Una serata con Majorino

di Donato Salzarulo

La scuola, che ho diretto per un quarto di secolo, programmava annualmente tre “Incontri con la poesia” e invitava i poeti a parlare della loro attività, partendo, magari, dal loro ultimo libro pubblicato. Nella serata del 14 Ottobre 2008, l’invitato era Giancarlo Majorino. L’ultimo suo libro da cominciare a conoscere, assaggiando, per l’occasione, qualche pagina era «Viaggio nella presenza del tempo» (Oscar Mondadori, 2008, pagg. 424, euro 13). L’incontro venne introdotto dal sottoscritto: un po’ nei panni del dirigente scolastico che fa gli onori di casa, un po’ in quelli del lettore di poesia che frequentava (e frequenta) da tempo, anche se con una certa discontinuità e con attrazione intensa ma altalenante, l’opera omnia del poeta milanese. Di seguito, la mia introduzione alla serata e gli appunti sulla conversazione che ne seguì, stimolata anche dalle domande che Ennio Abate gli rivolse. [D. S.] 

Opera semisecolare, quella poetica di Giancarlo Majorino, se si pensa che La capitale del Nord, prima raccolta dell’autore, risale all’ormai lontano 1959. Successivamente ne sono seguite molte altre: Lotte secondarie, Equilibrio in pezzi, Sirena, Provvisorio, Testi sparsi, La solitudine e gli altri, Tetrallegro, ecc.

Chi avesse voglia di farsi un’idea del percorso di questo autore può ricorrere all’Autoantologia del 1999, nella collana Elefanti della Garzanti. Essa contiene anche un’antologia della critica utile ad avvicinare questa poesia. Perché chi vorrà leggere questo Viaggio nella presenza del tempo – atto che invito calorosamente a compiere – la prima aspettativa che deve infrangere è quella di pensare di avere a che fare con poesie sul modello di quelle studiate in aula o fra i banchi. No, proprio no.

Majorino, come sostenne Raboni in un intervento riportato nell’Autoantologia, si muove tra due poli: da un lato un confronto continuo, «secco e diretto», con la realtà pubblica del tempo (la metropoli, gli avvenimenti storici, le lotte operaie e studentesche, la “vita del denaro”, ecc.); dall’altro la cattura di questa realtà (realtà?…Parola per Majorino non facile da manovrare, dal momento che comprende stati coscienti, sogni ad occhi aperti, stati onirici, surreali, ecc.) operata con la mediazione di quella che Raboni  definisce «un’acuta sensibilità linguistica».

Il che significa che, aprendo le pagine di questo Viaggio, ci troveremo di fronte a continue novità lessicali, sintattiche, metriche. Tanto per fare degli esempi: incontreremo parole composte (“similedissimile”, “nottebotte”, “entraruscire”, “baciopantera”, ecc.), parole scomposte (quando lessi per la prima volta Majorino fui colpito, in particolare, dalla scomposizione degli avverbi di modo: “dolce mente” “placida mente”, ecc.), non leggeremo proposizioni costruite secondo il modello soggetto-predicato-complemento, ma un ricco variare di moduli proposizionali a tratti interrotti, allusivi, caratterizzati da ripetizioni, riprese, assonanze, rime:

«Fila raggio di luce sulla sabbia

quello che tu pensi sgomitola dagli organi

                        respira, cerco spero, in questa striscia

                    di rigaversi o versi, convertendo

                 l’ignoto-del-noto a misto di misteri veri

       sono purtroppo – non essendo l’intero – varianti o ripetizioni o

       il sereno delle menzogne armoniose

      non l’imperscrutabile disgregatorio ignoto spostato.

Troppi esclusi, troppa parte di ognuno

fuori si tuffa

da tale penombra di luce figliata e diffusa

troppo precipita inerte la mano alzata senz’audio.» (pag. 84)

Se mettessimo sotto esame questi 12 versi ai vari livelli (fonici, metrici, lessicali, sintattici) le annotazioni sommarie fatte sopra troverebbero significativa conferma.

Cominciamo dalla disposizione grafica dei versi o dei “rigaversi” come li chiama l’autore con parola composta. Essa non è secondaria. È indice di una volontà di sfruttare a fini espressivi il rapporto spazio bianco-spazio scritto.

I versi o i “rigaversi”, sono metricamente disuguali: si va dal bellissimo endecasillabo iniziale (Fila raggio di luce sulla sabbia), ad un verso lungo, composto come «sono purtroppo – non essendo l’intero – varianti o ripetizioni o», per discendere ad un breve quinario tipo «fuori si tuffa». E, tuttavia, pur così disuguali, i “rigaversi” sono fonicamente o, se preferite, musicalmente compattati, da riprese di interi segmenti lessicali: respira-spero; misto di misteri, da ripetizioni: purtroppo, troppi, troppa, troppo, da assonanze, consonanze, rime.

Sul piano sintattico, analizzando il primo periodo, lo vediamo composto dalle seguenti proposizioni:

1) Fila raggio di luce sulla sabbia

2) Quello che tu pensi sgomitola dagli organi

3) [Quello che tu pensi] respira in questa striscia di rigaversi o versi

4) [Respira?!…]  Cerco spero [che respiri]

5)[Respira], convertendo l’ignoto-del-noto a misto di misteri veri

6) Sono purtroppo – non essendo l’intero – varianti ripetizioni o

7) [Sono] il sereno delle menzogne armoniose

8) Non [sono] l’impresentabile disgregatorio ignoto spostato.

Insomma, non si può dire di avere a che fare con un periodare piano.

Il significato dei “rigaversi”, in questo caso, credo che si possa, con un po’ di fatica, ricostruire.

Il “raggio di luce” che fila sulla sabbia è la poesia. Ciò che essa pensa “sgomitola” dagli organi del corpo e prende vita nelle strisce dei “rigaversi”, che sostituiscono le più tradizionali strofe. Respirano? L’io poetante prova, se lo augura. Questa vita, di cui il respiro è metonimia, si realizza con la “conversione” (metamorfosi, trasformazione, cambiamento) dell’”ignoto-del noto” in qualcosa che somiglia a un “misto di misteri veri”. Tuttavia, essendo sempre una parte e non l’”intero”, questi “misteri veri” rappresentano “varianti ripetizioni “, qualcosa che a che fare col “sereno delle menzogne armoniose”. Essi non rappresentano “l’ignoto spostato” impresentabile e capace di portare disgregazione. Se intendo bene, questi versi costituiscono una riflessione sul fare poetico e sulla possibilità che esso ha di afferrare davvero l’ignoto, non quello facile delle “menzogne armoniose”, ma quello più difficile “impresentabile e disgregatorio”.

L’importante è che questo assaggio ci abbia fatto capire con che tipo di poesia abbiamo a che fare.  Majorino ha lavorato a questo suo poema dal 1969. Alla fine ha distribuito la materia in tre grandi parti: 1. L’ENORME ANTEFATTO TACIUTO; 2. LA VITA DEL DENARO; 3. ATTIMI, ETERNI GIORNI, ANNATE BREVI.  Ogni parte, dopo un’Apertura iniziale, è suddivisa in “libri” ed ogni “libro” in “canti”. L’epilogo finale è un PARADISO NERVOSO.

Considerando che il primo libro s’intitola “la selva delle partenze”, si può dire che l’organizzazione del Viaggio richiama, in qualche modo, Dante. Ma è chiaro che è tutt’altra cosa. Non solo per quanto già detto a proposito di metrica, strofe, lessico, ecc. Soprattutto perché, già in Apertura, dopo la prima pagina, ci si imbatte in una citazione di Hegel. E andando avanti, oltre che con strisce di rigaversi, incontreremo racconti, lettere, brani di conversazione quotidiana, pagine di critica letteraria e filosofica, ecc.

L’impressione iniziale è di entrare in un mondo di parole con schegge provenienti da varie parti, da molteplici contesti e registri. Qualcosa che, a prima vista, disorienta. Certo, chi ha frequentato qualche testo delle Avanguardie novecentesche e post-novecentesche non si spaventa, si arma di pazienza e si apre sentieri nella selva. Però, è innegabile una certa difficoltà di lettura.

Ho richiamato le Avanguardie, ma quello di Majorino non è avanguardismo. È capacità di mettere a frutto la lezione “polistilistica”, “plurilinguistica”. È, come è stato detto, soprattutto “sperimentalismo”, volontà, cioè, di esplorare nuove forme linguistiche, di recuperare le istanze antiliriche e narrative, di utilizzare al massimo le risorse consentite dalla lingua.

Concludendo, vorrei accennare a due temi che caratterizzano la produzione poetica di Majorino: quello del corpo (una traccia si intravede nell’assaggio sopra fornito) e quello del tempo (cfr. il titolo della terza parte del poema).

Sul primo il poeta riflette da quando, negli anni Sessanta, pubblicava con Fergnani e Amodio una rivista che si chiamava, appunto, IL CORPO; sul secondo almeno dalla pubblicazione, nel 1984, di Provvisorio.

Su questi punti, forse è meglio ascoltare il poeta.

***

Intervistato da Ennio Abate, che gli rivolge diverse domande basandosi sulle risposte fornite da Majorino in un libro recente[1], e interpellato da alcuni interventi del pubblico, la conversazione-discussione si condensa, a ruota più o meno libera, intorno alle seguenti costellazioni tematiche:

Le enormi risorse della lingua, le tante possibilità che consente. La parola “tavolo” dice Majorino non è il tavolo. I poeti possono allora tener conto di questa duplicità e mettere in opera dei meccanismi di deformazione, come quello relativo agli avverbi di modo: placida mente. Potrebbe apparire un gioco. In realtà è possibilità di sfruttare l’enorme ricchezza del linguaggio: mente è parola formidabile. È “interiorità della persona” (al posto di cervello), ma è anche “mentire”.

Inoltre, ogni parola è doppia: ha un suono e un significato. Abituati a leggere comunicati, articoli di giornali, ecc. ci disinteressiamo del suono. Il poeta, invece, sa che ogni parola ha una sua musica e ne sfrutta ambedue le facce. Le parole, in aggiunta, sono “discrete”, nel senso che basta modificare una lettera e tutto un universo immaginativo e reale irrompe sulla pagina. Esempio: matto, fatto, ratto, gatto, batto…

Nel Viaggio, sostiene Majorino, quest’uso delle risorse linguistiche, al quale ha sempre fatto ricorso, è particolarmente potenziato. Il poema comincia a nascere nel ’69, tra lotte studentesche e operaie a cui il poeta partecipava come professore. C’è un verso che recita: «Il mondo spinge per essere chiamato». Il sogno del poeta, la sua grande ambizione era di rispondere alle chiamate del mondo. Quindi non tanto l’Io che si esprime, ma l’Io come “singolo di molti”, l’Io in rapporto continuo con gli altri.

Milano e la realtà della metropoli. Milano, ricorda Abate, nella prima domanda che rivolge al poeta, è centrale nella vita di Majorino, nella sua biografia e nella sua poesia. Infatti, nel libro della Surliuga sopra richiamato, ha affermato che questa città è «il fondo, non solo lo sfondo, del mio esserci; sono impastato da sempre con le immaginazioni e le realtà inerenti; circa il restare in città, oltre le evidenti fonti viventi, sono fonti artistiche e intellettuali a trasformarmi in un respirante urbano. Molto prima di Eliot, mi ha influenzato Baudelaire».

Sollecitato, Majorino conferma e approfondisce: quando sente dire da chi lo intervista, «eh, Milano che guaio!», la sua risposta è che «si sta magnificamente bene». Naturalmente a certe condizioni. Comunque, il Baudelaire prima citato, in una definizione splendida sosteneva che il poeta è «uomo del mondo, uomo della folla e fanciullo».

Prima si è chiarito cosa voglia dire sentirsi “uomo del mondo”, per quanto riguarda, invece, l’essere “uomo della folla”, Majorino, scherzando, dice di considerarsi una specie di “vampiro buono”. Gli piacciono le persone, le situazioni. Da questo punto di vista ritiene che le persone siano tutte molto più somiglianti tra di loro che differenti. Siamo ossessionati, anche per ragioni economico-commerciali, dalle grandi differenze che esisterebbero tra di noi. In realtà siamo dei “similidissimili”. Somigliamo anche parecchio. Il luogo ideale per fare quest’esperienza del “similedissimile” è la città, la folla. Per il poeta è un enorme osservatorio, un brulicante laboratorio vivente. Certe volte prende la metro nelle prime ore del mattino proprio per osservare i comportamenti, i gesti, le parole di donne e uomini. C’è chi si ripassa il fard per prepararsi ad affrontare una giornata faticosa e ci sono maschi sempre con un’aria un po’ delusa. Insomma, una serie di “tipi”, stupefacenti e insieme normali.

Il poeta, infine, è bambino perché, se è davvero tale, non ha immediatamente una visione razionale della città. Spesso entrano in gioco elementi autobiografici, momenti infantili, esperienze non controllate come quelle dei sogni.

Poesia/scienza. Corpo. Tempo cronologico e tempo vissuto. La seconda domanda che Abate gli rivolge è relativa alla caratterizzazione di Majorino come poeta non romantico. In lui l’intelligenza non si separa dall’istinto, la ragione dal sentimento, il controllo dalla passione e dall’emozione. Il che non vuol dire incapacità di non saper cogliere il “misto di misteri veri”, “l’ignoto” che quotidianamente ci accompagna, quello vero, non quello della pubblicità.

Anche su questo punto la sollecitazione muove dalla risposta che Majorino ha fornito nella conversazione con Surliuga: «Non ho mai ritenuto che la poesia fosse in antitesi con la scienza. Lo ritengo un errore post-romantico, mettere di qui i misteriosi, gli artisti, i veggenti, di là i ragionanti, con la testa matematica. Siamo tutti così pieni di modi comuni e di cose comuni, perché abbiamo continui incontri e possibilità di confronto con gli altri. Nel mio poema la questione ha un grande sviluppo e c’è sempre stata anche nei miei libri.»

La risposta del poeta è articolata in due direzioni: intanto c’è la storia del corpo. Non come antitesi dell’anima, ma come “corpo comprensivo” di quella parte interiore che alcuni chiamano anima. Quindi corpo-organi, corpo-sensibilità, corpo-memoria, corpo-giudizio, corpo-coscienza. Corpo come modi e pensieri dell’aldiqua, della nostra materialità-energia.

Affrontare la questione “corpo” per me, insiste Majorino, come per gli amici coi quali pubblicavo la rivista che prima si diceva (e non a caso c’era uno psicanalista, un filosofo, uno storico), significava affrontare questa varietà di aspetti, fronteggiare questa molteplicità.

Si pensi all’età di un corpo. A questo punto, ecco la seconda direzione, il poeta domanda scherzosamente al pubblico se sa a quanti minuti corrispondono i suoi 80 anni.

Dire 38 milioni di minuti ha come sotto-discorso la consapevolezza del fatto che ogni minuto dovrebbe essere degno di essere vissuto, degno di felicità. Cosa che non succede quasi mai. Questa “puntualizzazione della giornata” può aiutare a prendere coscienza che abbiamo diritto a una vita, non a una “vitetta”. Così se questo nostro incontro è stato interessante – e per il poeta lo è – ci saranno piccoli cambiamenti, arricchimenti in ciascuno di noi, modi di riflessione su ciò che si pensava prima e dopo. Tutto ciò porta a una maggiore considerazione sul presente e sulla “presenza del tempo”, come recita il titolo del poema.

Sul piano storico-filosofico c’è stata una lotta fra due concezioni del tempo: 1) quella del “tempo oggettivo” che trascorre, del tempo misurato dagli orologi; 2) quella del “tempo soggettivo” vissuto, che dipende da come lo si passa. In una situazione noiosa il tempo sembra spaventosamente dilatarsi; in una piacevole sembra contrarsi e scivolare via rapidamente.

Tenere testa a questa duplicità o, addirittura, servirsene vuol dire, per Majorino, essere pienamente nella “presenza del tempo”. I due aspetti, quindi, vanno tenuti insieme e il poeta, che pur non riesce a portare al polso l’orologio che gli è stato regalato, considera negativo l’eccesso di sottolineatura di uno dei due aspetti a spese dell’altro.

Dittatura dell’ignoranza. Non è la dittatura di un Hitler o di un tiranno. È quella del sistema massmediale e di quella specie di “macchina schiacciasassi” che è la televisione. I casi sono molteplici, gli esempi sterminati: dalla cronaca nera, ai giochi, ai film dell’orrore. Ogni sera a persone stanche e che magari hanno in odio il loro pesante lavoro vengono proposti e riproposti stereotipi, baggianate. E questo è un bel guaio.

Marcel Proust in un passo bellissimo dice che siamo abituati a vivere utilizzando le nostre facoltà più preziose (sentimenti, intelligenza, ecc.) solo raramente e spesso per ragioni futili. In questo modo le facoltà inaridiscono e, piano piano, ci servono sempre mano. Le mettiamo in gioco soltanto in alcuni momenti facili e, invece di utilizzare le grandi possibilità che abbiamo, ci acconciamo a vivere, come si diceva prima, una “vitetta”. È questo è un bel guaio per la felicità. In tutto questo, ovviamente, il corpo-facoltà ha un ruolo importante.

Innominato poema. Unità e molteplicità. Pluristilismo. Varietà di registri. Riprendendo le osservazioni fatte nell’introduzione, Abate sottolinea come il “poema” di Majorino non sia come quelli letti e conosciuti a scuola. La forma, invece, che unitaria, è molteplice (non ci sono soltanto versi, ma anche prose, inserti di filosofi, romanzieri, brani diaristici, ecc.); sembra di avere a che fare con un “conglomerato”, con un “minestrone” (in senso buono) di vari elementi.

Il viaggio stesso presente nel titolo non appare così lineare, non è un viaggio alla maniera di Ulisse. C’è il massimo di apertura, si aprono mille squarci, mille direzioni diverse, mille possibilità.

Perché Majorino scrive così? Perché, pur facendo un poema, ne sconvolge così radicalmente la forma e il contenuto?

Il poeta, a questo punto, legge i seguenti versi:

«innominato poema? o cosa dal ’69, lì di partenza

mirando la metropoli che s’oscura attraverso la

finestra vetrosa una ragazza nuda sdraiata

nella mente battevano in silenzio le palette

del ventilatore

 

tra volumi d’aria giocavamo sapendo e non

sapendo la grande partita, lacrime di gola

quattr’occhi stelle filanti ridenti perché

trasparente uscivo nel fluire rasente» (pag. 12)

Qui viene rappresentata una condizione che conosce benissimo e che l’ha accompagnato per anni.

(sia chiaro!, scherza Majorino, me la sono sempre anche spassata e intendo ancora spassarmela perché ho sempre teorizzato e praticato che questa è l’unica vita…). Mentre la descriveva, stava leggendo Hegel. Ed ecco arrivare all’improvviso un soccorso imprevisto nel seguente pezzo:

«paesaggio serale dalla mia finestra di Via Melloni ricco e vario, Hegel: “da tale buia unità, nel caldo confortevole delle case, nell’armonia delle colazioni e dei rientri e delle uscite concerto sempre più frenetico e teso di suoni d’una città che si sveglia mattino allora, quelle diverse forme quei diversi calori le luci differenti, da tale buia unità che si ripristina si andranno traendo su altre determinatezze e altre distinzioni”» (pag. 12)

Il poeta allora si è entusiasmato perché ha trovato in un grande filosofo una conferma a quello che stava per fare. Era alla finestra di un abbaino, era lì a guardare teste di persone dietro i vetri, cielo, tetti, a sentire suoni, ad osservare sé stesso che guardava, ed ecco in arrivo il soccorso di un grande.

Il sogno di Majorino col poema era ed è questo: riuscire a restituire come poesia, come bellezza, questo enorme accumulo di eterogenei, di diversi. Ognuno con le sue leggi, i suoi modi.

L’opera tiene conto delle difficoltà di questa operazione. Ecco perché ci sono i versi lirici, le righe di prosa, i pensieri filosofici. In questi anni Majorino ha cercato di trasformare in scrittura tutto ciò che gli sembrava più pertinente, più profondo, più giusto.

Del resto, lui non nega le difficoltà di lettura, per certi versi l’incomprensibilità e la complessità del poema. Tanto è vero che quando alcuni amici e/o alcuni recensori gli dicono che «accidenti, qui non si capisce quasi niente!» oppure gli chiedono il perché di versi così complicati, lui risponde, a sua volta, con una domanda: «La vita è facile?» Certo, se si preferisce ascoltare una chitarrina e qualcuno che canta “Luigina”, la vita è facilissima. Se si è esigenti, la vita è più complessa. Quando un amico, il regista Bellocchio, gli dice che lui dovrebbe fare un film, la sua risposta è che preferirebbe fare la continuazione del film. Di solito, si sa, nei film due ne combinano di tutti i colori e poi finalmente si baciano!… Io comincerei da lì per capire cosa succede in una coppia.

 Amore duale e amore generale. Questo problema, dice Majorino. è affrontato nella primissima pagina del poema, dove si legge: «…ma era il ’68 / o poco dopo, amore grande e amore piccolo / a infuriato colloquio.»

È questa una delle tematiche di fondo del poema. Se c’è solo l’Amore Duale, quello sempre magnificato, siamo nei guai. Guai anche per le due persone appiccicate a questo sogno. Ci vuole anche un amore più grande, un Amore Generale. Majorino pensa alla cultura, al cambiamento della società, alla religione, a ciò che si ritiene fondamentale per la vita di una persona. L’importante è che ci siano tutti e due. Naturalmente non c’è film al mondo, canzone che non taccia sull’amore grande, quello Generale.

 «dunque non erano due, Amore Generale e Amor Duale

Alias Amore di mutamento e Amore per i situati d’amore

ma tre o quattro o chissà a stiparsi nel cuore

e mischiati, magari, quali Amorodio di scrivere

e Timoresorcismo di malattie, di morte o pura conservazione» (pag. 12)

L’altra tematica di fondo è quella che Majorino ha segnalato con la citazione hegeliana: la meraviglia di vivere in un mondo tutto di diversità. Per un artista naturalmente il problema è rappresentarla.

Abate diceva che la trama non c’è o che forse non era così importante. Invece, sostiene il poeta, la trama c’è.

Personaggi, protagonisti e sosia parziali. Il Rappresentante. La molteplicità ribadisce Abate è la caratteristica fondamentale di questo poema. Ciò lo si può cogliere anche nei personaggi che sono quaranta o forse più. Al momento, infatti, in cui Majorino conversava con Surliuga erano quarantatré: «Uno dei maggiori problemi del poema riguarda proprio i personaggi, che ormai sono diventati ben quarantatré. A qualcuno che mi dice “vorrei entrare”, dico ”aspetta”, finendo col lasciarci così.»

I personaggi sono almeno di due tipi. «Ci sono i “personaggi” veri e propri e i “protagonisti”. Questi ultimi sono la maggior parte degli alter ego parziali […]. Se all’inizio i protagonisti erano solo tre, ora stanno diventando quattro e, forse, cinque. Sono: il Rappresentante (una specie di essere giovane e gioioso, ansioso di autonomia lavorativa), il Professore (insegnante di Sinistra, ma sempre mantenente insieme altri problemi cruciali, amorosi e inerenti al proprio lavoro), il Critico (un po’ più adulto, che si occupa saggisticamente della letteratura ed è ingolfato in varie vicende, anche sentimentali.»

Di tutti questi personaggi è difficile seguire le vicende e il loro intersecarsi nel magma del poema. Fra tutti è abbastanza interessante il Rappresentante che ricalca un alter-ego del poeta, emergendo da sue precise esperienze biografiche. Dice Majorino alla sua intervistatrice: «Ho fatto vari mestieri, l’università, male, perché ho fatto Giurisprudenza che non mi interessava ma i miei ci tenevano, poi sono passato, con vero interesse ed esiti relativi, a Filosofia. Prima di arrivare all’insegnamento ho fatto tanti mestieri, da quelli avventurosi da scrittori USA, non da scrittori italiani. Ad esempio il bookmaker, il giocatore professionista di bridge, il maestro di tennis, il rappresentante di bigiotteria di lusso, sostituendo un amico che si era ammalato, a Roma, a Firenze, a Venezia e altre bellissime sedi, dove, venduto il vendibile, libero anche perché avevo soldi in tasca, correvo a visitare musei, chiese, luoghi di bellezza, scrivendo e spassandomela. Poi ho venduto macchine per stirare a vapore, rigorosamente senza capire niente. Insomma, tanti mestieri fatti con una certa allegria (tracce di ciò si coagulano in un personaggio poematico di rilievo, il Rappr o Rappresentante). Poi la vita, la vita con dentro tante vite, appunto anche perché ho sempre fatto tanti mestieri, doppie triple vite, quadruple, mi piaceva. Mi è sempre più interessato l’aldiqua dell’aldilà».

Stimolato da questo squarcio autobiografico, Majorino precisa come Rapp. o Rappresentante sia parola che gli piaccia molto per i suoi vari significati. Rappresentante è colui che rappresenta prodotti, merci; può anche essere, però, il rappresentante di un modo di vivere; può anche essere qualcosa di più: un’opera, ad esempio.

Nel poema il Rappresentante è persona molto vitale, allegra che ha una condizione un po’ particolare: è legata intimamente ad una persona molto diversa, cupa, d’umore nero, che si suiciderà. Lui, invece, è un personaggio di romanzo, che profitta di tutte le avventure. C’è il pezzo bellissimo, spassoso, in cui vende alle tintorie le vaporette. L’episodio è autobiografico. Io vendevo questi apparecchi, racconta Majorino, ma non ne capivo niente, proprio niente. Se mi chiedevano come fare ad adoperarle, schiacciavo dieci bottoni. Si chiamava vaporetta, ma io la chiamavo “vaporotta” perché era sempre rotta. Bel guaio quando passando vicino ad una tintoria mi riconoscevano e mi invitavano ad andare a controllarne il funzionamento!… No, non posso, manderò un tecnico, manderò l’incaricato!…

Il poeta insiste sul suo debole per l’aldiqua, per la gaiezza insita in certe situazioni. Questo Rappresentante, dice, è uno dei miei “sosia parziali”, un alter-ego per alcuni tratti. I “sosia parziali” mediano fra l’Autore e i personaggi.

In dialogo con Abate, Majorino, a questo punto, ripete che nel poema una trama c’è e va avanti come nei romanzi. Però ci sono anche i modi della poesia. A volte è sufficiente un verso bello o significativo come quello prima citato sull’amore perché la pagina acquisti più efficacia di una scena romanzesca.

I sosia parziali sono cinque. L’ultimo è il “pre-vecchio”. Tutti sono degli alter-ego. Costituiscono dei personaggi più reali, più simili all’Autore, ma non sono l’Autore.

Arte aristocratica? Esperienza della lettura e poesia che dà forma all’ignoto. Una precisa obiezione viene da Bianca, una delle partecipanti all’incontro: sarò che sono di vecchia formazione, dice, attenta, la signora dai capelli candidi, sarà che sono rimasta ancorata a canoni tradizionali e un po’ passati, trovo, però, questa arte estremamente aristocratica sia per le difficoltà di comprensione e avvicinamento che per la sua complessità.

Majorino risponde, richiamando da un lato la “dittatura dell’ignoranza” (la TV, l’industria culturale, il sistema mass-mediale non avvicinano i loro utenti alle varie esperienze artistiche: esempio degli studenti universitari che non conoscono i musicisti del Novecento…), dall’altro rifacendosi alla sua esperienza poetica: cosa faccio? Scrivo come penso e sento giusto o mi preoccupo soprattutto di dare “forma comunicativa” a ciò che scrivo?…

Il poeta confessa che non ce la fa a sottomettersi all’imperativo della “forma comunicativa”. Gli sembrerebbe di passare agli altri qualcosa di meno prezioso.

Chi scrive questo resoconto, allora, interviene nel dibattito per sostenere che l’alternativa non è tra il “chiaro” e l’”oscuro”, tra poesia comprensibile e poesia incomprensibile. Forse occorre partire dal presupposto che leggere è un’esperienza. Anche leggendo poeti “più comunicativi”, si possono incontrare inizialmente delle difficoltà. Per non dire di alcuni testi filosofici e/o scientifici. Chi apre le pagine della “Critica della Ragion pura” di Kant non capirà tutto di primo acchito. Se si desidera combattere la “dittatura dell’ignoranza”, ci sono esperienze che bisogna, comunque, cercare di fare.

È come andare, sostiene Abate, in un paese straniero senza conoscerne la lingua. Non bisogna pretendere di afferrare tutto sin dall’inizio. L’esperienza dell’essere “sconcertati” può essere positiva, può fare anche bene.

Del resto, aggiunge ancora chi qui scrive, la scrittura se non ti porta in zone ignote, ti lascia dove sei. In zone ignote, a volte, allo stesso autore. Anche i nostri rapporti quotidiani sono così.

Vero, insiste Majorino, e accenna all’esperienza dei suoi primi giorni di lavoro in banca. Era stupefatto di quello che succedeva. Lavoravano soltanto in sei persone, ma c’era un erotismo scatenato, un continuo prodursi e sovrapporsi di gerarchie, un campo di osservazione fantastico. Ogni luogo, ribadisce il poeta, può diventare un osservatorio.

Dar forma all’ignoto, poi, è una bella definizione della poesia. Non l’ignoto-del-noto, quello che ci ammannisce la pubblicità, ma l’ignoto vero. Quello è tutto un’ira di dio.

A questo punto Abate legge brani del Viaggio. Riguardano il Sud, tema importante, trattato con attenzione e punte shakespeariane dal poeta. Ma una certa stanchezza circola nell’uditorio; la serata, lo si avverte, volge al termine.

Momento finale allora una poesia di Majorino. Recitata a memoria, dalle sue labbra, in omaggio al pubblico, quasi tutto femminile:

Fatica, l’Enrica, a lasciare, lo vedo, lo sento,

l’età giovanile

erba soffice e luminosa carica d’acque

cielo sul capo a sbocco.

Il corpo ancora fulgido non si piega

l’andatura eretta pare una preghiera

alle speranze del mutamento.

                                                                                   

15 Ottobre 2008

Nota

[1] Victoria Surliuga, Nell’epoca del gremito. Conversazioni con Giancarlo Majorino, Archivi del ‘900, 2008

3 pensieri su “Una serata con Majorino

  1. DA POLISCRITTURE FB

    RICORDARE UN AMICO E’ ANCHE CRITICARE UN AMICO (E NOI STESSI)

    Ripubblico questi appunti – già comparsi su POLISCRITTURE del 20 giugno 2020 – sull’esperienza della rIvista MANOCOMETE (1994-1995) diretta da Giancarlo Majorino, a cui ho partecipato.
    (https://www.poliscritture.it/2020/06/28/appunti-e-disappunti/?fbclid=IwAR3AX7v-3cl1zte5t-2TJkRKsuh3mKtR7kOVfkwTvblixohLptK8-jriwu0).

    “Li pubblico non per postume rimostranze ma perché : 1. contenevano una diversa visione per contrastare il processo, allora agli esordi e poi dilagato di quel pauroso fenomeno che più tardi, nel 2010, Majorino chiamerà “la dittatura dell’ignoranza”; 2. le questioni scomode che allora posi si sono ripresentate in tutte le esperienze di rivista (da Inoltre a Il Monte Analogo fino a Poliscritture) a cui ho partecipato. E si ripresenteranno ancora, credo, ovunque un gruppo di intellettuali non organici al sistema universitario, partitico e massmediatico si riunirà per fare rivista, cioè per costruire un forse quasi impossibile ma indispensabile nuovo “noi”. [E. A.]”

  2. SEGNALAZIONE

    Giancarlo Majorino. Il molteplice nel singolo
    di Antonio Prete
    https://www.doppiozero.com/materiali/giancarlo-majorino-il-molteplice-nel-singolo?fbclid=IwAR0i2VJ-LvStPp0hYk8d-cDbwe9dvljkKMuRowbWATV2L2y5hl_G8hiXSUk

    Stralcio:

    Se c’era una domanda propria di Giancarlo e della sua generazione, che anche la mia generazione in gran parte cercava di condividere, era questa: come non separare l’indignazione dalla forma, la critica dell’esistente dall’immaginazione, il dolore di chi è privo di speranza dal suono di un verso, dall’invenzione di un modo espressivo. D’altra parte, provare a intendere l’assillo di ogni vivente, la povertà di chi non ha parola, prima di chiudersi nella quieta abitudine dello scrivere era una tensione che dalla fine degli anni Sessanta in poi apparteneva all’agire nella scrittura, con la scrittura. Insomma cercare le forme politiche proprie nel dire e nel pensare, nello stile e nell’invenzione era implicito nella scelta dello scrivere. Modi e necessità che oggi sembrano lontane.

  3. Da Poliscritture FB

    ANCORA SU GIANCARLO MAJORINO

    “Sul tema del corpo è incentrata anche la sua antologia “Poesie e realtà”, pubblicata a fine anni Settanta e poi ripubblicata, depurandola da alcuni eccessi, a inizio del nuovo millennio” (Laura Di Corcia, Per Giancarlo Majorino, su LPLC2 http://www.leparoleelecose.it/?p=41698)

    Ahimè, questa depurazione di “alcuni eccessi” degli anni Settanta, dove ci ha condotti!

    SEGNALAZIONE

    Su Giancarlo Majorino Poesie e realtà 1945-2000 https://immigratorio.wordpress.com/2011/09/28/su-giancarlo-majorinopoesie-e-realta-1945-2000/ (2 ottobre 2001)

    Stralcio:

    Su questa soglia – se la raggiungiamo, magari anche per via poetica, e ci sporgiamo oltre – ci porremo domande e domande. Se davvero siamo in spostamento, di quanto ci siamo spostati o ci stiamo spostando anche dalla Poesia (di una volta, di oggi?) e dalla/dalle Realtà (di una volta, di oggi)? Di quanto si è spostato Majorino stesso da queste due polarità, cominciando prima a riscrivere il suo vecchio lavoro del ’77 e poi, ad un certo punto, scompigliando del tutto le carte predisposte e scegliendo questo catalogo di poeti, di testi e collocandoli in questa cornice tripartita? Cosa dicono o possono dire da lì, su quella soglia questi poeti italiani e i loro testi in italiano? Fanno apparire errore o pericolo le vicende che ci stanno mescolando ad altri (in gran parte ancora sconosciuti)? Ci aiutano a smarrirci e a mescolarci meglio in mezzo a loro? Scatenano nostalgie delle nostre precedente visioni del mondo mediate attraverso la Letteratura e la Poesia (la “nostra” Letteratura, la “nostra” Poesia)? Ora che una Realtà più grossa (addirittura di Guerra) ci percuote e fa impallidire tutte le mediazioni precedentemente adottate e consuete fino ad anni recenti (l’Ideologia, la Politica, la Cultura, la Scienza, ecc.), ridimensionandole a quasi-sogno, è più facile o più difficile abbandonarsi con fiducia a queste poesie? Solo dalla suddetta soglia (artificiale quanto volete), si controlleranno le cose (non solo l’antologia, non solo la poesia) “da un punto di vista più magnanimo”, e anche più drammatico e forse tragico. Ma c’è di più. Arrivato a questa soglia, Majorino propone di “avere a che fare” con un doppio silenzio (quello che accompagna lo scrivere e quello “non meno essenziale, quello degli oppressi” (22). Gli oppressi – va ricordato – non sono sempre silenziosi, neppure oggi. E la bella proposta di “connettere o far respirare insieme i due tipi di silenzio” dovrà produrre (sta già producendo?) una scrittura e una parola esodante, incespicante e balbettante; e pensiamo alle figure che si sono affacciate nelle poesie più recenti di Majorino, figure allegoriche, animali che non sbarrano più il passo a pellegrini smarriti dalla dritta via, ma che li trascinano con sé (“nel suo trotto a zig zag cinghiale irsuto / con famiglia a fianco bimbo su bici”) in una – si spera – doppia e ininterrotta migrazione (da noi a loro, da loro a noi…). Perciò contro le esitazioni di amici più giovani o di amici ancora “militanti”, bisogna prendere sul serio lo spostamento tentato da Majorino con Poesie e realtà 1945- 2000 ed evitare, proprio perché Majorino dice cose pienamente condivisibili (37-39) sulla Poesia Critica, il rischio di una versione rappacificante e neutrale (una versione cetomedista lui la chiamerebbe?) dello spostamento, che pur dal suo discorso potrebbe desumersi.

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