Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

Oggi su Facebook , capitato per caso sulla pagina di Lea Melandri, ho letto questo suo articolo del  30 aprile 2019 che mi era sfuggito e riproposto oggi (qui). Lo  riporto su Poliscritture assieme ad un commento dello stesso anno di Stefano Ciccone. Il tema è di quelli importanti e da ruminare a lungo accanto e assieme ad altre riflessioni. Indirettamente e chissà  quando, credo possa aiutare a spiegare, se non a sciogliere, anche certi nodi più o meno stretti o ingarbugliati che inceppano spesso le discussioni fra uomini e donne quando parlano d’altro. [E. A.]

L’ambigua complementarità delle figure di genere

Dialogo con Stefano Ciccone e il suo libro “Essere maschi”

Nelle pagine finali del suo libro, Essere maschi, dopo avere chiarito che non si tratta di mettere a confronto “ identità statiche” del maschile e del femminile, ma di affrontare il conflitto tra “singolarità sessuate”, Stefano Ciccone scrive:

“…quello che mi preme osservare è come nella ricerca di interlocuzione con i padri politici e teorici (…) emerga il persistere di quella che chiamerei una sorta di resistenza femminile nel costruire una relazione politica con gli uomini a partire da un reciproco riconoscimento di parzialità sul terreno della differenza. Il confronto appare più faticoso e contraddittorio se in campo non c’è la “differenza maschile” nella sua forma storica e teorica a tutto tondo (…) ma l’esperienza e l’esercizio maschile del differire, certamente accidentato, balbettante e “fuori fuoco” (1)

La “resistenza”, di cui parla Stefano, non può essere attribuita solo all’aspetto faticoso e contraddittorio del confronto fra esperienze di singoli, uomini e donne, ma anche alla difficoltà di sottrarsi a quella che è stata finora la molla dell’attrazione amorosa, il sogno d’amore, come ricomposizione armoniosa degli opposti, la spinta alla riunificazione inscritta nella complementarità delle figure di genere.

“L’amore è simpatia profonda e irresistibile di nature diverse, è la ricomposizione delle forze scomposte, è equilibrio dei contrari, è il complemento di cose disgiunte”. (Paolo Mantegazza)

“L’amore è fusione assoluta, al di sopra di ogni differenza: è il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”. (Sibilla Aleramo)

Nel saggio Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf confronta le conversazioni tra amici prima e dopo la guerra. I commensali avrebbero detto le stesse cose, ma sarebbero apparse diverse perché accompagnate, in passato, da un “ronzio inarticolato eppure musicale, eccitante”: e cioè l’illusione amorosa, quando an cora non si pensava a un sesso indipendentemente dall’altro. A segnalare che “qualcosa mancava” è il passaggio di un “gatto senza coda”. E’ come dire che il bisogno di interezza dell’individuo -corpo e mente, sentimenti e ragione- fa fatica a sciogliersi dalle identità di genere, così come sono state costruite, fatte per completarsi a vicenda. Scrive Virginia Woolf:

“C’è in noi un profondo, benché irrazionale istinto a favore della teoria che l’unione dell’uomo e della donna provoca la massima soddisfazione, la felicità più completa.”(2)

Non dobbiamo dimenticare che le figure di genere strutturano rapporti di potere ma anche l’amore come ideale ricomposizione dei due rami divisi della specie umana.

Nel mio caso, il “confronto” non è stato tanto con i padri e i teorici del “maschile a tutto tondo”, ma con quei pensatori che, sia pure inconsapevolmente, lasciavano trapelare le ragioni profonde del dualismo sessuale, le lacerazioni che apre nell’individuo di un sesso e dell’altro. Sono stata attratta da esperienze che permettevano di far luce sul rapporto dell’uomo-figlio col corpo della madre, su un processo di individuazione vissuto come fuga, differenziazione dal femminile, in cui potevo riconoscere per certi aspetti anche il mio percorso di figlia femmina che ha potuto studiare, prospettarsi un destino diverso da quello previsto per una donna.

Il fatto che si trattasse di autori che parlavano del dualismo in modo neutro mi permetteva di operare una sorta di “maieutica”: rivelarli a se stessi, spingerli a prendere coscienza del loro essere sessuati. Mi sono accanita, in altre parole, perché gli uomini “partorissero” il loro corpo, esprimessero sentimenti e emozioni. Sappiamo bene quanto sia ancora forte la tentazione delle donne di addolcire, piegare la durezza o l’astrattezza maschile: cambiare l’uomo, anziché se stesse. Se nei rapporti di coppia questo atteggiamento può portare sofferenze e conflitti, quando si tratta di scritture la situazione è molto diversa.

Nelle parole dell’altro -anche quelle più segnate dal sessismo- posso riconoscere una rappresentazione del mondo che è diventata, forzatamente o meno, anche la mia; posso esserne attratta fino a ricalcarla, per poi tracciare quel leggero solco che mi permette di guardare con occhi disincantati la posizione dell’altro e la mia. In un duplice movimento si combinano la fusione amorosa, che procede ciecamente e dietro spinte remote, e lo sguardo lucido della consapevolezza acquisita.

Confrontarmi con il pensiero di un uomo consapevole di che cosa ha significato storicamente, e nella sua esperienza, la virilità, mi dà una soddisfazione intellettuale enorme, simpatia, affetto, speranza che qualcosa possa cambiare nel rapporto tra i sessi. E’, in sostanza, quello che vado chiedendo da anni alla cultura maschile: che gli uomini smettano di “occuparsi delle donne” e facciano “autocoscienza”.

Ma la domanda a questo punto è: quali forme nuove può prendere l’amore, quando uomini e donne non si muovono più dentro la logica degli opposti, della complementarità, dell’indispensabilità reciproca? Come possono stare insieme libertà, consapevolezza di sé, amore? Soffermarsi sulle contraddizioni, inevitabili in questa fase di passaggio, è importante per evitare che le consapevolezze nuove restino ferme ai buoni propositi o ad atti volontaristici.

Una volta presa coscienza dell’aspetto coercitivo e alienante degli stereotipi di genere, bisogna capire perché hanno messo radici così profonde dentro di noi, da dove hanno origine, perché compaiono così precocemente nella vita degli individui. Io penso che il dualismo sessuale -e tutte le dualità che vi si sono costruite sopra- abbiano una preistoria, non ancora indagata a fondo, nel rapporto dell’uomo figlio col corpo materno, una vicenda che si dà all’origine di ogni individuo, ma che tende a prolungarsi oltre misura per effetto della storia che vi è andata sopra: l’identificazione della donna con la madre e con l’oggetto sessuale.

Nell’analisi che Stefano fa della sessualità maschile e delle sue forme più violente, mi sembra che questa “preistoria” non sia messa a tema quanto merita. La “miseria” della sessualità maschile viene attribuita al fatto di essere ridotta a “consumo” e “dominio”, una sessualità che è stata rappresentata come “incontrollabile”, una pulsione violenta che agisce come una sorta di “rivalsa” contro quello che è percepito come un potere femminile -la bellezza, la seduzione, la cura. L’uomo si sente provocato da un ribaltamento di poteri che lo mette in condizione di dipendenza e di bisogno: è questo che lo spingerebbe a una reazione violenta.

Quali poteri ha visto l’uomo nel corpo femminile tanto da temerne la ricomparsa dietro le libertà che le donne vanno conquistando? E’ vero, come scrive Stefano Ciccone nel suo libro, Essere maschi (Rosenberg & Sellier), che l’uomo “ha rimosso il desiderio femminile”, ma occorre anche dire che ha identificato la donna con la sessualità. Come si legge ancora in Sesso e carattere di Otto Weininger (1), all’inizio del ‘900, la donna è la sessualità dell’uomo incarnata, la causa della sua caduta nell’animalità, nel peccato, per cui è a lei che l’uomo è costretto a chiedere aiuto per “superarsi”. In che modo? Chiedendole di “rinunciare alle sue intenzioni immorali verso di lui”. Di qui l’imposizione alle donne di essere pudiche, di coprire i loro corpi.

Oggi, in presenza di una cultura che esalta il sesso come una risorsa di mercato, il corpo femminile erotico è messo in scena senza veli: è la sessualità maschile incarnata e offerta allo sguardo dell’uomo, scambiata con denaro, carriere, successo. La mercificazione, e il fatto che il denaro sia ancora in mano maschile, ne attenua la pericolosità. Gli uomini hanno, per così dire, portato allo scoperto la loro sessualità, “solo fisica”, oggettivata nel corpo femminile, per cui possono evitare ancora di riconoscerla come propria e incominciare a interrogarla.

Si può ipotizzare che, nell’attribuire alle donne come destino naturale la sessualità e la maternità -perché questo è il retaggio della cultura greco-romana-cristiana-, l’uomo abbia fissato l’esperienza che ha fatto da bambino rispetto al corpo che l’ha generato. Le cure e le sollecitazioni sessuali che ne ha avuto. La figura della donna come corpo erotico e corpo materno si disegna prima di tutto nell’immaginario della nascita. E’ il figlio a percepirne la potenza, l’uomo adulto a capovolgere il rapporto di dipendenza originario, a sottomettere e volgere a proprio vantaggio le attrattive che ha visto nella donna. L’esito, come scrive Rousseau nell’ Emilio (2), è che

“il più forte è apparentemente il padrone, ma di fatto dipende dal più debole”

Gli uomini dipendono dalle donne per le cure, per i loro piaceri, la loro felicità, per cui è necessario che l’educazione che viene loro impartita sia tutta volta a beneficio del sesso maschile:

“piacere e rendersi utili a loro, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce”.

“La violenza maschile -scrive Stefano- viene proposta come reazione alla violenza seduttiva femminile”. Lo stupro accentua solo l’aspetto guerresco della sessualità, la fantasia del cacciatore e della preda. Nella prostituzione, così come nello scambio sesso-denaro-carriere, c’è la riduzione della donna a oggetto di consumo, un desiderio che l’uomo agisce “in un deserto relazionale”, c’è un potere che si avvale del disprezzo dell’altro, fatto oggetto di sfruttamento o di tutela. Ma c’è un altro aspetto di cui tener conto. Facendosi scudo col denaro, l’uomo può rivivere con la prostituta la relazione con la madre-iniziatrice del sesso, può lasciarsi manipolare da lei, mettersi in posizione di passività, farsi oggetto nelle sue mani.

Se la sessualità maschile appare così “misera”, ridotta a consumo, prestazione, è anche perché l’uomo ha spostato sulla donna la possibilità di piacere, di essere desiderabile -la sua stessa sessualità- riservando a sé la forza (potere, denaro) per riappropriarsene. Questo apre per le donne la possibilità di avvalersi delle loro attrattive come potere e valore proprio da far riconoscere. Ciò significa che nelle figure ricorrenti, intramontabili, del femminile -la seduttrice , la madre- ci sono inscritte sia la potenza che l’uomo ha visto nel corpo della madre, sia la sua svalutazione e sottomissione.

Stefano fa un’analisi della virilità molto profonda e articolata: ne sottolinea la “miseria”, la “precarietà” -il fatto che ha sempre bisogno di conferme-, la “marginalità” rispetto al processo riproduttivo, che l’uomo ha tentato di capovolgere in quella “miriade di protesi” che sono i poteri, i saperi, le costruzioni simboliche della vita pubblica. Resta in ombra il fatto che, se le donne sono state escluse dalla polis, non si può dire lo stesso della femminilità, e non solo per l’uso metaforico che ne è stato fatto.

Il femminile, nella scissione tra corpo e pensiero, natura e storia, rappresenta quegli aspetti inscindibili dell’umano che l’uomo ha cercato di spostare sull’altro sesso, ma che non ha mai smesso di riportare a sé. Prendere coscienza del dominio, del controllo maschile sul corpo della donna, è stato più facile che vedere i molti modi con cui è avvenuta storicamente -e oggi in modo più evidente-l’appropriazione del femminile.

In un passaggio del libro, Stefano si sofferma ad analizzare il rapporto tra l’ingresso delle donne nella sfera pubblica all’inizio del ‘900 e l’esaltazione della guerra, della nazione come “corpo maschile collettivo”, una sorta di rivalsa contro la minaccia rappresentata dall’emancipazione femminile. Ma anche in questo tipo di appartenenza il femminile ha un peso non indifferente. La “mistica della guerra” parla dell’evento bellico come dello “stato naturale dei maschi”, lo descrive “doloroso e fecondo come il parto, altruista come l’amore”.

La guerra è madre, “rigeneratrice” (3). La patria stessa si può vedere come matria: una testa di uomo in un corpo di donna. Il femminile dà alla comunità maschile la coesione organica che le manca.

Ma il femminile è presente, sul versante opposto, anche come ispirazione poetica, fecondità intellettuale; è ritorno agli istinti naturali, come nella guerra, ma anche spinta all’elevazione dello spirito. Si può dire che l’uomo ha spostato sull’altro sesso il dilemma del dualismo, della scissione che lo attraversa, tra corpo e pensiero, un dilemma che è presente nella vita personale come nella civiltà.

La riappropriazione del femminile ha preso la forma violenta del dominio, dell’asservimento della donna ai propri bisogni e desideri, e sotto questa forma è più facile da smascherare.

Più insidiosa, perché meno visibile, è la riappropriazione simbolica: il sogno d’amore, il mito androgino, e, oggi, il “divenire donna” della politica, dell’economia, la femminilizzazione dello spazio pubblico. Quella che sta avvenendo è una “inclusione” del femminile in quanto tale -come risorsa, valore aggiunto-, che lascia sostanzialmente immodificata l’insignificanza storica delle donne. Per evitare una nuova e meno visibile cancellazione delle donne reali, è importante, come dice Stefano, che l’uomo riconosca i suoi limiti, la parzialità della sua esperienza del corpo, la soggettività della donna.

La femminilità si definisce in relazione e in funzione del maschile, per cui è impossibile analizzarle separatamente. Se non ci fosse quell’intreccio che è la complementarità non si spiegherebbe il fascino che il maschile, anche nel suo aspetto “guerresco”, e il femminile nella sua riduzione a “oggetto”, ancora esercitano su un sesso e sull’altro. La complementarità, e la conseguente spinta alla riunificazione, andrebbero perciò analizzate più a fondo per capire come mai gli “spazi di libertà”, che appaiono così desiderabili per ogni uomo e donna, si aprano così lentamente. La nascita dell’autonomia femminile è purtroppo, come sappiamo, una delle prime ragioni della violenza maschile in ambito domestico.

Note Prima Parte

Stefano Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino 2009, p.214.V. Woolf, Una stanza tutta per sé, in Per le strade di Londra,Garzanti, Milano 1974, p.288.

Note Seconda parte

  1. Otto Weininger, Sesso e carattere, Feltrinelli, Milano 1978.
  2. J.J. Rousseau, Emilio, Armando Armando Editore, Roma 1962, p.238.
  3. R.Caillois, La vertigine della guerra, Edizioni Lavoro, Roma 1990.

Nella foto: Maria Marckovic, “In cerca del cibo”, 2012

(commento sotto l’articolo di Lea Melandri del 30 aprile 2019)
Lea ci propone sempre un uso sorprendente di facebook… leggendo dal cellulare la sequenza di post e di like ti trovi di fronte a una proposta di interlocuzione profonda e complessa che parte da testi, incontri, scambi… provo ad accennare qualche spunto sapendo che avremo modo di continuare in presenza uno scambio che ogni volta genera nuovi stimoli…
Parto proprio dal tema dell’interlocuzione tra donne e uomini… quando scrivevo di donne del femminismo che affrontano il pensiero “neutro” di “padri teorici” della sinistra provavo a sollecitare un confronto che non fosse solo col “pensiero” maschile ma anche, appunto, tra donne e uomini e anche con la pluralità di pensieri e percorsi maschili che provano a discostarsi da quel pensiero neutro. Insomma provare a costruire un conflitto più ricco non con una immagine esemplificata ma con una soggettività plurale e conflittuale. C’è anche, come osserva Lea, l’attrazione e la fascinazione per quel pensiero di cui al tempo stesso si critica la fondazione ma si coglie la ricchezza. Altro è invece quello che Lea fa e cioè provare a indagare, in quel pensiero, in quelle scritture autorevoli quanto spesso disincarnate, l’indizio di un’esperienza, di una domanda che in quel pensiero di nasconde e si rivela insieme. Ed è quello che provo a dire quando dico che il patriarcato non è un “sistema astratto” metastorico, ma va anche indagato come rivelatore di una condizione maschile, risposta basata sul potere e sul dominio di sé e dell’altra a una propria condizione di accessorietà e vulnerabilità.
E in questo dialogo con Lea abbiamo trovato reciproco affetto e interrogazione reciproca. Cosa preziosa perché riconosce la relazione non come feticcio di cui si parla molto ma si nega sistematicamente ma come esperienza reciprocamente trasformatrice, da cui si esce mutati nel proprio sguardo su se stess* e sull’altr*.
E anche nel passaggio successivo mi ritrovo con Lea, anche, spesso, discutendone con altri uomini impegnati nella critica al patriarcato: la necessità di superare motivazioni volontaristiche e cercare di dare voce a un desiderio di libertà al maschile che, solo a dirlo già alimenta sospetti e diffidenze.
Lea si chiede quale sia la radice di questo attaccamento maschile al dominio e su questo spesso ragioniamo insieme.
Lea richiama l’esperienza di vulnerabilità e dipendenza che il figlio fa della madre. Ed io credo che questa sia una radice fondamentale. Ma credo che questa esperienza sia anche femminile e che dunque si debba guardare anche alla dimensione adulta in cui questi temi si ripropongono per donne e uomini in forme diverse. L’accessorietà maschile nel processo riproduttivo innanzitutto. Ma anche gli esiti e le scorie della costruzione patriarcale, proprio perché non c’è un’esperienza “originaria” ma sempre storica. E allora la negazione del desiderio femminile, la reclusione della madre nel ruolo muto dell’accudimento e del nutrimento ingigantiscono l’asimmetria e il potere della seduzione e della cura non basati sulla reciprocità. Così l’uomo dotato di un corpo arma, un corpo basso, un corpo macchina, strumento che desidera un corpo femminile muto, privo di desiderio, il mito di autosufficienza maschile, il modello di soggetto artefice di se stesso che si infrange contro la dipendenza dalla cura materna ma poi dalla forza della seduzione e del desiderio. Dunque anche l’uomo come padre, l’uomo come amante, oltre l’uomo figlio che resta fondamentale. La violenza maschile è spesso rivalsa contro questo “potere femminile” che svela la finzione ed è al tempo stesso figlio di questa costruzione. La sessualità femminile così è spesso rappresentata non come dettata dal desiderio ma dall’opportunismo, dalla volontà manipolatoria e di controllo dalla ricerca di riconoscimento.
Ed è vero che il denaro mi permette proteggermi da questa asimmetria, occultando la mia dipendenza sotto le spoglie del potere (il caso della prostituzione è esemplare).
Certamente il “femminile”, come osserva Lea, non è rimosso dalla storia e dallo spazio pubblico ma è anzi continuamente chiamato in causa, utilizzato come riferimento simbolico e dunque non è certo estraneo alla costruzione simbolica patriarcale.
Per questo credo, con Lea, che il mito della complementarietà, il dualismo che attribuisce ai due sessi attitudini e “vocazioni” sia il nodo ancora duro a morire e da affrontare. Questa complementarietà è quella che prevede la necessità dei due generi nella genitorialità con ruoli e funzioni schiacciate sugli archetipi (uno schema che non solo nega la genitorialità omosessuale ma imprigiona l’esperienza genitoriale di tutte e tutti), ma anche non permette di leggere e pensare il mutamento : l’”emancipazione “ femminile come mascolinizzazione, o come accesso al mercato in cui ognun* è imprenditore/imprenditrice di se stess* e mette a valore le attribuzioni stereotipate del proprio genere, ma anche il cambiamento maschile schiacciato sotto il segno della femminilizzazione dei mammi, o della rinuncia frustrata.
Affrontare questo piano di confronto forse ci aiuterebbe ad uscire dalle secche di un confronto come la violenza (ma anche e soprattutto come la prostituzione, le tecnologie riproduttive, il nesso tra soggettività, corpo e libertà) che troppo spesso vedono polarizzazioni basate sul piano della norma (vietare, regolamentare, reprimere, tutelare…) che rinunciano ad interrogare il nostro immaginario e la sua colonizzazione, i nostri desideri, le nostre angosce e le nostre rappresentazioni .
Grazie, come sempre per averci fatti fermare a pensare, insieme

6 pensieri su “Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

  1. Lea Melandri […] rappresenta per me un’autrice e una personalità della cultura molto importante. Ricordo in tal senso la rivista degli anni Settanta “L’erba voglio” e l’omonima casa editrice, ideate e dirette da Lea Melandri ed Elvio Fachinelli, dove vennero pubblicati libri memorabili come “Alice è il diavolo” del collettivo A/traverso e “La freccia ferma” di Fachinelli. Non conoscevo Stefano Ciccone, ma scopro adesso con interesse sue opere e l’impegno culturale e politico. Riguardo al tema posto qui in discussione segnalo soltanto i contributi sulla questione dell’identità maschile offerti, con iniziative e testi, da Robert Bly, leader del Mythopoetic Men’s Movement. Fondamentale il suo libro “Iron John: A Book About Men”.

    Nota di E. A.

    [(a proposito del cognome, segnalo un refuso nel primo rigo)]. Grazie. Ho corretto.

  2. Introducendo questo scritto di Lea Melandri avevo scritto: “Il tema è di quelli importanti e da ruminare a lungo accanto e assieme ad altre riflessioni”. Qui sotto una importante riflessione che permette di contestualizzare le riflessioni di Melandri e Ciccone nell’attuale dibattito su un nodo (per me ancora fondamentale e irrisolto), quello che cerca di pensare un’area di problemi all’incrocio di tre aree di pensiero: marxismo, femminismo, liberalismo.
    A riflettere è Alessandro Visalli, uno studioso preparatissimo e problematico, anche se i suoi scritti sono lunghi e di non facile lettura. Ecco la sua presentazione del saggio:

    “Lettura del libro di Nancy Fraser e Rahel Jaeggi, “Capitalismo”. Pubblicato un paio di anni fa dalla Meltemi nella collana “Visioni eretiche” curata da Carlo Formenti. Si tratta di un dialogo a tratti serrato tra due filosofe, la prima rivendicante una posizione femminista molto critica, la seconda no, sul capitalismo e sullo stato di crisi della società contemporanea.
    Un testo interessante, ma del quale estraggo abbastanza specificamente lo sforzo di trovare una via mediana, “addizionale”, tra la politica del riconoscimento e della identità propria dei movimenti della nuova sinistra nei quali la più anziana filosofa americana si è formata e la necessità di riportare al centro l’agenda delle rivendicazioni materiali ed una visione strutturale dei nessi funzionali che ne derivano, ovvero, nei suoi termini l’attenzione all’economia politica.
    Uno sforzo che mi pare fallisca per carenza di chiarezza concettuale e non pochi abusi di linguaggio, ma soprattutto perché tiene ferma l’assiomatica di gruppo nata esattamente sulla negazione della seconda. Come dirà alla fine la Jaeggi ne deriva un quadro molto ampio, ma anche confuso, nel quale manca la possibilità di capire, tra i molti confini nei quali si manifestano conflitti, quale criterio possa definirli. E quindi in base a cosa sostenerli o avversarli.
    Come dico alla fine, il labirinto è evocato, ma la mappa manca.”

    SEGNALAZIONE

    Nancy Fraser, “Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi”
    https://tempofertile.blogspot.com/2021/05/nancy-fraser-capitalismo-una.html?fbclid=IwAR3ebVSm_IyRXu9rVyLZZF66xW-TEHxE_sMHb3HVCweWzDd06zWI7_TgYOc

    Stralci:

    1.
    Alla fine il femminismo, nella critica della Fraser, si è reso disponibile ad essere utilizzato a portare acqua al neoliberismo. Gli ha conferito ‘carisma’. E non è stato un ruolo passivo, tutt’altro: il femminismo ha contribuito con tre idee importanti allo sviluppo dell’egemonia neoliberale: la critica al “salario familiare” ha finito per legittimare il ‘capitalismo flessibile’ che, in pratica, ha abbassato il salario a tutti (in modo che ora lavorano in due guadagnando spesso meno di quanto prima guadagnava uno). L’accesso delle donne in massa al lavoro ha scardinato il patto sociale del lavoro. Il secondo contributo decisivo è stato la critica (condivisa con tanta parte della ‘nuova sinistra’) all’economicismo marxista che ha finito per buttare bambino ed acqua. La politicizzazione del “personale” ha finito per andare nella stessa direzione in cui andava la critica neoliberale all’egualitarismo economico welfarista. Il terzo è stato l’attacco diretto al paternalismo dello Stato Sociale, che era esattamente quel che contemporaneamente faceva il neoliberismo per mercificare completamente la vita di tutti e tutte, esponendoli senza filtri alla durezza della vita.

    2.
    La critica di sinistra allo stato sociale è parte di questo movimento. Quella alla società disciplinare, al potere amministrativo, alle tendenze alla normalizzazione dello stato sociale, alla burocratizzazione ad esso connaturata. Con il linguaggio di Habermas, che esprime una particolare versione di quella costellazione, la critica alla “colonizzazione del mondo vitale” (da parte del ‘codice potere’). La risposta è stata di delegittimare ogni intervento pubblico (anche quando era diretto contro lo strapotere del capitale) per rifugiarsi nel privato o nel privato-collettivo: “organizziamoci in movimento sociali; occupiamoci dei nostri problemi”, razza, sesso, orientamenti. Puntiamo ad essere riconosciuti come individui e per i nostri desideri. Si è perso di vista il potere del capitale privato, delle grandi concentrazioni private di capitale e queste sono state leste ad approfittarne. In parte è stato un effetto della diffusione della ricchezza, dello sprawl urbano, persino (con la disintegrazione delle preesistenti unità sociali dei quartieri operai in villette diffuse che incoraggiano una visione individuale dell’abitare).
    L’immaginario socialdemocratico, concentrato sulle questioni salariali (nelle quali aveva appunto raggiunto un decisivo successo) e delle condizioni di lavoro non era più adatto a dare rappresentazione a queste nuove energie e strutture del sentire sociale che scaturivano dalle donne con istruzione universitaria e di classe media, le quali rivendicavano riconoscimento, oltre che dalla cultura di massa e giovanile. La nuova sintesi sarà quindi un insieme sincretico di critica al paternalismo burocratico, al disconoscimento individuale e, da parte neoliberale, all’assistenzialismo. L’era neoliberale vive di questo ethos che è stato creato anche dai movimenti della sinistra radicale. Quella che la Jaeggi, che concorda, chiama “una bella astuzia della storia”.

    3.
    Cambiando argomento il testo si concentra sulla critica al capitalismo. Quale è il punto: esso è un sistema disfunzionale, che è costantemente incline alle crisi? O, piuttosto, un sistema moralmente sbagliato perché fondato sullo sfruttamento? Una vita, terza possibilità, fondata sul capitalismo è eticamente malvagia, impoverita, priva di senso ed alienata?
    La critica marxiana è imperniata su tutte e tre le dimensioni. La prima è molto evidente e nota, il capitalismo non è orientato alla soddisfazione dei bisogni umani, quanto alla crescita dell’accumulazione per la quale ha una tendenza allo sviluppo delle forze produttive intrinsecamente contraddittorio (su una linea di critica in fondo non dissimile da quella della “riproduzione” avanzata dalla Fraser, se il termine non si intende in senso individuale ma sistemico). Ma questa critica poggia sempre internamente su criteri di tipo normativo e politico. La seconda critica si muove esplicitando questo livello. Ma qui non basta dire che il capitalismo crea ineguaglianze ingiuste, o non motivate adeguatamente, perché bisogna stabilire anche quali sono presenti specificamente di esso. Una ineguaglianza, la semplice esistenza della ricchezza e della concentrazione di potere, che fosse tale dal tempo delle prime civiltà stanziali sarebbe una linea di critica ben povera, al capitalismo. Per questa ragione la critica è in realtà eticamente orientata, legge il capitalismo nella sua interezza come una modalità distorta di vita, ed, inoltre un ostacolo alla ‘libertà sociale’

  3. L’esperienza del figlio con la madre è di fondamentale importanza, specialmente negli anni dell’infanzia; perché nel suo rapportarsi da adulto alla donna il maschio vive un ritorno alle origini. Se il rapporto madre/figlio è stato positivo lo sarà anche quello maschio/femmina, altrimenti diventerà problematico.
    Quando ero bambino, mia madre era quasi sempre malata, a causa di una patologia di difficile guarigione. Pertanto non poteva abbracciarmi o tenermi in braccio, dovevo starle a distanza. Da adulto, ho fatto fatica a rapportarmi alla donna, perché pensavo che mi avrebbe respinto; non solo, il suo corpo mi sembrava un cristallo che mi teneva separato da lei, come un corpo malato. Per rompere questi tabù ho dovuto aspettare, con pazienza, la donna giusta ( e interessarmi di psicoanalisi).

  4. RIFACIMENTI DA “PSICOSCRITTOIO”. NANNÌNE

    E tu, madre del bimbo che ancora m’assomiglia
    paziente campionessa del vivere
    beghina, baciamano, biascicante
    preghiere ad occhi bassi!

    I nomi dei santi, i motti, la fede dei poveri, le fughe
    mi confusero più del fruscio degli alberi
    e dei rantoli o l’urla dei morenti
    provenienti dal nostro cimitero di campagna!

    Ah, Il calore del tuo mortificato seno!

    Mi protesse dal gelo delle menti più taglienti
    dei potenti.

    (10 maggio 1989/ 31 marzo 2012/ 2 maggio 2021)

  5. MADRE

    “Cara mamma”, così scrivevo
    nelle lettere e cartoline che
    ti inviavo da bambino,
    dalla colonia marina:
    “Cara mamma”, un aggettivo
    e un nome preziosi, riservati
    a te, così lontana.
    Non mi restava che contare
    i giorni a ritroso, dal trenta
    fino a quello della ripartenza,
    del ritorno agognato.
    Quando non mancavi da casa
    perché eri in ospedale, per
    quella malattia misteriosa
    che non capivo e che
    nessuno mi spiegava. Finché
    non ti vedevo risalire le scale,
    curvata e smagrita,
    pallida in viso.
    Non avevi la forza di
    prendermi in braccio,
    mi sorridevi dolorosamente,
    con amore.
    Fra me e il tuo corpo
    si era interposta una barriera,
    un velo sacrale che
    ti nascondeva alla vita,
    che mi tratteneva come
    davanti a un altare.
    Così il corpo della donna
    è rimasto per me un mistero,
    anche dopo che ne ho scoperto
    il vero: trovavo naturale
    che ne venissi privato.
    L’ho rivissuto, tardi, nella
    statua di una Madonna, ricoperta
    dalla lunga veste che
    nasconde ogni fattezza,
    esaltando solo il viso,
    gli amorosi occhi,
    il materno sorriso.

    ———
    Franco Casati ‘Poesie narrate’; Verona 2012.

  6. … molto costruttivo questo dialogo-ricerca tra Lea Melandri e Stefano Ciccone sul tema del conflitto tra uomo e donna. Ricerca che da una parte indaga sulle dinamiche profonde alla base dei rapporti piu’ stretti dei soggetti nell’ambito familiare per allargarsi necessariamente alla riflessione sulle cause sociali, politiche e storiche, da cui derivano gli stereotipi di un dualismo destinato ad esplodere…Ovviamente è lasciato aperto il campo di ricerca perchè, basta guardarsi attorno, siamo ancora ben lontani da una minima ricomposizione del conflitto, basta leggere i terribili fatti di cronaca…
    Svelarsi reciprocamente, senza schemi predefiniti, come senza facili soluzioni, senza innocenza da salvare, nell’urgenza di cambiamenti radicali perchè cosi’ non si puo’ andare avanti, nè consegnare questa situazione ai nostri figli…dialogare, chiarirsi, cercare una maggiore autoconsapevolezza nel dialogo a due , ma anche nei gruppi aperti al confronto e al cambiamento…Sperando che le scelte giuste arrivino ad essere condivise in una società migliore..

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