le misero un carico di esplosivo davanti casa. Poi sappiamo della sua carica di presidenza alla commissione P2.
      Continuità tra resistenza e politica nella repubblica? Direi proprio di sì.
      Allora: anche sulla resistenza tradita si deve guardare più a fondo. Perché il coraggio non è solo quello letterario (anche di Brecht) ma una pratica difficilissima e quotidiana. Non ideologica, io vorrei. Anche se so di essere una fifona.

      1. Ah no, Ennio! Non capisci che proprio perché noi, femministe in Libreria, eravamo dopo quella storia ma in continuità, ci occupavamo dell’oggi. Con la eredità di quelle come LB. E le nuove che intendevano ulteriori liberazioni.
        Qui la frattura tra femminismo e vecchi comunisti.

        1. “eravamo dopo quella storia ma in continuità, ci occupavamo dell’oggi” (Fischer)

          Ah no, Cristiana! Forse interpreto male l’alzata di spalle di LB, “una delle tre ragazze insieme, foto notissima ” ma, se non lo faceva solo per pudore, ma per distanziarsi da quella storia, dubito si possa parlare di continuità.

          1. … per pudore e per amore! Che’ noi tutte eravamo lì per ben altre rivoluzioni, e lei era un faro.
            Forse è difficile da capire. Ma io c’ero.

          2. @ Ennio. Non so bene perchè ma questo mio commento pare non esserci: “… per pudore e per amore! Che’ noi tutte eravamo lì per ben altre rivoluzioni, e lei era un faro. Forse è difficile da capire. Ma io c’ero.”

            Ma lo riprendo, e pian piano sciolgo dei nodi che non dovrebbero esserci. LB era più vecchia di me (ovviamente) e aveva anche avuto una disgrazia terribile, le era morto allora un figlio, adulto, in moto. Una tosta, impossibile quasi esserle vicine per quel fatto tremendo. Chiusa in un dolore solo suo. Mai espresso. Si occupava di moda, pensa un po’. E aveva consigliato a mio marito la giacca giusta da comprare in un negozio vicino: precisa, sbrigativa, decisionista.
            Io credo che lei sapesse benissimo quale delle tre ragazze era, ma ci prendeva in giro. Si riservava. Anche perchè eravamo “lì”, con lei, nel presente, a fare quello che occorreva allora. Chissà se è ancora viva.
            Io sono vecchia, ma lei quasi vent’anni di più…
            Era un monumento per noi, ma guai a farglielo pesare. Era altrove, altra, di più, e anche tutta lì contemporaneamente.
            Ecco, le storie di donne, vivendole, insieme, pare che siano difficili da capire.
            Ma anche insinuare che potesse “distanziarsi”… dài, rivela una cecità da parte tua assurda, inaccettabile.
            E non dico altro, ma dovresti forse chiedere scusa per certi sospetti, che dicono solo che … non capisci.

  5. Segnalo l’inserto del Manifesto di oggi (23 / 4) sul 25 Aprile.
    Il primo articolo («È scontro su antifascismo, Liberazione e identità europea») è affidato allo storico Davide Conti. Dopo aver ricordato che la ricorrenza «cade, nel secondo anno di pandemia, nel cuore di una crisi sistemica globale e nella prospettiva di una riforma strutturale non rinviabile delle relazioni economico-sociali, dell’approccio alla questione ambientale e della promozione dei diritti politici e civili di cui l’Europa dovrebbe essere epicentro internazionale», sottolinea che «Antifascismo e Resistenza rappresentano i perni dell’identità europea […] perché costituiscono un campo storico largo, dove si sono affermati democrazia di massa, stato sociale e ripensamento del concetto di patria e unità nazionale. […]
    L’antifascismo è stato un fattore costituente della storia d’Europa poiché non solo ha rappresentato, in un arco temporale cronologicamente delimitato, la lotta contro il nazifascismo ma perché si è definito come “teoria dello Stato” e riforma inclusiva dei rapporti e dei diritti sociali, della cooperazione e delle relazioni internazionali.» Secondo Conti, la sintesi ideale di questa funzione svolta dall’Europa anti-nazifascista è rappresentata dal “Manifesto di Ventotene”.
    La Risoluzione sulla Memoria europea del 2019 promossa dai governi dell’estrema destra di Polonia ed Ungheria «ha operato una sostituzione valoriale che rovescia il senso storico degli eventi della Seconda Guerra Mondiale e degli assetti sociali ed istituzionali emersi da quella linea di faglia fondamentale e che non esprime soltanto una rilettura revisionista del passato ma una proposizione regressiva del futuro dell’UE. […]
    Rovesciare, come ha fatto la Risoluzione europea e come fa il populismo storico, il patrimonio dell’antifascismo e della Resistenza all’interno di una generica condanna del totalitarismo, usata come categoria del politico, apre le porte alla disgregazione di quella “civiltà delle persone” posta come base della nuova Europa di cui scrissero nel 1943 Spinelli e Wilhelm Ropke.
    Il populismo storico prova ad eradicare dal corpo valoriale antifascista i comunismi (una pluralità di fenomeni non riducibile a sintesi nominale) che invece lo animarono in ogni paese del continente.
    In questo modo non solo si nega il carattere unitario della Resistenza ma si mina la legittimità stessa delle istituzioni nazionali e sovranazionali sorte all’indomani della vittoria sul nazifascismo. […]
    Partiti e movimenti comunisti ebbero un ruolo decisivo, in molti casi maggioritario sul piano politico-militare, in seno alle Guerre di Liberazione di tutti i paesi del continente, contribuendo in modo determinante alla ricostruzione delle democrazie non solo nel quadro delle transizioni post-belliche ma anche nella metà degli anni ’70 dopo la caduta delle dittature nel sud-Europa..
    Nel 2013, nel pieno della crisi economica globale, fu la grande banca d’affari JP Morgan ad incaricarsi direttamente della battaglia ideologica contro l’antifascismo indicando nelle Costituzioni nate dalla Resistenza e dopo la fine delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna il punto di intralcio da divellere per una piena affermazione del paradigma liberista.
    Nel fuoco di questa nuova crisi pandemico-economica va combattuta, sullo stesso terreno e in direzione opposta, la battaglia culturale e politico sociale delle nuove generazioni europee chiamate a raccogliere l’eredità del passato come dispositivo d’azione e Liberazione del tempo presente e come unico strumento di conquista del futuro.»

    ***
    Il secondo articolo è di Alessandro Portelli ed è dedicato alla memoria di Guido Rattoppatore. «Era un tranviere. Robusto, simpatico, aveva circa trent’anni; abitava in una piazzetta dietro via Giulia ed era l’anima della resistenza antifascista dei rioni Regola, Campitelli e Parione. […] Comandante militare della IV zona dei Gruppi di Azione Patriottica, uno dei protagonisti della Resistenza romana, apparteneva a quella Roma popolare che poteva lavorare all’Atac e ancora abitare alle spalle dell’aristocratica via Giulia – la stessa strada dove stavano i suoi amici e compagni Giorgio Labò e Gianfranco Mattei, artificieri dei Gap, che furono presi, torturati e uccisi dai nazisti. [… Anche] Guido Rattoppatore fu torturato per settimane a via Tasso, e fucilato a Forte Bravetta il 7 marzo 1944. […]
    A Via dei Giubbonari 38, la sezione comunista che porta il suo nome è chiusa dal 2016, per una questione di affitti aumentati e contestati. Come quasi tutti gli spazi sociali sgomberati in nome della legalità e del valore di mercato, è abbandonata e sull’orlo della rovina. Una delibera comunale del 2020, voluta dal 1° Municipio, destina i locali alla realizzazione di “un punto informativo sulla Resistenza romana” dedicato a Guido Rattoppatore. Questa delibera è ancora inattuata, così il Municipio ha deciso di prendere l’iniziativa e rivendicare la consegna dello spazio per la costituzione di un centro di studio e informazione sulla Resistenza. […]
    La funzione della memoria non è di pacificare. Ricordare Guido Rattoppatore, ricordare tutta la Resistenza, non serve solo a rimediare alle offese, alle cancellazioni, agli svilimenti del passato, ma soprattutto a tenere aperta l’interrogazione su chi siamo diventati e che futuro abbiamo. Non deve servire a fare sì che noi ci sentiamo orgogliosi delle lotte passate e indignati delle offese subite, ma soprattutto a disturbare il potere svelandone la natura e ricordandone i delitti. Intitolare un luogo a un nome non è un gesto rituale con cui ci si lava la coscienza, ma deve essere un impegno a tenere vivo in mente il significato di quel nome e della persona che lo portava.»

    ***
    Il terzo articolo di Mario De Vito è dedicato alla brigata dei Leoni di Breda Solini, «un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti fuggiti dal campo di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena. La loro storia è stata custodita e raccontata da Giacomo “Gnugo” De Bar, sinto, di professione saltimbanco, come amava definirsi lui. Rastrellato e rinchiuso anche lui da bambino nel 1940, non ha mai dimenticato suo nonno Jean, contorsionista, e suo zio Rus, equilibrista, che di giorno si esibivano nelle piazze dell’Italia non ancora liberata e di notte si davano al sabotaggio dei tedeschi. Giravano a bordo di un camion e si occupavano per lo più di rubare armi da consegnare poi ai partigiani.
    La fama (e il soprannome) di leoni se l’erano guadagnata sul campo grazie a un’azione in cui aveva disarmato una pattuglia del Reich.
    “Erano entrati nel cuore della gente come eroi, anche per il fatto che usavano la violenza il minimo necessario – racconta Gnugo De Bar nel suo libro “Strada, Patria Sinta” (Fatatrac, 1998) – fra noi sinti non è mai esistita la volontà della guerra, l’istinto di uccidere un uomo solo perché è un nemico.” »

    ***
    Il quarto articolo è di Marinella Salvi. Raccoglie la testimonianza di Livio, un gappista triestino, un “giovane di 96 anni” che ricorda i giorni complicati di una città subito divisa.
    «Liberata [il primo maggio] Trieste dai tedeschi, il caos continuò per un bel pezzo: assieme ai partigiani e all’esercito jugoslavo erano arrivati gli anglo-americani, comunque l’amministrazione della città era degli jugoslavi e si aspettava di sapere che fine avrebbe fatto la città.
    “C’erano assemblee frequenti, anche nel teatro vicino a casa nostra e un fiume di gente con le bandiere bianche rosse e blu ci passava davanti chiedendo l’annessione alla Jugoslavia. La mia famiglia era di tradizione irredentista, si ritenevano tutti italianissimi anche se a mio padre il cognome era stato italianizzato dai fascisti e mia madre aveva un cognome croato […]. Io stavo con gli indipendentisti, tra quelli che volevano il Territorio libero, senza divisioni, senza inimicizie etniche, come era stata una volta Trieste, anche meglio che sotto l’Austria. Non c’era spazio per questo, o stavi con l’Italia o con la Jugoslavia. Durò anni e ancora mi pare non sia finita. Peccato. Il mio cervello, il mio cuore, il mio voto sono rimasti sempre dalla stessa parte, però quel mondo che volevo sono riuscito a intravederlo solo in quei mesi tra aprile e maggio.»

    ***
    Il quinto articolo è di Pino Ippolito Armino. È dedicato alla memoria di Rocco Marra da Sant’Alessio d’Aspromonte. «Leone, questo il suo nome di battaglia, non è un soldato dell’esercito italiano rimasto intrappolato a nord dopo l’8 settembre; e non è neppure un disertore dell’esercito di Salò perché non è ancora stato chiamato alle armi essendo nato nel febbraio del ’26. Marra è un giovanissimo operaio delle Officine Savigliano, emigrato l’anno prima dalla sua Calabria accodandosi ai Romeo, una famiglia di santalessoti in cerca di fortuna a Torino. L’esperienza in fabbrica, il suo spirito intraprendente e ribelle gli hanno impresso presto una solida coscienza antifascista. La sera del 25 gennaio ’44, insieme a quattro dei suoi compagni, prende la via della montagna. […] Il coraggio e la determinazione mostrati valgono a Marra, nonostante la giovanissima età, il ruolo di caposquadra nell’80° Brigata Garibaldi, guidata dal piemontese Giovanni Burlando, detto “Primula Rossa”. Il 5 settembre scatta l’operazione Strassburg, un’imponente operazione che unisce tedeschi e fascisti nel rastrellamento anti-partigiano sulle montagne sopra Lanzo. Il 13 un reparto tedesco, informato della presenza di Leone e dei suoi compagni in una villa abbandonata, si porta a Monastero e cannoneggia dal basso la base partigiana. Leone sarà trovato morto con una granata in mano nel tentativo di un’impossibile difesa.»
    Pino Ippolito Armino, sottolineando l’origine meridionale di questo partigiano, conclude: «Come Marra molti altri partigiani meridionali attendono di essere riscoperti e onorati nei comuni dove sono nati e da dove partirono senza potervi fare ritorno.»

    ***
    Conclude l’inserto una «Bibliografia ragionata sulla storia e sul suo uso pubblico e politico.»

    ***
    Al di là dell’impostazione politica complessiva – ovviamente discutibile – , mi sembra che questo inserto abbia un “buco” clamoroso: le donne. Alcune compaiono soltanto nelle fotografie di accompagnamento…Boh, mi sembra persino strano che un “quotidiano comunista”, diretto da una donna, dimentichi di porre qualche “fiore del partigiano” sulla targa di una delle tante nostre sorelle che in tanti modi hanno partecipato alla Resistenza.

  6. @ Fischer

    “ma dovresti forse chiedere scusa per certi sospetti, che dicono solo che … non capisci.”

    A parte il fatto che ho scritto: “Forse interpreto male l’alzata di spalle di LB” e non sappiamo di chi parli veramente, gli elementi con cui la descrivi ( esser tosta, aver consigliato a tuo marito la giacca giusta , l’esser vissuta come monumento per voi della Libreria) non mi paiono prove sufficienti di una *continuità* tra Resistenza e femminismo. Ma disponibilissimo ad approfondire.

    1. Nossignore. Perché nessuno dubita di Pertini? Perché tale atteggiamento diffidente nei confronti miei, o di LB? Risposta troppo facile: perché la resistenza era dei maschi, perché la politica di oggi è solo dei maschi. Io non devo giustificare LB, ma è chiaro che tu, sulle mie parole, dubiti, e su LB anche. È intollerabile.

      1. @ Fischer

        Ti fai le domande e ti dai le risposte, sì, davvero “troppo facili”. Non ti ho chiesto di “giustificare” LB. I dubbi mi sono venuti dal modo equivoco in cui era formulato il primo commento. Io l’ho inteso come un alzata di spalle verso l’esperienza nella Resistenza di LB. E siccome i pentimenti – maschili o femminili – non mi piacciono ho commentato in quel modo. Poi ho aggiunto: “Forse interpreto male l’alzata di spalle di LB”. E comunque, al di là di LB, il problema della continuità Resistenza/femminismo resta aperto.

        1. [@ Abate]

          Modo equivoco? Ma scherzi? “‘Quale’ sei tu”?
          Non so… “quale”.
          Che importa… “quale”?
          Quello che importa -questo lei ci comunicava – è che era lì, era una delle tre.
          Chi può equivocare? Se non chi vuole immaginare chissà che reazionarie intenzioni dietro una, anzi due: io e LB, donne e femministe?

          *Nota di E. A.
          Ho spostato sotto il commento giusto questa replica di Cristiana e aggiunto il nome del destinatario

          1. “Quello che importa -questo lei ci comunicava – è che era lì, era una delle tre.
            Chi può equivocare? Se non chi vuole immaginare chissà che reazionarie intenzioni dietro una, anzi due: io e LB, donne e femministe?” (Fischer)

            Io, che non ero “lì”, ho equivocato. Ho inteso come un’alzata di spalle di LB verso l’esperienza fatta nella Resistenza. Bastava che tu rispondessi subito al mio primo commento («Trovo tremenda questa frase. Perché viene da una che aveva combattuto contro il fascismo.»): No, Ennio, hai equivocato. Invece di partire ieri con la tua batteria di accuse e continuare oggi [1].

            [1]
            «Ah no, Ennio! Non capisci che proprio perché noi, femministe in Libreria, eravamo dopo quella storia ma in continuità, ci occupavamo dell’oggi.[…]
            E non dico altro, ma dovresti forse chiedere scusa per certi sospetti, che dicono solo che … non capisci.[…]
            ma è chiaro che tu, sulle mie parole, dubiti, e su LB anche. È intollerabile.[…]
            Devi dirlo a quelle che dalla resistenza sono diventate femministe. E non era solo LB. Forse sapevano qualcosa che tu non hai capito.» (Fischer)

  7. Devi dirlo a quelle che dalla resistenza sono diventate femministe. E non era solo LB. Forse sapevano qualcosa che tu non hai capito.

  8. A questo punto non so dove devo mettere questa mia ultima risposta, la metto di seguito qui:
    Bastava… sarebbe bastato… ma come potevo pensare che tu, un letterato, poeta, scrittore, non capissi la lettera della mia frase? E d’altra parte, quando uno risponde d’acchito, e al presente indicativo, senza neanche un congiuntivo o condizionale:
    “Perché viene ( non: “potrebbe venire”) da una che aveva combattuto contro il fascismo. Giusto prendercela (non: “sarebbe allora giusto prendercela” coi revisionisti che deformano o cancellano la storia e la memoria della Resistenza, ma quando a farlo (cioè “lo fanno”: deformano o cancellano) sono quelli/e che vi parteciparono?”
    In cui il punto di domanda si riferisce a: non è ancora più giusto prendercela con quelli/e che parteciparono? Il punto di domanda non riguarda invece la possibilità che quella che aveva partecipato non stesse appunto deformando o cancellando, eccetera.
    Siccome anche io scrivo e sono attenta al linguaggio, ho capito che tu davi per certo che ci fosse revisionismo nell’alzata di spalle.
    E quindi la mia susseguente risposta mette in continuità la resistenza fatta da LB con la politica che facevamo – e dobbiamo ancora fare!- noi.
    Invece dovevo capire che non sei capace di leggere?

    1. Grazie, professoressa Fischer. Ho capito il nuovo slogan: la Resistenza è femminista non è democristiana. Ma non sono d’accordo.

      1. SEGNALAZIONE/ SAVIANO SU IRMA BANDIERA

        Ecco la retorica del “femministo” su «la Resistenza è donna» (https://youtu.be/gZzBrmgya74)

        È questa che si va imponendo ora nel mondo della “Cultura” (= la TV)?
        Se questo è il contesto, le obiezioni che ho sollevato nella polemica con Cristiana Fischer sulla continuità/discontinuità tra Resistenza e femminismo e la mia battuta (“la Resistenza è femminista non è democristiana”) potrebbero avere un significato antirevisionista contro le facilonerie ancora maggiore.

        1. Smettila Ennio! Ho già detto che lo slogan è farina (muffa) solo del tuo sacco. Donne che abbiano fatto la resistenza e poi siano diventate femministe ce ne sono state tante, non solo LB, pensa all’Udi e alla svolta femminista che l’Udi stessa ha fatto. Le continuità/discontinuità sono state scelte personali. Interessanti per me che sono femminista e nata quando la guerra era finita.

          1. “Donne che abbiano fatto la resistenza e poi siano diventate femministe ce ne sono state tante” ( Fischer)

            E chi lo nega? E’ che a te interessano le “scelte personali”. A me, oltre a quelle, capire sul piano storico fino a che punto si può parlare di continuità tra Resistenza (come fenomeno storico complessivo) e femminismo ( in particolare quello degli anni ’70). E tengo aperto il discorso. Il predicozzo di Saviano, scoperto stamattina, m’induce ad insistere.

          2. “capire sul piano storico”: chi? chi capisce, e chi è il piano storico? ancora il soggetto astratto universale? quello del capitalismo: no. Allora quello universale dello spirito? (quello incarnato nella storia… a cavallo, come diceva Hegel?)
            La svalutazione dell’unica materialità che è quella dei singoli mortali, e della nascita di quelli nuovi, pare fuori dal tuo orizzonte categoriale.
            Invece l’unica storia possibile viaggia sulle gambe di quelli e quelle che esistono. E vanno conosciuti, prima che interpretati in termini duali e oppositivi secondo criteri astratti di torto o ragione ideali. Materialismo, finalmente.
            Comunque per me tanto basta.

  9. Invece ho capito che il sospetto fa aggio sulla capacità di lettura. Ed è quello che ormai appare chiaro. Ti ho informato privatamente di chi era LB, e ho spiegato anche perchè, per una forma di rispetto verso suoi discendenti che nulla sanno delle nostre polemiche, non ho detto e non dico il nome completo. Ma la serie dei tuoi commenti è ispirata dalla diffidenza. Mi hai detto che dubiti e cerchi di ragionare: perchè devi dubitare di quello che io raccontavo? Non sono io che devo spiegarlo.

  10. Lo slogan lo hai inventato tu. Io ho dato conto del fatto che ci sono state donne che hanno fatto la resistenza e che sono diventate femministe. LB era una di queste, 30 anni più di me, la ho conosciuta solo come femminista ed era una gran donna. Credo di averne dato un piccolo ritratto, di cui hai privilegiato solo “tosta” e “giacca di mio marito”. Che poi fosse per noi più giovani un monumento, ho detto anche guai a farglielo pesare. Perchè era una seria, mai esibiva il suo passato, non si sentiva migliore di noi più giovani. Una vera maestra.

  11. Sul Manifesto di oggi (24/4) si possono leggere due pagine dedicate al 25 Aprile.
    Il primo articolo, di Claudio Vercelli, è intitolato «Il grande rischio del disincanto». Lo segnalo perché mi sembra molto importante. È centrato sulla “crisi di sistema” che stiamo vivendo e sulle difficoltà che l’antifascismo incontra a fornire una risposta adeguata alla situazione.
    La premessa è che l’antifascismo registra un’evidente «stanchezza delle sue motivazioni così come i rischi di una sua riduzione a icona del passato». Non è un destino inevitabile, sottolinea Vercelli, ma c’è una cornice che va considerata: l’odierno capitalismo digitale, compendiando in sé la funzione di soggetto produttivo e quella di istanza di consumo, «decreta l’obsolescenza di quelle forme della politica che identificano nella partecipazione collettiva, consapevole e motivata, una premessa fondante: quella per cui qualsivoglia emancipazione individuale non può passare se non attraverso un agire collettivo informato alla critica dei processi di riproduzione dei poteri.
    Il panorama, non solo italiano, è oggi sospeso tra lo Scilla dei populismi e dei sovranismi, dove vale la logica del mucchio selvaggio, insieme alla ricerca di un leader che si fa “capo”, e il Cariddi del sogno tecnocratico, fondato su un’inesistente neutralità dei percorsi decisionali. L’uno e l’altro atteggiamento sono entrambi figli della stessa matrice, quella che porta collettività in affanno a rifugiarsi in una qualche speranza salvifica basata sulla delega assoluta e non più negoziabile.»
    Queste osservazioni di Vercelli mi fanno venire in mente la situazione politica italiana e la nascita del governo Draghi, al quale è stato affidato un ruolo “salvifico”.
    «Si tratta, per più aspetti, di una dinamica di crescente auto-espropriazione. Le democrazie contemporanee, storicamente, muoiono attraverso una tale traiettoria, quand’essa coniuga sfiducia e angoscia, ricerca di consolazione a scetticismo sistematico, subordinazione a senso di impotenza. A poco valgono – quindi – i rimandi, in sé tanto fondanti quanto imprescindibili, all’impianto di valori e di esperienze storiche dell’antifascismo medesimo. Il vizio, per così dire, non sta in ciò che viene detto ma in chi non intende ascoltare.»
    In una situazione di questo tipo, «il calco lasciato dal Ventennio mussoliniano risulta essere non solo pervicace ma anche di nuovo diffuso. Costituisce, infatti, una sorta di elemento underground, che carsicamente riemerge nei momenti della disillusione, del disincanto, della sfiducia rispetto al tempo a venire. Qualcosa, per intendersi, che non può essere liquidato come vestigia del passato, manifestandosi semmai come un fenomeno adattivo del giudizio di senso comune: conformismo, camaleontismo, gregarismo non rimandano a categorie moralistiche, come neanche a un improbabile “fascismo eterno”, bensì all’ossatura di un’asfittica ricerca di una via di fuga da un eterno presente, quello del declino, che è altrimenti inteso come l’unico contesto della quotidianità.»
    Da ciò che scrive mi sembra che Vercelli non sottovaluti “il calco lasciato dal Ventennio”. Questi diffusi recuperi dei cliché fascistoidi nel nostro orizzonte sociale rappresentano il sintomo della ricerca di “una via di fuga” da questo “eterno presente” di declino.
    «Ciò che resta del fascismo non rimanda al pieno di un passato che non trascorre ma al vuoto di un tempo a venire che da molti è vissuto al pari di un orizzonte senza nessuna meta. Contro il quale varrebbe quindi il recuperare qualcosa che sembra indicare una linea di salvezza, in cui troverebbero soddisfazione quei bisogni di sicurezza, protezione, stabilità e identità che sono invece sentiti come totalmente insoddisfatti.»
    Questi ritorni di temi di “un autoritarismo salvifico” attecchiscono proprio in questo quadro sociale e culturale caratterizzato dalla crisi “di cognizione di sé e dei propri interessi di ampi settori sociali” e dalla “crisi violenta, e apparentemente irreversibile, del politico.”
    «Si tratta di moneta spicciola, facilmente fruibile nel dibattito quotidiano. Non prefigura peraltro dittature a venire bensì società perennemente fragili e quindi instabili, incapaci di reagire ai percorsi di spossessamento e di perdita di emancipazione che sono da tempo in atto, con la crescita delle disuguaglianze e delle frammentazioni sia nel mercato del lavoro che nel circuito della fruizione dei diritti.
    La crisi dell’antifascismo […] richiama essenzialmente un tale scenario: poteri pubblici deboli, amministrazioni distanti se non ostili, collettività sfrangiate, subalternità della politica all’ipertrofia dei processi economici globalizzanti. In un ambiente tossico, dove l’irrazionalismo si incontra con l’esasperazione, la mancanza stessa di risorse si traduce non in richiesta di diritti bensì di risarcimenti, mentre la condizione subalterna non formula domande di liberazione ma vagiti vittimistici.
    La miscela populistica si alimenta di un tale carburante. Non è quindi in crisi la sola narrazione antifascista come tale ma i fondamentali della coesione sociale, di cui essa medesima è pure stata, fino alla fine degli anni Settanta, un elemento imprescindibile. Al netto delle molteplici opposizioni che registrò sempre e comunque e quindi del suo costituire essenzialmente un patrimonio per minoranze consapevoli. In Italia, il superamento del regime fascista fu realizzato non solo in ragione di una sua incontrovertibile sconfitta storica, consumatasi anche sui campi di battaglia, ma per il successivo tramite di un sistema istituzionale, politico e solo in parte amministrativo, basato sul costituzionalismo sociale.
    La genesi, l’elaborazione e il varo della nostra Carta fondamentale, che fissava rigorosamente la natura antifascista della Repubblica, avvenne grazie al caparbio lavoro di una generazione di oppositori che aveva coltivato la consapevolezza della necessità di una rottura sistematica non solo con il fascismo ma anche con le ombre, le inadempienze e gli anacronismi della precedente società liberale.»
    Dopo aver accennato al fatto che questo impegno intenso fu, comunque, opera di una minoranza di innovatori e che non vi furono processi “nei confronti dei criminali in camicia nera”, Vercelli richiama l’attenzione «sul fatto che al nostro Paese, come a tante altre nazioni continentali, dopo una frattura epocale come quella vissuta in quegli anni, occorresse non esclusivamente un processo penale verso i tanti colpevoli ma soprattutto una rielaborazione critica, da parte della società, nel merito della compartecipazione collettiva a quel sistema di compromissione che stava alla base delle dittature.
    L’omissione di un tale sforzo si tradusse pressoché da subito in un percorso di rimozione. Si sa bene come ciò che viene temporaneamente omesso sia poi destinato, in qualche modo, a riemergere. Soprattutto nelle grandi transizioni sociali. La persistenza dell’impronta fascista, quindi della sua pedagogia nera, del suo interclassismo corporativo, della sua ridondante retorica, della sua capacità di adattamento qualunquista, dell’identità conformistica, della seduzione del vuoto di politica che da essa promanava, costituisce a tutt’oggi un problema irrisolto.
    L’antifascismo si è adoperato per capovolgere questi paradigmi dell’annichilimento, la sua crisi segnala essenzialmente il reciproco rinforzo tra defezione collettiva dalla politica, declino della partecipazione pubblica, frammentazione delle appartenenze e conclamata deficienza di governo delle classi dirigenti, laddove queste ultime si proclamano indifferenti al destino dei territori.
    Il fascismo, in un’altra epoca storica, fu la risposta a un tale scenario involutivo, ottenendo una piena delega di gestione autoritaria dei processi derivanti dai conflitti sociali e del pluralismo culturale. La storia, va da sé, non si ripete. I quadri delle crisi di sistema, invece, sembrano molto spesso assomigliarsi.»

    1. “È centrato sulla “crisi di sistema” che stiamo vivendo e sulle difficoltà che l’antifascismo incontra a fornire una risposta adeguata alla situazione.” (Salzarulo)

      Per collegare storia e cronaca politica italiana…

      SEGNALAZIONE

      Lanfranco Caminiti (oggi sulla sua pagina Facebook)

      c’è un dettaglio, nella lettera-manifesto di addio di casaleggio jr. al partito 5stelle, che mi ha colpito. quando scrive, rivendicandolo, del ruolo importante svolto da rousseau «nel portare nelle istituzioni migliaia di cittadini con l’elmetto». è l’elmetto, il dettaglio che mi ha colpito. troppo “militare”. come ci fosse stata una dichiarazione di guerra di cui non eravamo coscienti.
      la cretineria della “democrazia digitale” non sta nel fatto che le tecnologie possano aiutare i processi di partecipazione popolare e di decisione, ma nel farne una “religione assoluta”, la chiave del potere dei cittadini. è paradossale in questo senso – quel parlare di “piattaforma laica”.
      alle ultime elezioni presidenziali americane che hanno eletto biden, il voto per posta (uno strumento relativamente “antico”, quindi) è risultato determinante – il michigan, il north carolina e, soprattutto, la georgia sono state “conquistate” a urne chiuse e sfogliando le buste. ma a nessuno è venuto in mente di parlare di “democrazia postale” come chiave di volta del potere dei cittadini.
      il movimento 5stelle deve tutta la sua fortuna alla crisi profonda della rappresentanza politica – a quell’indebolimento strutturale della nostra democrazia parlamentare che trovava tutta la sua radice e radicalità nella geo-politica della fine della seconda guerra mondiale e che la caduta del muro di berlino aveva, come dire, tirato via il tappetino su cui poggiava. i comunisti si spostavano sotto l’ombrello della nato, i socialisti non potevano più giocare il ruolo di mediazione e ago della bilancia tra la sinistra e i cattolici dell’occidente, la dc perdeva tutta la rendita parassitaria del suo essere stata contemporaneamente vaticana e americana.
      gli scandali avevano sempre costellato la storia della democrazia italiana ma non arrivavano mai a un punto di rottura, a mettere in discussione il “quadro politico” – in gioco c’era molto di più. ma adesso, la fragilità del quadro politico, l’evidente inconsistenza delle sue ragioni diverse accomunate nell’imperativo della stabilità, il distacco totale dalle “differenze sociali” per una “separazione parlamentare” – finirono con il travolgerlo. e venne tangentopoli. craxi fu l’unico a battersi come un leone per ri-affermare le ragioni della politica – si poteva pure essere ladri ma lo si era per un “bene superiore”, nel fuggi-fuggi generale, nella rotta scomposta. non gli andò bene. era l’improvvisa assenza del nemico, il problema. lui divenne il nemico.
      da quella crisi, la rappresentanza politica non si è più risollevata. anzi, il berlusconismo ne accentuò i caratteri – l’imprenditore che scendeva in campo, l’uomo d’azienda che dettava i ritmi e le regole della produzione a una attività sconnessa, la politica. quello che berlusconi non capì è che la crisi della geopolitica russo-americana rendeva praticabile un cambio di sovranità, da quella a stelle e strisce a quella europea, anzi più specificamente a quella franco-tedesca – ma la nostra sempre limitata restava. l’italia era e rimaneva un’italietta. e a un certo punto, quando il limite era stato superato o si facevano orecchie da mercante, ciò che era implicito divenne esplicito – e fu monti.
      in questo ambaradam – in cui la rappresentanza politica era ormai solo “un ricordo” e la democrazia una “finzione” – e che avrebbe richiesto una complessità di risposte, di elaborazioni, di ripensamenti, la semplificazione dei 5stelle apparve come magica: il problema era “la casta”. et voilà il “nemico”. ciò che era marcio non era il sistema, ma i suoi rappresentanti. bisognava spazzare via quelli, e mettere al loro posto dei “nuovi cittadini”, semplici, onesti, trasparenti. e controllati dal popolo. la politica non doveva essere un mestiere, una professione, perché qui si sarebbe annidata la corruzione dei costumi. due mandati al massimo, e a casa: avanti un altro. uno vale uno. e ha funzionato come favola. alla grande.
      poi, è bastata una esperienza di governo – anzi, una doppia esperienza di governo, dal conte I al conte II – per far franare miseramente tutta questa affabulazione: i politici 5stelle sono come tutti gli altri (è vero: uno vale uno), abbarbicati alle poltrone, agli stipendi, ai vantaggi e possono disinvoltamente passare da un’alleanza con il centro-destra a una con il centro-sinistra senza batter ciglio. manco fossero i seguaci di bossi che in una notte decideva di far cadere il governo con berluskaz e in un‘altra notte di fare una nuova alleanza con berluskaz.
      la differenza fondamentale con la lega di bossi – di cui salvini è solo un pallido erede, ormai brutta copia della meloni – è che bossi aveva una “complessità” di argomenti, non solo ”roma ladrona”, ma il federalismo fiscale, la secessione o le macro-aree, la riforma dello stato, un “corridoio produttivo” che agganciava la padania alla germania, e soprattutto un soggetto sociale – dall’operaio all’artigiano al commerciante al piccolo imprenditore del nord – che era “economia reale”, non solo scheda elettorale.
      la crisi dei 5stelle è perciò la crisi della sua “unica” ragione politica – la lotta alla “casta”, nel momento in cui loro stessi per evidenza conclamata sono diventati altrettanto “casta”. la gente è cretina fino a un certo punto. in questa crisi, è evidente che lo “strumento” che per eccellenza rappresentava “l’altra democrazia”, e quindi il cuore stesso dell’esistenza in vita dei 5stelle e cioè la piattaforma rousseau, è diventata una cosa inutile. la certificazione di un cambiamento ormai avvenuto. l’ultimo “quesito” a proposito dell’appoggiare il governo draghi era talmente scandaloso e nel metodo e nella formulazione – che non c’era bisogno di aggiungere altro. a questo dovrebbe servire rousseau – nella risposta piccata del blog 5stelle alla lettera di addio di casaleggio jr.: a essere “neutrale”. un notaio. di decisioni già prese tra gli “eletti”.
      sceso sul terreno proprio che tanto sta a cuore agli eletti 5stelle, cioè i piccioli, casaleggio jr. li spolierà – uno per uno e tutti insieme: le carte bollate e controfirmate stanno con lui. chiederà gli arretrati, tutti, e gli interessi, tutti. magari, l’elmetto sarà l’unica cosa che gli lascerà, oltre le mutande.
      a noi resterebbe il compito – dopo questa sciocca ubriacatura – di ragionare sulla rappresentanza e la democrazia.

      UN COMMENTO:

      Cristoforo Prodan

      Piccola annotazione sul craxismo. Berlusconi è figlio del craxismo milanese, da quando costruì Milano2 con Edilnord (cosa che gli fece avere anche il cavalierato – leggere a tal proposito le motivazioni ufficiali sul sito della presidenza della repubblica). E quindi ci sarebbero da dire tante cose sulla ricostruzione storica. Ma non è questo il punto. Il problema è l’eterno conflitto fra cittadinanza e sistema.
      Da quello che intuisco la partita è a un livello superiore rispetto alla politichetta italiana. Negli ultimi anni hanno fatto più informazione i social network che l’insieme di tutti i media tradizionali. Hanno fatto più formazione Google e Wikipedia che tutti i sistemi tradizionali di formazione e di cultura tradizionali. Ha mosso più merci da un continente all’altro l’e-commerce che qualsiasi sistema tradizionale di logistica. Si sono fatte più transazioni economiche digitali che attraverso qualsiasi altro sistema tradizionale.
      E si potrebbe continuare per ore a citare esempi piccoli e grandi. Tutto in maniera imperfetta, verissimo, ma a un ritmo travolgente.
      Oggi si possono “affittare” celle solari di impianti fotovoltaici di dimensioni medio-piccole, e attraverso un crowfunding tutto virtuale (dal basso) si dà energia a piccole comunità africane o asiatiche a un prezzo molto più basso del normale e le persone che hanno contribuito anche con dieci euro guadagnano soldi ogni volta che sorge il sole su quei pannelli (Rif. SolarExchange). In un futuro quelle comunità coi soldi che hanno risparmiato sull’acquisto di energia magari se li costruiranno da soli gli impianti. E tutto ciò è stato reso possibile attraverso la rete, le criptovalute e la blockchain (che facilitano i microinvestimenti su scala globale e dal basso). Ricordiamoci anche che il bitcoin nacque nel 2009 a seguito dei ripetuti salvataggi bancari che dilapidarono i risparmi dei cittadini.
      In tutto questo la rete internet è stata la “killer technology” che ha favorito tutto questo in tempi brevissimi, nel bene e nel male.
      In questo turbinio inarrestabile come il riscaldamento globale, possiamo ancora pensare che la politica resti nella sua torre d’avorio novecentesca? A disquisire di soggetti singolari e plurali, di completamenti oggetti, in difesa della lana caprina?
      Siamo nel mezzo di un cambiamento epocale, il vecchio mondo è finito parecchio tempo fa e non ce ne siamo accorti. La digitalizzazione e la rete, con tutte le applicazioni connesse, continueranno ad espandersi, nonostante tutte le resistenze e i tentativi di controllo, e lo faranno sempre più dal basso.
      Tornando alle piccole beghe di casa nostra, e in questo contesto, i Casaleggio, partendo da esperienze aziendali, hanno intuito questa trasformazione e hanno sperimentato questa innovazione in politica, azzardando parecchio se pensiamo al contesto italiano. Molti degli eletti del M5S invece si sono lasciati prendere dalla farraginosità del sistema politico italiano e hanno perso per strada questa visione. La cosa importante da considerare è che questa rivoluzione digitale continuerà, a prescindere da Rousseau o dal M5S, e travolgerà tutta la politica mondiale che non sarà in grado di adeguarvisi. Lo vedo come un processo ineluttabile, globale, che è folle negare o sottovalutare mettendo la testa sotto la sabbia. La cosa migliore sarebbe cercare di governarlo, di regolamentarlo senza censure.

  12. LETTURE/RIPASSO

    DA CLAUDIO PAVONE, “UNA GUERRA CIVILE. SAGGIO STORICO SULLA MORALITA’ NELLA RESISTENZA”, BOLLATI BORINGHIERI, 1991, TORINO
    (Per una lettura più agevole usare lo zoom cliccando sull’immagine)

    pagg. 544-545

     

    pagg. 546- 547

    pagg. 548 -549

  13. LETTURE/RIPASSO 2

    DA CLAUDIO PAVONE, “UNA GUERRA CIVILE. SAGGIO STORICO SULLA MORALITA’ NELLA RESISTENZA”, BOLLATI BORINGHIERI, 1991, TORINO

    Le pagine finali del libro

    (Per una lettura più agevole usare lo zoom cliccando sull’immagine)
    Pag. 590

    Pag. 591

    Pag. 592

  14. Fra una ventina d’anni scadrà all’incirca un secolo dal 25 aprile 1943; dunque, secolo più secolo meno, memori della storia, perché non celebrare anche il 13 marzo 1848, data dell’ insurrezione di Vienna, anno della ‘primavera dei popoli’, che avviò definitivamente, in Italia, il processo risorgimentale?
    Una nazione, quella italiana, nata dal sacrificio degli eroi del Risorgimento, della Grande Guerra e dall’opposizione al nazi-fascismo che costò 90.000 morti alle truppe alleate e circa 6000 alle forze partigiane.
    Quando Mussolini pronunciò, dal balcone di Palazzo Venezia, la celebre frase “l’ora fatale è giunta!” avrebbe, invece, dovuto dire “l’errore fatale è giunto!”, dato che la sua scelta scellerata spinse l’Italia verso la tragedia; aggredendo la Francia, alleato coi tedeschi, contro quella tradizione che, dal Risorgimento in poi, aveva visto l’Italia alleata della ‘sorella latina’.
    Mio nonno, Mario Casati, nel dicembre del 1914, assieme ai nipoti di Garibaldi e ad altri 2206 garibaldini, combatté nella foresta delle Argonne per difendere la Francia dall’invasione tedesca, in quello stesso luogo dove Giuseppe Garibaldi aveva combattuto per difendere la Comune di Parigi del 1871.
    Al presente, purtroppo, tanti italiani invocano un nuovo, seppur diverso, 25 aprile; vale a dire che si augurano di potere al più presto esercitare quel diritto di voto che un Governo non eletto ha loro sottratto, che sta imponendo una dittatura politico-sanitaria oramai insostenibile, dopo avere delegato la funzione politica (Lega e FI comprese) a un guru della finanza; appoggiando da decenni l’azione politica di una Magistratura di sinistra che delegittima la nazione come Stato di diritto (non per niente l’Associazione Nazionale Magistrati e forze della sinistra si oppongono alla richiesta di una commissione parlamentare che indaghi sui rapporti magistratura/politica).
    Non nutro particolari propensioni verso la politica, sono un comune cittadino, uomo della strada, ma mi rendo conto che l’aria di protesta che tira fra il popolo è questa.
    Penso sconsolatamente che in un paese civile si dovrebbe parlare poco di politica, per venire considerata, quando questa funziona, alla stregua di uno dei tanti servizi di pubblica utilità.
    Ma, nonostante tutto, viva l’Italia!

  15. DA POLISCRITTURE FB

    Riporto qui il video con le riflessioni sul 25 aprile di Gianfranco La Grassa, un commento di Alessandra Roman Tomat (ex candidata sindaco a Cologno Monzese nel 2020) e una mia replica.

    Ennio Abate
    SE VOLETE SENTIRE UN PO’ DI VERITA’ CHE NON VI DIRANNO MAI PIU’ IN QUESTE CELEBRAZIONI “ISTITUZIONALI”….
    https://youtu.be/–K5jKIi1p8

    Alessandra Roman Tomat

    ho ascoltato e già sapevo. E non ho nessuna difficoltà a dire che, nella sostanza, sottoscrivo tutto o quasi. Ho avuto un’evoluzione radicale nella mia coscienza politica, con la sola costante di essere sempre stata anti-americana. Quindi, figurati. Però … La Grassa può permettersi di fare la vox clamantis in deserto, fregandosene dei suoi ingenui compatrioti. Io da attivista ho imparato a festeggiare il 25 aprile per quella parte che ritengo di condivisione. La celebrazione del sacrificio di chi ha pagato con la vita la propria ribellione all’oppressione. Da questo punto di vista la si può vedere o come un punto di partenza in vista della riconciliazione delle posizioni (chi non rimane colpito dal coraggio e dalla coerenza?) o come punto di partenza per una forte contrapposizione (non era questo il mondo che si voleva creare, riprendiamo la lotta). Entrambe le posizioni hanno una loro ragione di esistere. Ciò che è insopportabile per me è il teatrino che si mette in piedi ogni volta tra una destra confusa e infelice (almeno nel ruolo istituzionale) e una sinistra (come dice giustamente La Grassa tutto fuorché comunista) che fa di questa giornata (di complessa interpretazione, sono d’accordo) il suo palcoscenico di finta rivoluzione Appropriandosi di una lotta che non ha combattuto (per ragioni anagrafiche) e che non ha proseguito (vista la società ingiusta in cui viviamo).
    E con questo sforzo di sincerità, che mi costa parecchio stress anche in ambito comunale, mi sento di aver onorato il 25 aprile.

    Ennio Abate

    Non so se La Grassa si sia scelto il ruolo della «vox clamantis in deserto» e se ne freghi dei suoi ingenui compatrioti. È secondario. Sono evidenti il suo antiamericanismo e, nella parte finale, la sua nostalgia per l’URSS grande potenza dei tempi di Stalin. Questa posizione ha antiche radici. Era ben presente nelle formazioni garibaldine della Resistenza, quella che dei tre filoni evidenziati dallo storico Claudio Pavone nel suo libro «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della resistenza» (1991) – guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe – teorizzavano e facevano la terza. E nel ’68-’69 l’avevamo ereditata nello slogan «La Resistenza è rossa non è democristiana» contro le “ammucchiate” dell’ “arco costituzionale” (DC-PCI-PSI ecc. ).
    Credo che a molti giovani o comunque agli appartenenti alle generazioni post ’68 e post ’77 oggi esse poco importino. Perché, tranne pochi superstiti – “irriducibili”, “dinosauri” “vetero” – con la sconfitta dei movimenti degli anni ’70 sono proprio saltate le categorie che guidavano e formavano i politici o gli “attivisti”. Prevale il (sano o insano?) pragmatismo o populismo. ( Ti rimando per le conseguenze alla bella analisi di Lanfranco Caminiti che ieri ho condiviso sulla mia pagina FB: https://www.facebook.com/lanfranco.caminiti/posts/3059372674297904).
    Prevale – a me pare – un’oscillazione. Tu stessa hai scritto: « io comprendo sia chi vive questa festa in una prospettiva di “riconciliazione” che chi la vive in una prospettiva di “contrapposizione”». E’ credo una posizione -scusa la sincerità – alla ponzio pilato: «Entrambe le posizioni hanno una loro ragione di esistere»? Ma è proprio questa posizione che permette la continuazione del « teatrino che si mette in piedi ogni volta tra una destra confusa e infelice (almeno nel ruolo istituzionale) e una sinistra (come dice giustamente La Grassa tutto fuorché comunista». O almeno che non decide, non chiarisce, non esce dal “né con la destra né con la sinistra”, dall’”attendismo” cioè, come si diceva ai tempi della Resistenza.
    Continuando a stare in qualche modo (borbottando e con mal di pancia) nel teatrino in posizione defilata e “critica ma non troppo”, neppure le “ragioni d’esistere” della Destra e della Sinistra potranno mai chiarirsi. Ed infatti le somiglianze tra l’attuale Destra e l’attuale Sinistra, nelle parole e soprattutto nei fatti, prevalgono sulle differenze. Ed ogni aut aut o scelta viene rimandata o accomodata (come dimostra ad esempio il tira e molla continuo sulla gestione della pandemia).

  16. SEGNALAZIONE

    Stefano G. Azzarà (su FB)

    L’intervento di Sinistra per Urbino alla manifestazione di commemorazione della Giornata della liberazione nazionale, 25 aprile 2021
    _____________________________
    Le commemorazioni si riducono spesso a uno semplice sfogo di retorica. Quante volte abbiamo sentito esponenti di questa o quella forza politica battersi il petto in maniera appassionata per la Resistenza, mentre contemporaneamente facevano cose che della Resistenza contraddicevano totalmente lo spirito?
    Quante volte è stato celebrato in piazza il 25 Aprile, quasi a pulirsi la coscienza e a voler lucrare sull’appartenenza a una storia politica gloriosa, mentre nello stesso tempo al governo del paese o delle amministrazioni locali si approvavano norme e disposizioni che toglievano diritti ai lavoratori, che abolivano l’art. 18, che introducevano precarietà, che smantellavano il Welfare, che privatizzavano la Sanità, che umiliavano la scuola; oppure mentre si governava con la destra, come avviene anche adesso e come tante volte è avvenuto da oltre 10 anni; o mentre i migranti venivano respinti o lasciati affondare nel Mediterraneo; o – peggio ancora – quando si davano sostegno e truppe per le infinite e tragiche guerre con cui la Nato e gli Stati Uniti hanno portato dolore devastazione ai popoli di mezzo mondo?
    In tutti questi casi, più che di omaggi al sacrificio dei partigiani – i quali erano in gran parte comunisti e si sono battuti per la liberazione del paese ma anche per una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sull’uguaglianza e per un mondo di pace – si è trattato di vere e proprie manifestazioni di ipocrisia.
    C’è un unico modo politicamente produttivo per omaggiare in maniera degna quel momento storico e per non cadere nel vizio nazionale della retorica, in realtà: ricordare che il 25 Aprile è e deve rimanere una festa divisiva. Altro che pacificazione della memoria, come da sempre pretendono i nostalgici del fascismo e come a suo tempo è stato detto anche da qualcuno a sinistra! Per fortuna la memoria del Paese è divisa, perché altrimenti si confonderebbero ragioni e torti.
    Ma c’è anche un altro modo, non meno importante, per essere fedeli allo spirito della Resistenza: essere consapevoli che la memoria non serve a niente se non aiuta a cogliere nel presente l’orrore del passato.
    E’ necessario allora ricordare che il fascismo non è stato soltanto generica prepotenza o violenza, ma è stato in primo luogo il braccio armato di manganello e olio di ricino al servizio del grande capitale: al servizio dei padroni delle industrie e del latifondo, i quali intendevano impedire in ogni modo l’avanzata dei lavoratori. Così come il fascismo è stato, in misura non minore, una tendenza il cui razzismo strutturale nasceva da un preciso progetto imperialistico di colonizzazione: le leggi razziali, sì; ma prima ancora i gas all’iprite e lo sterminio in Africa orientale, a cui seguiranno l’aggressione dell’Albania e quella della Grecia, per non parlare degli orrendi crimini commessi dagli italiani nei territori jugoslavi.
    E’ necessario ricordare, allora, che la Resistenza e la lotta di liberazione sono vive soltanto se proseguono anche oggi. Se proseguono nella difesa senza ambiguità dello stato sociale, del salario e dei diritti del lavoro subordinato contro tutti i padroni. E se proseguono al contempo nella solidarietà verso i popoli oppressi che lottano contro una nuova ondata di ricolonizzazione del mondo, alla quale l’Occidente lega la persistenza del proprio dominio: nella lotta dei palestinesi per la loro terra e per avere una patria, dunque, come nella lotta di Cuba contro l’embargo e nella lotta di tutto mondo ex coloniale per uno sviluppo moderno.
    La lotta dei partigiani vive, insomma, solo se si rinnova nella lotta contro ogni guerra e oppressione, ma anche nella lotta contro ogni forma di esclusione: contro lo sfruttamento dei migranti, contro la discriminazione di etnia, classe, orientamento sessuale.
    Se si incarnano, in una parola, nell’idea di una comune umanità.
    Sinistra per Urbino

  17. APPUNTI PER UN DIALOGO TRA SAMIZDAT E LA MADAMINA FEMMINISTA

    MADAMINA FEMMINISTA – «La svalutazione dell’unica materialità che è quella dei singoli mortali»
    SAMIZDAT – Non era proprio quello che pensavano i partigiani durante la Resistenza, mi pare…
    SUGGERITORE – Tolta la patina anticheggiante e filosofica di parole come «materialità» e «mortali» qualcosa di simile l’aveva detto Margaret Thatcher.
    SAMIZDAT – E già: «La società non esiste, esistono solo gli individui».

    […]

    1. … i quali partigiani sono morti in proprio, con sacrificio, volontà, scopi, coscienza, coraggio. Mica è morta la società. L’astrazione è la chiave per comprendere il capitalismo. Il materialismo ha piedi, corpi, lavoro, affetti, parole, teorie… incarnate.

    2. Nel giro di una decina di giorni sei riuscito ad attribuirmi: 1. un revisionismo della resistenza; 2. che la resistenza è femminista; 3. adesione al tatcherismo. Hai dei problemi, credo.

  18. APPUNTI PER UN DIALOGO TRA SAMIZDAT E LA MADAMINA FEMMINISTA (2)

    MADAMINA FEMMINISTA – «… i quali partigiani sono morti in proprio».
    SAMIZDAT –In proprio? E che vuol dire? Che ognuno si faceva “in proprio”, per fatti suoi, la “sua” Resistenza? Il CLNAI, le bande organizzate e disciplinate con regole severe non esistevano? O già allora c’era il separatismo alla Muraro?
    SUGGERITORE – Aspettate che consulto la Treccani e poi continuate pure a litigare. Vediamo…« In proprio, come locuz. avv., di sua proprietà: possiede qualche ettaro di terreno in p.; aveva una casetta in p.; ha una industria, un negozio in p. (a nome suo, che non gestisce cioè o amministra per conto di terzi); con altro sign., rispondere in p., rispondere di persona o di tasca propria, avere cioè diretta responsabilità.»
    MADAMINA FEMMINISTA – Ma no, ma no, testone! «Mica è morta la società. L’astrazione è la chiave per comprendere il capitalismo».
    SAMIZDAT (tra sé) – Rieccola che anguilleggia e ora marxisteggia!
    MADAMINA FEMMINISTA – E poi « Il materialismo ha piedi, corpi, lavoro, affetti, parole, teorie… incarnate».
    SAMIZDAT (tra sé) – Eh, sì, anche le unghie!

    1. Suggerimento al suggeritore: anche il proletariato ha solo la “proprietà” di fare figli… Ma ora, addio! il livello è troppo basso. Ripeto, caro Ennio, devi avere dei problemi.

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