Un confronto

di Cristiana Fischer

Perché donne spesso abbiamo, e abbiamo avuto, dei nemici (ma anche certe “nemiche” non scherzano) soprattutto quando ci organizziamo per rinforzarci, riferendoci alle esperienze delle madri di tutte, e con la cura di trasmettere sapere e idee del mondo alle più giovani.

Questo propriamente si intende per femminismo, che si voglia autonominare così o anche no, ma il fatto rimane: che ci siano sempre state donne consapevoli della differenza umana, nelle forme in cui si è espressa. E storicamente declinata, in modi più o meno favorevoli alla libertà di manifestazione femminile, oppure deliberati a usare e quindi dominare le donne e reprimere la loro libertà, da parte di strutture di potere gestite dall’altro sesso.

Oppure nei modi che oggi promuove la cultura occidentale, che neghino decisamente la differenza in nome della parità – come se i termini uguaglianza e parità fossero sinonimi, e i percorsi che hanno portato a queste parole coincidessero! Illudendo così di aver rescisso alla radice la questione stessa della differenza sessuale.

Presento il confronto tra due note pensatrici, Nancy Fraser e Rachel Jaeggi, in un libro recente scritto insieme, in forma dialogica, dalle due: Capitalismo, Meltemi, ed. italiana 2019. Mostrerò come la loro età diversa, e la diversa appartenenza geografica e culturale, producano tuttavia un incontro fecondo sui temi discussi. E’ un esempio di confronto libero nella differenza femminile. 

Anche perché rilevo che, recensendo lo stesso libro, Alessandro Visalli ha creduto di  sottolineare certi punti in cui le tesi di Fraser, e il rapporto stesso delle due studiose, esibiscono un limite stridente rispetto alla impostazione più generale e neutra cui Visalli si richiama come propria.
Brevemente: Visalli cita alcune parole di Fraser, che poi commenta, esibendo così insieme sia la sua pretesa universalizzante sia la incomprensione del tema che Fraser tratta.   

            “Il lavoro salariato non potrebbe né esistere né essere sfruttato, dopo tutto, in assenza del lavoro domestico, l’educazione dei bambini, l’istruzione, le tutele affettive e una miriade di altre attività che producono le nuove generazioni di lavoratori, reintegrano le generazioni esistenti e mantengono legami sociali e idee condivise. Quasi come ‘l’accumulazione originale’, quindi, la riproduzione sociale è una sottostante condizione di possibilità indispensabile per la produzione capitalista”.

Così Fraser. Visalli obietta:

            “Non solo le donne creano e mantengono i legami sociali, svolgono ‘lavoro affettivo’, formano esseri umani e li socializzano, costruiscono comunità e producono significati, disposizioni affettive e orizzonti di valore. Non solo le donne sostengono la cooperazione sociale. Ma, e in questo ovviamente la mia distanza dal femminismo, io dico di più: non lo fanno principalmente le donne, e non lo fanno maggiormente le donne. Ovviamente lo fanno sia le donne sia gli uomini, e, naturalmente, lo fanno diversamente”.

Un “diversamente” che resta in aria, flatus vocis.

Un altro punto-chiave della recensione riguarda il rapporto tra le due studiose, è  addirittura fastidiosa l’insistenza di Visalli su una presunta opposizione, insinuante ma costante, di Jaeggi alle tesi di Fraser, mentre si leggono nel libro solo distinzioni dichiarate e accordi altrettanto espliciti.

Ma tant’è: importante pare essere tirare una delle due dalla parte del recensore, per svalutare la posizione dell’altra: il vecchio divide et impera.

Passo a dare un breve resoconto del libro riportando alcuni passaggi tematici del dialogo che costituisce il libro. Infatti la valutazione della crisi strutturale del capitalismo non è la stessa per Fraser e Jaeggi. Le due differiscono nell’attenzione che portano a certi gruppi sociali coinvolti e protagonisti della crisi, come nella fiducia verso le forze politiche con cui sia più produttivo affrontarla: per Fraser il populismo progressista, per Jaeggi sono ancora importanti i partiti progressisti, o di centrosinistra. Le due sono comunque d’accordo sulla necessità di combattere sia il populismo reazionario di destra, sia il protezionismo nazionalista.

1. la crisi
Fraser: «La relazione tra crisi di sistema e lotta sociale deve essere un importante obiettivo della nostra conversazione nei capitoli che seguiranno. […] Io leggo Marx così, ossia incline a sostituire l’attenzione allo scambio di mercato tipica dell’economia politica borghese con un più profondo e critico focus sulla produzione. E lì, al livello più profondo, scopriamo uno sporco segreto: l’accumulo procede per mezzo dello sfruttamento. Il capitale si espande, in altre parole, non attraverso lo scambio di equivalenti ma precisamente attraverso il suo opposto: la non compensazione di una parte del tempo di impiego dei lavoratori. Questo già ci dice che lo scambio di mercato di per sé non è il nodo della questione.»

2. contro il neoliberalismo progressivo e il femminismo che lo ha cavalcato

Fraser: «Bill Clinton ha vinto la presidenza parlando della diversità, del multiculturalismo e dei diritti delle donne. Una volta alla presidenza, tuttavia, ha seguito il cammino di Goldman Sachs, deregolamentando il sistema bancario e negoziando gli accordi di libero scambio che hanno accelerato la deindustrializzazione. […] Il blocco neoliberale progressista stava diffondendo un “ethos” di riconoscimento che era superficialmente egualitario ed emancipatorio, centrato sugli ideali di “diversità”, “emancipazione” delle donne, diritti LGBTQ, postrazzismo, multiculturalismo e ambientalismo.»

3. il neoliberalismo progressivo ha suscitato un populismo reazionario

Fraser: «Il passaggio dall’uguaglianza alla meritocrazia è stato particolarmente fatale. Lo scopo progressista-neoliberale non era quello di abolire la gerarchia sociale ma di “diversificarla”, di “emancipare” le donne “di talento”, le persone di colore e le minoranze sessuali per salire in cima. I movimenti populisti di destra stanno rifiutando l’intero pacchetto. E, così facendo, stanno contemporaneamente prendendo di mira due componenti reali e consequenziali di un unico blocco storico, la cui egemonia ha diminuito le loro possibilità – e quelle dei loro figli – di vivere una buona vita.»

4. Jaeggi valorizza le forze di sinistra

Jaeggi: «Quindi, ciò cui ci troviamo di fronte è più di una semplice reazione contro l’emancipazione femminile, l’antirazzismo, i diritti LGBTQ e tutti gli altri movimenti. Questo può aiutare a spiegare perché i movimenti autoritari e populisti di destra dedichino così tante energie a screditare l’élite culturale della sinistra liberale e le politiche minoritarie […] Per quanto problematico sia stato il neoliberalismo progressista, non bisognerebbe attribuire una certa priorità, data la situazione attuale, alla difesa dei progressi che sono stati fatti, per quanto imperfetti? […] Sembra esserci urgenza nel respingere il razzismo, la xenofobia e la misoginia che ora stanno rinascendo. Come incontriamo allora questa necessità immediata di difendere i progressi esistenti senza perdere di vista i problemi più profondi della politica progressista?»

5. lotte di confine

Fraser: «Come sappiamo, la divisione capitalista tra produzione e riproduzione è stata storicamente una divisione di genere, e gli effetti di questa classificazione iniziale non sono affatto scomparsi; anzi, si sono ripetuti in epoche diverse della storia del capitalismo. Anche questa divisione è attraversata da dimensioni di razza, etnia e nazionalità, in quanto sono stati in gran parte gli immigrati e le persone di colore a essersi accollati i lavori di assistenza precari e sottopagati che in precedenza erano stati responsabilità non retribuita delle donne bianche della classe media. Ma dire che il problema ha un elemento cruciale di classe non significa tornare a una visione troppo semplificata della classe come problema “reale”, mentre la razza e il genere sono epifenomenici. Al contrario, vorrei insistere sull’opposto di ciò che ho appena detto sulla classe: quando le dimensioni di genere e di razza o etnia o nazionale sono soppressi significa che qualcosa è andato profondamente storto.»

Jaeggi: «Sembra che ci siano dimensioni di lotte di confine che non possono essere coperte dal vocabolario di classe, per cui non avrebbe senso tradurle in una lotta di classe.»
Fraser: «Bene, come ho appena detto, il dominio di genere e di razza o etnia è pervasivo e profondamente radicato nella società capitalista quanto quello di classe. Quindi, dovremmo davvero ampliare la tua domanda per comprendere anche queste fratture sociali.»


6. conclusioni

Jaeggi: «Lasciami fare una domanda provocatoria. Sembra quasi che ci sia un modo in cui pensi che la nostra situazione attuale apra più prospettive per la sinistra di quanto non facesse prima. Forse “ottimismo” è una parola troppo forte, ma nella misura in cui questi eventi hanno disturbato la sicurezza dell’egemonia neoliberale, forse tu vedi un’apertura affinché la sinistra si distacchi dal tipo di politica che ha portato a questa situazione. Da parte mia, trovo ancora che la massiccia transizione verso una politica di destra, nazionalista, razzista e sessista sia troppo preoccupante per mantenere alto l’ottimismo; e, come ho già detto, non mi è ancora chiaro se ci stiamo davvero “staccando dal neoliberalismo. […] Non serrare i ranghi con i neoliberali progressisti per difendere i risultati emancipatori ottenuti potrebbe presentare i suoi pericoli.»
Fraser: «Il mio istinto è quello di cogliere l’attimo e passare all’offensiva […] potrebbe esserci ora un’apertura per la costruzione di un blocco controegemonico attorno al progetto del populismo progressista. […] Le radici di tutti questi fenomeni di crisi, sia sociali sia strutturali, si trovano nelle multiple e profonde contraddizioni del capitalismo che la nostra concezione espansa ha portato alla luce».
Jaeggi: «Ammiro certamente il tuo vigore. Ma questo suona un po’ come la vecchia strategia di sinistra che spera in un “affinamento delle contraddizioni”. Questa strategia non ha sempre funzionato. L’alternativa di Rosa Luxemburg tra “socialismo o barbarie” potrebbe non esaurire tutte le opzioni. Ciò su cui siamo d’accordo, tuttavia, è che viviamo in una situazione aperta. E senza un progetto emancipatorio che vada oltre le alternative in cui la gente sembra essere bloccata oggi, le cose potrebbero peggiorare.»

Fraser:  «Le contraddizioni si acuiscono, che lo vogliamo o no, a prescindere dalle vecchie fandonie antisinistra. Il vero problema è come rispondiamo a questo acuirsi e alle terribili conseguenze che comporta. Su questo credo che siamo d’accordo. Se non riusciamo a perseguire una politica trasformativa ora, prolungheremo l’attuale inter-regno. E questo significa condannare i lavoratori di ogni genere, credo e colore all’aumento dello stress e alla perdita della salute, all’aumento del debito e all’eccessivo lavoro, all’apartheid di classe e all’insicurezza sociale. Significa immergerli anche in una distesa sempre più ampia di sintomi morbosi: nell’odio, nel risentimento espresso sui capri espiatori, in scoppi di violenza seguiti da periodi di repressione, in un mondo feroce e spietato in cui le solidarietà si ritirano fino a un punto di non ritorno. Per evitare questo destino, dobbiamo rompere definitivamente con l’economia neoliberale e con le varie politiche di riconoscimento che l’hanno supportata ultimamente, abbandonando non solo l’etnonazionalismo esclusivista, ma anche l’individualismo liberal-meritocratico. Solo unendo una solida politica egualitaria di distribuzione a una politica di riconoscimento sostanzialmente inclusiva e orientata alla classe possiamo costruire un blocco controegemonico che potrebbe condurci oltre l’attuale crisi verso un mondo migliore.»

Note

Nancy Fraser ha insegnato Scienze sociali e Filosofia alla New School di New York. Tra le sue pubblicazioni :
Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, Femminismo per il 99%. Un manifesto,  Laterza,  2020 (tradotto nel 2019 in oltre 20 lingue);

Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche, Meltemi, 2020;

Nancy Fraser, Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?, Castelvecchi, 2020. Si possono trovare facilmente in rete alcuni suoi articoli su femminismo e neoliberalismo.

Rahel Jaeggi insegna filosofia sociale alla Università Humboldt di Berlino. Voce autorevole della Teoria critica tedesca, tra i suoi libri:

Rahel Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, Rosemberg&Sellier, 2016;

Rahel Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, Castelvecchi, 2017;

Rahel Jaeggi, Robin Celikates, Filosofia sociale. Una introduzione, Le Monnier Università, 2018

il blog di Alessandro Visalli http://tempofertile.blogspot.com/2021/05/nancy-fraser-capitalismo-una.html

2 pensieri su “Un confronto

  1. A scanso di equivoci, la segnalazione da parte mia di questo dialogo e il maggior spazio dato agli stralci dell’intervento di Visalli rispetto a quelli di Zoccarato non vogliono avere nulla di provocatorio nei confronti della rubrica di Cristiana Fischer. Mi sforzo solo di indicare anche altri luoghi ( e questo di “sinistra in rete” è solo uno) dove il tema oggi è affrontato.

    SEGNALAZIONE
    Sul femminismo oggi
    Un dialogo a distanza fra Chiara Zoccarato e Alessandro Visalli

    https://www.sinistrainrete.info/societa/20627-chiara-zoccarato-e-alessandro-visalli-sul-femminismo-oggi.html

    ZOCCARATO

    1.
    L’accusa, poi, letta recentemente, di essere sfaticate perché scegliamo sempre lavori poco impegnativi (tutto da vedere) e preferiamo il part-time, deriva dall’ottusa incapacità, o dalla volontà oltremodo perfida, di non vedere che quella è una scelta spesso obbligata, perché le sfaticate hanno ore e ore di lavoro di cura extra-lavorativo, non retribuito e non considerato, ma faticoso e sfinente dal punto di vista fisico e mentale. I figli, la casa, le scadenze, i genitori da accudire, spesso anche quelli del partner. Ore e ore di lavoro. Stare coi figli non significa “giocare e guardare cartoni animati”, significa tenere pulita la casa, i loro vestiti, fare la spesa, preparare i pasti e controllare alimentazione e salute, passare quarti d’ora a cercare di prendere la linea col pediatra per fare esami e visite, portarceli, far fare loro attività, andare a parlare con gli insegnanti. Accudire gli anziani di famiglia, significa far loro la spesa, portarli a fare compere, portarli a fare gli esami clinici, occuparsi delle loro pratiche burocratiche, arrivare a prenderseli in casa e fare loro da badanti finché si riesce, perché le strutture pubbliche sono insufficienti e inadeguate, e quelle private sono inavvicinabili per i costi.
    La vita di una donna è dunque costellata di impegni ed attività, che le impongono limiti pressanti e insormontabili alla sua attività lavorativa e carriera professionale, che sono tutte ritagliate su tempi e modalità trasferite dal mondo maschile a quello femminile senza alcun adeguamento.
    A proporne, salterebbe immediatamente fuori chi li taccerebbe di discriminazione nei confronti del genere maschile, senza che nessuno si sia mai veramente scomposto per il fatto che il genere maschile gode del lavoro di cura gratuito delle donne prestato oltre quello salariato, per cui l’accordo di reciprocità “io lavoro, tu stai a casa” è saltato da un pezzo. E tengo a precisare che pur avendone la disponibilità finanziaria, non tutto il lavoro domestico e di cura può essere trasferito alle colf, e resta sempre e comunque in carico alla famiglia, tipicamente alla donna.
    Se è l’uomo a farsene carico (molto raro), questi si accorge subito che la sua performance professionale diventa decisamente meno brillante. Anche il tempo per studiare, informarsi, fare politica – ma guarda! – diventa improvvisamente pochissimo e insufficiente.
    Restano irrisolvibili, se non forzando la natura con conseguenze inimmaginabili e imprevedibili, la questione della maternità e del periodo di cura neonatale, in cui il legame psicofisico è fortissimo, che sono in carico alla donna in modo esclusivo. La separazione è dannosa, oltre ad essere dolorosa, e va evitata il più possibile (disgrazie a parte, che non sono per fortuna la normalità).
    Certo, una donna può scegliere di non essere madre, può scegliere di non avere una famiglia da accudire. E in quel caso in moltissime professioni può eguagliare l’uomo.
    Ma è davvero una scelta che una donna può o vorrebbe mai fare? Si può decidere a 20 anni per i successivi 40? E poi, siamo sicuri che sia a costo zero? Perché se non fosse a costo zero, ma anzi, il costo fosse molto elevato, cosa di cui sono assolutamente convinta, sarebbe un’imposizione, una costrizione che la società attuale impone alla donna che voglia perseguire una professione e di cui stiamo volutamente ignorando la violenza e l’ingiustizia.
    2.
    E’ evidente che il capitalismo non soddisfa i bisogni, non è quello il suo fine, e infatti restano inevasi, compresi quelli puramente materiali, di base perfino, figuriamoci quelli sociali e spirituali..
    Un sistema fondato sul consumo è chiaramente antagonista di uno fondato sulla conservazione, sulla riproduzione, sulla cura. Oggi si butta via tutto quello che si guasta o invecchia, cose e persone. Molti finiti al margine sono scarti di cui la società non si occupa più.
    Non che la produzione non sia importante, ma il Socialismo indica la necessità di un diverso modo di produzione, che risponde a precise indicazioni sul come, sul cosa e sul perché si produce.
    Nel Socialismo la produzione va posta in relazione diretta con la riproduzione, che è il motivo per cui esiste.

    VISALLI

    1.
    tutte le attività di cura necessarie che elenca (tenere pulita la casa, cucinare e fare la spesa, seguire la salute e istruzione dei figli, aiutare gli anziani) devono essere svolte da entrambi i membri della eventuale coppia. Non c’è alcuna ragione perché siano considerate “attività femminili”. Non lo sono, e non lo devono essere. Sono, semplicemente, cose necessarie da fare. Personalmente le faccio tutte.
    Se pure ci sono ritardi, e casi di arretratezza culturale, il fatto che tutto il lavoro, cosiddetto produttivo e cosiddetto riproduttivo possa e debba essere svolto dagli uomini come dalle donne, e non sia maschile come femminile, è una specifica conquista del femminismo della prima ondata. Si è consolidato durante la metà del secolo scorso, e non si può retrocedere da esso. Paradossalmente è quando si dice che alcuni lavori sono “femminili”, perché lo sono le relative sensibilità, che si sta retrocedendo.
    2.
    l’intero sistema capitalista, creato a partire dalla prima rivoluzione industriale alla metà del settecento sarebbe sessista, in quanto creerebbe la figura del lavoratore dipendente la cui ‘forza-lavoro’ è notoriamente acquistata e remunerata in rapporto alla produzione media sociale che determina. O, in altre parole, è strutturalmente sessista semplicemente perché nella forma capitalista non si riceve perché si esiste (come in parte avveniva nel mondo precapitalista, nel quale la relazione tra sostegno e produzione era meno diretta e razionalizzata), ma si riceve se si produce un valore che si realizza nella circolazione della merce. In altre parole, se si produce qualcosa che può diventare merce ed essere venduto. L’argomento, al livello portato, sarebbe che la forma citata è ‘maschile’ anche in quanto alcuni mesi nella vita e alcuni giorni nel mese la biologia femminile (ovvero la nostra natura di mammiferi) inibisce, o ostacola, la produzione (in favore, vedremo, della ‘riproduzione’). Ovvero, è maschile in quanto pone l’uomo in condizione strutturale di vantaggio, disponendo di un numero maggiore di giorni lavorativi potenziali. Riposerebbe in questa differenza biologica la natura sessista della caratteristica “strutturale” dell’economia data dal suo orientamento a remunerare solo la produzione di merci (e non l’esistenza in sé).
    3.
    Se la differenza biologica determinata dalla fisiologia riproduttiva, che nel mondo premoderno era solo una delle tante differenze rilevanti (5), fosse così dirimente non si tratterebbe di uscire dal capitalismo, ma dalla società di mercato stessa
    4.
    Chiara propone un’alternativa. Si tratta di un ‘programma maggiore’ di uscita dalla società di mercato, quello di “cambiare il sistema in cui viviamo, crearne uno dove sia possibile ristabilire relazioni tra uomo e donna che siano collaborative, sussidiarie, fondate su valori fuori dalla cultura di mercato e libere dai vincoli economici”. Sono d’accordo, ma servirebbe anche un programma di transizione. Di seguito, nella frase immediatamente successiva, lo riporta ad una prospettiva meno drastica, di aggiunta o complementarietà (welfarista, se vogliamo): “Vanno create istituzioni e strutture dedicate all’assistenza, alla cura delle persone più fragili, un sistema che garantisca l’accudimento come bisogno imprescindibile della natura umana, in tutte le sue forme, private e pubbliche”. Questa potrebbe assomigliare alla prospettiva indicata da Angela Davis nel 1981 nel suo classico “Donne, razza e classe” (6) : l’industrializzazione e collettivizzazione del lavoro di cura (anche se lì ha un gusto decisamente più collettivista)
    5.
    un’affermazione che non posso condividere. Quella secondo la quale è femminile prendersi cura della vita (7). E di tutta la vita, nella sua dimensione fisica come in quella psicologica, nella guarigione come nella riabilitazione, nell’educazione, nella nutrizione, nella cura del pianeta. Insomma, quando io lo faccio sarei una donna. Per dirlo diversamente, se una donna sta lavorando imiterebbe l’uomo e se l’uomo fa lavori di cura imiterebbe la donna. Paradossalmente in queste posizioni, proprie di tanta letteratura femminista, si nasconde esattamente la mentalità che si denuncia.
    In altri termini, la donna è fondamentale per la sopravvivenza della specie, l’uomo ha il posto in commedia del distruttore.
    6.
    Quando ho cura dei miei figli non sono in un ruolo materno, ma paterno, quando pulisco la casa faccio semplicemente il necessario per vivere in un ambiente decoroso, se stiro le magliette di Marco sto facendo un gesto di amore paterno, quando faccio la spesa e poi cucino sostengo la mia famiglia, se aiuto mia madre sono un bravo figlio (non una figlia travestita). Se la madre si prende cura della famiglia e di coloro che ad essa sono affidati lo stesso, da sempre, fa il padre. Secondo le diverse culture e nei diversi modi di produzione, come nei diversi ruoli sociali e condizioni esistenziali è possibile lo faccia diversamente. Ma entrambi, da sempre, si prendono cura. Si tratta di una caratteristica della nostra specie.
    Nessuno può fare da sé, entrambi servono.
    7.
    Forse ci arriveremo. Perché se si generalizza la fecondazione artificiale, in effetti, le donne potranno fare da sole. Ma andremo oltre, perché con l’utero artificiale anche loro non serviranno più e non ci sarà più bisogno che di donatori. Ed oltre, con la clonazione non avremo più bisogno che della matrice da clonare. Al termine è possibile si arrivi al ‘postumano’. Una sorta di ibrido, non uomo né donna, geneticamente progettato, polimorfo, pronto alla infinita malleabilità. Al dominio della moda.
    Io non vedrò questo mondo, e ne sono lieto. Mi auguro non lo veda neppure mio figlio (e nessuno in genere).
    Ma intanto non ci siamo. E oggi, mi spiace, ma l’uomo non è il male, la donna non è il bene. Siamo tutti fatti di fango e tutti possiamo elevarci. Abbiamo tutti cura della vita, alla quale apparteniamo. Non è femminile far crescere e non è maschile uccidere. Come sappiamo da innumerevoli esempi le donne, se utile e necessario, sanno uccidere benissimo (magari diversamente). Se giustamente tanta letteratura femminista attacca ed accusa il suprematismo maschile, se teme atteggiamenti antitetico-polari di maschi che si immaginano dominanti e si scoprono pari, tuttavia questi passaggi (e la fuorviante e sfocata concettualmente ed operativamente distinzione tra “produzione” e “riproduzione”) sembrano fare la medesima mossa. Sostituire un suprematismo con l’altro.
    Io sono un uomo. Non ho alcuna vergogna ad esserlo e non ritengo di avere nulla da scusare nell’esserlo. Non ho mai pensato, un solo minuto della mia vita, di essere superiore per questo. Come non ho pensato di essere superiore perché ho studiato più di altri (e meno di altri), non ho ritenuto di esserlo per la mia razza, per il luogo della mia nascita (Milano), per il luogo della mia crescita dopo l’infanzia (Napoli), per i soldi che ho (o non ho). Condivido la visione per la quale uomini e donne sono diversi, in alcune cose, e simili, in altre. Ma non quella che ci sia una supremazia morale intrinseca dell’uno sull’altra (o dell’altra sull’uno).

    8.
    Bisogna chiarirsi. Tra amici è necessario. Io credo che la frase di Chiara “oggi il focus economico e sociale è rivolto principalmente alla produzione, che è tipico del capitalismo ed è un approccio essenzialmente maschile”, sia imprecisa e a rigore falsa. Il focus economico nella nostra società è rivolto piuttosto alla valorizzazione del capitale (non necessariamente tramite la produzione di merci) e la produzione non è tipica del capitalismo. Infine, tutto ciò non è essenzialmente maschile, ma ha a che fare con la centralità del denaro. Al contempo, però, è vero che “il settore della riproduzione” (es. istruzione, cure ospedaliere, assistenza agli anziani ed ai bambini, ai disabili) è “visto come antieconomico”, e tollerato al minimo necessario per la tenuta sociale. Come è fondata la critica allo spreco implicato nella creazione di merci per la valorizzazione del capitale e non per la propria funzione di uso ed utilità sociale. Questa è una classica critica marxiana e la condivido (9). Ed è corretto che quando nominiamo “socialismo” essenzialmente intendiamo un modo di produzione ed una creazione di valore che pone in questione socialmente, e discute democraticamente, di cosa, perché e come produrre. Di cosa, come e perché qualcosa si possa scambiare nei mercati. Di cosa, come e perché esiste l’uomo e la società che questo forma. Di cosa sia il valore.
    9.
    La soluzione che al termine Chiara propone (come alcune parti del femminismo radicale, talvolta in chiave espressamente anticapitalista) è semplice: che lo Stato dia a tutti e tutte coloro che si occupano della maternità (e paternità) e del lavoro domestico un salario incondizionato. Ciò si traduce, evidentemente, nella liberazione dal lavoro come necessità (infatti nelle posizioni più coerenti questa idea si lega con il rifiuto del lavoro ed una “società dei commons” (10)), e va in frizione con la proposta della stessa Chiara, in molte sedi rilanciata, del “lavoro di prima istanza”.

    10.
    Nota 3) [il ‘femminismo della differenza] Sul quale ho scritto un lungo post, “Pochi appunti sul femminismo della differenza”. In esso sostengo che sul piano storico e della provenienza delle idee il ‘femminismo della differenza’ (che, certo, è altamente differenziato al suo interno e si può solo qui riportare idealtipicamente), muovendo dal contesto della ‘controcultura’ degli anni sessanta e dalle università americane, sia fondato sulla pretesa di individuare un dimorfismo ontologico su base naturalistica per evidenza più fondamentale, o radicale, delle divisioni di classe all’epoca oggetto della critica radicale. Il contesto culturale degli studi linguistici e strutturalisti (e, poco dopo, della penetrazione del post-strutturalismo), favorisce quindi una critica con toni estetici radicali che identifica l’esteriorità del conflitto “tra i sessi” come prioritario sul conflitto “di classe”. È uno spostamento decisivo di bersaglio: invece del capitalismo viene scelto, nel contesto giova ricordarlo del welfare compiuto e di una società affluente, come bersaglio il livello più ‘profondo’ della differenza sessuale. In alcune versioni si scivola verso la costruzione di una femminilità idealizzata, materna, e quindi per definizione non violenta, armonica, naturale. In questa teologia e cristologia trasposta il maschile prende il posto del diavolo. E quindi si veste del simmetrico male, anche esso naturale e quindi ineliminabile: violento sin nelle sue manifestazioni più essenziali, gerarchico, entropico. La costruzione concettuale del “patriarcato”, e la denuncia del “fallologocentrismo” come elemento essenziale ed ineliminabile di ogni cultura umana conosciuta (in particolare scritta) e di ogni forma di organizzazione sociale, induce la duplice mossa del ‘separatismo’ (seguendo il mito della ‘sorellanza’) e della ritirata dal pubblico-politico (in favore di un privato-politico che inconsapevolmente copiaincolla la classica divisione storica premoderna dei ruoli). Tutto questo avviene, giova ricordarlo, in un clima di scoraggiamento e riflusso seguito alla perdita di spinta egemonica, e poi al crollo, del ‘mondo nuovo’ socialista. Emerge quindi la lotta sull’ordine simbolico (Muraro) che rinuncia alla critica diretta dei rapporti sociali, immaginando che la liberazione di tutti emerga come effetto spontaneo dall’azione individuale per l’affermazione femminile (un’idea straordinariamente simile a quella della ‘mano invisibile’).

  2. Per Visalli la differenza c’è ma non conta, e non si capisce cos’è.
    Domando, per cominciare: perchè Visalli si augura di non dover assistere nel futuro a gravidanze in uteri artificiali e/o a clonazioni? Allora la differenza è lì, nel nascere. O si può farne a meno? Si sa di gravidanze di donne trans diventate maschi con tanto di barba e ablazione delle mammelle, ma con l’apparato riproduttivo femminile rimasto intatto. Si sa anche che un maschio grazie a interventi ormonali può allattare.
    Ma quali altri processi innestano la gravidanza e la nascita? La nostra essenza umana, che tiene insieme la naturalità della specie con la cultura, si innesta nel continuo corporeo, nell’intimità del proprio corpo che si forma e cresce entro un altro corpo (non veniamo dal solo incontro di gameti) con i suoni i movimenti e gli odori. Una intimità che continua nello stesso “ambiente” corporeo, con le manipolazioni e l’allattamento che alla nascita seguono. Questo educa le emozioni e le evolve in sentimenti. Un rapporto fisico profondo che modella temperamento e carattere.
    Sbagliato parlare solo di “riproduzione” (che allude alla copia): è molto di più, è un *materialismo corporeo* che possiamo chiamare continuum naturacultura.
    Come realizzerebbe questo compito, di unire all’origine natura e cultura, un utero artificiale? Che profonda identificazione emotiva con gli esseri umani potrebbe nascere tra creature clonate? (Sottolineo che l’idea di usare la tecnologia per migliorare la specie umana si chiama transumano non postumano.)
    Mentre Visalli sottolinea come sia la storicità dei modelli di genere a informare di sè il concetto di differenza biologica (“ben più della specializzazione biologica conta la cultura che vi è stata tradizionalmente costruita sopra”), non sa d’altra parte identificare nessun senso nella differenza biologica. Quindi egli stesso parla di genere: della quasi in-differenza tra maschi e femmine (anch’egli stira la maglietta del figlio!) nel lavoro necessario della vita privata quotidiana.
    Cioè la differenza “c’è” ma, da una parte, si deve al limite eliminare nei lavori di cura (e vorrei vedere che no!), dall’altra parte non riesce a dire davvero che cos’è.

Rispondi a Ennio Abate Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *