La strage di Capaci

di Daniele Barni

Era il 23 maggio 1992, l’ora del pomeriggio in cui la fame comincia a sfottere lo stomaco. Asserragliato nella cucina al di qua di trincee di libri, mi attrezzavo da buon secchioncello a fronteggiare la maturità, già minacciosa. Alla mia Nordmende color tristezza, alta sulla scaffalatura, si affacciavano personaggi diversi a farmi compagnia. Ammutoliti dal telecomando, li lasciavo ai loro mimi.

A un tratto, ruppero lo schermo il cotone biondo e il trespolo ottico di Angela Buttiglione, la telegiornalista più famosa d’Italia. Nonché sorella del politico più astuto dai tempi dell’ultima glaciazione: Rocco Buttiglione, quaglia ex-democristiana e supercattolica sempre saltellante da destra a sinistra, e viceversa, per cercare di cadere ogni volta dove si trovasse il potere. Finalmente, a correzione della sua carriera politica barcollante, nel 2004 puntò dritto sulla via dell’Europa e si candidò alla Commissione per la Giustizia, la Libertà e la Sicurezza. I luterani e i calvinisti del Nord annusarono subito in lui odore, se non di rogo, almeno di segreta cattolica e reazionaria. Occorreva prudenza. Soprattutto, silenzio. Ma il Buttiglione, per mostrare a tutti di essere davvero giusto, libero e rassicurante, oltre che astuto, si fece avanti dicendo che essere finocchi non è un crimine ma soltanto un peccato. Risultato? Trombato!Casini, invece, dal nome azzimato quanto lui, Pierferdinando, è la versione astuta del Rocco Buttiglione: arruolato in parlamento dalla DC nel 1983, quando sgambettavo alle elementari, mitragliava ogni giorno dal suo scanno i comunisti. Poi, alleato del Berlusca, mitragliava gli ex-comunisti. Oggi, è riuscito a farsi eleggere con gli ex-ex-comunisti. Geniale! O, forse, coglioni gli altri! Per me i politucoli dal posteriore di piombo, magari nemmeno disonesti, come il Buttiglione e il Casini, sono pure peggiori dei megapoliticoni mafiosi e corrotti: questi, infatti, imboccando la fame di poltrone di quelli, se ne assicurano sempre il voto utile e, insieme, la cecità, senza i quali mai gozzoviglierebbero al potere.

Comunque, ruotai il polso sinistro: non era l’ora del telegiornale! Doveva trattarsi di un’edizione straordinaria. Alla sinistra della giornalista, stava una specie di portafotografie catodico con dentro la faccia di Giovanni Falcone. Sì, non poteva che essere un’edizione straordinaria!

1992, anno di tripla ricorrenza: mezzo millennio prima, Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America; ed erano passati al silenzio Piero della Francesca e Lorenzo il Magnifico, dei quali sono, rispettivamente, concittadino e corregionale. Del primo mi onoro. Del secondo mi schifo, perché a me i dittatori non mi piacciono, neanche se mecenati e poeti. Bellezza, potere e sogno (o incubo): le droghe necessarie dell’uomo. L’Italia festeggiò da par suo quelle ricorrenze: con scandali, stragi e speranze strangolate. Sì, strangolate.

Con un miracolo di telecomando ridetti voce alla Buttiglione: “bomba”, “strage”, “mafia” furono le parole che rimbalzarono nella stanza. La giornalista rifilò la linea a Salvatore Cusimano, barbuto giornalista della sede Rai di Palermo, che cominciò a commentare le immagini di un cratere di vulcano a sostituzione dell’Autostrada A29, Aeroporto di Punta Raisi-Palermo, uscita di Capaci. Intorno, gli effetti dell’eruzione. Subito, mi bucò le retine una Croma bianca, che stava sul margine di quel baratro smezzata tra cofano e abitacolo. La mafia, con un fuoco d’artificio da mezza tonnellata, direi dimostrativo, aveva disegnato in cielo una pirotecnia macabra di terra, lamiere e budella. Ora, i postumi ne giacevano a terra.

Era stato ucciso Giovanni Falcone, in quella Croma bianca! Le tempie mi ticchettavano. Gli occhi mi si liquefecero. Non era stato ammazzato solo un giudice. Per me era morta persino un’idea di padre. Ed era stato ammazzato, soprattutto, un intellettuale. Basterebbe depositare nell’orecchio, magari prese dai tanti video di Youtube, un’inezia di ciò che ha detto, o nell’occhio un’inezia di ciò che ha scritto, per capire che l’antimafia non era soltanto il suo mestiere, e nemmeno soltanto una missione, ma anche una lente focalizzata sull’uomo e sugli italiani. Basterebbe auscultarne il tono, sondarne lo stile, empatizzarne la passione, per capire che nel giudice stava il filosofo, il poeta, l’antropologo: mai il volume di voce superava la tacca del garbato; mai una parola era agganciata al discorso a caso, ma sempre intessuta a esso secondo il disegno; la sintassi era quella geometrica del ragionamento dimostrabile; l’eleganza del discorso rivestiva e tratteneva la passione del curioso. E poi quel coraggio timido, sempre contenuto tra la “c” e la “o”, mai debordante nemmeno per scherzo in vanità. Nel cavò della mente ho la sequenza di due brevi interviste. La prima del 16 febbraio 1987, al microfono di Franco Alfano per la trasmissione TG2 Studio Aperto. Il giornalista chiede:

“Dottor Falcone, se mi consente, una domanda di carattere personale: lei ha sacrificato gran parte della sua esistenza proprio alla lotta alla mafia; è considerato dalle cosche il simbolo dello Stato da combattere; vive blindato. Ma chi glielo fa fare?”

Falcone, baffi e barba sfumati di bianco, capelli che dietro solleticano il collo, ascolta serio, caricandosi a un tratto l’intero soffitto dell’ufficio sullo sguardo; poi, con un sorriso subito ricacciato in bocca, risponde:

“Mah, soltanto lo spirito di servizio.”

Il giornalista procede:

“Ha mai avuto dei momenti di… di scoramento, magari dei dubbi, delle tentazioni di abbandonare questa lotta?”

Falcone ascolta, trascolorando da serio a cupo; la barba e i baffi ora sembrano una maschera di cenere; gli occhi sono poggiati gravemente sulla scrivania, che non si vede ma che, come tutte le suppellettili dei ministeri, è sicuramente marrone e nemmeno arredata. A un tratto, estrae da sotto le palpebre uno sguardo caricato a determinazione e spara:

“No, mai!”

L’altra intervista è di Corrado Augias per la trasmissione di Rai3 Babele, datata 12 gennaio 1992, a pochissimi mesi dalla conclusione di Capaci. A starci di fronte, oggi, quella puntata sembra più una tribunalata sommaria che una rotonda televisiva: le domande, del conduttore e persino del pubblico, hanno la presunzione di risposte, e le risposte lo stupore della domanda.

Inquisisce Augias, in un angolo-libreria dello studio:

“Giudice Falcone, questo è un ottimo libro [Cose di Cosa Nostra, con Marcelle Padovani, BUR, 1991, ndr], un libro, le dirò subito, sorprendente e anche scandaloso. Un libro che, non soltanto è stato apprezzato e soprattutto che si vende bene [notare il colpetto genitale riguardo alle vendite, ndr], ma che l’ha anche esposta a delle critiche: perché un giudice deve scrivere un libro? Non sarebbe meglio che un giudice operasse secondo giustizia e tacesse?”

Falcone, incastrato nella poltrona livida, movimenta appena il viso con un paio di sorrisetti e una tossita. Le sue parole, non molte, sembrano galleggiare nell’atmosfera e poi affondare fino al pavimento. Soltanto la mano sinistra, quella sera, è loquace ed espressiva: dice, denuncia, si dispera, ora spalmandosi verso l’alto, ora tarantolando sul bracciolo, ora precipitandosi giù nell’aria:

“Io non ho parlato, se non in via incidentale, di specifici episodi riguardanti la mia attività professionale: io mi sono limitato a parlare della mafia in quanto fenomeno criminale. E credo che sia importante parlarne, e parlarne correttamente, perché non vi è dubbio che spesso manchi la correttezza dell’informazione.”

Persevera Augias, comprimendo in poco fiato tanta materia di sillabe:

“Posso dirle una cosa prima che incominciamo a vedere nel merito alcuni dei punti del suo libro? È una sensazione personale, però condivisa: noi abbiamo imparato a conoscerla quando lei viveva barricato a Palermo e, forse, l’abbiamo un po’ mitizzata; adesso che sta al ministero e che scrive, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ delusi negli ultimi tempi, ma che sicuramente lei è cambiato. Lei lo sa? Ne è consapevole?”

“No, io credo che sia mutato, invece, l’atteggiamento complessivo rispetto a questi problemi. E spesso capita che, se la realtà non è quale la si desidera o quale la si pensa, riteniamo che sia la realtà a essere sbagliata, e non noi.”

“Dottor Falcone, ho detto prima che questo è un libro che mi è parso scandaloso. Volevo precisare perché: lei dimostra, in più punti, una profonda stima intellettuale nei confronti della mafia”.

“Mah, conoscere un fenomeno non significa né condividerlo né tanto meno stimarlo. Io mi sono sforzato di metterlo in luce per quello che mi è apparso. Ma certamente non ne condivido le finalità.”

“Certo che non ne condivide le finalità, ma lei arriva a dire delle cose che a me sono apparse gravi! È la prima volta che le leggevo, se non altro da una fonte così autorevole. Lei, a un certo punto, scrive testualmente: ‘la mafia ha sostituito in quell’isola lo Stato, impedendogli di sprofondare nel caos.’ È un’affermazione… enorme.”

“Non sono gravi queste affermazioni, sono gravi i fatti sottesi a queste affermazioni.”

A questo punto, l’interrogatorio si allarga: Falcone è ora intorno a un tavolino monogambato che ostenta libri come una cornucopia. Stessa loquacità della mano sinistra. Accanto a lui Vincenzo Scotti, diccì, Ministro dell’Interno, e Mario Pirani, giornalista di La Repubblica: non si sa se testimoni della difesa o dell’accusa, o di entrambe. Una ragazza dall’incarnato botticelliano, naso tagliente e appena angolato, capelli fulvi che scrosciano sulle tempie e spumeggiano sulla nuca in crocchia, occhi forse dello stesso colore, voce tremolantemente decisa, chiede:

“Lei dice: ‘Basta parlare della mafia come di una piovra o di un cancro: dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia’.”

“Ci rassomiglia: a chi?”, si intromette Augias.

“Appunto, a chi”, incalza la ragazza, “: ai siciliani, ai meridionali, agli italiani, a chi rassomiglia la mafia?”.

E Falcone, didascalico, forse pedagogico:

“Assomiglia ai palermitani, ai siciliani, agli italiani, agli uomini in genere. Intendevo dire, né più né meno, che i mafiosi non sono poi tanto diversi dai comuni mortali. Non sono dei marziani: ecco, questo intendevo dire.”

Ma Augias, pronto:

“Falcone, però lei dice pure che la mafia affascina i siciliani. Ma perché li affascina?”

“Intendevo dire che l’ideologia, chiamiamola così, la subcultura mafiosa non è altro che la sublimazione, ma soprattutto la distorsione, di valori che in sé non sono censurabili e che sono propri di larghi strati della popolazione del Mezzogiorno d’Italia e soprattutto della Sicilia. Perciò la mafia, in certa misura, non è estranea al tessuto sociale che la esprime.”

Una voce, allora, dal fuoricampo rotola nello studio. Tutti, voltandosi, le vanno incontro con lo sguardo prima che con le orecchie:

“Mi scusi, dottor Falcone, io le volevo chiedere una cosa. Lei dice nel suo libro che in Sicilia…” Anche la telecamera, finalmente, raggiunge la sorgente delle parole: due labbra quasi fisse in un viso altrettanto fisso di ragazza, appena poi variato da un tentativo di sorriso e in parte nascosto da una tenda di capelli castani: “Lei dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei, fortunatamente, è ancora fra noi, chi la protegge?”

La mano di Falcone comincia a oscillare al decimo grado di Richter, segno di cataclisma interiore. Non crolla, tuttavia, l’espressione di cemento armato sul viso. Solo la voce si arrampica su una mezza tacca:

“Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo paese?”

“No, io non dicevo questo…”

“No, forse non voleva fare una domanda…”, rammenda Augias.

“Se fino ad ora, fino ad ora sono vivo…”, strappa di nuovo Falcone.

Anche Pirani prova a ricucire prima dell’irrimediabile, ma si capisce solo:

“…che bisogna proteggervi molto…”

Augias riprova:

“Lei, lei ne parla a lungo nel libro, tra l’altro, di questo.”

Pirani tenta l’ultimo intreccio d’ago e filo:

“Della protezione!”

E Augias annoda:

“Della protezione, del non voler… del non… del non… dell’essere sempre coperto…”

Ma Falcone trincia definitivamente:

“Questo è… questo è il paese felice in cui se ti si pone… ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere.”, e il tono della voce crolla, come a lapide buttata sopra.

Tutti allora scongiurano, confortano, sorridono per rimediare, o rimediano per non negarsi un sorriso. Scotti, finalmente, si scongela e lascia gocciolare qualche gesticolo. Un’altra ragazza fa a tempo a dire una domanda, ricciuta come lei, sulle istituzioni infettate di mafia. E Falcone fa a tempo a ribadire il suo metodo di lavoro: non supposizioni, non illazioni, non chiacchiere, ma indagini, anzi studio, e prove prove prove.

Ma, forse, esagero anche io, troppi anni dopo, a condannare quella platea con il suo conduttore: allora, il trasferimento di Falcone al Ministero di Grazia e Giustizia, il 13 marzo 1991, alla direzione dell’Ufficio Affari Penali, sotto a quel po’ po’ di ministro socialista e craxiano di Claudio Martelli, sembrò a tutti una rinuncia o, peggio, un tradimento. Invece, sotto gli occhi del dopo, quel trasferimento si illumina come l’ultimo scatto del braccato, il quale sperava da Roma di colpire secondo giustizia prima che da Palermo giustiziassero lui. Nel capoluogo siciliano, infatti, era diventato impossibile lavorare: ogni intenzione s’impigliava negli intrichi di mafia, che erano arrivati a infestare anche la procura.

Quel 23 maggio 1992, come tutti i sabati, Falcone toccò la Sicilia all’Aeroporto di Punta Raisi. Ore 17,43. L’aereo del suo ultimo volo si chiamava quasi come lui: Falcon, attrezzo bianco e compatto dei servizi segreti. Con il giudice la moglie, Francesca Morvillo, la sua ombra bionda, giudice anche lei. Nessuno sapeva, o avrebbe dovuto sapere, del loro scalo, nascosto sempre in qualche cantuccio dell’aeroporto. Era giornata media di primavera, ma il caldo non sfiorava nemmeno l’abbastanza. La terra era semmai appesantita da qualche passata di pioggia…

Falcone era stanco: come a Palermo, anche a Roma gli incartamenti erano carta di fuori e piombo di dentro. Attraverso il portello guidò per il braccio la moglie alla discesa. Entrambi sembrarono franare, più che scendere, sugli scalini. Sull’asfalto finirono nel girotondo della scorta. Il gruppo si divise su tre macchine blindate: nella Croma marrone, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo, poliziotti che sparavano gioventù; nella Croma Bianca, Giovanni Falcone alla guida, la moglie accanto e, dietro, centralmente, l’autista Giuseppe Costanza; nella Croma azzurra, Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, gli altri agenti. In quest’ordine l’incatenamento di sgommate e sirene cigolò fuori dell’aeroporto alle ore 17,46.

Il giudice, come d’abitudine, voleva guidare: lo sterzo era l’amuleto a cui s’aggrappava: la tensione dei giorni era così imprigionata in quel rotondo magico e le mani scongiuravano con circoli perfetti. Anche la persona più scientifica espone in una nicchia del carattere qualche superstizione, come umile omaggio all’imponderabile. Dopo qualche attimo di quella scaramanzia, il sorriso riattraversò le labbra di Falcone:

“Giuseppe, allora, sei contento?”

“Di che, Dottore?”, rispose con diligenza, da dietro, l’autista.

“Di che, Giuseppe: mi stanno o no per fare procuratore nazionale antimafia? Lo sai che ora potrò indagare senza più ostacoli?”, gli buttò là non certo per grandigia, ma, forse, per proprio conforto.

“Certo, Dottore, sono contento. Ma io sempre qua sarò: a carruzziari voi e la Dottoressa in macchina.”

“Non scarrozzerai più un giudice, ma un procuratore.”, ribatté Falcone da dietro i baffetti.

“E a me, pertanto, l’aumenteranno lo stipendio?”

“Credo di no, caro mio.”

“Appunto.”

Il giudice raccolse nello specchietto retrovisore il sorriso dell’autista e nell’apice dell’occhio quello della moglie; gli altri due raccolsero la simmetria di uno stesso gesto.

“E poi, Dottore, anzi, Procuratore, sapete che per festeggiare mancu pistiari nu vùota û risturanti potremo, perché loro, Dottore, ora che siete procuratore, mai annu a lassarla‘n paci: la sua ùmmira saranno. Capite?”.

“Senti, Giuseppe!”, chiese dopo un accenno di silenzio Falcone con sorriso serissimo, “Ma, secondo te, che cos’è la mafia? Anzi, dobbiamo chiamarla con il suo nome: Cosa Nostra.”

Costanza capì che quella domanda passava come una pattumiera in cui gettare per un attimo ogni scherzo:

“Cosa Nostra… secondo me è la favola del lupo e dell’agnello di Esopo e Fedro che si sfavolizza e diventa realtà.”

“Hai sentito, Giovanni,”, scivolò nella conversazione Francesca, che fino a quel momento era rimasta ipnotizzata dalla carreggiata che s’infilava sotto l’auto come la piena sotto al ponte, “hai sentito che bella risposta ti ha dato Giuseppe?”. E intanto con la mano destra tormentava il poggiamano, mentre con la sinistra allineava il colletto della camicia del marito al ruolo di magistrato più famoso d’Italia.

“La risposta”, disse Falcone, “è bella, ma purtroppo non corrisponde alla verità. O meglio, corrisponde soltanto a una parte, e nemmeno determinante, della verità.”.

“E perché mai?”, domandarono gli altri due a coro.

“Perché la verità, o la sua parte determinante, è che in questo sciagurato paese la mafia corrisponde alla mentalità e ai costumi più intimi della maggior parte delle persone. Ne è la sublimazione.”

“No, Giovanni.”, disse Francesca punzecchiandogli il collo con l’indice, “Ne abbiamo parlato tante volte, ma su questo non posso essere d’accordo con te”.

“Non puoi, o non vuoi essere d’accordo?”

“Non posso e non voglio.”

“Nemmeno io, Dottore, posso e voglio essere d’accordo con lei. A Palermo, in Sicilia, in Italia la stragrande maggioranza delle persone è onesta, è specchiata.”

“E invece”, disse Falcone “io sono d’accordo con voi: anche io penso che la maggior parte delle persone di questo paese, che torno a chiamare sciagurato, sia onesta. Ma l’onestà è solo un rivestimento epidermico, imbastito dalla retorica istituzionale, che ricopre pelle e viscere mafiose.”

“Dottore, truoppo difficili: abbia la cortesia di spiegarci, a me e alla povera Dottoressa!”

Alle ore 17, 52 le tre auto si infilano nell’autostrada verso Palermo.

“Per troppo tempo, Francesca, Giuseppe, si è confusa la mafia con la mentalità mafiosa: sono cose del tutto diverse; si può avere una mentalità mafiosa senza essere un mafioso. Troppi italiani, troppi siciliani, pensano come i mafiosi senza essere dei mafiosi. Comincio a essere un po’ più chiaro?”

“Forse.”, rispondono insieme gli altri due.

“Ma continua!”

“Sì, Dottore, ci faccia il piacere di continuare!”

“Siamo doppi noi italiani, e noi siciliani siamo doppi nella doppiezza. Per noi la legalità, la civiltà, l’onestà sono solo maschere, che indossiamo a seconda della festa. Così come, senza scrupolo e senza vergogna, potremmo indossare le maschere contrarie della slealtà, del crimine, della barbarie. A seconda della necessità. Ciò che conta, per noi, è lu putiri e li piccioli: e per ottenerli siamo disposti a travestirci indifferentemente da santi o da diavoli. Se serve essere bravi, noi ci facciamo bravi; e se serve essere tristi, noi ci facciamo tristi! E non riusciamo a capire, invece, che il rispetto della legge porta benessere, il quale vale molto più della ricchezza. Siamo contenti se riusciamo a timbrare due volte il biglietto dell’autobus; se guadagniamo un mezzo lavoro, non con l’impegno, ma con la raccomandazione; se il prossimo lo freghiamo, invece di unirci a lui per essere più forti. Proprio questi vizietti di popolo spuntano con facilità fra noi italiani e, soprattutto, fra noi siciliani, poi crescono, crescono fino a diventare le piante infestanti delle varie criminalità organizzate. Una volta, a una conferenza in una scuola di Trapani, un ragazzo mi chiese: Dottor Falcone, ma perché io dovrei spaccarmi la schiena otto ore al giorno per qualche spicciolo, se a fare il palo in una piazza di spaccio dei clan potrei guadagnare milioni al mese? Per un attimo, sono rimasto senza parole. Poi, riflettendo, ho dato questa risposta: preferirei avere le mie poche lire in città come Oslo, Stoccolma o Copenaghen, dove ho la solidarietà dei miei concittadini, dove se sto male vengo curato in ospedali efficienti e puliti, dove nella vecchiaia e nel bisogno sono assistito dalla comunità, dove respiro e bevo aria e acqua sane perché il sistema funziona, è organizzato e ha per fine il benessere, non appunto la ricchezza, anziché avere i miliardi di un capomafia in quel deserto che è diventata Palermo. Chissà se l’avrò convinto, quel ragazzo!”

“Sì, chissà se sarai riuscito a convincerlo, Giovanni?”, ripeté la moglie, “Ma, forse, stai convincendo noi: vero Giuseppe?”

“Già, Dottoressa. Ma prima che ci faccia un’altra uora ri scola, Dottore, mi faccia il piacere di ricordarsi, quando arriviamo, di ridarmi la chiave della macchina, non come l’ultima volta!”

Falcone, forse distratto dai suoi pensieri, estrae automaticamente la chiave dal cruscotto e cerca di restituirla all’autista, che urlò:

“Dottore, ma cosa fa? Vuole farci ammazzare?”

“Mi scusi, mi scusi.”, rispose Falcone, riportando di nuovo la chiave al suo posto, nel blocchetto dell’accensione.

In quel momento esatto, alle 17,56 e 32 secondi, presso l’uscita di Capaci, fra case e oliveti, un muro di fuoco, ferro e terra si sollevò all’improvviso di fronte alla macchina, che si accartocciò contro di esso. La Croma davanti, intanto, venne lanciata contro il cielo da quella sollevazione, per ricadere in frantumi di metallo, di plastica e di uomini a decine di metri in mezzo agli olivi. La Croma in fondo al corteo, invece, fu arrestata dall’urto contro una parete d’aria che si era scagliata contro di essa. Altri veicoli di passaggio furono presi in quell’evento che subito si sarebbe rivelato l’effetto di una bomba. Ma il gesto di Falcone aveva rallentato la sua macchina, così soltanto la prima Croma del corteo era volata sull’esplosione.

Non appena la tempesta di detriti si fu chiarita, i poliziotti dell’ultima autovettura capirono ciò che era accaduto: si liberarono dalla stretta delle lamiere e corsero verso il tumulo di terra e pietre sotto cui si trovavano Falcone, la moglie e l’agente di scorta. Frugarono con le Beretta in tutte le direzioni, in cerca di attentatori, ma, dopo il fragore, si era depositata una calma perfetta. Guardarono nell’involucro che era stato un’auto e scorsero all’interno Francesca senza conoscenza, ma viva, anche se apparve subito grave; l’autista, nei sedili dietro, era vivo ma senza conoscenza. Anche Falcone era vivo, e cosciente, ma non riusciva a parlare: provarono a chiamarlo, più volte, e lui cercò di rispondere con gli occhi. Qualcuno avrebbe raccontato che sembrava chiedere aiuto con le pupille. Il giudice sarebbe morto alle 19,05 nell’Ospedale Civico di Palermo, fra le braccia dell’amico e collega Paolo Borsellino, con una ferita a forma di stella sulla fronte; la moglie sarebbe morta nello stesso ospedale alle 22,00, in sala operatoria, mentre avrebbero cercato di salvarla. L’autista si sarebbe salvato.

Presto, le sirene annunciarono da lontano gli aiuti da caserme e ospedali e, subito dopo, la scena si affollò di volanti, autobotti, ambulanze e tanti lampeggianti.

Nel frattempo, da una collinetta fin lì anonima due uomini, che avrebbero risposto ai nomi di Giovanni Brusca e Antonino Gioè, sicari di Cosa Nostra, si allontanavano portandosi via il telecomando con cui avevano acceso l’esplosione, il cannocchiale per inseguire l’obiettivo, i cellulari con cui avevano tessuto l’intrigo e le sigarette per inalare calma.

E io, di fronte a quell’edizione straordinaria di telegiornale, mi aggrappai alla mia trincea di libri: proprio i libri, pensai con l’esagerazione della gioventù, sarebbero stati i mattoni della mia casamatta di resistenza, e le parole sarebbero state le mie pallottole e il mio esplosivo.

Fu chiaro, invece, che Giovanni Falcone era stato tradito da qualcuno: in parlamento, al ministero, in procura, nelle caserme. E regalato ai suoi assassini.

Fu chiaro, inoltre, che il potere politico ed economico, in Italia, non era (e non è) che la maschera della criminalità, e pure viceversa.

E fu chiaro che quello era un evento storico, ma non obbligatorio come la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, che i nostri bisnonni e i nostri nonni erano stati costretti a vivere: la Strage di Capaci era un evento facoltativo, a cui la mia generazione avrebbe potuto decidere di partecipare o che avrebbe potuto anche ignorare. Infatti, ci sarebbe stato chi quel cratere l’avrebbe ricoperto, così, senza scrupolo; chi ci sarebbe precipitato dentro; e chi in quell’abisso si sarebbe calato, per trincerarsi e combattere.

11/6/2020

9 pensieri su “La strage di Capaci

  1. Racconto tra storia e invenzione, tra fatti personali ed eventi collettivi, tra teoria ed evocazione. Lo stile si adegua ai momenti della narrazione, passando dalla malinconia alla crudezza, dall’espressionismo alla fotografia degli avvenimenti; sempre a occhi a occhi con il lettore. Una bella lettura. Tragici ricordi.

  2. Sinceramente e severamente, ma sperando che una discussione su storia/politica e narrazione si possa aprire e andare a fondo, questa ricamare in modi letterari ma decorativi e moralisticamente “democratici” attorno alla figura del buon servitore dello Stato abbandonato dallo Stato per confermare evidenze (” Fu chiaro, invece, che Giovanni Falcone era stato tradito da qualcuno: in parlamento, al ministero, in procura, nelle caserme. E regalato ai suoi assassini. Fu chiaro, inoltre, che il potere politico ed economico, in Italia, non era (e non è) che la maschera della criminalità, e pure viceversa.”) in questo momento storico e con questo sfascio inconcludente dei ragionamenti politici dice poco. No, le tragedie della storia non sono questioni generazionali.

  3. “Storia/politica e narrazione”: la storia della letteratura è piena di autori che hanno trasformato le loro penne in bisturi con i quali frugare nel corpo sociale presente (Verga) o passato (Manzoni), o nel corpo esistenziale (Pirandello) o psichico (Svevo) di un’epoca. Tanto per citare qualcuno stranoto fra i tantissimi, italiani e stranieri. Così come la storia della letteratura è piena di autori che hanno usato le loro penne come piume, soltanto per solleticare il divertimento nel lettore, senza impegno. Le possibilità della scrittura sono tante e varie. Nel merito, la parte più interessante del racconto è quella in corsivo, che immagino, in mezzo a fatti certi, quella ricostruita dalla fantasia dell’autore: lì, per bocca di Falcone, si analizza la società italiana, se ne scoprono le storture profonde, se ne tenta l’emersione e, magari, l’evaporazione al sole di nuova consapevolezza. Questo la scrittura fa, in questo caso, e penso lo faccia bene.

  4. Celebrare un anniversario al di fuori di cornici istituzionali è senz’altro lodevole. Solo mi chiedo se il giudice Falcone non avrebbe apprezzato uno stile più sobrio. L’espressionismo esasperato di Daniele Barni rischia di mancare l’effetto voluto e provocare l’opposto. Anziché presentarci scene vivide e reazioni emotive forti finisce per dichiarare una certa (comprensibile) impotenza della lingua a dire – un’impotenza che, per nascondersi, si avvita su se stessa in improbabili metafore (“poliziotti che sparavano gioventù”, “l’incatenamento di sgommate e sirene cigolò fuori dell’aeroporto”, ecc.).
    La parte secondo me migliore (forse perché riprende puntuali documenti?) è quella delle interviste televisive. La parte in corsivo è eccessivamente e platealmente didattica, con dialoghi piuttosto artificiali. E il succo del discorso di Falcone a moglie e autista è piuttosto deludente: se tutti sono colpevoli, nessuno lo è.
    Noto comunque che l’immagine degli italiani che viene trasmessa è assai simile a quella di Lanfranco Caminiti riportata qui nell’articolo “Ancora sugli anni ’70”: “io credo stesse e stia in questo atteggiamento un carattere costitutivo di questo popolo, privatissimo per lo più, ovvero attento ai propri czzi, e disposto a qualunque compromesso e a qualunque illegalità per perseguire i propri personalissimi czzi, e diffidente se non ostile delle élite e dello stato. credo che questo atteggiamento possa spiegare il lungo ventennio fascista come i lunghi secoli di dominazioni straniere – interrotti solo per caso dal congiungersi di eventi, per lo più “esteri” “.
    Un’immagine talmente deprimente, anche se probabilmente realistica, che la conclusione di Barni “Fu chiaro, inoltre, che il potere politico ed economico, in Italia, non era (e non è) che la maschera della criminalità, e pure viceversa” sembra la decorazione di crema pasticcera su una torta di compleanno.
    Mi sembra che, in questo caso, parlare di “bisturi” sia esagerato.

  5. «Noto comunque che l’immagine degli italiani che viene trasmessa è assai simile a quella di Lanfranco Caminiti riportata qui nell’articolo “Ancora sugli anni ’70» (Grammann)

    Che poi riprende quella che ne diede Leopardi nel « Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani». E che – luogo comune, pur fondato su dati reali – finisce per scoraggiare e indurre ad scetticismi rassegnati e rinunciatari. Eppure ogni tanto qualcosa – minoritario quanto si vuole -si è smosso anche in questo “Paese di morti”: un po’ di risorgimento, un po’ di occupazione delle fabbriche nel 20’-‘21, un po’ di resistenza nel ’44-‘45, un po’ di ’68-69. Poi “loro” hanno sempre recuperato (represso) ma « di bene un attimo ci fu» (https://www.ospiteingrato.unisi.it/e-questo-e-il-sonno-temi-montaggio-figuralita/). E, chissà, può ricomparire.

  6. Una scrittura composita appassionata e appassionante, simile per struttura e sensibilità, nella letteratura italiana odierna, a quella di Roberto Saviano e Giuseppe Catozzella.

  7. E a proposito di un punto di vista sulla cultura siciliana presente nel testo, qui ne inserisco un altro, del filosofo siciliano Manlio Sgalambro. La sua “Teoria della Sicilia” è stata letta da Sgalambro stesso in spettacoli pubblici, con la musica di Franco Battiato:

    “Teoria della Sicilia” di Manlio Sgalambro

    “Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza; un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave; vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia dello stare in un’isola, come modo di vivere, rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere. La storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori. Ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda.
    Vanità delle vanità è ogni storia! La presenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo tedium storico, fattispecie nel Nirvana.
    La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera.”

  8. “La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico” (Sgalambro)

    Ma è proprio questa riduzione all’estetico che è insopportabile!

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