Un lavoro insolito

 

di Daniele Barni

“Col culo bisogna lavorare per fare i soldi, non col cervello o colle mani. Altroché.”

“Il solito volgare.”

“E che! C’ho ragione io, eccome. Guarda, guarda lì se non c’ho ragione io!”

Mario Magnacci, detto Marione per la trippa che lo precedeva di qualche buona spanna, stava buttato sul divano, con le braccia stese sullo schienale. Come in croce, stava, dopo la solita giornataccia al lavoro. Era muratore e ruspista in una ditta edile, la Distruzioni e Costruzioni S.p.A. I capelli brizzolati, un po’ lunghi alle tempie e alla nuca, cascavano al di là del divano. Poteva avere nemmeno quarantacinque anni, Mario. Maria Megeri, la moglie, forse più giovane di un paio d’anni, era impiegata in una rivendita di materiali edili della stessa città: una mega periferia italiana tutta calcestruzzo e bidoni della spazzatura, con in mezzo il centrino storico prezioso ed elegante, simile a una fragolina con intorno una torta avariata, e che l’afa di quell’estate rendeva putrida. Si erano incontrati fra foratini e calcine, Maria e Marione, dato che lui si serviva proprio lì da lei, e si erano piaciuti. Nemmeno lei era più “longinea”, come diceva, ma almeno, dato che per il lavoro che faceva “stava alla gente”, come ripeteva, si vantava di parlare bene l’italiano. Il suo maritaccio, invece, non sapeva parlare, stava sempre a mangiare e faceva anche il volgare. Maria, con i capelli color sole pallido, tinti, legati sulla testa, stava finendo di accatastare le pentole e i piatti della cena nella lavastoviglie. Ogni tanto, con le dita bagnate, andava a scovare il cavallo della tuta che le si nascondeva fra le natiche, incitando l’operazione con i fianchi. Il marito guardava la televisione, tenendo pronto, come una pistola impaziente di scaricarsi, il telecomando nella mano, con il quale impallinava i programmi che non lo divertivano. Al Canale Uno mandavano il solito gioco a premi: se indovini quanti soldi sono contenuti in delle scatole sono tuoi. Cioè, come in tutti i giochi a premi di oggi, niente ragionamento e soldi tanti, che, però, non vince mai nessuno. Tra una scatola e l’altra, ragazze quasi nude facevano un balletto, per i tre quarti del tempo di sedere alla telecamera. Fu lì che a Marione venne quell’idea:

“Col culo bisogna lavorare per fare i soldi, non col cervello o colle mani. Altroché.”

“Il solito volgare.”

“E che! C’ho ragione io, eccome. Guarda, guarda lì se non c’ho ragione io!”

“A me non mi viene di guardare i cu… i fondoschiena delle ballerine. Io guardo il gioco. Te guardi quella roba là, invece.”

“Facevo solo ‘sto ragionamento qui: se te ti spacchi tutta la giornata la schiena nel cantiere, puoi guadagnare, sì e no, mille euri. Se invece ti metti a chiappe in vista alla tivù, fai la vita da papa. Capisci? Facevo solo ‘sto ragionamento qui.”

“Con me non devi fare il furbo, sai. Te guardavi le ballerine. Chissà quando sei fuori quante te ne guardi di donne.”

“Ferma lì, ferma lì! Ora stasera ti sei messa in zucca di farmi la gelosa. Magari sei rigirata per i fatti tuoi e ti sfoghi con me. Ti ho capito: ti sfoghi con me, te.”

“Io mi sfogo con te? Io faccio la gelosa? Se mi staresti ad ascoltare, capiresti che voglio solo impararti a stare al mondo.”

“Io so starci al mondo.”

“Te guardi la televisione soltanto per i cu… i fondoschiena delle ballerine, io invece imparo dalla televisione: a me mi ha fatto da maestra, io non la guardo e basta, io ci studio alla televisione, a me la televisione mi ha imparato a parlare e a ragionare. Io non guardo solo i giochi a premi, come te, ma anche i programmi di cultura, come il Grande Fratello.”

“E ‘sta predica che c’entra adesso?”

“C’entra, c’entra. C’entra, ché a me non mi freghi e ché io, se voglio, ti mangio sulla testa. Se daresti retta a me, quante cose ti imparerei.”

“Ora, però, non ho capito che ti ha fatto arrabbiare, a te.”

“Potevi farmi qualche complimento invece di sparpagliarti sopra al divano a vedere i cu… i fondoschiena delle ballerine. Quando non stai al lavoro, o mangi o dormi o scoreggi in poltrona. Uhhhhhhhhh, non farmi essere volgare come te. A me non mi dai mai attenzioni.”

“Se per questo quando sono a casa, faccio anche altro: te lo sei scordata che abbiamo fatto stanotte? Eh? ‘Che ruspa, che motopicco, che camion…’ mi dicevi. Te lo sei scordata? Eh?”

“Come sei bravo a cambiare il discorso. Quelle son cose che si dicono in quei momenti. Resta il fatto che a me mi trascuri.”, ma oramai tirava là queste ultime parole con le labbra aguzze di sorriso: il suo Marione a letto era davvero una ruspa, un motopicco e un camion, tutti paragoni che, perdindirindina, aveva inventato lei, non lui. Tutte le amiche sapevano delle capacità edili di Marione a letto: sì, perché a sentire Maria raccontare di quei momenti, più che una camera, la sua, sembrava proprio un cantiere.

Maria strisciava sul tavolo quell’asso nascosto, cioè l’accusa di essere trascurata, quando voleva farsi un po’ corteggiare. Non usava altri modi, perché non aveva voglia di fare la ‘squinzia’, come tutte quelle zanzarone che ronzavano intorno al marito.

Ma prima di ingranare la trazione completa e montarle su, Marione volle sparare l’ultima cartuccia con il telecomando. Pum! Al Canale Due mandavano OggiParlamento, il resoconto serale delle attività parlamentari. Due onorevoli (chiamati così forse per antifrasi) della Repubblica, a un lato e all’altro dell’emiciclo, affettando veloci con la mano l’aria come un culatello, si mandavano di cuore a dar via il didietro:

“Eccoli lì, eccoli lì.”, sbraitò Marione, “Dimmi te se non c’ho ragione io! Sì che col cu…col sedere ci guadagnano bene, loro. Guardali lì! Basta che stanno lì seduti a fare e dire niente ed ecco che col suo sedere c’hanno guadagnato milioni e milioni di euri. Poi di’ che non c’ho ragione io: col sedere bisogna lavorare, col sedere. Stavolta non ho fatto mica il volgare, eh.”

“Statti lì e guardati la televisione, allora! Io me ne vado a letto.”

Si era offesa, Maria, perché il suo uomo non aveva risposto subito al richiamo animalesco. Incastrò alla meglio l’ultima pentola nella lavastoviglie; appese, o forse impiccò, il grembiule al gancio di plastica incollato sulla piastrella; girò come un’anta che sbatte, e schiappettò verso la camera.

‘Che gli sarà preso, ora? Alle donne non puoi dire niente, bisogna che ti accomodi sempre a fare quello che vogliono. Meglio andare al bar: voglio vedere se ci trovo Beppino.’

Beppe Mangioni, detto per scherzo Beppino, dato che, anche lui, superava di un bel po’ la quintalata, era il manovale di Marione. Con il suo metro e novantasei per altezza e la sua buona metrata per larghezza gli stava dietro passo passo più come un guardaspalle che come un sottoposto.

Marione scaraventò sulla poltrona vicino al divano il telecomando, che schioccò come una manata sulle chiappe. Si voltò con vero terrore verso la porta della camera: Maria avrà sentito strapazzare a quel modo le sue poltrone? Nulla. Lei dormiva. Lui sospirò. Allora si tirò su lentamente dal divano, come imbracato a un paranco del cantiere. Riadattò i jeans sotto la trippa, che erano scesi fino a mostrare mezzo sorriso di sedere. Andò al frigo, agguantò una Moretti ghiacciata, la stappò con i molari e la ingollò senza sforzo. Estrasse dalla tasca posteriore sinistra (la destra era gonfia del portafoglio) il pettine nero mezzo sdentato che lì sempre portava, lo passò alla cannella dell’acquaio e davanti al vetro scuro della credenza si spianò all’indietro i riccioli:

‘Eh, io sì che sono bello: guarda lì, guarda lì che occhi verdi che c’ho.’, pensò vanitoso, ma vanitoso come un bambino.

Rinfoderò come un’arma il pettine bagnato nella tasca e uscì.

Sul piazzale del condominio, come una suocera permalosa, l’aspettava la sua vecchia, vecchissima Panda QuattroperQuattro rosa, modificata a metano, che spesso lo portava dove voleva lei, se voleva. Annuì di lato al peso di Marione, come a confermare la buona disponibilità di quella sera a trasportarlo. Ci volle un secondo cenno di chiave per farla andare, dato che al primo si sentì una fucilata, speriamo a salve, dallo scappamento. L’ultima cosa che lasciarono dietro di sé, lui e la macchina, fu la scia sanguigna dei fanali giù all’angolo del palazzo.

“Oh, ciao Beppino! Come butta stasera, accidenti a te?”

“Oh, capo, accidenti pure a te! Che ci fai qui al bar? Sarà mica che la generala ti ha dato la libera uscita? Ah ah ah. Perché stai con una generala, mica con una donna, te.”

“Sei una carretta da cantiere, e nella testa c’hai tutto ferro come un mazzolo, ma quando c’hai ragione, c’hai ragione: a Maria stasera gli frullavano quelle cose che non c’ha, così gliene ho dette di grosse, e me sono venuto al bar.”

“Ehhhhhhhhh, te che gliene dici di grosse a lei? Non ci credo manco, non ci credo, se ti ci vedo a dirgliene.”

“Sì, forse c’hai ragione. È lei che ne ha dette di grosse a me. Poi mi ha girato le chiappe e se n’è andata a letto, se n’è andata. Io, zitto zitto come un gatto, sono venuto qui. Ho detto tra me e me: chissà se al bar ci trovo quel testa di ferro di Beppino: e infatti non sbagliavo.”

“Hai fatto bene, capo. Io qui ci vengo tutte le sere. Non posso starci a casa: se passo più di cinque minuti cinque con quelle scalmanate di mia moglie e di mia figlia, divento matto. Sai che diceva il mio povero nonno? Delle donne ce ne vuole una per spigolo in una casa tonda. Sapeva il fatto suo il mio povero nonno.”

“Eccome se sapeva il fatto suo, lui. Ma senti, te che bevi, lì?”

“Una Desperado, birra messicana aromatizzata col limone e con altre robe. Non male.”

“Ne prendo una anch’io. Cameriereeeeeeeee…”

“Mi dica.”, rispose il cameriere mentre serviva il tavolo dietro le spalle di Marione, che, perciò, non avendolo visto, aveva sbraitato.

Il cameriere era un tipo lungo lungo e secco secco, con uno strofinaccio bianco mai asciutto a penzoloni sull’avambraccio sinistro, forse perché credeva di lavorare al Grand Hotel Excelsior. Invece, lavorava in quel bar marrone, con i tavoli marroni, il bancone marrone ricoperto in cromatura, le scansie marroni e il rivestimento alle pareti in perlinato marrone. Nelle sue mani il vassoio stava così in alto che avevi sempre paura di ricevere sulla capoccia qualche bottiglia o bicchiere. Quando camminava sembrava un pagliaccio in bilico sui trampoli. La sua voce ti cadeva addosso come quella di Dio nei film, che rimbomba da tutte le parti senza una direzione.

“Vorrei una birra come quella che c’ha qui il mio amico.”

“Portami un’altra birra anche a me: questa l’ho bella che finita.”, disse anche Beppino e allontanò il braccio per ridare il vuoto al cameriere, che si ingobbì per prenderlo. Quel vetro bagnato, però, carambolò fra le sue dita esageratamente lunghe e si diresse verso terra, ma svelta svelta l’altra mano, grande come un retino da pesca, lo intercettò appena in tempo:

“Che culo. Oh, scusate, signori.”, esclamò d’istinto, e distinto, il cameriere.

Marione non badò alla parolaccia, ma rispose:

“Vedi? Vedi? Che c’ho ragione io. Il culo è tutto nella vita. C’ho ragione io, altroché! Altro che Maria. Il culo è tutto nella vita.”

Il cameriere se ne andò soddisfatto, senza domandare e domandarsi il perché o il percome di quella strana reazione del cliente, e tornò subito con due Desperado. Beppino, invece:

“Oh, capo, ma che c’entra ora ‘sta cosa del culo?”

“Lo so io, lo so io, che c’entra. È una roba tra me e Maria. Lei dice che io sono solo volgare, ma c’ho ragione io. Guarda alle ballerine alla tivù: loro guadagnano da vivere come papi perché mettono i culi alla telecamera. Guarda ai politici: anche loro guadagnano da vivere come papi perché tengono il culo incollato bello bello alla poltrona. E sentito che ha detto qui il cameriere quando ha riacchiappato la bottiglia? Che culo: ha detto. Se vuoi vivere da papa devi vivere col culo. Il culo è tutto nella vita. Io e te, che viviamo colle mani, ci abbiamo sempre e solo la schiena rotta”

“Eh, caro il mio capo. Mica c’hai torto. Il culo ride alla vita. Ah ah ah.”

Beppino scherzava, Marione, invece, anche se diceva per scherzo, diceva sul serio. Stasera Marione aveva la fissa, come i bambini, e quando aveva la fissa lui nemmeno il ruspone a cingoli lo tirava via.

Proprio in quel momento, alla grande televisione sospesa sulle teste dei clienti, nell’angolo alto del locale, veniva mandata l’intervista a Otto Von Gas, campione tedesco di automobilismo al volante della Ferrari, e Marione e Beppino poterono sentire le ultime parole:

“Qual è il segreto per diventare un grande pilota?”, terminò con il solito banale domandone il giornalista.

“Tutti pensare che per cuidare pene formula uno ci fuole puone mani. Nein: ci fuole puon sedere!”, rispose Otto, con quella risata tedesca, sadica più che allegra.

Forse, con sedere Otto non intendeva la fortuna, ma la sensibilità che ogni bravo pilota deve avere alle oscillazioni del retrotreno. Comunque, ciò bastò a Marione per continuare la sua tiritera:

“Senti? Senti, Beppino? Anche Otto Von Gas dice che più di tutto serve il culo nella vita. Senti? Io c’ho sempre ragione. Cameriereeeeeeeee, un’altra birra! Portaci qui la birra più forte che c’hai.”

Beppino cominciava a divertirsi alla strana fissa dell’amico:

“Se lo dice anche Otto Von Gas, allora c’hai di sicuro ragione. Cameriereeeeeeeee, un’altra birra anche a me. Guarda ‘ste ragazze coi fusó che arrivano: queste sì che c’hanno culo.”

Il cameriere, intanto, planando come un bombardiere, sganciò sul tavolo una coppiola di Du Demon esplosive, da dodici gradi di doppio malto l’una.

“Eh sì, ‘ste qui c’hanno proprio culo: hai visto giusto, te c’hai l’occhio lungo.”

I due s’infiascarono le birre a sfiato.

“Cameriereeeeeeeee, portaci qui altre birre: facciamo tre a testa, così non ti diamo più noia per un bel pezzo.”, vociò Marione a tutta gola.

Il cameriere, che al momento stava di gomito sul bancone senza fare niente, si drizzò con un attenti esagerato ed eseguì come sotto a un ordine.

Marione e Beppino, anche se con meno fretta di prima, buttarono giù la prima birra come assetati di ore.

Le ragazze appena entrate, quattro, si erano sedute al tavolo vicino ai due amici e stavano spettegolando di fidanzati e uomini in generale:

“Senti senti, capo, che dice quella lì, la biondona, senti!”, disse sgolandosi sottovoce Beppino, incastrando quasi il gomito fra le costole di Marione. Voleva stuzzicarlo, al capo. La fissa che gli era presa stasera lo faceva proprio divertire. E rideva, rideva, Beppino, con gli occhi che si chiudevano tutti e che, almeno ora, non davano a vedere che erano un po’ guerci.

“Ma a te che ti piace di un uomo?”, chiese, rivolta alla biondona, una allegra e inanellata in mille bracciali di bigiotteria dorata.

“Come a te che ti piace. Di carattere, di fisico?”, rispose un’altra, non l’interpellata, con le iridi azzurre azzurre e tanto tanto sporgenti.

“Prima il fisico, il carattere può aspettare.”, rispose un’altra ancora, sghignazzando, tutta uguale dalle spalle alle anche, come uno scaldabagno.

“Ma, di mio marito?”, rispose finalmente la biondona.

“Macché di tuo marito. Stasera i mariti li abbiamo lasciati a casa e lì devono rimanere.”, disse l’occhiona.

“Sì, i mariti stasera non vanno nominati.”, ribadì lo scaldabagno.

“Insomma, a te che ti piace di un uomo appena lo vedi? Qual è la cosa che a un uomo gli guardi per prima?”, domandò ancora l’imbraccialata.

“Sì, di fisico, appena lo vedi.”, rispiegò l’occhiona.

“Non di carattere, di fisico.”, precisò lo scaldabagno.

“Il culo. E che pensavate: lo sguardo, il sorriso, la voce? Quelle lì sono robe da romanticone. Puah!”, esclamò finalmente la biondona.

Tutte risero. A Marione e a Beppino sembrava di non aver mai sentito ridere così di appetito, come, stasera, a quelle ingoiatrici di uomini che, senza i mariti tra i piedi, volevano apparecchiarsi qualche bellimbusto. In onore di quella bella risata alzarono le loro seconde bottiglie di Du Demon, le cozzarono quasi a romperle e le vuotarono alla goccia. Poi Marione concluse con un gargarismo:

“Ecco, ecco, c’ho ragione io. Ecco: non dico altro.”

“C’hai ragione, eccome se c’hai ragione.”, rispose Beppino, dopo aver alzato la terza birra per invogliare l’amico a fare un altro brindisi.

Marione non si fece invitare più di una volta: alzò anche lui la sua birra e la mandò a cozzare con quella dell’amico; schizzi ghiacciati furono scaraventati in ogni direzione. Poi si fecero portare altre birre, fino a perdere il conto, e parlarono, parlarono, di culo, con Marione sempre più convinto e Beppino sempre più divertito. Chiusero con due grappe riserva, doppie, cadauno.

Uscirono dal bar appoggiati l’uno all’altro; erano le due passate da poco e il fresco rabboniva l’estate:

“Se apro un bar, io, sai come lo chiamo?”

“Eh”, rispose Beppino.

“Bar-collo.”.

“Ma va via, va!”

A vederli da lontano, sembravano una di quelle caprette che si usano nei cantieri per sorreggere tubi e longherine, solo con gambe di carne anziché di legno. Arrivati al parcheggio, dove erba e asfalto si contendevano lo spazio in guerre quotidiane, fra alberi mai cresciuti e rifiuti in lattice, videro buffi, più che strani, movimenti di persone: uomini che sembravano donne, donne che sembravano uomini in mezzo a gimcane di macchine allegre, che si fermavano, ripartivano, acceleravano, tornavano. Uomini che sculettavano, donne con voci baritonali e bicipiti da pugili: Marione non ci capiva niente; Beppino, invece, capì subito di che si trattava:

“Vuoi lavorare di culo, te? Resta qui e vedrai che avrai parecchio da fare.”: si staccò dall’amico, che quasi precipitò a terra contrastando dolcemente l’attrito dell’aria come una lamiera; lo salutò; conquistò la macchina dopo una lotta non facile contro il proprio equilibrio; e se ne andò. Beppino aveva detto così, per dire, o, magari, per mettere su uno scherzo in cui, era sicuro, l’amico non sarebbe potuto mai e poi mai cascare, almeno da sobrio. Marione, invece, curioso più di una femmina, eseguì sulla parola e si addentrò in quell’euforia di auto e persone, ridendo, blaterando, e sculettando cioè barcollando:

“Di culo bisogna lavorare, di culo.”

Sembrava posseduto.

Gli si accostò una macchina con tre uomini sbronzi quanto lui, o forse di più, che ridevano e urlavano sbandierando bottiglie di birra dai finestrini: lo caricarono su, senza sapere che sculettava, cioè barcollava, perché era ubriaco; e non per quello che credevano loro.

Quando Marione si risvegliò, quasi all’alba, era disteso su un’aiuola seminata a lattine e cartacce. Davanti, infilata sulla patta dei pantaloni, aveva una sigaretta di cento euri, spenta come la città intorno. Dietro, un braciere al posto del sedere.

Guidò su una chiappa fino a casa. Qui si buttò in braccio alla doccia, che lo massaggiò come una moglie, finalmente. Saltò in uno delle sue paia di mutandoni bianchi e scomparve nel letto, accanto alla Maria:

“Che dormi, Maria?”

“Mmmmmmmmmm, ora non più.”

“Sai che ti dico? Che non conviene mica a tutti a lavorare di culo.”

Maria, che si era addormentata appena toccato il cuscino, non si era accorta che il marito era uscito. Lo credeva parlare nel sonno:

“Oh, il mio Marione, fai il volgare anche quando dormi, te.”

10/7/2010

La vita si gioca con la fortuna, sembra filosofeggiare Mario detto Marione

5 pensieri su “Un lavoro insolito

  1. Staccando su un registro aulico si potrebbe dire che si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte.
    Ma il Marione non piange. Gli basta una doccia calda e un paio di mutande pulite, e tutto diventa esperienza che affina la saggezza. Del resto questo Bertoldo dei tempi a led non sembra passarsela male in “una mega periferia italiana tutta calcestruzzo e bidoni della spazzatura, con in mezzo il centrino storico prezioso ed elegante, simile a una fragolina con intorno una torta avariata”. Non sembra turbato dal cemento – lo turberebbe magari la fragolina, proprio come quel suo fratello di storie, che morì “per non poter mangiar rape e fagioli”. Storie italiane…

  2. “È uno di quei giorni che tu non hai conosciuto mai. Beato te, sì beato te”, incipit della canzone “Domani è un altro giorno, si vedrà” cantata da Ornella Vanoni.

    Ecco, stamattina mi trovavo lì, in uno di quei giorni e poi mi sono spostata a leggere il racconto di Daniele Barni “Un lavoro insolito”, e mi si è schiuso un altro giorno, non cupo e disperante ma aperto alla fiducia che si possa ancora scrivere così, come ha fatto Daniele Barni, coniugando leggerezza e dramma, scavando nelle pieghe/piaghe di una certa cultura basata su luoghi comuni difficili a scomparire sui rapporti uomo/donna nonché sulla sfattezza del mondo di oggi dove le aiuole non sono un tripudio di fiori bensì un trovarsi “disteso su un’aiuola seminata a lattine e cartacce”.
    Il tratteggio degli stati d’animo – legati alle diverse forme mentis maschile e femminile – è gestito con scioltezza di linguaggio attraverso l’uso sapiente dello slang. E questo ci fa entrare, anche se da spettatori, nel pieno della scena. Par di essere in una sceneggiatura di Rodolfo Sonego i cui film sono dei caposaldi della tragicommedia italiana.
    Questo sulla forma. Sui contenuti? Difficile la querelle. Qui c’è un abile gioco metaforico utilizzato dallo scrittore e che ci porta a passare dalla cogenza del reale (ovvero ciò che è successo a Marione, che fa drammatica esperienza in corpore vili degli effetti del suo proclama “col culo bisogna lavorare”) alla rappresentazione di un sistema perverso in cui prevale la legge del più regredito, la violenza delle ‘parti più basse’. E Marione, che figura come il prepotente (“Che gli sarà preso, ora? Alle donne non puoi dire niente, bisogna che ti accomodi sempre a fare quello che vogliono. Meglio andare al bar: voglio vedere se ci trovo Beppino”), poi subisce la vigliaccheria di uno stupro: “gli si accostò una macchina con tre uomini sbronzi quanto lui, o forse di più, che ridevano e urlavano sbandierando bottiglie di birra dai finestrini: lo caricarono su, senza sapere che sculettava, cioè barcollava, perché era ubriaco; e non per quello che credevano loro”
    C’è altro da aggiungere a fronte di questa umanità desolata?

    p.s. A proposito di queste battute intercorse tra Marione e Beppino:
    “Se apro un bar, io, sai come lo chiamo?”
    “Eh”, rispose Beppino.
    “Bar-collo.”.
    segnalo che nella mia cittadina c’è un Bar/bistrot che si chiama “Bar Collando”

  3. .. questo racconto di Daniele Barni mi sembra una novella del Boccaccio dei nostri tempi, scritta con un linguaggio popolano colorito e gustoso. In particolare mi ricorda la storia di Calandrino che grazie alla pietra che rende invisibili vuole beffare, ma ne resta beffato .. Così Marione, scoperto il ‘lavoro di culo’, osservando ballerine e onorevoli, che permette buoni guadagni senza faticare, si mette nella prospettiva di beffare, ma di conseguenza ne è pesantemente beffato.. da sé stesso e non da altri.. ma sembra che gli basti un’ abbondante doccia e un cambio di biancheria.. certo deve ricredersi.. nessun mestiere è facile..

  4. Marione! Tra la risata e il pianto. Bravo Daniele per aver tratteggiato questo personaggio, convinto padrone del suo mondo e delle sue idee… finché non prova sulla propria pelle le sue azzardate visioni sulla vita. Si ride per la beffa, ma nel sottofondo si percepisce la tragicomica incapacità di riconoscere i veri valori della propria esistenza. Scorrevole e simpatico lo sgangherato e pretenzioso italiano della moglie. Grazie Daniele per questi tocchi di leggerezza, che affondano lo sguardo nella nostra società, e sono assai più utili per capirla di tanti seriosi ammonimenti.

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